received: 2012-02-15 UDC 930(450):323.1"19/20" review article LA PIÙ RECENTE STORIOGRAFIA ITALIANA DI FRONTIERA: ALCUNE QUESTIONI INTERPRETATIVE Raoul PUPO Università degli Studi di Trieste, Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali P.le Europa 1, 34127 Trieste, Italia e-mail: PUPOR@sp.units.it SINTESI Il saggio si occupa preliminarmente della questione dello spazio della storia di fron-tiera sotto un duplice punto di vista: lo spazio di cui essa dispone nell'ambito della più recente storiografia italiana, e lo spazio di cui si occupa la storia italiana di frontiera. Poi, si passa ad esaminare alcune delle categorie più frequentate dalla recente storiografia italiana in riferimento all'area alto-adriatica: le coppie città/campagna centro/ periferia, nonché il problema della "debolezza" mostrata dallo stato nazionale italiano al suo confine orientale. Di seguito, la discussione sulla rete causale all'interno della quale vanno inserite le vicende di frontiera conduce a praticare la via della comparazi-one storica, con riferimento a tre esempi: le occupazioni militari che contrassegnarono entrambi i dopoguerra; la violenza politica in rapporto al nesso guerra/rivoluzione; le politiche delle minoranze applicate prima dallo stato italiano e poi da quello jugoslavo. Parole chiave: Venezia Giulia, città/campagna, centro/periferia, storia comparata, vio-lenza politica, minoranze, foibe, esodo CURRENT ITALIAN BORDER HISTORIOGRAPHICAL ISSUES: SOME QUESTIONS OF INTERPRETATION ABSTRACT The essay primarily deals with the spatial question of the history of the border area from a twofold point of view: the space in terms of the role allocated to it in the most recent Italian historiography and the actual geographical space covered by the history of the Italian border areas. Then it proceeds to examine some of the categories most frequently dealt with by recent Italian historiography with reference to the upper Adriatic area: the dialectics between urban / rural, centre /periphery as well as the problem of the perceived "weakness" shown by the Italian national state towards its eastern border. Following that, the debate concerning the causal network within which events takingpla-ce in the border area is placed leads to the path of historical comparison with reference to three examples: the military occupations that marked both post-war periods; political Raoul PUPO: LA PIÙ RECENTE STORIOGRAFIA ITALIANA DI FRONTIERA: ALCUNE QUESTION! INTERPRETATIVE violence in relation to the concept of war / revolution; minority policies applied first by the Italian and then by the Yugoslavian states. Key words: Venezia Giulia, city / countryside, centre / periphery, comparative history, political violence, minorities, foibas, exodus Vorrei iniziare questo mio contributo con alcune considerazioni di ordine generale, riguardanti lo spazio della storiografia italiana di frontiera, esplorandolo da un duplice punto di vista: lo spazio di cui dispone la storia di frontiera nell'ambito della piu recente storiografia italiana, e lo spazio di cui si occupa la storia italiana di frontiera. Sul primo versante, l'approccio analitico tipico e quello che nota come fino agli inizi degli anni '90 del '900 l'interesse suscitato dalle vicende di frontiera all'interno della storiografia, e piu in generale della cultura italiana, sia stato affatto marginale, fino a configurare gli esiti delle ricerche che pur esistevano come prodotti assolutamente di nicchia. Poi, la tendenza si e invertita - per ragioni politiche generali oramai piuttosto note e sulle quali pertanto e qui inutile soffermarsi - ed oggi possiamo dire che la storia di frontiera gode di sufficiente considerazione. Questo giudizio ormai corrente e in larga misura vero, ma richiede parecchie pre-cisazioni. Ad esempio, e indubbia la crescita di interesse che si e verificata nell'ultimo ventennio, con un picco attorno all'istituzione della Giornata del Ricordo, ma tale crescita si e addensata piu sul piano della divulgazione e dell'uso pubblico che non su quello della ricerca di base. Ovviamente, anche su questo secondo piano - che a noi interessa di piu - gli sviluppi sono stati significativi, soprattutto per quanto riguarda la diffusione nazionale delle opere di studiosi giá da tempo attivi, che ne hanno tratto nuove motivazioni ed anche nuove possibilitá concrete di proseguire le loro ricerche. Quanto invece all'allargamento della base degli studi a storici provenienti da fuori area, anch'esso c'e stato, ma in misura molto piu circoscritta, nemmeno lontanamente proporzionale all'impennata dell'attenzio-ne istituzionale e mediatica sui medesimi temi. Rimane quindi confermato, anche nelle contingenze piu favorevoli, quello che appare un elemento strutturale e duraturo della storia di frontiera italiana: si tratta - inevitabilmente - soltanto di una delle tante storie particolari di un paese che affoga nella storia e che dunque solo in circostanze eccezio-nali puo assumere una valenza nazionale. E chiaro che questa condizione va comparata con lo spazio riservato alla storia del Litorale, e piu in generale dei rapporti con l'Italia, nella cultura e nella storiografia slovena, ove gli equilibri sono diversi. Secondo problema: qual e lo spazio di cui si occupa la storiografia italiana di frontiera? Possiamo dire che coincide con le aree di presenza storica italofona - non ha im-portanza se esclusiva o condivisa - ed i loro bacini di influenza nell'Adriatico orientale: in altre parole, e la fascia che scende dalle Alpi Giulie fino alla Dalmazia meridionale, vale a dire un territorio molto ampio ed assai articolato, che pero possiede sua unitá, espressa proprio dal mare e dall'influsso che questo esercita sul retroterra. Di uno spazio Raoul PUPO: LA PIÙ RECENTE STORIOGRAFIA ITALIANA DI FRONTIERA: ALCUNE QUESTION! INTERPRETATIVE cosi definito il confine italo-sloveno rappresenta soltanto un segmento, di cui la cultura italiana fatica molto a cogliere la specificità, proprio perché dal punto di vista italiano tale specificità non esiste. La rilevanza del problema, anch'esso di natura strutturale, è subito emersa nel corso dei lavori della commissione italo-slovena riunitasi alla fine del secolo scorso, e la dif-ficoltà in quel caso - ma in parte anche oggi - è stata acuita dal fatto che ad occuparsi delle vicende dell'area sono stati principalmente gli storici politici, ai quali interessa ricostruire i meccanismi dei processi decisionali dei grandi soggetti storici. Ció significa in primo luogo individuare ed analizzare i centri in cui si condensa il potere: ma nella contemporaneità europea il potere si concentra in primo luogo nello stato. Ecco dunque che per la cultura politica e per la storiografia politica italiane l'interlocutore principale da scrutare, quando si ragioni dei destini dell'area di frontiera, è lo stato che sta oltre il confine: vale a dire, prima l'Austria e poi la Jugoslavia. È abbastanza chiaro che con un approccio del genere la dimensione slovena scompare, ovvero si riduce alla considerazione, per un verso dell'influenza di soggetti sloveni sull'elaborazione della politica asburgica prima e jugoslava poi, per l'altro della modalità di applicazione locale delle politiche dello stato. Tale situazione propone quindi agli storici una duplice sfida. Da un lato, si tratta di spostare il baricentro delle ricerche dalle istituzioni alla società: non perché la storia sociale sia di per sé più vera di quella politica - tanto più quando ci si occupa di un periodo contrassegnato da un'elevatissima pervasività della politica - ma per riequili-brare in tal modo le deformazioni suscitate dalla prevalenza della dimensione politica, recuperando articolazioni che altrimenti restano in ombra. Un appello del genere, da tempo e ripetutamente lanciato, si scontra peró con una serie di difficoltà che riguarda-no l'organizzazione degli studi ma anche il fatto che - per ragioni intrinseche alle loro metodologie - gli storici sociali hanno volentieri privilegiato la scala micro, le realtà marginali, le vicende che maggiormente si discostano dalle tendenze generali. Tutto ció consente di riportare alla luce una gran copia di sfumature e di porre in discussione la compattezza delle narrazioni di taglio politico, ma non favorisce la costruzione di sintesi che presentino un quadro complessivo delle trasformazioni subite nella contemporaneità da una società estremamente variegata come quella dell'area alto-adriatica. Dall'altro lato, pare piuttosto evidente l'urgenza di dare concretezza alle suggestioni di una storiografia post-nazionale che sono state espresse negli ultimi anni (Verginella, 2007, 5-11; Pupo, 2010, 338), cominciando con l'affrontare complessivamente e insie-me, a prescindere da appartenenze e cittadinanze, slovena, croata o italiana, la storia globale di un'area definita da una compresenza linguistica che storicamente si è trasformata in conflitto nazionale, in modo da tener conto sia della sua fondamentale unitarietà che della molteplicità delle sue articolazioni e dei suoi rimandi a contesti nazionali diversi. Gli equivoci che possono sorgere da un approccio segmentato a problematiche di un'area complessa sono in parte esemplificati dalle discussioni che sono sorte attorno ad una delle grandi categorie utilizzate da un secolo a questa parte per analizzare la storia di frontiera, vale a dire il rapporto fra città e campagna. Senza ripercorrere tutto il dibattito, vorrei ricordare solo alcuni passaggi (Verginella, 2008; Pupo, 2009b, 405-412). Raoul PUPO: LA PIÙ RECENTE STORIOGRAFIA ITALIANA DI FRONTIERA: ALCUNE QUESTIONI INTERPRETATIVE La storiografia italiana ha in genere compiuto un percorso che - nei suoi estremi - va dalla rilevazione delle diversità nella distribuzione del popolamento linguistico nell'area adriatica, fino alla costruzione di due immagini speculari dei gruppi nazionali: nella terminologia ben nota di Carlo Schiffrer, nazione urbana e nazione contadina (Schiffrer, 1946). Non c'è dubbio che una rappresentazione del genere sia fortemente ideologica e per di più, dal momento che è stata prodotta in una fase di acuta conflittualità con diretti agganci territoriali, una tale immagine risulti in buona misura funzionale a supportare la pretesa di superiorità di una tipologia nazionale (quella italiana) e degli interessi delle società urbane. Il medesimo impianto analitico è stato storicamente adottato anche dalle culture politiche degli slavi del sud, semplicemente ribaltando i giudizi di valore che se ne possono ricavare: alla superiorità dei ceti urbani è stata sostituita quella della civiltà contadina, al ruolo delle città quale faro di civiltà, il territorio etnico. Le varianti e le implicazioni di tale prassi discorsiva sono molte, ma è importante sottolineare che esse non esprimono una particolarità locale, bensi una manifestazione localizzata di un dibattito che ha riguardato l'intera area centro-europea fra '800 e '900 interessando trasversalmente diverse culture politiche: non solo quella nazionalista ma anche quella socialista, a proposito della quale è rituale la citazione di Stalin, riferita ad altre zone dell'Europa orientale, ma fatta propria da diversi movimenti di liberazione slavi, fra i quali quelli sloveno e croato (Cattaruzza, 2005, 18-19). Entrambe le visioni convergono comunque nel sottolineare la centralita della polarità città/campagna nell'analisi dei conflitti nazionali e tale polarità continua a venir esplorata in maniera molto stimolante anche in opere per molti aspetti post-nazionali, come fa ad esempio Egidio Ivetic nel suo ragionamento sulle tre ondate di modernizzazione nella regione Giulia (Ivetic, 2007, 37-53). Da un'altra parte invece, in anni molto recenti la medesima polarità è stata radicalmente contestata, riconducendola anch'essa a mera fun-zione ideologica, secondo una linea di pensiero attenta alla lezione dei cultural studies. Le opinioni al riguardo possono essere varie: ad esempio, Giuseppe Trebbi ha offerto sull'argomento un contributo a mio avviso molto equilibrato (Trebbi, 2008, 370-373). Io mi permetto solo di offrire due suggerimenti di metodo. Il primo, quello di man-tenere sempre tali proposte di lettura al di fuori di approcci unilaterali - altrimenti si rischia di ricadere nella tradizionale prassi controversistica, solo con un linguaggio più aggiornato - e di inserirle invece in un'analisi complessiva delle autorappresentazioni nazionali. Il secondo, la necessità di tener presente l'intero arco territoriale in cui si sono prodotti i fenomeni esaminati: sotto questo profilo infatti, la situazione di Trieste è profondamente diversa da quella dell'Istria e della Dalmazia ed analisi ritagliate su di un solo caso specifico rischiano di apparire poco significative su di una scala più ampia. Accanto a quella fra città e campagna, un'altra polarità che ha attirato l'attenzione degli studiosi italiani è quella fra centro e periferia. Essa costituisce ad esempio uno degli elementi portanti dei ragionamenti sul fascismo di confine, ma si è prestata anche a tematizzazioni più generali. Mi riferisco in particolare ai contributi di Giampaolo Valdevit, che ha sottolineato con grande efficacia il bisogno di centro da parte della periferia giuliana, il che signi- Raoul PUPO: LA PIÙ RECENTE STORIOGRAFIA ITALIANA DI FRONTIERA: ALCUNE QUESTION! INTERPRETATIVE fica bisogno di stato (Valdevit, 2004). Visto dalla parte italiana, dev'essere uno stato che garantisca sviluppo e sicurezza. Lo stato asburgico a lungo le garanti entrambe, ma l'accoppiata si spezzó a fine '800 quando l'impero non assicuró più agli italiani la sicurezza - cioè l'egemonia nazionale - e ció li motivó a cercar sicurezza in un altro stato, quello italiano appunto. L'Italia, in effetti, venne, ma ne sorse un altro problema, perché lo stato italiano si mostró largamente impari alla bisogna. Quando sembrava più determinate a far sua in toto la causa degli italiani di frontiera, cioè nel periodo fra le due guerre, fini nell'arco di una generazione per commettere suicidio, gettando l'italia-nità adriatica nell'abisso. Lo stato italiano tornó faticosamente in scena solo dopo un intervallo di più di dieci anni, limitatamente ai margini occidentali della regione, ma il tentativo di ricucire il rapporto centro-periferia condotto da quel che rimaneva della classe dirigente giuliana - cioè quella di Trieste - fra la metà degli anni '50 e quella degli anni '70, non riusci a soddisfare appieno il bisogno di sicurezza della periferia, che si senti tradita dalla normalizzazione dei rapporti statuali con la Jugoslavia, e che quindi diede vita ad un moto di ripulsa nei confronti del centro. Quel che mi preme sottolineare, all'interno di questo ragionamento - che ovvia-mente è estremamente più ricco ed articolato di quanto non lascino immaginare queste poche battute - è l'incapacità dello stato italiano a corrispondere alle aspettative degli italiani di frontiera. È un giudizio che torna, in forma più esplicita, in un'altra proposta interpretativa generale, quella di Marina Cattaruzza (Cattaruzza, 2007). Qui, la valu-tazione chiave è proprio quella della debolezza dello stato italiano: una debolezza che - ovviamente - non viene misurata sulla durezza o tolleranza delle politiche applicate nei confronti delle minoranze nazionali - perché, ad esempio, Cattaruzza fa proprio il giudizio di Elio Apih sul tentato "genocidio culturale" degli slavi della Venezia Giulia fra le due guerre - bensi va misurata sul risultato ultimo: vale a dire, sulla capacità o meno dello stato italiano di adempiere al compito fondamentale di uno stato nazionale, quello cioè della nazionalizzazione del proprio spazio. Sotto questo profilo, l'esito fu davvero fallimentare. Nel periodo fra le due guerre l'integrazione rimase bassa, limitata si riveló la stessa capacità di controllo del territorio e - ulteriore segno di debolezza - in entrambe le fasi critiche dei due dopoguerra, anche se per ragioni e in forme diverse, per imporre sé stesso lo stato italiano senti il bisogno di ricorrere a forze extra istituzionali, come le squadre fasciste. A questa valutazione si collegano altri due spunti, che qui posso soltanto limitarmi ad enunciare. Il primo, l'osservazione secondo la quale i limiti della nazionalizzazione statale italiana fra le due guerre risultano evidenti non solo nei confronti - com'è ov-vio - degli sloveni e dei croati, ma anche della popolazione italiana "che persino nelle sue componenti irredentiste e nazionaliste rimase legata al retaggio mentale e culturale tardo-asburgico" (Cattaruzza, 2007, 376). Il secondo, relativo alla forte strumentalità delle forme di lealtà statuale nello spazio regionale ex asburgico: la legittimazione - si potrebbe dire - dello stato viene qui col-legata alla sua capacità di difendere un'identità nazionale (o un insieme di identità nel caso jugoslavo) possibilmente schiacciando le altre. Di tale tendenza esiste una versione debole da parte italiana, dove - come già notato da Valdevit - il punto più basso nei rap- Raoul PUPO: LA PIÙ RECENTE STORIOGRAFIA ITALIANA DI FRONTIERA: ALCUNE QUESTION! INTERPRETATIVE porti fra Italia e gruppo italiano della Venezia Giulia si ha con il "tradimento" di Osimo; ed esiste una versione forte da parte slovena e croata, che arriva fino all'indipendenza quando lo stato degli slavi del sud appare ormai inutile - se non controproducente - per la difesa degli interessi nazionali (Valdevit, 2004, 119-124). Invece, per quanto riguarda il concetto di "debolezza dello stato", personalmente credo che per definirlo meglio convenga tenere lo sguardo largo. Ancora una volta, quel che accadde nell'area giuliana era parte di un fenomeno piu generale, dove gli "stati per la nazione" usciti dalla grande guerra cercarono di gestire il problema delle sgradite minoranze nazionali. Ci riuscirono tutti malamente: le minoranze, pervicacemente, non si assimilarono in Galizia, come nel Kossovo, come nella Venezia Giulia, a prescindere dalla natura - democratica o meno - dello stato assimilatore. Sarebbe certo azzardato trarre da tali esempi una qualsivoglia regola generale, ma di fatto e andata cosi. L'u-nico caso - terribile - di "soluzione" del problema minoritario si ebbe con lo scambio greco-turco, che, proprio nella sua drammaticitá, sottolinea un dato importante. Una volta acquisito che nelle culture nazionaliste - cioe nelle culture politiche dominanti negli "stati per la nazione" europei - le minoranze nazionali non erano considerate un elemento positivo ma negativo, e che quindi sarebbe meglio che non ci fossero state, la "soluzione" - cioe la piena nazionalizzazione dello spazio dello stato - poteva avvenire storicamente solo con la catastrofe, cioe all'interno di un contesto di estrema radica-lizzazione che rendeva possibili soluzioni altrimenti inaccettabili. Quando ció accadde, con la seconda guerra mondiale e il dopoguerra, l'Italia, per sua colpa, stava dalla parte sbagliata e fu questo l'elemento determinante, che contó assai piu del regime politico e della saldezza o meno delle istituzioni dello stato. Un'ultima questione alla quale vorrei fare riferimento, fra le piu discusse dagli storici italiani in fecondo confronto con quelli sloveni, e quella riguardante la rete causale. Si tratta di un'ovvietá metodologica, la cui applicazione alla storia di frontiera e stata peró talvolta ostacolata dal pre-giudizio ideologico: ad esempio, l'individuazione delle prioritá, che e indispensabile per la formulazione di ogni giudizio storico, si e volentieri trasformata nella ricerca della "causa prima" di ogni male. E una posizione che e giá stata superata in sede di commissione storica italo-slovena, ma che talvolta ritorna a far capolino anche in sede autorevole. Eppure, la storia dell'area alto-adriatica costituisce un caso da manuale per esplorare gli intrecci fra continuitá e novitá. Ci sono dei fili che si annodano strettamente, generando con tutta evidenza meccanismi del tipo azione/reazione. Ma e ben visibile anche l'irruzione ripetuta di soggetti storici nuovi, che fanno compiere veri salti di qualitá, in particolare alle conflittualitá nazionali e sociali. Per orientarsi meglio in un ginepraio che rischia sovente di generare equivoci e semplificazioni arbitrarie, terreno di coltura ideale dei pregiudizi ideologici, una via interessante e praticata in misura crescente dalla storiografia e quella della comparazione storica. Fra i molti possibili, vorrei qui limitarmi soltanto a tre esempi. Possiamo iniziare dalle occupazioni militari che contrassegnarono le fasi iniziali di entrambi i dopoguerra, esaminando le quali notiamo subito alcuni fortissimi parallelismi, accompagnati peraltro da differenze non meno rilevanti. Il primo parallelismo riguarda Raoul PUPO: LA PIÙ RECENTE STORIOGRAFIA ITALIANA DI FRONTIERA: ALCUNE QUESTIONI INTERPRETATIVE gli obiettivi delle occupazioni. Se noi li definiamo in termini di contrallo integrale del territorio, non solo volto ad impedire la formazione di contropoteri che contestino le finalité dell'occupazione, ma diretto anche ad orientare la società locale in senso favorevole all'annessione, questa è una definizione che va benissimo per entrambe le amministrazioni provvisorie: quella italiana dal 1918 al 1920 e quella jugoslava dal 1945 al 1947. Anche alcuni degli strumenti di intervento furono molto simili. Pensiamo sol-tanto al frequente aggiramento dei limiti imposti dalle norme internazionali alle potenze occupanti territori il cui destino sarebbe stato fissato solo dalle conferenze della pace; alla negazione di legittimità e quindi all'abolizione di organismi politico-amministrativi avversi ai poteri occupanti, come i comitati jugoslavi nel primo dopoguerra e i CLN nel secondo; all'epurazione dell'amministrazione, in particolare nei settori strategici (polizia, ferrovie, poste); all'allontanamento di parte dei vertici della Chiesa locale, considerati compromessi con il passato regime; alla persecuzione dei leader degli schieramenti nazionalmente avversi e, contemporaneamente, al forte sostegno concesso alle attività propagandistiche delle proprie organizzazioni nazionali; alle limitazioni poste all'in-segnamento nelle lingue delle nazionalità avverse; al cambio dei toponimi, anche per esigenze funzionali alle nuove amministrazioni. Al tempo stesso, possiamo rilevare differenze profonde nelle metodologie di azio-ne, legate non ad astratte "bontà" o intime "malvagità", ovvero a supposte "civiltà" e "barbarie", ma a situazioni profondamente diverse. Cosi, l'esercito italiano del primo dopoguerra era un'organizzazione fortemente autoritaria, con qualche velleità anche di protagonismo politico, ma rimaneva comunque espressione di uno stato liberale. Di conseguenza, il tasso di violenza usato per raggiungere gli scopi prefissati fu contenuto, e gli scrupoli per l'immagine internazionale dell'Italia si rivelarono piuttosto forti, specie da parte dei vertici politici che intervennero in maniera decisa nei confronti dei comandi militari. Ció che ne segui, fu un'ampia e non sempre coerente gamma di comportamenti: a Trieste il generale Petiti di Roreto tenne un contegno abbastanza prudente ed aperto alla collaborazione con le forze politiche democratiche, a Pola invece l'ammiraglio Cagni si fece il braccio armato dei nazionalisti locali, mentre in Dalmazia l'ammiraglio Millo fu costretto a destreggiarsi tra velleità di dominio adriatico aperte alle suggestioni dan-nunziane, e carenza di risorse e sostegno politico da parte del governo (Visintin, 2002; Apollonio, 2001; Pupo, 2009a, 511-523). L'armata popolare di liberazione jugoslava invece, era un esercito rivoluzionario, che aveva appena concluso una guerra di liberazione che al tempo stesso era guerra civile, combattuta senza pietà e nel corso della quale la distinzione tra militari e civili era completamente scomparsa. Non stupisce affatto quindi, da parte sua, un uso assai più largo, sistematico, verrebbe da dire "non problematico" della violenza, anche di massa. Detto in altri termini, nel secondo dopoguerra non vediamo all'opera la solita cultura militarista, autoritaria e insofferente dei limiti delle legislazioni liberali: vediamo invece all'opera una cultura rivoluzionaria, in cui l'annichilimento degli avversari e il terrore sono elementi costitutivi del nuovo regime, che negli stessi giorni stermina domobranci e ustasa con impegno anche maggiore di quello dedicato nella Venezia Giulia ai fasci- Raoul PUPO: LA PIÙ RECENTE STORIOGRAFIA ITALIANA DI FRONTIERA: ALCUNE QUESTIONI INTERPRETATIVE sti ed ai sostenitori della sovranità italiana (a mero titolo di esempio, vedi al riguardo Troha, 2009; Pupo, 2010). Il secondo esempio riguarda la questione della violenza politica in rapporto con quel nesso guerra/rivoluzione che è tipico del '900. È l'evoluzione di tale rapporto infatti, più ancora che le particolarità locali, a scandire il trasformarsi delle logiche della violenza che hanno a più riprese interessato l'area alto adriatica. Cosi, il primo conflitto insegnô ad usare la violenza come strumento corrente di lotta politica ed il soggetto che meglio imparó la lezione fu il fascismo. Fu questa la fase squadrista della violenza e, se vogliamo seguire il suggerimento di Elio Apih, possiamo utilizzare il termine in senso aspecifico per connotare una serie di pratiche di lotta che si richiamavano direttamente le une alle altre, dalle aggressioni squadriste alla risposta terrorista (Apih, 2010, 128). Sembra poca cosa, rispetto a quello che sarebbe venuto dopo, ma si trattava in realtà del massimo grado di radicalismo concepibile in quegli anni. Il radicalismo crebbe sensibilmente alla fine degli anni '30, basti pensare alla "svol-ta totalitaria" del regime fascista ed alla promulgazione delle leggi razziali. Fu peró il secondo conflitto mondiale a produrre un nuovo salto di qualità, perché sul fronte orientale le aggressioni tedesche alla Polonia, alla Jugoslavia, alla Grecia e soprattutto all'Unione Sovietica innescarono una miscela altamente esplosiva, vale a dire l'intreccio fra le propensioni naziste allo sterminio e le pratiche di lotta bolsceviche e staliniane. Anche gli italiani parteciparono di questa nuova dimensione repressiva - e non solo per imitazione dei tedeschi - con le stragi e le deportazioni nei territori balcanici occupati e gli echi di tali comportamenti arrivarono chiari e forti anche nella Venezia Giulia. Sotto questo profilo, possiamo considerare gli eventi giuliani del periodo successivo all'8 settembre 1943 come un'estensione alla regione delle logiche di guerra già maturate nell'Europa orientale. È un processo che nell'Europa occidentale avvenne più tardi ed in maniera più episodica nel corso della lotta antipartigiana, per opera principalmente di unità tedesche reduci dal fronte orientale: nell'area alto-adriatica, zona di cerniera fra est ed ovest d'Europa, si ebbe invece un deciso e stabile slittamento nella storia dell'Europa orientale, cioè nelle vicende delle "terre di sangue", a lungo poco conosciute dalla storiografia occidentale (per l'espressione vedi Snyder, 2011). È all'interno di tali coordinate che trovano posto fenomeni come l'eliminazione sistematica dei "nemici del popolo" - con l'ampia latitudine di significati che tale termine puó assumere in una realtà locale specifica - nel corso dell'autunno istriano del 1943 per mano degli organi del movimento di liberazione jugoslavo; la creazione a Trieste da parte dei nazisti del lager della risiera; la nuova e più ampia ondata di violenze di massa scatenata dalle autorità jugoslave nella primavera/estate del 1945. Sono tutti comportamenti espressione di un radicalismo assai più spinto di quello sperimentato nel primo dopoguerra, proprio perché le nuove lezioni impartite dalla guerra totale avevano nel frattempo sensibilmente spostato l'orizzonte del pensabile, trasformando in terribile normalità quelle che nelle fasi precedenti erano riguardate come aberrazioni proprie di mondi lontani. Il terzo e ultimo esempio riguarda le politiche delle minoranze applicate prima dallo stato italiano fra le due guerre e poi da quello jugoslavo nel decennio successivo al se- Raoul PUPO: LA PIÙ RECENTE STORIOGRAFIA ITALIANA DI FRONTIERA: ALCUNE QUESTIONI INTERPRETATIVE Fig. 1: Un ricordo del passato: la "linea Morgan " che divideva la zona A e la zona B del Territorio libero di Trieste (foto: U. Zeleznik). Sl. 1: Spomin na preteklost: 'Morganova linija', ki je ločevala cono A in cono B Svobodnega tržaškega ozemlja (foto: U. Zeleznik). Raoul PUPO: LA PIÙ RECENTE STORIOGRAFIA ITALIANA DI FRONTIERA: ALCUNE QUESTIONI INTERPRETATIVE condo conflitto mondiale. Molto spesso la storiografia ha insistito con particolare enfasi sulle differenze fra le strategie dei due regimi in materia di trattamento dei gruppi mi-noritari, magari pervenendo a conclusioni opposte. In questa sede invece vorrei provare a cogliere prima di tutto le somiglianze. In entrambi i casi non ci troviamo dinnanzi a politiche di tipo genocidiario e nem-meno a progetti preventivi di espulsione totale del gruppo avverso. Piuttosto, possiamo parlare di politiche di integrazione selettiva, ovviamente non rispettose della volontà dei singoli. Il meccanismo in fondo è lo stesso. La leadership nazionale dominante individua, all'interno del gruppo minoritario, componenti diverse: alcune sono giudicate compatibili - se pure a certe condizioni - con il nuovo ordine, altre no. Il regime fascista, riprendendo giudizi correntemente espressi dagli ambienti na-zionalisti italiani, isolô all'interno della società slovena e croata una minoranza che riteneva assolutamente irriducibile, costituita da quella che le fonti chiamano "borghesia nazionale" o più semplicemente classe dirigente slava. Questa doveva sparire, mentre si riteneva che la maggioranza dei gruppi nazionali sloveno e croato, una volta privata della sua guida politica, poteva venire assimilata grazie alle tradizionali politiche di nazionalizzazione, irrobustite dalla forza di uno stato autoritario e dalle capacità di pe-netrazione di un regime che ambiva ad essere totalitario. In questo modo, sarebbe stato possibile arrivare - più probabilmente sul medio che sul breve periodo - ad un'integrale "bonifica etnica" del territorio. Il regime comunista jugoslavo applicó il medesimo meccanismo, ma il profilo sociale della popolazione italiana era diverso e quindi l'esito fu rovesciato. Quelle che in omaggio all'ideologia venivano chiamate le "masse popolari", costituivano in realtà solo una minoranza all'interno del gruppo nazionale italiano. Tale componente comunque venne ritenuta jugoslavizzabile senza eccessive difficoltà e per farlo venne costruita fin dal 1944 una politica positiva, quella della "fratellanza italo-jugoslava" (Troha, 2009; Pupo, 2005; 2010). Invece il resto della popolazione italiana, e cioè la sua parte più consistente, fu destinato a subire il peso di una rivoluzione nazionale e sociale nel cui ambito stava dalla parte sbagliata. L'applicazione di tali strategie riveló non poche sorprese. La classe dirigente slovena e croata venne in effetti in buona misura spazzata via dal fascismo, ma il giudizio in base al quale le masse culturalmente inermi sarebbero state facilmente italianizzate si mostró sbagliato, e neanche le politiche di sostegno selettivo all'emigrazione riuscirono a risolvere il problema nel senso della prevista nazionalizzazione dei territori di frontiera. L'unico risultato stabile della politica fascista fu quindi quello di generare un irredentismo di massa nutrito dall'equazione Italia/fascismo, che rimase latente fin quando la saldezza del regime consentiva soltanto limitatissime forme di opposizione clandestina, ma esplose in ribellismo generalizzato quando le sorti del secondo conflitto mondiale e l'erompere del movimento partigiano nei terrori sloveni e croati annessi nel 1941 fecero presagire scenari inediti di liberazione nazionale. Sull'altro versante, la duplice rivoluzione jugoslava creó effettivamente per la maggioranza della popolazione italiana condizioni di invivibilità tali da spingerla all'esodo. Invece, i destinatari della politica della "fratellanza" in primo luogo si rivelarono assai Raoul PUPO: LA PIÙ RECENTE STORIOGRAFIA ITALIANA DI FRONTIERA: ALCUNE QUESTION! INTERPRETATIVE meno numerosi del previsto - perché tutti gli strati anche popolari ma non proletari rimasero fedeli ai valori ed alle appartenenze tradizionali - e in secondo luogo, dopo una fase di entusiasmo iniziale, finirono anch'essi per trovare inaccettabili le condizioni dell'integrazione. Il risultato cumulativo fu una generalizzazione del duplice rifiuto: rifiuto dello stato e del regime jugoslavo da parte della stragrande maggioranza della popolazione italiana; rifiuto degli italiani, considerati - se pur per ragioni diverse - di fatto non integrabili, da parte delle autorité jugoslave, specialmente quelle più vicine al territorio. La conseguenza di tutto ció fu il flusso migratorio che la storiografia italiana ha chiamato esodo, con un termine dai forti contenuti evocativi, che ha perció stentato ad affermarsi in sede scientifica, cosí come del resto lo stesso evento in tal modo denominate ha dovuto attendere parecchio prima di affermarsi quale oggetto rilevante di analisi rigorose. Senza voler qui ovviamente ripercorrere l'intero tragitto di un lungo dibattito, puó valer la pena di notare come, a conclusione del percorso, quel termine si sia oggi trasformato in una categoria interpretativa generale, atta ad identificare una particolare tipologia migratoria nell'ambito del più generale fenomeno degli spostamenti forzati di popolazioni cha hanno segnato la storia europea a partire dalla metà dell'S00. Negli studi più recenti infatti, per "esodi" si intendono: "quei casi in cui un gruppo di abitanti fu indotto a fuoriuscire dai confini politici del territorio in cui viveva a causa di pres-sioni esercitate dal governo che lo controllava, sia in termini di violenza diretta sia in termini di privazione di diritti, soprattutto in corrispondenza di un radicale mutamento politico che investiva le relazioni tra stati (conflitti bellici, crolli e costruzioni di stati). In tali circostanze la migrazione forzata non era il chiaro obiettivo iniziale del governo in questione, né tantomeno quest'ultimo la organizzó; il risultato finale fu comunque l'emigrazione quasi totale del gruppo. Questi casi vanno senza dubbio compresi nel novero delle migrazioni forzate, anche se furono gli unici in cui la scelta di migrare fatta dai singoli o dalle singole famiglie ma estesasi fino ad acquisire una dimensione di massa, ebbe un ruolo attivo nello spostamento" (Ferrara, Pianciola, 2012, 1S). L'esempio più antico rintracciabile in letteratura è quello dei circassi che decisero/ furono spinti ad abbandonare la Crimea dopo la conquista russa, negli anni '50 dell'S00 (Ferrara, Pianciola, 2012, 45-54) ed altri ne seguirono nel corso di un secolo fino appunto al caso dei giuliano-dalmati. In tal modo, la storiografia italiana, se pur con una certa lentezza, ha mostrato di saper trasformare l'acquisizione di una vicenda storica marginale e dalla problematica legittimità scientifica, in una chiave di lettura complessiva capace di rendere più adeguata la comprensione di alcune delle strutture portanti della contemporaneità. Raoul PUPO: LA PIÚ RECENTE STORIOGRAFIA ITALIANA DI FRONTIERA: ALCUNE QUESTIONI INTERPRETATIVE NAJNOVEJŠE ITALIJANSKO OBMEJNO ZGODOVINOPISJE: NEKAJ INTERPRETATIVNIH VPRAŠANJ Raoul PUPO Univerza v Trstu, Oddelek za politične in družbene vede, P.le Europa 1, 34127 Trst, Italija e-mail: PUPOR@sp.units.it POVZETEK Prispevek se ukvarja predvsem z vprašanjem prostora zgodovine obmejnega območja z dveh vidikov: z vidika prostora, s katerim razpolaga znotraj sodobnega italijanskega zgodovinopisja, in z vidika geografskega prostora, ki ga obravnava italijanska zgodovina obmejnih območij. Nato preide na preučevanje nekaterih izmed najbolj obravnavanih tematik v sodobnem italijanskem zgodovinopisju v povezavi s prostorom zgornjega Jadrana: najprej dvojici mesto/podeželje in center/periferija - s posebnim poudarkom na prispevkih Schiffrerja, Ivetica, Cattaruzze, Pupa in Trebbija - nato pa se posveti še problematiki »šibkosti«, ki jo je po mnenju nekaterih avtorjev pokazala italijanska država v odnosu do svoje vzhodne meje; ta tema je raziskana preko razprav o argumentih, ki jih podajata Cattaruzza in Valdevit. V nadaljevanju je izpostavljeno dejstvo, da zgodovina območja ob severnem Jadranu predstavlja učbeniški primer prepletanja kontinuitete in novosti, kjer zlahka opazimo tesne povezave med nekaterimi elementi, vendar pa so jasno vidni tudi ponavljajoči se preboji s strani novih zgodovinskih akterjev, zaradi katerih je prišlo do pravih preskokov v naravi državnih in družbenih konfliktov. Da bi se bralec lahko bolje orientiral v tem labirintu, ponudi članek pot zgodovinske primerjave, s sklicevanjem na tri primere. Prvi primer predstavljajo vojaške okupacije, ki so zaznamovale obe povojni obdobji. Tu se vzporednice nanašajo na cilje in na nekatere izmed uporabljenih metod, medtem ko se razlike kažejo v sami naravi dveh oboroženih sil: na eni strani imamo tako vojsko - institucijo, ki je že sama po sebi avtoritarna in z nekaj političnih pretenzij - liberalne države v krizi, na drugi strani pa revolucionarno armado, ki je pravkar sklenila osvobodilni boj oz. državljansko vojno. Drugi primer predstavlja politično nasilje, povezano s konceptoma vojne in revolucije. Preskok med logiko nasilja med letoma 1920 in 1930 na eni strani in tisto v 40-ih letih na drugi je v članku preučen z vidika različnih izkušenj in spoznanj, pridobljenih iz obeh svetovnih vojn, ki so privedla do premikov v mejah predstavljivega: v prvem obdobju je tako prišlo do t. i. skvadrizma, v drugem pa do terorističnih praks. Zadnji primer predstavljajo manjšinske politike; sprva v kontekstu italijanske države, pozneje jugoslovanske. V obeh fazah se ne srečujemo z genocidnimi praksami ali s preventivnimi projekti, ki bi imeli za cilj popoln izgon nasprotne skupine, temveč gre v teh primerih za politike selektivne integracije, ki očitno ne spoštujejo volje posameznikov. Uporaba teh strategij v narodnih skupnostih, ki se zelo razlikujejo glede na njihov socialni profil, je prinesla tudi nekaj nepričakovanih rezultatov. Po eni strani uničenje vladajočega razreda ni bilo dovolj, da bi sprožilo propad slovenskih in hrvaških elementov, ki ga Raoul PUPO: LA PIÙ RECENTE STORIOGRAFIA ITALIANA DI FRONTIERA: ALCUNE QUESTION! INTERPRETATIVE je zagovarjala fašistična politika »etnične sanacije«; poleg tega pa so »ljudske množice«, na katere je ciljala politika »italijansko-slovenskega bratstva«, v resnici predstavljale le manjšino v italijanski nacionalni skupini, medtem ko je bila večina podvržena pritiskom nacionalne in družbene revolucije, v kateri se je znašla na napačni strani. Poleg tega so se sprejemni pogoji izkazali za tako stroge, da so hitro pahnili v krizo tudi delavski razred, kar je posledično privedlo do nekakšne dvojne zavrnitve: zavrnitev jugoslovanske države in režima s strani velike večine italijanskega prebivalstva in hkrati zavrnitev Italijanov, o katerih je med jugoslovanskimi organi prevladovalo mnenje - čeprav iz različnih razlogov - da se v resnici ne morejo integrirati. Ključne besede: Julijska krajina, mesto/podeželje, center/periferija, primerjalna zgodovina, politično nasilje, manjšine, fojbe, eksodus FONTI E BIBLIOGRAFIA Apih, E. (2010): Le foibe giuliane. Gorizia, LEG. Apollonio, A. (2001): Dagli Asburgo a Mussolini. Venezia Giulia 1918-1922. Gorizia, LEG. Cattaruzza, M. (2005): Il problema nazionale per la socialdemocrazia e per il movi-mento comunista internazionale: 1889-1953. In: Cattaruzza, M. (ed.): La nazione in rosso. Socialismo, comunismo e "questione nazionale": 1889-1953. Soveria Man-nelli, Rubbettino, 9-32. Cattaruzza, M. (2007): L'Italia e il confine orientale. Bologna, Il Mulino. Ferrara, A., Pianciola, N. (2012): L'età delle migrazioni forzate. Esodi e deportazioni in Europa 1853-1953. Bologna, Il Mulino. Ivetic, E. (2007): Dalle comunità alle nazioni nell'Adriatico nord-orientale (1850-1940). In: Pallante, P. (ed.): Foibe. Memoria e futuro. Roma, Editori Riuniti, 37-53. Pupo, R. (2005): Il lungo esodo. Milano, Rizzoli. Pupo, R. 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