i Soldi IO al numero. L'arretrato soldi 20 L'Associazione è anticipata: annua o semestrale — Franco a domicilio. L'annua, 9 ott. 77 — 25 se t tem. 78 importa fior. 3 e s. 20 ; La semestrale in proporzione. Fuori idem. Il provento va a beneficio dell' Asilo d'infanzia L'UNIONE CRONACA CAPODISTRIANA BIMENSILE. si pubblica ai 9 ed ai 25 Per le inserzioni d'interesse privato il prexzo à da pattuirsi. Non si restituiscono i manoscritti. Le lettere non affrancate vengono respinte, e le anonime distrutte. Il sig. Giorgio de Favento è l'amministratore I V integrità di «n giornali consiste nell' attenersi, con costama ed energia, al vero, all'equità, alla moderatala. ANNIVERSARIO — 11 Marzo 1875. — Muore Pietro Bota di Bergamo — (V. Illustrazione.) Sotto i portici di Po e lungo i vialli che cingono d'una verde corona la città di Torino, vedovasi pochi anni sono passeggiare di sovente una cara fanciulla in compagnia della madre e sovente anche d'un suo minore fratellino. La fanciulla andava con sì poco sfarzo, mescola-vasi con sì amabile famigliarità alla folla dei passeggiatori da non essere oggetto d'attenzione che per la sua dolce, delicata ed espressiva bellezza. Era essa la principessa Margherita, figlia del valoroso e compianto duca di Genova. La leggiadra giovanotta era nata il 20 novembre 1851 in Torino, e a Torino fu educata e continuò ad abitare anche dopo il trasferimento in Firenze delia capitale del regno. Essa aveva allora quattordici anui e continuò nella tranquillità dell'antica metropoli subalpina una e-ducazione compita e nel tempo stesso semplice, intima, senza etichetta nè sussieghi. Le era toccata la sventura di avere appena conosciuto suo padre, morto appunto quando essa compiva i quattro anni. I figliuoli di Vittorio Emanuele vedevano spesso e volentieri la vezzosa cugina. Una mattina, l'allora principe di Piemonte, dopo aver parlato a lungo col padre, si recò da Moncalieri a Torino, ed esposto alla duchessa Elisabetta di Genova il motivo della sua visita esser quello di domandare la mano della cugina, la duchessa rispose pregandolo di parlarne egli medesimo alla giovane (principessa. Margherita accolse con gioia l'offerta, e subito ne diede partecipazione alle sue più intime a-miche, invitandole a passare con lei quell'ultima sera. La soddisfazione dei Torinesi si propagò in tutta l'Italia quando si seppe che l'erede del trono sposava una principessa giovane (al 22 aprile 1868 essa aveva poco più di diciassette anni), bella, virtuosa, della stessa famiglia sabauda, figlia del generoso Ferdinando duca di Genova. Perciò tutta Italia plaudì, amò la interessante giovanotta, ricambiò i suoi dolci sorrisi, i suoi saluti così gentili, ingenui, cordiali, che paiono carezze. Ma se le grazie squisite della principessa la resero in breve carissima agli italiani, presto pure si vide come il suo principale, il suo vero diletto consistesse nel far del bene, nel visitare scuole, orfanotrofi, a-sili d'infanzia, nello incoraggiare tutto ciò che avvantaggia la salute, l'istruzione, il benessere delle crescenti generazioni. Il dì 11 di novembre 1869 fu una data doppiamente solenne e cara agli Italiani. La principessa Margherita dava'alla patria un figlio, un erede alla diuastia, e la Provvidenza conservava miracolosamente la vita a Vittorio Emanuele. L'Italia nutriva piena fiducia nella giovane madre che aveva conquistato il suo affetto. Sapeva che essa avrebbe educato l'erede della corona coltivandone nel cuore gli affetti gentili. Margherita educata semplicemente da una colta signora tedesca, coadiuvata da buoni professori, non aveva ricevuto quella istruzione superficiale che s'imparte quasi sempre alle fanciulle di reale lingnaggio. Aveva un'istruzione solida, vasta, e poche signore in Italia conoscono al pari della nostra gentile Regina la letteratura delle quattro lingue più diffuse in Europa. Ed i ricevimenti, i doveri che le incombevano come principessa di Piemonte non le fecero dimenticare i doveri più cari di madre. Margherita possiede in sommo grado il dono di farsi amare, di affezionarsi le popolazioni parlando al loro cuore. Fu un giorno splendido quello in cui essa presentò alle donne del mercato di Napoli il proprio figlio: quelle donne rozze ma sensibili, capirono tutta la squisita gentilezza dell'animo della principessa, che affidava nelle braccia loro tutto ciò che aveva di più caro, il proprio figlio. E da quel giorno in poi l'hanno messa prima nella lista delle sante alle quali si rivolgono nel momento di dolore, ed a Margherita ricorrono fiduciose come alla Madonna. Monza è stato sempre il soggiorno prediletto per la principessa di Piemonte. Là la madre trovavasi più a contatto col proprio figlio, la sposa collo sposo, e dimessa l'etichetta di corte in mezzo alle amiche ed agli uomini eminenti per sapere ed intelligenza poneva ogni suo studio nel prevenire i gusti dei suoi ospiti e passava il tempo studiando, conversando. A Monza essa non era più la principessa di Piemonte: era Margherita di Savoia, la gentile padrona di casa, una specie di castellana che apriva le porte della sontuosa residenza ad alcuni eletti per offrire al principe di Piemonte il mezzo di conoscere da vicino molti degli elementi di quel popolo che era destinato a governare in seguito. Poche donne hanno maggior fermezza di carattere e giustezza d'idee della Regina d'Italia, ed il primo a riconoscere queste eminenti qualità è il Re suo sposo, che si consiglia con lei nelle circostanze più delicate e difficili della vita. In tutta Italia il nome della principessa Margherita aveva raggiunto un grado di massimo di popolarità, lo conservi la Regina ! È il miglior augurio che possiam fare all'augusta Donna. Nota. Proprietà letteraria dell' Illustrazione Italiana (N. 3 marzo). Riproduzione autorizzata. PRODROMO *) STORIA DELL' ISTRIA (F. »7 N.o 25 gennaio e seg.ti.) Passando ora a percorrere il 2.° periodo dell'epoca di cui ci occupiamo, n'è duopo rammentare come l'Imperatore Ottone I della casa di Sassonia, la quale è con lui la prima di Germania nel regno d'Italia, avesse introdotto nuovi ordinamenti nel sistema baronale. Scemò i grandi ducati, e franse i marchesati *) Dalla Porta Orientale, strenna pubblicata a Trieste nel 1857. (anno I.) in maggior numero di comitati. Dotò le città di agri tributari, e di semplici castella fe' comitati rurali. Per tal modo Ottone senza volerlo affrettò l'era dei Comuni italiani. Allorché adunque Corrado I, il Salico della casa dei Franconi o Ghibellini primi (da cui l'inizio del presente periodo di storia), succedette alla casa di Sassonia nel regno d'Italia, trovò anco in Istria accresciute le città di nuove terre, e più che mai ridivisa la campagna tra baroni, intenti ad emanciparsi o ad acquistare più estesi diritti sull'esempio delle città stesse. I vescovi pure prendevano loco importante nel governo baronale per nuovi possedimenti, e d'ogni parte era un agitarsi negli intendimenti accoppiati del predominio e della libertà. Tali erano le pubbliche condizioni quando Corrado I principiò a concedere in feudo le grandi cariche ed emanò leggi con cui costituiva ereditari i feudi e sotto-feudi, compiendo così il vero Feudalismo, che cozzò a luogo col Comune, ed ebbe gran parte in quelle guerre intestine che trassero entrambi a caduta. (1026) Il marchesato d'Istria si fe' quindi ereditario in un Veccelliuo. La contea d'Istria invece, per esser tuttavia officio marchesale dipendente, non divenne per allora essa pure ereditaria. Ma a fianco dei marchesi e dei conti cresceva ognor più il dominio temporale dei vescovati e delle chiese, e troviamo di quei tempi registrate molte donazioni a vescovi e a monasteri, così sotto il regno di Corrado I fino al 1039, come altresì sotto quello di Arrigo III fino al 1.056, più ancora di Arrigo IV, che nel 1067 conferì molti possedimenti in Istria perfino agli stranieri vescovi di Fri-singa, e che accrebbe l'ingerenza nella nostra provincia de' patriarchi d'Aquileja, già potenti nel Friuli col conceder loro non poche delle percezioni fiscali istriane. (1077) Era questa politica di quel re che fu il pessimo dei ghibellini e che si trovò di fronte quell' Ildebrando, che risoluto a toglier di mezzo le simoniache elezioni feudali, e purgare e francare la chiesa, fu uomo di grande coscienza, sacerdote d'animo invitto, gran papa (1073-1085). Regnando Arrigo V (1106-1125), la contea d'Istria divenne in nn Engelberto ereditaria in conseguenza di contrarie pretese nella casa dei marchesi, le quali riuscirono ad aperta guerra, e dietro battaglia presso il Ti-mavo, alla separazione della detta contea dal marchesato, quantunque sempre con rapporto di vassallaggio. (1112) Ecco pertanto come i conti d'Istria figurino da quell'epoca in poi nei documenti presso ai marchesi, ai vescovi, ed ai provinciali. Ma i comuni ognor più forti per acquisti, di nuovi agri tributari, continuavano a trattare e senza marchese e senza conte. Ed appunto di questo tempo (1124) abbiamo nuove alleanze scritte coi Veneziani, confermati ne' loro rapporti coli1 Istria dell'Imperatore bizantino Giovanni Comneno: documenti che dimostrano essere erronea l'opinione d'una guerra allora tra Pola e Venezia, e che attestano come le città dell'Istria, le quali associavano già da molto le loro navi (stolo\ alla veneta flotta per tenere sgombri i mari, promettessero nuovamente di mantenere l'onore di S. Marco (retinere honorem B. Marci) e di ottemperare al doge, che chiamavano rettore di tutta l'Istria (1150). E mentre a quel tempo nel resto d'Italia sotto il regno di Corrado II primo degli Svevi, e dei Ghibellini secondi succeduto a Lottario, le intestine discordie si agitavano più che mai accanite, l'Istria aveva con la Venezia migliori le sorti. Ma la guerra d'indipendenza contro 1' imperatore Federico I Barbarossa doveva in tutta Italia ridestare nuovi sensi. Non è nostro ufficio ricordare i grandi fatti di quell' epoca. Ci limiteremo quindi a dire che sotto il nome di Venezia molte citta anco dell' Istria ebbero parte nella Lega lombarda, (1167) e dietro la battaglia di Legnano, in quella marittima di Salvore alle proprie coste, nella quale gl'imperiali, guidati da Ottone figlio di Federico, vennero sconfitti. (1177). E nella chiesa di Salvore fu posta lapide che ricordasse ai posteri il memorabil fatto. j Fu nello stesso anno 1177 che l'imperatore e il pontefice Alessandro III si rappacificarono in Venezia. Per la guerra d'indipendenza venne conchiusa una semplice tregua,, ma già fin d'allora Federigo I quantunque conoscesse l'unione degli Istriani co' Veneti, e le contribuzioni che quelli davano al doge, non solo nulla vi mutò, ma confermò lajiberta del commercio de' Veneti in Istria, e il dominio loro di tutto l'Adriatico. Stipulatasi poi la pace di costanza nel 118.3, il comune italiano restò bensì raffermato ma (strana cosa) le franchigie furono sempre considerate come ottenuti privilegi dallestesse città della Lega lombarda, eccettuata la sola Venezia. Il perchè continuarono anche nell'Istria le libertà cittadine e la congiunzione con la Venezia da un canto, e continuò dall'altro a nominarsi . l'alta signoria dell'imperatore come nel resto d'Italia: condizioni che tra noi si riscontrano uguali negli altri trattati anteriori fra l'impero e Venezia al tempo di Ottone I nel 967, e al tempo di Ottone III nel 983. Ma fatalmente al movimento di coacoi-dia succedettero nuove rivalità tra grandi e piccoli nei-comuni, e nuove ostilità tra quelle parti guelfe-e ghibelline, che dopo la morte di Arrigo yV.I, figlio di Federico I, e in conseguenza delle lotte tra il ghibellino Filippo I di Svevia e il guelfo Ottone IV di Sassonia, si trasportarono anche di nome iu Italia, d' ov'erano già di fatto, tra imperiali ed antim-periali : parti, idi cui restano traccio anco nell'Istria, popolata da comuni guelfi e di baronie ghibelline. E tra, le città marittime si aggiungevano le gelosie de'.traffici. Ma almeno da queste prendeva maggiore incremento 1' attività de' commerci, e se pur troppo nascevan guerre, si riannodavano ad un tempo rapporti di amicizia. Di questi abbiamo qui pure esempi, e ricorderemo solo l'accordo fermatosi tra il comune di Spalato e quello d.i Pirano pel migliore andamento delle mercantili loro imprese, le quali prima del formarsi della potenza turca erano vivissime su tutta la costa dell' Istria e della Dalmazia. (1192). Ma abbiamo in un medesimo anco nella nostra provincia a rammentare i dolorosi effetti delle gare tra Venezia ed altre città marittime italiane. F» nel 1195 che i Pisani s' impadronirono di Pola, e vennero ricacciati da Giovanni Movosini e Buggeri Remarino, capitani del doge Enrico Dandolo. Nè questo fatto, come si vedrà in appresso, è l'unico, di cui l'Istria sia stata spettatrice. Convien por ritenere che la nostra provincia allargasse sempre più le proprie libertà tra questi movimenti del commercio, a cui venivano aperte nuove terre dalle crociate se troviamo memoria com'ella avesse rifiutato, di riconoscere e lo svevo Filippo e il guelfo Ottone. (1198). * Ed una nuova crociata seguiva a quel tempo dopo le tre anteriori, a cui non era rimasta estranea l'Istria, unitasi anzi pochi anni prima in quelle occasioni ai Veneti nella presa di Traù e Ragusi e nell'assedio di Negroponte. Era questa quella quarta crociata che portò alla conquista latina di Costantinopoli, e quindi alla ristorazione del principato d'Italia nel Mediterraneo altra volta lago di Roma. Alcune navi istriane si accompagnarono a quelle di Venezia, ealle rimaste affidò questa l'onorevole incarico di custodire l'Adriatico. Trieste pure, ch'era fino dal 948 sotto il dominio e la potestà de' propri vescovi, si obbligò a cooperare contro i pirati, e dar contribuzione a quel doge Enrico Dandolo, da cui principia il primato della potenza marittima di Venezia (1202). Ma come nelle altre provincie d'Italia, qui pure succedono anni di lotte. I patriarchi di Aquileja, già potenti anco in Istria per le ricordate percezioni fiscali, conseguite da Enrico IV nel 1077, e per nuove regalie sebben minori, avute in dono dalle famiglie dei marchesi, studiano le occasioni di ingerirsi ognor più nella nostra provincia, e vogliono vietare ai Veneti il riscuotere alcuni tributi. Il patriarca Volchero, fatto ardito dal trovarsi il marchese Enrico III avverso allo svevo Filippo, spedisce truppe contro gl'Istriani, (1207) fermi nel proposito di starsene con Venezia. Veduta tanta fermezza, le genti del patriarca si ritirano. Ed egli scomunica i renitenti. La provincia è in tumulto, e si aggiunge guerra tra Capodistria e Pirano da una parte e Rovigno dall'altra. Ne approfitta il patriarca, e pretende al marchesato, da cui Enrico III veniva allora destituito per aver preso parte all' uccisione dell' imperatore Filippo. Manda infatti in Istria qual luogotenente col titolo di governatore-marchese Armano Moruccio di Arcano, quantunque senza effetto per allora, non avendolo accettato gl' Istriani sotto colore di volerne uno o istriano o friulano (1208). Ma gl'intendimenti dal patriarca venivano contrastati dai duchi di Baviera da cui discendevano i marchesi d'Istria, e questi venivano pure riconosciuti ne' loro diritti dall' imperatore Ottone IV (1209). I pretendenti si guerreggiarono e fatta pace, Lodovico di Baviera cedette il marchesato col dipendente vassallaggio della contea d'Istria allo stesso patriarca Volchero. Gl'Istriani che il conoscevano inclinato ad accrescere il potere marchesale, e che erano avvezzi ad avere negli anteriori marchesi, quasi sempre lontani, un'autorità di mero nome, nimicavano un potere vicino, mal sapendo, educati al mare, acconciarsi in terra a feudale governo. Non lo vogliono e danno nell'armi contro Engelberto conte d'Istria, speditovi dai patriarca scomunicante la provincia per la seconda volta. Nuovi dissidi porgono mezzo a Volchero di mettere in campo trattative e di farsi riconoscere in via d'accordo, non potendolo con le armi. Recatosi personalmente in Istria, e adoperatosi di entrare in grazia di Venezia con lo assoggettarsi ad un tributo di onore, fe' concessioni agli Istriani, e ottenne così momentanea pace (1211.) Ma non seppe custodirla, chè avendo voluto poi estendere i poteri mar-chesali, ebbe di nuovo nemiche e l'Istria e Venezia. Ed eccolo trattare ora con l'una ed ora con l'altra. Con l'Istria, distratta dalle guerre di Giustinopoli contro Trevigi e contro Tar-gurio (1216), venne cedendo a patti l'anno 1217, e verso Venezia il patriarca Bertoldo assunse nuovi obblighi per la libertà del commercio veneto-istriano 1218, adattandosi perfino che una Vice-Dominaria venisse in-stituita in Aquileja a decidere le relative questioni (1222). Nè con ciò s'era ancora fatto tutto, chè i più prossimi parenti dell' espulso Enrico III non ismettevano loro pretese. Ma essendo il »nuovo patriarca della stessa famiglia dei pretendenti, facile si fu l'accordo ed egli venne pure da questi riconosciuto nella pace di S. Germano, in cui lo svevo imperatore Federigo II, succeduto ad Ottone IV, inclinando a pacificarsi col Sacerdozio, favoreggiò la chiesa d'Aquileja (1230). Qui principia col marchesato de' patriarchi il terzo periodo della nostra terza epoca segnata dal protettorato di Venezia, che passava mano mano in signoria. Credeva il patriarca aquilejese di aver assestato, ogni, cosa, dopo tante guerre e dissezioni, prima di giungere a farsi riconoscere marchese d'Istria. Ma in essa doveva per molti anni ancora trovare opposizioni, che si continuarono per tutto questo periodo fino al dominio di Venezia sul marchesato intero. N'era causa occasionale il diritto, preteso dai patriarchi, e decretato da Federico, di nominar essi i podestà, i consoli e i rettori delle città delle castella e dei villaggi dell'Istria. Pola e Capodistria nello stesso anno della pace di S. Germano ritornarono a disconoscere l'autorità del patriarca. La seconda, impegnata in una guerra con Pirano, transige, e quantunque essa fosse comune più indipendente dal marchesato, vien fatta sede del governatore della provincia. E Pola benché posta al bando dell'impero non ne cura, resiste, e appena nel 1233 è costretta a piegare. Di tutte le rimanenti opposizioni inopportuno è il tessere una narrazione, che uscirebbe dalle proporzioni di questo compendio. Quello peraltro che dobbiamo notare si è, che nelle città s'erano accresciuti di forza quei partiti che funestavano tutta Italia. Anco in Pola i Sergi, antica famiglia di origine romana, e posseditrice di molti distretti tributari avuti dai patriarchi di Aquileja, s' erano dati a sostenere le loro parti, dicendosene vicari per imperar essi. I Polensi mal comportarono quel giogo, e formarono un partito popolare con alla testa la famiglia dei Giona-tasi. Quando prevaleva questo era Pola insofferente dell' autorità marchesale, e in uno gelosa delle antiche libertà e dell' unione con Venezia. Ma quando i Sergi predominavano, avveniva il contrario nella loro volontà. Ed erano i Sergi al potere quando Pola fu tratta a negare a Venezia il tributo navale nella guerra contro Federico II : imprudenza che le apportò nuovi disastri essendo stata presa e rovinata, nel 1241, dai veneti Giovanni Tie-polo e Leonardo Quirini. E lo stesso patriarca, compromesso dal suo partito di Pola, dovette scendere a nuove concessioni coi Veneziani. Tre anni dopo 1248 moriva egli, e gli succedeva Gregorio di Montelongo, quando tutta l'Istria era di nuovo in movimento, renitente a riconoscerlo. Il nuovo patriarca venne a patti e aggiunse alle antiche nuove restrizioni del su© potere. Se non che tranquillati gl'Istriani pel momento, usò scaltrezza ad impedire nuove sommosse contro la mal sofferta autorità marchesale. Sapendo che le citta più influenti erano Pola e Capodistria, si adoperò a crearsi in queste un forte partito. In Pola aveva già sua la famiglia de' Sergi, e per garantirle il dominio della città le costruì rocca che tutta la signoreggiasse. Ed è da questa appunto che quelli presero il nome di Signori di Castropola. In Capodistria poi fu largo nel donar beni della chiesa d'Aquileja a' suoi partigiani, tra cui specialmente i Verzi (1254), nella mira di renderli più forti ed arditi. E mentre a tali spedienti aggiugeva ancora patti col doge Ra-nier Zeno (1256) per acquetarsi con Venezia, gli era forza ad un tempo difendersi dagli Un-gari. (1259). Tutto questo non impediva che gl'Istriani continuassero a tener gli occhi fiss su Ve- tcsia, seguitando a prestarle i soliti contributi, e ad averne in cambio la protezione, chè anzi cominciarono di questo tempo le formali dedizioni a quella potente repubblica. Ciò era ben naturale, poiché l'Istria, d'alleata divenuta protetta col crescere del veneto potere, si trovava ora costretta dalla vicinanza dell'autorità mar-chesale, che mal comportava, a mutare lo stesso protettorato in signoria, sostituendo ai tributi vere dedizioni. E già cominciano a farsi nel modo più aperto, come quelle del castello di Valle (1264) e l'altra della città di Rovigno (1266). Furono bensì nominalmente ricuperati que'luoghi dal Patriarca. Ma l'esempio era dato. E Parenzo 10 seguì tosto (1267), allorché si trovò stretta dalle pretese di predominio che voleva su di essa esercitare la città di Capodistria posta a capo della provincia e superba del privilegio di scegliere dal corpo dei suoi cittadini i podestà per molti comuni istriani. Ma nemmeno in Capodistria era spento 11 partito popolare contrario al patriarcale, che solo da pochi anni vi si era formato. E quello prevalse ancora così, che fu mossa guerra al patriarca Gregorio (1267) alleato allora di quell'Alberto II, il quale per la parentela che passava tra i conti d'Istria e quelli di Gorizia, aveva per sè avuto nelle divisioni di famiglia, fattesi in quello stesso anno, ambedue le contee. La guerra terminò con la peggio del Mon-telongo, poiché il conte Alberto bramoso di sferrarsi dal vassallaggio marchesale si unì^a Capodistria, dopo aver abbandonato il patriarca che venne fatto prigioniero e tratto a ludibrio per le vie. Morì l'anno seguente. (Continua) Ripetiamo e rispondiamo (V. il N.° 8) Le nostre ultime parole sull'ingiusta concorrenza del lavoro dei carcerati provocarono degli appunti al nostro indirizzo, i quali ci preme rilevare e confutare, non tanto per il loro valore, quanto per avere occasione di tornare sopra un argomento che riteniamo di tifale interesse per ia nostra città. Per tutta risposta, da coloro cui interessa forse che si lavori nell'i, r. carcere per conto privato, abbiamo udito ripetere in tuono esclamativo: "e chi chiama questi signori "privati ad approfittare del lavoro che si fa * nella carcere? nessuno: che vadano quinci per fatti loro in altre parti, ed ecco u che il lavoro cesserà.,, Con questa falsa logica si pretende rispondere trionfalmente alle nostre ragioni, come se noi, memori di uua si facile accusa, non avessimo nell'accennarla fatta già risaltare la sua inqualificabilità. Sembra che il nostro prudente riserbo nel dettaglio dei fatti, suggeritoci da ragioni di delicatezza facili ad immaginarsi, si voglia in questo modo sfruttare a tutto beneficio della parte opponente. Ma poiché per non essere fraintesi abbisogna parlare più chiaro, siamo ben lieti di farlo, convalidando le nostre parole da fatti, i quali mostreranno certamente, come l'accusa che si fa sia ingiusta, e come a torre le conseguenze del male lamentato convenga studiare il mezzo di levarne la causa. Si potrà forse accusare colui il quale prima di concludere un acquisto entra e'sorte da più negozi per speculare a proprio vantaggio ? No certamente. È naturale quindi che la medesima cosa succeda presso l'i. r. carcere che tiene ogni giorno aperto il suo negozio al servizio del pubblico. Come potremo noi fare un appunto a quel privato di rendite limitate, sia esso negoziante, possidente, o impiegato, il quale comperando, poniamo, per la sua famiglia un carro di legna da fuoco, per adoperare le quali abbisogna del lavoro d'una giornata di spaccalegna, che da un privato costa 70-80 soldi, se avendo aperta la via al lavoro dei carcerati ne chiama anche due di questi ed ottiene l'opera uguale col compenso di soldi 24?. Sarà possibile forse di biasimare quel negoziante, che abbisognando, pel trasporto di una certa quantità di mercanzie dal porto dove approdano, fino al sito di sua dimora p. e. di un lavoro di cinque braccianti per il periodo di quattro giorni, il che verrebbe a costargli circa 14 fiorini, se approfittando invece anche d'un doppio numero di carcerati può avere 1' uguale lavoro fatto col risparmio d'oltre 9 fiorini ? Potremmo condannare quegli che in oggetti di vestiario,ed in ogni sorta d'altri lavori potendo risparmiare un 20 per cento si serve dell' i r. carcere, e cosi di seguito ? — Certo che no. La sarebbe una pretesa, con riflesso ai singoli casi, assolutamente impossibile o strampalata. Ma dunque, ci sentiamo dire a questo punto, com'è che voi combattete quest' esercizio se esso porta tanto evidenti vantaggi ai vostri cittadini ? Ed è qui appunto il perno vizioso dove la questione si fa girare ad usum delphini. I vantaggi materiali accennati sono incontrastabili: ma vi siete mai provati ad enumerare di fronte i relativi danni, accompagnati inevitabilmente da una lunga serqua di fatalis-sime conseguenze morali? È indubitato che ogni medaglia debba presentare il suo rovescio, ma non è men vero per questo che le più savie leggi di economia sociale devono inspirarsi in ogni loro singolo caso (meno quelle rare eccezioni dove vi si può opporre un sentimento di carità) al principio di avvantaggiare la maggioranza Poniamo che nella ristretta cerchia del nostro paese si trovino un centinaio di loro i quali, ricorrendo in diversi incontri al lavoro dei carcerati, vedano alla fine dell'auno alleggerito il rispettivo billancio domestico in media d'una cinquantina di fiorini. Premesso questo risparmio dei cento, il quale se può tornare a loro sollievo, non tornerà certo (per chi risparmiandone cinquanta o più e meno ch'è lo stesso, deve spenderne un bel gruzzolo) non tornerà certo, diciamo, a fecondare quel grado di benessere che sia di sviluppo a ricchezze, noi vediamo di fronte, tolto alla circolazione di città, non solamente l'importo risparmiato dai singoli, che sarebbe forse il minor danno ed il più facilmente ginstifica-bile, ma eziandio tutto quel maggior denaro che a pagamento dell'opera e dei materiali entra nell'i, r. carcere a totale vantaggio forestiero. Vediamo quindi, nella concatenazione degl'interessi, e delle famiglie, una massa venti volte e più maggiore, la quale aspetta dall'unico lavoro delle braccia il suo mantenimento, stentare la vita, e così crescere il numero dei miserabili a danno del civico erario, e quindi dell' intiera città, e covare tutti quei mali che sotto diverse forme porta alla società la gran piaga del proletariato. Uno dei lavori dal quale quotidianamente molti individui ritraggono mezzo di sussistenza, si è il commercio che vien fatto coli' acquisto da parte di privati del sale negl'i, r. magazzini, e coli'asporto del medesimo con barche a Trieste, dove varii speculatori lo comperano pel consumo locale e per spedizione all' interno. Il sale viene venduto dall'Erario ad un prezzo fisso, e gli acquistanti sostengono le spese di caricazione e trasporto, che naturalmente unite al costo primo, costituiscono il valore complesso sul quale lo speculatore di qui commisura la sua domanda per quello che lo compera a Trieste. In tale esercizio vediamo occupate quasi giornalmente quattro o cinque barche, ognuna col suo gruppo di marinai e col sussidio d'un altro gruppo ben maggiore di caricatori. Ora ad un N. N. forastiero che tiene barca propria per certi suoi trasporti di mercanzie dalla sua piazza di Trieste a qui, è venuto in mente d'inprendere pur esso la speculazione del sale, servendosi a questo scopo, per la non lieve spesa della caricazione, dell'opera dei carcerati colla nota mercede di 12 sol. al gior. A questo modo col suo sale caricato con una spesa molto inferiore, perchè invece di pagare la giornata d'un bracciante con soldi ottanta e un fiorino dispone di quella d'un carcerato di soldi dodici, questo nuovo commerciante può offrire agli acquirenti di Trieste un abbuono impossibile agli altri che pagano unamercede tanto maggiore. Dunque pel vantaggio di uno o due foras-tieri, che può ripartirsi poi (non del resto con grande probabilità) anche nel vasto campo del piccolo consumo, ma certamente in un modo dal quale un sentito utile individuale sparisce, noi vediamo qui diversi speculatori cittadini posti nella dura contingenza, o di servirsi per sostenere il loro commercio dell' opera dei carcerati, ed abbandonare alla disoccupazione un grande numero di propri paesani, o di dover rinunciare all'impresa. Dopo tutto ciò, potremmo noi forse biasimare lo speculatore forestiero che in questo modo procura il suo interesse? Non lo faremo certamente ; ma in quella vece, bilanciando il prò ed il contro con esatto principio di equità, deploreremo che col permettere anche tale lavoro ai carcerati si creino nuove cause di malessere cittadino, tanto più sensibili in un annata come la presente oltremodo meschina. Ma non basta che a imprenditori privati sia prestata l'opera del carcerato a danno dell'operajo cittadino, che col mezzo di quest'opera, la stessa amministrazione dell'i, r. carcere, (cosa davvero incredibile) si fa imprenditrice di lavori in città per conto privato. Abbiamo ora in costruzione la copertura d'una tettoja d'nn cantiere navale, lavoro questo che assunto da un privato, avrebbe offerto mezzo di lunga occupazione a parecchie decine d'artieri e manovali, procurando bensì qualche maggior spesa al proprietario, ma non tale peraltro da sorpassare 1' ordinario preventivo d'un opera che qui ed altrove viene fatta coi mezzi comuni. Ma ecco che l'i. r. carcere, col buon mercato della mano d' opera cui dispone, e quindi con un ribasso impossibile a qualuuque altro, assume il lavoro, introitando tutto quell'importo che sarebbecircolato a benefizio dei cittadini, senza che poi (giudicando lo cose come dovrebbero andare per principio d'equità) il proprietario committente abbia a risentirne un notevole vantaggio. Non possiamo poi non esternare la nostra meraviglia, come mentre l'i. r. carcere assume o favorisce tali lavori, d'altra parte in uguali opere di propria economia, apre concorrenza allogandole ad estranei imprenditori, coll'ordinaria sottintesa condizione, imposta forse dallo stesso prezzo di grida, che questi debbano poi per eseguirli servirsi della mano d'opera dei carcerati. Ma fatta astrazione dall'anomalia di certe regole che potranno forse trovar logica soluzione uua grande amministrazione, a noi interessa, per principio di giustizia e d'umanità, rilevare il fatto dell'inqualificabile concorrenza mossa con tale procedimento alla numerosa classe dei nostri artigiani, che adempie onorevolmente come ogni altra agli oblighi di suddito e cittadino, e fra la quale più particolarmente noi scorgiamo quella numerosissima schiera di permessanti i quali, al bisogno, concorrono col proprio sangue a difendere gl'interessi dello stato. Chi ha cuore, ci risponda se debba o meno far cattivo senso, e tanto più in un piccolo paese, il vedere posposti gl'interessi di questa povera gente a quelli d'un malfattore carcerato. Come altre volte abbiamo detto, ripetiamo che il lavoro pei carcerati è necessario; ma si procuri di far in modo che la concorrenza dell'opera, loro sia portata in un campo vasto, dove una larga ripartizione renda in-, sensibile il danno relativo:.si procuri di migliorare le condizioni'igieniche dello stabilimento, nel quale.la statistica delle malattie, e delle mortalità appalesa un grande bisogno, Sappiamo che il corpo sanitario con oppor-. portuni suggerimenti, in riguardo Alle ore di passeggio, al sistema di vestito, ecc., ottenne in questi ultimi tempi un notevole miglioramento nella salute dei detenuti. Anche l'istruzione è bene impartita e produce ottimi effetti. Tutto ciò torna ad onore di chi ha in mano la direzione, ed è bene si usino questi mezzi, ed altri ancora, per giungere allo scopo altamente morale ed umanitario cui s'impone i sistemi carcerari, quello cioè di poter ridonare alla società possibilmente migliorati tanti infelici. Ma con riflesso alle ragioni da noi esposte, si procuri poi che da un parziale beneficio, ristretto alle mura di una carcere, non debbano derivare gravi i danni ad una città. — Chi è in dovere, ci pensi, e provveda. C. — l Scritti inediti di FRANCESCO PATRIZI — (1529-97) DE' CORPI (FRAMMENTO) (Fine V. i N.% 4, 5,7,9 e IO) La materia accompagnata con la forma per li mezzi delli agenti già detti, fanno il corpo naturale. Dico naturale perchè Il corpo è o naturale o matematico. Il naturale corpo è una sostanza composta di materia e di forma, et ha in effetto tre dimensioni lunghezza, larghezza e profondità, et sono questi che si veggono et si toccano. Il corpo matematico è una trina dimensione, non in fatto, ma imaginata, et con lo intelletto, a-etrata da ogni materia. Ha fondamento et essenza nel corpo naturale, ma il sapiente matematico non lo considera come naturale, ma come separato et astratto da ogni materia et soggetto. Il matematico corpo è di cinque maniere di figure. Cubo, setaedro, dodecaedro, icosaedro et pira mide, et sono detti regolari. Il cubo è di sei faccie eguali come il dado, et fa la terra. L'octacdro è di otto faccie, et fa l'acqua. 11 dodecaedro è di dodici faccie et fa l'aere. La piramide è nota di 4 faccie acuandosi verso la cima et fa il fuoco. Lo icosaedro è di 20 faccie e fa il cielo. Et questo lare gli elementi di questi corpi et il cielo è dottrina Pytagorica e di Platone nel Timeo. E questo le basti per hora. DEL CIELO Dopo gli elementi trattati fin hora si venga al quinto corpo semplice che è il Cielo. Il Cielo preso tutto insieme chiamò Aristotele quinta essenza e quinto elemento, elemento non già perchè entri ne' misti, ma perchè è parte del mondo principale come sono gli altri elementi. Quinta essenza il chiamò egli perchè non comunica con niuna essenza degli altri quattro, ed perchè è lontano da ogni qualità et contrarietà elementale. Et perciò è incorrottibile non solo quanto al tatto come gli altri, ma anco quanto alle parti, non si essendo mai osservato che alcuna sua parte si sia corrotta. In comune ha due parti una trasparente e l'altra lucente, queste sono le stelle che sono le parti più dense di lui, e l'altro è trasparente, poiché il lume di esse stelle passa per oltra il diafano de' corpi o de' cieli inferiori fino a noi. Le quali stelle dicono Aristotile e i suoi che sono fisse nel corpo celeste come i nodi nelle tavole. Ma Eusebio Dottore di Santa Chiesa et alcuni altri dicono che elle vi si muovono come i pesci nell'acqua. È diviso tutto il cielo in otto orbi secondo gli antichi, l'uuo maggiore dell'altro e contenentisi l'un l'altro. Il primo sopra la sfera del fuoco è il cielo della luna, sopra la quale posero quelli il sole, et i nostri Mercurio, poi Venere et poi il Sole, poi Marte, poi Giove, poi Saturno et in ultimo quello che ha tante stelle fisse. Iebit Astrologo Arabo dice sopra lo stellato esservi il nono senza stelle. FINE. Illustrazione dell' anniversario (Mauro Macchi — Almanacco istori co; anno IX) Pietro Bota di Bergamo, morì non ancora trentenne, dopo breve malattia, per angina difterica, l'il marzo 1875, in Genova. In così giovine età aveva già pubblicato lavori importantissimi sulla Cooperazione, sulle Banche, sulla emigrazione. (Principii di scienza bancaria, istoria delle Banche ecc. ecc.). Professò per alcuni anni l'economia politica nella scuola tecnica di Chiari, per la statistica nell' Istituto tecnico di Milano, e da ultimo all'Università di Genova, dove morì. La troppo acerba di lui morte fu esemplarmente deplorata da'suoi allievi, dai professori colleghi, da tutta la stampa, e con appositi seritti da Gabriele Bosa e Luigi Luz- zati. Il Saie di Milano, di cui il Bota era assiduo collaboratore, aperse una pubblica ascrizione in favore della povera e derelitta famigliuola; ed in pochi giorni raccolse la somma di lire 12,000 che, secondo la proposta fattane dal direttore Bellini, venne affidata alla Banca popolare di Milano, affinchè la impiegasse in tanta rendita pubblica, con titolo intestato alla figlia Adelaide. _ RELAZIONE presentata al Municipio dal Referente Sanitario D.r Achille Savorgnani. Inclito Municipio! Il sottoscritto crede cosa utile l'insinuare a codest'Onorevole Municipio il prospetto tabellare qui annesso risguardante le cause di morte dei decessi durante l'anno 1877 ed il numero dei morti disposti a seconda della loro età. Dalla prima tabella rilevasi essere 400 il numero dei morti in complesso, dai quali sottratti 75 spettanti alla locale Casa di pena, spettano alla popolazione del Comune 325. Calcolata questa a 7000 anime, la mortalità risulterebbe di 46.43 per mille. Dominarono durante l'anno sporadicamente la scarlattina, il tifo, il croup, la difterite, il morbillo e la pertosse, accompagnate anche da alcuni casi di morte. Fra le cause di queste predominarono la debolezza congenita in fanciulli al di sotto di un anno, le malattie infiammatorie degli organi respiratori, la tisi polmonale, il marasmo senile ed il marasmo infantile che comprende la consunzione e la tabe infantile. Dalla seconda tabella rilevasi che l'età che offerse maggior contingente di morti fu quella dalla nascita ad un anno, a cui segue quella da un anno a cinque, formando assieme la cifra di 201, equivalente a più della metà del numero totale dei morti spettanti al solo Comune. Capoditria, 18 Gennaio 1878. Prima tabella dinotante le cause di morte nei decessi durante l'anno 1877. Nati morti 8 — decessi per morte naturale: debolezza congenita in fanciulli al di sotto di 1 anno: 100 — scarlattina 2 — tifo 18 — tosse convulsiva 13 — malattie infiammatorie degli organi respiratori 27 — tisi polmonale 27 — catarro intestinale 22 — degenerazioni cancerose 2 —■ marasmo senile 35 — idrope anasarca 10 — epatite 2 — malattie del cervello 15 — epilessia 1 — gastro enterite 3 — meningite cerebro spinale 4 — apoplessia 7 — croup 5 — angina difterica 5 — vizio al cuore 3 — consunzioni 20 — tabe 36 — idrotorace 2 — febbre puerperale l — nefrite 3 — albumi-naria 3 — artritide 1 — morbillo 7 — sincope 6 — malattie dell'utero 2 — dissenteria 5 — tetano reumatico 1 — anemia maligna 1. — decessi per morte violenta: lesioni accidentali 1 — suicidio mediante arma da fuoco 2. Somma 400. Seconda tabella che dinota i morti durante l'anno 1877 specificati a seconda della loro età. Dalla nascita ad un anno: 114 — da un anno a cinque 87 — da 5 a 10; 9 j — da 10 a 15; 3 — da 15 a 20; 15 — 1 da 20 a 25; 23 — da 25 a 30; 24 — da 30 a 35:17 — da 35 a 40: 15 — da 40 a 45: 8 — da 45 a 50: 6 — da 50 a 55; 5 — da 55 a 60: 12 — da 60 a 65: 9 — da 65 a 70; 16 — da 70 a 75:6 — da 75 a 80:12 — da 80 a 85:3 — da 85 a 90: 6 — da 90 a 95: 2 — Nati morti 8 — Somma 400. Beneficenza. — L'affitto del proprio palco, non frequentato dalla famiglia de Fa-vento per lutto, ella lo trasmise al fondo intangibile Vedove ed Orfani della Società Operaia. Teatro Sociale. — Lunedì sera fu 1' ultima recita: fu data La buona moglie fa il buon marito del Castelvecchio, commedia bellissima; e la compagnia ricevette alla fine del trattenimento il saluto di una triplice e fragorosa salva di applausi. Di quanto di- cemmo, una cosa sola dobbiamo modificare, dobbiamo cioè accagionare chi (come era suo obbligo di usarla) non usò uua compiuta vi-gilaza riguardo alla decorazione. Rarissime, forse tre o quattro sole, furono le sere in cui le porte della scena ebbero cortine, l'ornamento tanto acconcio a renderla graziosa, e che concorre ad agevolare l'illusione; per conseguenza si vedevano traballare le porte da ogni uscita di personaggio commosso o irato. E uno solo fu Io specchio (e bruttino) della stagione ; in guisa che, per esempio, Lorenzino dei Medici, madama Goldoni e le signore dell'epoca attuale si guardarono nello stesso specchio. Sono piccole trascuranze, è vero, ma è pure piccola d' altronde l'opera per toglierle, attesa la vicinanza nostra alla grande città, a cui la compagnia, in caso di bisogno, può e deve anzi spontaneamente ricorrere o venirne obbligata. — Due veglioni pubblici e mascherati (ossia, come alcuni sogliono chiamarli, due fiere di cuori) chiusero, secondo il consueto, il periodo carnovalesco, offrendo occasione (specialmente nel primo, perchè poco numeroso) a chi si diletta di dare frequenti saggi della graziosa calligrafia de' suoi piedi, di potersi scapricciare alla lunga. Vi regnò ordine perfetto. II corpo accademico dell'università di Londra deliberò con voti 242 contro 132 di accordare d'ora innanzi anche alle donne il diritto di frequentare tutte le facoltà e di godere tutti i diritti accademici, tra' quali la laurea. _ Bollettino statistico municipale di Febbrajo Anagrafe — Nati (Battezzati) 23 ; fanciulli 12, fanciulle 11 ; — morti 25 : maschi 9 (dei quali 3 carcerati), femmine 5, fanciulli 5, fanciulle 6.— Matrimonii 13. — Polizia. Denunzie in linea,di polizia e-dilizia 2; in linea di polizia sanitaria 1 ; per apertura di caffè ed osterie oltre 1' ora di polizia 6 ; per furti 2; per offese reali e minaccie 3; — Arresti : per furto 1 ; per ferimento 1; per scandali e vagabondaggio notturno 1. — Sfrattati 18. — Usciti dall'i, r. Carcere 17; dei quali 5 Istriani, 5 Dalmati, 1 Tirolese, 3 Triestini, l della Carniola, 1 dell'Erzegovina, 1 della Stiria. - licenze: per apertura di esercizj 3, d'industria 1, per balli 4. — Insinuazioni di possidenti per vendere al minuto vino delle proprie campagne 8; per Ettol. 96, lit. 60; prezzo al litro soldi 40. — Certificati: per spedizione di vino 83; Ettol: 127. lit. 45. — di pesce salato, 3; recipienti 11; Chil. 495 (peso lordo) — di olio 3; recip. 5; Chil. 902(peso lordo).— Animali macellati Bovi 56 del peso di Chil. 12172 con Chil. 1056 di sego; — Vacche 4 del peso di Chil. 676 con Chil. 44 di sego — Vitelli 34. — Castrati 1. NAVIGAZIONE A VAPORE GIORNALIERA FRA TRIESTE-CAPO DI SPRI A col piroscafo GIUSTINOPOLI Col giorno 1 Marzo 1878, fino a nuovo avviso, verrà attivato (tempo permettendo) il seguente: ORARIO partenze nei giorni feriali: Da Trieste per Capodistria I. corsa alle ore 11 ant. H" r » » 5 Pom Da Capodistria per Trieste I. corsa alle ore 8 ant. II. „ „ „ 3»/* pom- partenze nei giorni festivi: Da Trieste per Capodistria I. corsa alle ore 11 ant. II. „ „ „ 61/4 pom. Da Capodistria per Trieste I. corsa alle ore 8 ant. II. „ „ „ 5 pom. Prezzo di passaggio Per ogni persona indistintamente soldi 40. Kagazzi sotto i 12 anni soldi 30. H punto d'arrivo e partenza in Trieste è il Molo s. Carlo, ed in Capodistria il Porto. Trieste, nel Febbrajo 1878 L'IMPRESA Corriere dell' Amministrazione (dal 22 p. p. a tutto il 6 corr.) Trieste. Federico de Verneda (III anno e I sem. del IV) ; Prof. Edoardo Visentiui (lì sem. del III anno.