iiigS-fčSifGSifc PROGRAMMA CAPODI STRIA TIPOGRAFI A COBOL '& PRIORA 1891 PROGRAMMA DELL' I. R. GINNASIO SUPERIORE DI CAPODISTRIA CAPODISTRIA TIPOGRAFIA COBOL & PRIORA 1891 Considerazioni sulla poesia popolare in generale, con ispeciale riguardo a quella della Grecia moderna, per cura del direttore Giacomo Babuder. Parte Seconda: Notizie intorno al Ginnasio pubblicate dalla Direzione. ! Sa ■ o j. $ •* v* .VV ■ Ou*v / Edit. la Direzione deli’ i. r. Ginnasio. CON SI DE RAZ IONI sulla POESIA POPOLARE IN GENERALE con ispeciale riguarflo a pila della GRECIA MODERNA Io amo il volgo profano. Gli accademici non odio, ma mando lontano da me. Per questo nome intendo gli accademici dalla nativitä, che ali’ erba novella e all’acque correnti prepongono le seggiole di velluto verde e il picchiar degli applansi. Chi-unque altra poesia non conosce che qnella dei libri stampati, chinnqae non venera il popolo come poeta ed ispirator dei poeti, non ponga costui l’oc-chio su questa raccolta, che non ö fatta per lui. La condanni, la echernisca e l’aviemo a gran lode. Nie. Tommanao (Intvoduzione alla sna raccolta di canti popolari toscani, corsi, illirici, greci. Venezia. 1841). Nell’ etä nostra ehe si rapida corre ed agitata, non e facile raccogliere lo spirito infatuato di stupore e di ammirazione di tante cose nuove e guadagnare la calma e la serenitä, di pensiero, ehe si richiede per risalire dagli effetti che sorprendono alle cagioni prime che li produssero. E giä molto se c’ inchiniamo riverenti dinanzi a quella sapienza ehe stilla, colla forza d’ indiscutibili as-siomi e veritä comprovate da secolari esperienze, in quei proverbi popolari, la cui raccolta completa costituirebbe, a dire del Tommaseo, dopo la bibbia il libro piü gravido d’idee: per tutto il resto, go-dendo dei beni dello spirito, che ci vediamo innanzi beli’ e ammaniti, colla prospettiva seducente di acquistarci una bella coltura a buon prezzo, non ci curiamo di riflettere al lungo lavorio preparatorio dei secoli che ci precedettero, alle origini dello stupendo sviluppo di civiltä cui assistiamo. Non altrimenti di chi da umil loco salito in alto, per poco non isdegna e schifa di pensar alla sua origine; e baldo di opulenza ereditata, sfoggia in lusso di vestimenta e cocchi dorati, dimentico della mano incallita del padre o deli’ avo cui e debitore di sue sorti; noi cogliamo i frutti di una civiltä, senza pensare al secolare lavoro della mente umana, ehe agiva e creava tra il popolo molto innanzi ehe i mezzi ed il prestigio deli’ arte ne manifestassero le ascose potenze fecondatrici di tutte le opere civili. Ciö vale non solamente per quelle che piü ristrettamente chiameremo arti dei bello, la cui intuizione piü genuina ö dono dei popolo; ma anche per quelle arti varie e scienze, che hanno per loro fine diretto 1’ Utile. II primo incentivo venne da quello spirito sereno di osservazione, che si riflette luminoso sopra i grandi pensatori, i quali piü da presso ritraggono 1’ impronta del popolo da cui sorgono e ne fissano le idee e le attitudini particolari d’ingegno, per arricchire man mano il retaggio civile deli’ umanitü. Ad illustrare queste idee cooperano oggidi valenti ingegni nel campo della storia: il lavoro ž diviso, mala traccia e la stessa, identico lo scopo, di apprestare cioe la materia alla piü grande delle storie, quella dell’ umano incivilimento. Ora venendo ad una parte di tali studi e precisamente a quella, die, per esser modesta e men favorita di applausi, non e meno utile e feconda di civile interesse, la quäle si prefigge il compito di strap-pare all’oblio i prodotti dell’estro e dell’ imaginazione popolare; non possiamo a meno di rendere tributo di affettuosa riconoscenza a quei grandi letterati, che primi applicarono Tanimo a tal genere di studi letterari. Questi non meritano bene soltanto dell’ arte poetica e della letteratura, ma del progresso civile in generale, come giä il confermarono Platone e Cicerone, asserendo concordemente «esser cotanta 1’ attinenza tra i canti e la morale di un popolo, da non potersi mutare le leggi musicali senza mutare le civiliv. Nell’ ac-cenno ai pregi molteplici della poesia popolare ci studieremo di farne risaltare il valore, appoggiati al giudicio di sommi ingegni che se ne occuparono con intelletto d' amore. Nei pochi saggi che si cite-ranno qua e 14 nella parte generale del tema che ci siamo proposti, poco ci accadrä di aggiunger del proprio ad avvalorare i criteri di quei benemeriti, che si prefissero lo scopo nobilissimo di riscat-tarli dalla dimenticanza. Non fu l’unica pur lodevolissima tendenza di far cosa utile allo studio delle lettere che guidö distinti scrittori e poeti come un Herder, un Tommaseo ed altri molti alla ricerca di canzoni e versi popolari; ma ve li mosse 1’ardore appassionato di metter in luce un fatto generalmente non avvertito. I canti popolari sono il riflesso genuino delle idee, dei sentimenti, delle passioni, dell’ anima intera, per cosi dire di un popolo; quindi lo studio diretto a metterne in evidenza il valore e studio utilissimo alla storia della civiltä in generale. « Poeta e ispirator di poeti e il popolo ». II Tommaseo, che peragrö 1’ Italia, la Grecia, la Dalmazia, la Serbia, ricreandosi con particolar diletto alle fresche aure di poesia spiranti dalle Campagne di Toscana cosi sfogava le sue impressioni, trovandosi nell'autunno del 1832 appresso il torrente della Lima «Sento per prova quanto sia necessario rinfrescare di quando in quando 1’ingegno e 1’anima, direttamente comunicando colla natura e col popolo. Quando la letteratura si distacca dal popolo, si separa ad un tempo dalla natura, o non la tratta che come un soggetto d’ imitazione mecca-nica, un arnese di mestiere. Nella letteratura letterata non trovi nulla che ti rammenti un bei cielo sereno e variato leggiadramente di chiarore o di nubi, la lieta ubertä delle valli, gli andirivieni del torrente e del poggio, lo stormir delle foglie simile al romoreggiare del fiume, 1’ aspetto del bosco che sotto a tuoi piedi si stende quasi un mar di verdura. La letteratura letterata e un gran piano ma-gnificamente coperto di un bel manto di neve. La ragione perche certi letterati hanno una vena di pazzo, e 1’ uguaglianza degli og-getti tra i quali si aggirano. Qual maraviglia so in quella vita le fantasie si dissecchino, 1’ invenzione si sfrutti, lo stile a poco a poco avvizzisca? Si creano intorno, a forza di barriere, una gran solitu-dine e in questa solitudine cornandano all’ ingegno ehe canti, come uccello nel deserto. La veritž. e dappertutto come la luce: basta non chiudere gli occhi. L’ uomo e circondato di afletti e d’ idee, ehe a viva forza lo portano in alto. E ella colpa della natura s’egli si carica di pesi di piombo, per ben tenersi col ventre alla terra?» Cosi altrove «E piü facile imitare i lavori sudacchiati deli’ arte che il soflio deli’ ispirata natura . . . Dal popolo apprendasi a spedita-mente mandar fuori il concetto che s’ ha dentro, e non lo rivolgere in immagini, quasi mummia in fasce e in casse, o, detto quello che s’ aveva a dire, fermarsi. E godo che la bellezza di questa vergine poesia sia in Italia subito intesa, sentita; che piaccia alle donne; che i disamorati delle rime accademiehe si lascino da questa via ricondurre alle dolcezze della parola spirante ne’ numeri quasi marmo scolpito in immagine umana. A taluni le ripetizioni par-ranno soverchie; ma le sono meno, che nel Petrarca e nelle scimmie di lui». Cosi il Fauriel, entusiastico ammiratore e fino interprete dei canti della Grecia moderna: «La poesia popolare non ha nome di autore o 1’ ha finto, prova che non per vanitä compongono, ma per bisogno del cuore commosso; e ehe il premio piü caro del canto gli e il canto stesso. Versi d' ispirato concetto e di linguaggio ma-ravigliosamente consonante al concetto, non sai se sien opera di un pastore, d’un zappatore o d’un operaio, d’una povera vecchierella; ma quasi certo di chi non sapeva leggere, non sapeva misure di verso, e cantö perche non ne poteva a meno, perche non sapeva parlare altrimenti» — Ed il Visconti, nella prefazione ai nuovi canti popolari raccolti dal popolo delle province di Marittima e Campagna: «I canti popolari strettamente legati all’indole nazionale, alle condizioni dei luoghi, allo stato del costume, al grado di civiltä, meritano 1’ attenzione del filosofo. Osservabili per quella espressione che viene spontanea a ciii sia veramente commosso, danno a vedere un misto sempre interessante di comune e d’insolito, d’ordinario e di nuovo. Ispirati intieramente dal cuore, ne palesano i due pre-potenti affetti, l’amore e lo sdegno. E li palesano con quella energia, che fa uno il sentire e lo' esprimere. Sotto un cielo mitissiino, fra il variato spettacolo di una natura sempre bella e sempre benefica, dotati di un linguaggio tutto poesia, inchinevoli all’ entusiasmo, gl’ Italiani abbondano di popolari canzoni, che prese a prestito dai buoni scrittori, o dettate da aleun bardo occulto, o sorte da nativa vena d’ ingegno, sono ad ogni modo, o per creazione o per adozione, cosa del popolo . . . arditissimi ne sono i modi pieni di nerbo e di vita. Notabile e principal differenza fra questi versi e quelli di una poesia, a dir cosi calcolata per 1’ effetto che abbia a produrre negli altri, dove ben si conosce, meglio che dal cuore, partir dalla mente le cagioni dei movimenti e colori poetici, tutti volti a risve-gliare il comune applauso». Rapito dali’ incantevole bellezza di un canto greco, nel quäle una giovinetta abbandonata, sfogando il suo dolore con imprecazioni a chi la tradi, d’un tratto s’arretra, come inorridita al truce spet-tacolo delle sventure che gl’iuvoca, e tinisce col sentirne viva pietž, e rinascente amore fino ad esibire il sangue del cuor suo per sal-vare 1’ amante, « Kat av 0=).Tj aiaa rcdpsre hv. djv xapSta [i.v) » il Tommaseo non puö tenersi dali’erompere in questa esclamazione: « Guai a chi tali bellezze non sente. S’ impara piü ehe dallo studio delle odi di Pindaro. Bestemmia. — Mi scaglino gli accademici le maledizioni loro; chö certo non saranno ne tanto affettuose, ne tanto pudiche quanto queste della povera greca abbandonata ». Certamente non e dato di sentire le native bellezze di una poesia semplice e schietta, ehe sgorga dal cuore e direttamente va al cuore, se non a chi ha 1' animo temprato al senso del bello, anche spoglio di fregi e dei vezzi deli’arte. Questa puö bene adornare il concetto e la forma dei dire, ma non riesce sempre a toccare il cuore, a destare una commozione sincera e profonda. Le cittä hanno pregi d’altra forma e valore. Nel tramenio e fra i rumori della vita cittadina agitata da tante eure, vincolata da mille riguardi a questa o quella esigenza dei civile consorzio, indarno cercheresti la serenitä di mente e la calma di spirito, da cui emanano l’espansioni di affetto, che tanto si ammirano nelle canzoni popolari. 1 poeti e i letterati cittadini si aggirano entro una cerchia d’ idee che i rudi e schietti poeti del popolo di campagna non conoscono. L' espres-sione dei sentimento riesce quindi nelle poesie popolari libera affatto, senz’ ombra di artifizio, di sforzo, di affettazione, di manierismo e delle altre risorse che 1’ arte adopra talora a puro scopo di efl’etto. Primo maestro di poesia e il popolo. Poesia popolare e poesia culta sono tra loro strettamente connesse, e si puö dire, che la prima sia come 1’ alvo in cui si feconda la poesia letteraria; seb-bene questa se ne discosti talor fino a dissipare affatto le impres-sioni della sua origine. Questo concetto di ammirazione d’un’arte che non e arte, ma un riflesso, un’ imrnagine fedele delle creazioni di natura, non si puö esprimere con maggior efficacia di quello il facciano gli studiosi appassionati di popolare poesia. « Giudicare un popolo, dice il Tommaseo, dalle cittä e dalle terre grosse e im-probitä stolta, se non leggerezza. Nel popolo son mirabili la sem-plicitä., la pietä, la tenerezza, il pudore, quelle modeste vir tu dei di di lavoro che fanno tollerabile sole e vita; ma per apprezzarle in altrui, conviene un poco sentirne in se la dolcezza, conviene saperle scoprire nascose sotto a pregiudizi e difetti talvolta spia-centi . . . il commercio diffuso e le strade aperte non sono di per se civiltä; siccome la virtii e la fede, cosi la ricchezza e il sapere possono essere nelia faccia esterna delle cose, e bugiardi ». II popolo non istudia ne medita sul come esprimere ciö che sente. Un’ idea che gli balena alla mente, un’ impressione che riceve, un’ emozione d’ anirao ehe prova, or lieta or mesta, ehe ’1 solleva o rattrista, lo esalta od avvilisce, ratto esprime e sfoga con espro.s-sione eh’ erompe pronta dalla commozione intima, senza studio o scelta di parole e frasi. E’ si puö dire ehe affetto e parola sorgano ad un tempo ; ehe racconti o canti le sue gioie, i suoi dolori per istimolo di natura, perche non ne puö fare a meno, come di respi-rare, di muoversi, di vivere. Che i primi pregi adunque d’ogni vera poesia, come sono la spontaneitä, la naturalezza, spicchino sovra ogni altra nella popolare, e cosa evidente e spiega 1’ ardore onde furono accesi sempre i grandi artisti, siano poeti, pittori, scultori, d’ ispirarsi all’ unico modello di bellezza e veritä ehe offre la natura. Spiega pure, come in Italia recentemente, quasi a rifarsi del danno avuto da lunga trascuranza di quella fonte poetica, distinti letterati e serittori, come arrossendo d’ esser stati preceduti da valenti in-gegni alemanni che ne tracciarono la via nel loro stesso paese, siansi messi con febbrile ardenza a far incetta di canzoni popolari, affine di rilevarne le bellezze e gli esempi, a lume e guida della vera scuola poetica. Egli e certo ehe la poesia popolare rimpetto alla letteraria perde del suo effetto, se si raffronta la sua veste semplice, il suo verso' disadorno e talora inarmonico, collo sfai’zo di colori deli’ ar-tistica tavolozza, col ritmo studiato e la cadenza misurata del verso colto; ma nessun prestigio d’arte, nessun lenocinio di forma pos-sono dar vita al carme, se questo non e veramente ispirato dal soffio di natura, se non risponde ad un affetto sentito, se non vibra di vitalita propria, se non ci fa fremere o gioire toccandoci il cuore, se non ritrae fedelmente il eoncetto e la passione di chi lo detta. « Una delle radicali differenze (osserva il Rubieri — Storia della poesia popolare italiana. Firenze. Barbera, 1877) esistenti tra la poesia letteraria e la popolare si e questa, ehe nella prima e la la parola che domina, e eoi suoi prestigi minia per cosi dire 1’idea e sviscera il sentimento ; nella seeonda invece domina il sentimento, ma e latente e bisogna quasi indovinarlo tra la semplicitž, deli’idea e la incuria della parola ». Gli autori delle canzonette popolari non si conoscono. Esse sorgono e vivono neglette talora a somiglianza di quei modesti florellini semiascosi, eh' espandono esilarante fra-granza e brillano di colori chiari, nitidi e piii piacenti delle tinte accese e cariche del fiorame artisticamente allevato llelle serre. « La poesia popolare — dice U Fauriel — non ha nome di autore o l’ha tinto; prova ehe non per vanita compongono, ma per bisogno del cuore commosso; e ehe il premio piü caro del canto e il canto stesso. Versi d’ispirato concetto e di linguaggio maravigliosamente eonsonante al concetto, non sai se sian opera d’un pastore, d’uno zappatore, d'un operaio, d'una povera vecchierella; ma quasi certo di chi non sapeva leggere, non sapeva misure di verso, e canto perche non ne poteva a meno, perche non sapeva parlare altrimenti». E un fatto, che tra la poesia popolare e la eolta e’e molta atti-nenza; che poeti di valore ricorsero a quei prodotti di vergine poesia, per rinvigorire 1' estro, temprare 1’ aniino e attingere ispi-razione dalle canzoni del popolo. Lo conferma anche il Carducci asserendo che una poesia toscana popolare preesistesse a Lorenzo de' Medici, al Pulci, al Poliziano e che da quella attingessero. Yalgane un esempio. Aseolta, donna un po' le mie parole Che d’ogni cosa il savio pensa al fine. Le tue bellez/.e fuggon come il sole Quando s' asconde nelle onde marine ; Ove le son eheste rose e viole, Saranno sterpi e stecchi e poi le spine ; Usa, madonna, tua bella etä. verde Chi ha tempo et tempo aspetta, tempo perde. Ed il Poliziano: Deh, vogli un po' ehe amor me ti consigli. Veduti ho bianchi fior, gialli e vermigli In brieve tempo farsi passi e secchi: E dove furon giä viole e gigli, Son fatti aridi sterpi, pruni e stecchi. E guai a quel che si rifida al verde. Ciö che speme nutrica, il tempo perde. E’ ci accadrä forse di ritornare su quest’ argomento; nia hoji possiamo a meno di aggiungere, che oltre ai citati, imitarono ancora la poesia popolare il Machiavelli, il Bronzino, il Berili ed altri. 1 piü perö, come i Medici, 11011 ne colsero che la parte piü comica e la esaggerarono; altri, come il Poliziano, ne sfiorarono la parte piü gentile, e la raffinarono; pochissimi la presero ad imitare con successo, come il Bronzino, il quäle ci offre begli esempi di centoni poetici, inserendo al principio ed alla fine di ogni terzina di poesia colta uno 0 piü versi di poesia popolare. E pur peccato a non lasciar ir fuore Si bella cosa, o ingrata vecchierella; Non vedi tu, ch’io muoio di dolore? « Questo lo dico a voi, mamina d’ amore Lo vostro fijo non m' ha da lassare, Che si me lassa, moro de dolore ». Chi saria si crudel che non t’ amassi ? « E chi saria quel can, che no te amassi ». Nel terzo periodo che comprende i secoli XVII0 e XVIIP, il distacco fra le due poesie divenne sempre maggiore; ma nel quarto periodo ch’ e 1’ attuale, s’ inaugurö il culto della poesia popolare italiana. Elettissimi ingegni di tutte le nazioni frugarono gli archivi, le biblioteche, i tuguri, i campi, le foreste, le capanne per sottrarre all’oblio le poesie del popolo minacciate dall’irruente predominio di materiali interessi deli' etä nostra. Non deve recare stupore perö, che a tali studi non siasi sempre annesso il valore che hanno; che anzi siansi vilipesi adirittura e scherniti e poco meno che avuti a noja e schifo da poeti che vivono d’accatto e lavorano d’intarsio; se ne giudicö con isprezzo, chiamando gl’ intonsi versi della musa popolare « horridus numerus, grave virus » quel grande maestro di carmi torniti che fu Orazio, il poeta dal cuor adiposo, ma dal senso artistico squisitissimo: se lo stesso Dante si scusa nel suo Convito di usare la lingua volgare; se Petrarca, il forbito scrittore di so-netti e canzoni d’amore, pur cogliendo qua e lä qualche gemma poetica tra la scoria dei versi popolari, ne ostentö sovrano disprezzo o se ne servi nelle frottole ehe serisse, desunte dal popolo, come quelle del Pataffio, per far risaltare la precisione e 1’ eleganza delle sue al paragone della strampalateria e ruvidezza delle poesie popolari, « Chi gli avesse detto, serive il Rubieri, che dopo sei secoli la poesia sbertdta nel suo centone sarebbe stata integralmente stam-pata come la sua, e ehe i critici della vaglia di un Tommaseo avrebbero paragonati inolti versi suoi con quelli del popolo e talora pronunziata una sentenza propizia a quest’ ultimi!... ». Del resto il Petrarca non va imputato di fumosa albagia; giaeche in tutto il medio evo la lingua volgare non era estimata dalle persone dotte e colte, le quali serivevano latino o parlavano una lingua piii scelta e regolare di quella del basso popolo, da cui toglievano talora qualche saggio di buona, sebbene ruvidetta poesia e la traducevano nella lingua colta. Oggidi ferve piü ehe inai lo studio della poesia popolare e se ne comprende e apprezza il valore, al quäle, se manca la forbitura letteraria, non viene pereio meno il concetto; ma 1’ interessamento per lei 11011 e nuovo. Molti la deprezzavano anche nel mondo classico, ma ve n’ erano pure di quelli che ne scoprirono le arcane bellezze e i pregi morali e civili ehe conteneva. Di Platone si disse poc’anzi. Cicerone nel «Brutus» esclama: Volesse il eielo che rimanessero tuttora quei versi, clie Catone nelle Origini lascio seritto, essersi cantati dai singoli commensali in lode d' uo-mini illustri, molti secoli prima deli’etä sua!». Ed invero quelle espansioni d' animo schiette e spontanee, ehe si ammirano nelle canzoni popolari e ehe 1’ arte piü tina 11011 e capace di riprodurre con tanta semplicitä di parole ed evidenza d’immagini 11011 sono i soli indizi della vera poesia d’ ispirazione. Altri vantaggi ancora derivano dallo studio delle varie specie di poosia popolare, 1’eroica in particolare, che ci offre il ritratto piü perfetto deli’ indole e del carattere di un popolo, dei sentimenti ehe lo agitano, della sua vita privata e publica, delle sue virtü e dei suoi difetti e pregiu-dizi. Tutta la storia di un popolo e dipinta in quei canti guerreschi. Siccome gli omerici ci danno lo specchio della vita greca ai tempi della guerra di Troia, cosi i canti della Grecia moderna e della Serbia ci rendono viva e palpitante la storia delle viCende liete e tristi di quei popoli nei tempi della loro lotta colla potenza otto-mana. La teoria delle analogie, dei ritorni storici ha in questi fatti e nei carmi che li tratteggiano Ja piü completa illustrazione. Qui come allora lo stesso movente di forti e generosi conati, lo stesso orgoglio e sentimento nazionale, le prove istesse di eroismo ehe sa operare e soflrire, vincere o morire, gli stessi esempi di maschie virtü, d’ immense sventure, di grandi disfatte, di sanguinose rivin-cite. Tutta questa vita agitata e convulsa si rispecchia nei canti nazionali sorti contemporaneamente ai fatti o poco appresso, com-posti per lo piü da ignoti autori e tramandati vocalmente dai rapsodi, ehe ancora oggidi vanno girando di villaggio in villaggio ed esi-larano le brigate, disposando alle corde dello strumento il canto entusiasta delle gesta degli eroi. Eli’ k la genesi stessa, le stesse vicende, ehe precedettero Id collezione dei canti omerici, e la loro riduzione o cueitura che vogliasi dire, in un corpb unito, ehe su per giü trovasi oggidi nelle nostre mani. Ed invero sorprende quanto spreco si faccia di dottrina, quanto sciupio di fina critica, qual vasto corredo di dottrina si spenda da sommi ingegni, massimamente alemanni, per provare su elucubrati volumi un fatto ehe abbiamo li chiaro e lampante nella storia di tutti i tempi e luoghi, ove c’e ricorso delle stesse circostanze, delle stesse collisioni di popoli. Nelle lotte secolari dei greci e dei serbi cogli Ottomani si hanno le prove piü evidenti della coesistenza di fatti e di canti ehe li celebrano. « Le canzoni guerriere — dice il Fauriel — o sono del elefta stesso o dei ciechi che vanno per tutta la Grecia e eonie gli antiehi rapsodi, vivono di armonia. I eieehi specialmente le can-tano». Ed altrove « nei canti eleftici, il selvaggio ardimento del concetto e delle imagini risulta piü netto dalla semplice familiaritä del linguaggio, piü che non farebbe dalle declamazioni rettoriche e dalle adorne eleganze. Gli autori e i narratori di quei fatti, uno spirito eomune gl' ispira, si che quelli, diresti, potevano valentemente cantare a questi valentemente combattere. Non sai se in quei versi o se in quelle imprese sia piü ardente 1’ affetto di patria. Senti in tali armonie l’aria delle montagne e 1’ispirazione venire continua dalle fonti, dalle foreste, da’ massi. Liete montagne, non velate da nevi perpetue. non lontane di lä dove spunta la rosa». Non altri-menti di quello avveniva a’ tempi omerici e prima ancora, quando gli aotSot, come un Femio, un Demodoco, deliziavano gli eroi greci, e col canto delle gesta degli avi gloriosi destavano emulazione ed entusiasmo nel petto dei nipoti; anche nella Grecia moderna non c’era festa, non convegno qualunque di persone nei villaggi, nelle boi’gate o nelle cittä, che non venisse allietato dalla presenza di qualche äotSö?, di solito un vecchio venerando dalla barba fluente, non di rado cieco, come si dice di Omero, il quäle faceva vibrare le corde piü sensibili di chi ’l sentiva cantare od improvvisare versi ispirati e frementi dei piü caldo sentimento di religione o di patria. Cosi fra i canti e le danze, fra le voci sottili di donne e fanciulli disposti all’ allegria ed al giubilo, anche nei piü piccoli villaggi nella ricorrenza della festa dei patrono, si faceva cerchio intorno al cantore de' fatti guerreschi, degli atti di valore de’ prodi campioni o pallicari, come li chiamavano. Tale era p. e. il vecchio Savogiani in sullo scorcio dei secolo passato nella Tessaglia ed altri molti, come quei semplice e rozzo contadino di Creta, che non sapeva leggere n& scrivere, ma aveva un dono prodigioso di memoria e recitava colla facilitä di chi legge, tutte le leggende poetiche aventi per soggetto l'esaltazione d'un campione cretese, lo Stratoverga. II nome degli autori di tali versi popolari non si scoprirä forse mai. « Nell’ammirare tanto inaspettata bellezza — dice il Fauriel — spiace in sul primo non conoscere gli autori, a cui rendere nomi-natamente tributo d’ammirazione e d’affetto; ma il dispiacere e poi vinto da ammirazione piü alta. Si pensa a questo popolo che continuamente crea e dimentica e ricrea si nobili canti; a questi iafelici ignoti, che nulla sanno altro che amare e patire; a queste moltitudini, che ignare delle squisitezze deli’ arte pur sentono in fondo la potenza di tali armonie ». Nell’ etä dei grandi entusiasmi, in mezzo a popoli di vita semplice, di passioni forti, la febbre del canto accompagna quella deli’ azione. II canto 6 un bisogno, uno alimento necessario della fantasia, un conforto, uno sfogo deli’ a-nima. «Pane delle anime greche — dice il Tommaseo — gli & il canto. Nei monti, suoni di guerra, alteri, semplici, časti. Nelle cittä e nelle isole i suoni di guerra appena ascoltati. Ma quando nelle osterie Greci di varii paesi si trovano a pernottare, allora sollievo e conforto e tessera ospitale e saluto fraterno e cambio d’ affetti gli e il canto. Cominciano i vecchi, poi gli uomini fatti e la gio-ventü; e cosi conducono delle ore della notte gran parte ». Agli aoiSol tennero dietro i rapsodi moderni, ehe a differenza dei loro antichi colleghi, ebbero il compito assai piii agevole, po-tendo colla serittura e colla stampa preservare dali’ oblio quel patrimonio di poesia popolare. E di tali ce ne furono, come il be-nemerito Mustoxidi, che fu largo al Tommaseo di una copiosa raccolta di canti e cosi quel Dionigi Solomos, ch’ebbe 1'idea non felice di pulinie aleuni ed ingentilirli a suo modo, abbellendone la veste popolare con modi e forme desunti dalla lingua colta e raf-finata «Quella poesia, dice il Fauriel, piii commuove, dove e la forma piii semplice, piii potente il sentimento, piii vera 1’ idea. La rende piii efficaee appunto il contrasto fra la semplicitä del mezzo e la pienezza deli’ effetto; e par come d’ ammirare un’ opera della natura. Poesia non ammiserita dali’arte e simile all’aspetto di fiume corrente, di monte selvaggio, di grande foresta. Gli e tanto diffi-cile usare Parte in maniera felice, e fa tanta pena vedere tanta parte deli’ intelligenza umana spendersi in isforzi impotenti, ehe la bellezza semplice piace per questo appunto che 1’ arte non c’ entra. Piii 1’anima e stanca di codesti lavori, dove lo studio ammazza 1'affetto, e piii si compiace nei liberi voli di fresca ed agile fantasia ». Un tipo di vita eroica piii affine ancora all’ omerico ehe il greco moderno, si e quello della nazione dei Serbi, popolo, ehe vuolsi disceso dagli antichi Seiti, retto fin dal settimo secolo da una stirpe di re aventi tutti nome uscente in mir o. Nel 10° secolo, fiaccata la potenza dei Bulgari, sorge potente la nazione serba, ehe dal 12° secolo obbedisce ad una nuova stirpe di re, detta dei Neman idi, sotto i quali di successo in successo, si erge a rivale del-1’impero bizantino, fino a ehe, come sono le umane vicende, affralita e lacerata da intestine discordie vede ecclissarsi la sua potenza e cade sotto il dominio prevalente degli Ottomani. II periodo piu brillante della staria di Serbia e quello che va dali’anno 1334 al 1356, in cui regnö Stefano Dusciano, il campione cavalleresco del valore serbico, ch’ estese di molto il suo dominio e ridusse 1’ impero bizantino a tali strette, ehe Andronico imperatore fu costretto di far ricorso la prima volta a quella potenza terribile degli Ottomani, ch’ era destinata a porre fine alla vita serba e bizantina. E’ si pu6 dire, ehe con Dusciano, il Carlo Magno della penisola baleamca, intorno a cui si avvolge la ricca collana di canti eroici della na- zione, va cessando il prestigio di quella potenza. Essa decade sotto il regno dell’ usurpatore Vucassino, il padre dell’eroe avventuriere Marco Kraljevič e finisce colla rotta memorabile di Cossovo 1389, sotto l’ultimo re Lazzaro Grebljanovic, figlio di un figliuolo naturale di Stefano, che cade colla Serbia e per la Serbia. Assieme a Lazzaro ch’ebbe nome e culto di santo e di martire lasciarono la vita sui campi di Cossovo il giovane valoroso Milosio Obilic, genero di Lazzaro, che lino all’ ultimo anelito tenne occulta a' suoi la soverchiante preponderanza del nemico, acciocche non si sconfortassero dal com-battere; e il vecchio Giorgio Bogdano, che coi suoi nove figliuoli grondante sangue dalla punta della spada fino all’ elsa e dai polsi fino alle spalle, perde prima la forza che la volontä di combattere. Un fuoco fatuo di speranza balenö ai Serbi, i quali, quaudo peri 1’ ultimo dei loro re non altro cercarono che un nome, in cui quei re promettessero risorgere. Essi sperarono di averlo trovato in quel Marco Kraljevič il prode avventuriere dall’animo ardente e dal braccio erculeo, non incapace di alti sensi, come ne aveva dato prova, quando, chiamato a decidere a chi spettasse il regno tra il proprio padre Vucassino usurpatore, e 1’ orfano Urosio, figlio legit-timo ed erede di Stefano Dusciano, s’era pronunciato contro il padre. II Kraljevič rasenta molto da vicino il tipo di quei grandi eroi d’ avventure cantati nell’ epopee romanzesche. Bello, grande, forte, magnanimo talora, ora crudele e sanguinario, sebbene tra le vicende di sua vita avventurosa militi financo quäle campione dei Turchi, non rinnega tuttavia la sua origine e il suo sangue; presta il suo braccio a difesa del debole, sia questi amico o nemico, sbalordisce con azioni magnanime e con ispietate vendette. Intorno alla sua persona si formö una serie di miti, leggende grandiose e i'an-tastiche, che ricordano quelle di Orlando, di Ruggiero e di altri corifei del ciclo franco medievale. E un campione per cui i suoi sentono a vicenda ammirazione e ribrezzo, che viene dipinto come un mangiatore di prima forza, come un eroe fatato, che insegue per aria una Vila che lo aveva ferito, che squarcia il petto all’ al-banese Musa e vi trova tre cuori, sopra uno dei quali scopre una serpe dormente, che si guarda di toccare per non perire di morte vaticinata. La favola lo l'a vivere trecento anni, poi addonnentarsi tranquillo e aspettare il giorno predestinato al risveglio. Intanto si sente tratto tratto nitrire per 1’aria il suo cavallo; si rammenta il suo testamento, nel quäle consacra gli ultimi suoi pensieri alla patria, dopo ucciso il suo cavallo pezzato e infranta la sua spada, come Orlando ; si ricorda 1’ ultimo suo legato ai ciechi cantori che lo rammentino alla sua patria. Con lui disparve 1’imagine dell’an-tica monarchia serba, ma ne vivono le memorie nei canti nazionali, nelle poesie eroiche, dette davorije, da Davor dio della guerra. Queste poesie tengono dell’ epopea piü forse delle greche; alcune passano i mille versi. C’ e poi in esse una nota che le rende oltre-modo simpatiche; la nota d’ amore, che suona dolce e soave, e tempera 1’ effetto truce delle scene di lotta e di sangue. Nella poesia eroica dei Greci moderni la nota dominante, il patriotismo disperato, invelenito di odio contro un nemico di fede, di costumi diversi, fa vibrare, si puö dire, unicamente la passione di guerra e lascia un campo limitato agli affetti gentili deli’ animo. I canti nazionali sono 1’ eco delle glorie e delle sventure dei Serbi, 1’ espressione genuina della loro vita, del loro culto per ogni virtu publica e domestica, civile e militare, della fede religiosa, della p robiti tra gli amici, della generositä verso i neinici, del sentimento nazionale. Essi of-frono soggetti parecchi di riscontro coi campioni omerici, come quel Milosio Vojnovič, il Patroclo serbo, ehe avvisato dei pericoli ehe corre suo zio Dusciano, sconosciuto si mescola nel corteggio di lui, e, suo genio tutelare, ad ogni frangente si mostra e lo salva con un’ annegazione non solo la piii animosa, ma anche la piü ag-graziata del rnondo; e quel Marco Miljanovic, terrore dei Turchi, dai quali e considerato come invulnerabile. 1 loro cantori si me-scolano fra i combattenti, come il cieco Visenöiö, ehe nel furore della mischia canta inni marziali, e Savo Martinovič, poeta popolare illetterato, ehe anima i suoi combattendo tra essi. Di rapsodi poi, che conservarono i versi popolari, ävvi ancor oggi 1’ esempio in quei cantori, che nelle feste e nei publici divertimenti fan sentire la loro voce mista al suono dello strumento nazionale, cantando le gesta degli eroi. Ne v’ ha pericolo oggidi ehe i canti si perdano, perche dotte persone ne fanno raccolta o li stampano, come fu il caso del Miošič, di Vuco Stefanovič, del Vidošič, ehe ne fece copia al Tommaseo. Si vede la storia stessa delle vicende subite dalle poesie omeriche, salvate dalla dispersione cui sarebbero ite in preda, per opera dei Pisistratidi; dagli Alessandrini di poi corrette e traman-date alla posteritä, quäle patrimonio di studio di tutte le nazioni civili. Di tali poesie popolari, ehe adunano in se i pregi della spon-taneitä della e vera ispirazione, la civiltä nostra tien conto oggidi accuratamente e provvede con ciö egregiamente alla conservazione di modelli, a cui 1’ arte informandosi, non puö ehe avvantaggiare se stessa. II primo stadio di vita dei popoli e l’eroico, ed eroica e quindi la prima manifestazione del pensiero poetico. Tali poesie sono l’e-spansione della vita primitiva dei popoli nell’etä. eroica. Ne hanno i Tedeschi del sud nell’epopee nazionali dei Nibelungi e del Gudrun, quelli del nord nei canti deli’Edda; gl’Inglesi nelle leggende poe-tiche di Arturo e dei cainpioni della tavola rotonda; gli Scozzesi nei canti di Ossian; i Franchi nel ciclo epico-romanzesco di Carlo Magno e de’ suoi paladini e cosi via. La poesia popolare italiana e essenzialmente erotica, drammatica, satirica. Una poesia eroica italiana in istretto senso non esiste che di riverbero, per le attinenze col ciclo epico-romanzesco del medio evo, ehe di Francia si diffuse in Europa e particolarmente in Italia, ove pero assunse il carattere di una mera riproduzione delle leggende francesi. Queste corsero per 1’ Italia in tutto il medio evo, ed ebbero gran voga nel XII.0 secolo per opera di quei rapsodi, o meglio istrioni italiani, i sue-cessori dei giullari e menestrelli, ehe vengono ricordati anche da San Tommaso d’ Aquino, i qnali aumentarono di poi in guisa, da far ehe di loro si occupa^sero anche i concilii ecclesiastici, ordi-nando al clero ed al popolo di evitare la loro compagnia. II popolo italiano non ebbe ima vita eroica, essendo subentrato quäle legittimo erede della vita civile di quella possente nazione, ehe furono i Romani. Questa potenza era venuta man mano deca-dendo assieme ali’ esclusivo predominio ufficiale e letterario del latino, per dar luogo al cosi detto volgare, che, come ei accadrä di osservare altrove, si parlava in Italia, anche quando Cesare, il terso latinista, seriveva i suoi commentarii, Cicerone tuonava le sue Filippiche e Virgilio componeva 1’Eneide. Questi cenni generali sulla poesia eroica ci credemmo in do-vere di premettere, perch£ dessa e tra i varii generi di poesia po-polare 1’ unico da cui si desume non solamente l’attitudine, per dir cosi, letteraria e poetica di un popolo, il suo tipo intellettuale e morale; ma perche in essa si trova il rillesso storico della vita di un popolo nel primo stadio di sua esistenza nazionale e politica. Volemmo inoltre toecarne fin d’ora; perche nell’esuberanza di materia, che ci siam proposti di condensare in queste pagine, ci šara forza o di omettere a dirittura o di toccare soltanto di volo la copiosa messe di canti popolari guerreschi della Grecia moderna. Or ritornando ali’ assunto nostro di premettere aleune idee sulla poesia popolare in generale, ehe ha caratteri di spiccante affinitä fra tutti i popoli antichi e moderni, sebbene forma, espres-sione e colorito si attaglino, com’ e naturale, all’ indole particolare, agli nsi e costumi, alla fisionomia morale, direm cosi, delle varie nazioni; non possiamo esimerci dal darne qui uno schizzo storico illustrativo, seguendo piü da presso lo sviluppo, ch’ essa ebbe in Italia, il paese piü privilegiato da natura di genio poetico popolare. La poesia popolare e un’ effusione spontanea del cuore umano, che sott’ ogni cielo e fra tutte le nazioni vibra egualmente commosso da varii affetti. Essa e antica quanto il genere umano. Iubal, figlio di Lamec e di Ada, ottava generazione di Adamo, fu padre dei cantanti; e poeti popolari furono Mose, Maria sua sorella, David e nei tempi mitologici il dio Pane e Anfione e Lino e Orfeo e Museo e Fauno e Fauna, la «bona dea». In quanto reggono le memorie piü antiche, maestra e autrice di poesia popolare fu 1’ Etruria coi suoi istrioni, n«on altri in origine ehe poeti e attori popolari. Roma accolse piü tardi e imitö gl’istrioni di Etruria e dali’Etruria riceve gl’inni saliari ed arvali. Numa e considerato come poeta sacro e Andronico e P. Licinio erano autori di canzoni cantate in coro nelle publiche feste. Improvvisatori furono Quinto Remio, Fabio Palenone, Tiberio Claudio Tiberino « gratus populo, et doctus dicere carmina foro ». La Sicilia ebbe il suo Dalni, il suo Diomo e i suoi improvvisatori, Teleste di Selinunte e Maraco e Carmo siracusani. I Dameta, i Menalca di Virgilio, i Laconi e Tirsi di Teocrito sono assai pro-babilmente nomi di poeti popolari adottati di poi dalla poesia idilica d' arte. Di un metro non puö esser naturalmente questione nelle poesie primitive popolari. II metro suppone studio e scuola e regole precise. il ritmo soltanto che in esse campeggia, ed il primo verso ehe invalse e dur6 a lungo, linche le provincie italiane non ne adot-tarono altri piü confacenti al loro senso musicale particolare, si fu 1’ endecasillabo, di cui si trovano tracce anche in una giaculatoria delle tavole eugubine. Teio subokau suboco, Dei Graboni Okriper fisiu, totaper Jiouina. Serfe Martie, prestota serfla Serfer Martier, Tursa Serfia Serfer Martier Fututo foner pakrer pase uestra. «Invocai te grabovio Dio, te invoca Pel fidio monte la cittk eugubina Serbo Marzio e di Serbo Marzio o Prestite Serbia e di Serbo Marzio e Tursa serbia Siate fonti paterni in pace vostra ». Tracce storiche di canzoni popolari romane non mancano, specialmente del popolo in armi, ehe lasciava correre libero il suo estro in elogio, in biasimo o dileggio dei suoi capitani, durante i momenti di autorizzata licenza, cui si davano in braccio le truppe, che accompagnavano il cocchio trionfale di generali vincitori. Di soldati ehe cantano le lodi di Cosso vincitore di Larte Tolumnio, re dei Vejenti vi ha notizia, come pure di canti e versi in lode di Camillo. Dei frizzi e motti lanciati da soldati fra scoppii di cro-sciante ilaritä. al loro capitano, il famoso Giulio Cesare, non occorre di far menzione, come di cosa nota. Piuttosto 6 prezzo d’ opera toccare della lingua, in cui erano pronunciati quei versi ed altri di soggetto diverso, come quelli che si cantavano nell’ accompagnare le spose al talamo od in altre private e publiche feste. Ž un fatto, suffragato dalla testimonianza di dotti romani, come Catone (nelle Origini), Varrone (de re rustica), Cicerone (dial. de oratoribus), ehe il minuto popolo romano, quello della campagna in particolare, parlava fin da tempi antichi una lingua, di stampo bensi eguale alla latina ma di cadenze differenti. 11 popolo pronunziava e per i\ sopprimeva i segni delle conjugazioni e delle declinazioni, come s, m, t e diceva p. e. «Ecce Caesar nunc triunfa que subege Gallia» ecc. Diceva ea per eat, iamo per eamus e cosi via. Se ciö avveniva nei tempi del piü bel fiore della latinitä, quando dominava il clas-sico linguaggio di Roma ingentilito e raffinato dallo studio del greco venuto di moda dopo i Scipioni; non e a stupire se si pro-cedesse di poi in questa guisa coli’ illanguidire e spegnersi della romana potenza, quando il latino veniva limitandosi ognor piu nel-1’uso publico. Si appressavano i tempi, in cui il volgare doveva montare in seggio e divenir padrone del campo, non piü nelle sfere basse soltanto, ma anche come mezzo di espressione del ceto nobile e letterato. II passaggio fu tanto naturale che non occorre di molto senno a riconošcerlo. 1 popoli nuovi sorvenuti a regger lo scettro suiritalia lasciavano qua e lä qualche traccia di loro parlari; ma il loro dominio rapido e fuggevole, il loro linguaggio troppo dissi-mile dali’ italico, i loro costumi differenti e la potenza assimilatrice deli’ elemento latino, sussidiata dali’ ingente preponderanza numerica dei dominatL di confronto ai dominanti, ebbero per effetto, ehe la lingua volgare invigorisse ^Mnpre piü e divenisse organo di vita publica cittadina, se anche il latino curiale teneva ancora il campo nelle sfere ufficiali ed ecclesiastiche. Durante il medio evo la musa popolare non tralasciö di farsi udire tratto tratto a modo suo, in istile rozzetto, se vuolsi, e barocco; ma con vena facile, con ispon-taneitä e vivezza d’ immagini, tanto ehe gli smilzi poeti d’arte di allora, non sapendo fare di meglio, si piacevano di travestire in forme piü civili le concezioni poetiche del popolo. Sappiamo di un vate popolare lombardo, ehe si presentö a Carlo Magno alia chiusa deli’ Alpi; del canto, con cui 1’ arcivescovo di Milano Anselmo chia-mava la gioventü alla prima crociata; dei versi di Guglielmo di Lisciano per l’ingresso di Enrico VI nel 1191. « Tu es illo valente Imperatore Qui porta ad Esculan gloria e triunpho; Renove Tu, Sennor, illu splendore. ecc. Ed una poesia siciliana del 1400 « Quanti homini virili e diligenti 1'atinu di fortuna milli torti Et per contrario a quanti negligenti Ci va lu beni perfini a li porti; Adunca lu sapiri non e nenti, Perdi lu tempu cui n' ha bona sorti. Nel medio evo non c’ era memorabile evento, ehe non avesse i suoi rapsodi. Questi cantavano, come p. e. nel secolo XIY «el ducha d’ Angiö et Costanza so muj&r», esaltando avvenimenti o persone celebri, un costume continuato fino a tempi a noi vicini, come si desume dai versi del popolino di Venezia, in lode di Angelo Emo, vincitore in Barbei’ia. Viva noi, che noi laudemo Viva Sua Celenza 1’ Emo Lerai, lerai, col trapatai Tornaremo a sbarar. La poesia popolare sgorga direttamente da quella vena ines-sicabile, che e il cuore umano; essa rappresenta al vivo i varii moti ed affetti dell’animo, senza studio di abbellire ciö ehe e bello di per se, se risponde al vero; per ciö essa diventa la maestra inconsciente di ogni vera poesia. La poesia d’arte, che discende da quella, ne smarrisce talora le tracce per seguire tipi di bellezza fittizia, ideali vaporosi d’ inebbriante sentimenlalismo, ehe blandisce la fantasia, ma lascia freddo il cuore. Intendiamo dire d’ un’ arte, che non e arte veramente, ma un’esaggerazione della stessa; perche 1’ arte vera, ehe s’ ispira a natura, che « non mente un affetto, ehe in cuore non ha», come dice il Carrer, non e aliena dal riconoscere e ricercare i pregi delle poesia popolare. Questa poträ, forse con-siderarsi con altezza schifiltosa dalla poesia di lusso, tutta fronzoli e leccumi; ma dai veri poeti, dalle persone di gusto non ancora viziato fu sempre estimata e proposta ad esempio di poetica ispira-zione. « La negligenza — dice il Rubieri — nel far tesoro della piü schietta e legittima poesia popolare, anziche diminuire, andö crescendo di mano in mano ehe la letteratura nel farsi piü gonfia, come avviene di tutte le vanitose cose, si fe piü superba, e sempre piü sdegnö di volger un pensiero a quelle vergini fantasie campestri, ch’ essa credeva le piü lontane ed erano invece le piü prossime alla poesia piü vera e piü bella, alla poesia che scaturisce dal cuore ». La poesia del popolo non e soggetta a regole ; essa nasce, non si sa come; si propaga di etä, in etä sempre viva e fresca, segue le vicende del linguaggio popolare qui e i;\ aspro e duro, altrove piü piano e fluido, rasentando talora, anzi a dirittura inserendo forme del parlar colto in mezzo a parole e modi di conio tutto popolare e del dialetto; ma 1’ invenzione e sempre originale e sciolta, talor capricciosa. Si ripele, sparisce, poi ricompare col soggetto stesso svolto in altro modo e ad intervalli di seeoli, come il dimostra 1’ esempio della nota poesiola popolare: Giovane son Pensieri non ho; Mi voglio divertire E moglie non la vo’. Nel secolo XIV la stessa idea si esprimeva cosi: Giovani allegri siam, senza pensieri Che per eavarei alfm le nostre vogli e, Non vogliamo rnai tor moglie, Che chi moglie non ha Puö far sempre a sua posta il bom ba bk. V’ e poi sempre un’ analogia di soggetti fra province lontane di molto, che non si sa come combacino talora fino a parere una riproduzione fatta in dialetto diverso sopra un tipo solo e comune. Ciö vuol dire che il sentimento che anima e scalda e lo stesso in ogni luogo, perche dovunque 1’ uomo e soggetto alle stesse im-pressioni, sente, parla, canta come dentro gli detta, e perciö non infinge ne travisa i pensieri e gli affetti che gli nascono spontanei, senz’ ombra di studio e di meditazione. II metro che piü di frequente ricorre nella poesia del popolo e I’ endecasillabo, come si disse, qua e lä, un po’ variato. Nella poesia del Friuli e della Corsica predornina 1’ ottava, che si usa perö anche nella Sicilia. Nella gentil Toscana, il paese piü fecondo di poeti popolari, ove tutto contribuisce a tener sempre desto 1’ estro poetico, e mitezza di cielo e l’indole stessa della popolazione agreste, cui oltre all’ attitudine delle piü felici, confortano all’ allegria ed al lieto umore le condizioni stesse del vivere piü prospere che altrove, pel sistema delle mezzerie che ivi domina; nella gentil Toscana, dicemmo, avvi modi e forme particolari di poetici compo-nimenti. II Tommaseo che fin dal 1828 peragrava quel paese, deli— ziandosi in ispecial modo nella campagna pistoiese, apprese dal labbro di contadini e contadine varie notizie di questo genere. Egli conversö con parecchie persone del contado, colla Beatrice di Pian degli Ontani «la donna dal volger d’occhi ispirato» con altra donna di Cutigliano, detta 1’ Umile, col contadino del Melo, che lo informö del come si usino tra il popolo i ramanzetti e i rispetti, i primi di soli tre versi, i secondi di sei, di otto e di dieci. E quelli che il contadino chiamava ramanzetti, la Beatrice diceva strambotti e i Pistoiesi dicono ancora stornelli, come p. e.: E io degli stornelli ne so mille. Veniteli a comprar, ragsi77.e belle; Ne dö cinque al quattrin, come le spille. ' Avvi ancor esempi di canti araorosi storici e sacri, il cui metro e l’ottonario; di canzoncine composte di sei versi a mo’ di sestine, ai quali aggiungesi il ritornello. C’e talora l’ottava monca di quattro versi. Quelle di tre o fanno terzetto o corainciano da un quinario che cul terzo fa rima, e il quinario e per lo piü riempitura gentile che prende gli auspici da un flore. 11 numero e sempre soave, non lubrico, ne cadente e del metastasiano piü vario. La poesia veneziana ha la strofa sua detta vilola a rime accoppiate come p. e.: Canto, si, canto, e si no ghe n’ ö vogia Par che sia alegra e son de malavogia . . . od anclie alternate; la Corsica ha il suo vocero e cosi di seguito. Vi ha poi dei caratteri comuni nella poesia dei popoli meri-dionali meglio intonati a dar espressione tenera e gentile all’amore; perche vivendo in mezzo al fascino di naturali bellezze, sotto un cielo ridente e tra il profumo de’ flori, l’incentivo alla gioia, al canto, al godimento in genere della vita si fa sentire piü vivo che liei paesi nordici; ove la poesia del popolo, spontanea egualmente e originale, risente perö dell’ aspetto de’ luoghi, del clima, delle dure vicende, degli ardui cimenti, cui non si accoinpagna sempre 1’ estro ilare e gioioso die detta i canti gentili di amore. Caratteristico della poesia popolare d’ amore e 1’ uso di certe immagini, di certi appellativi carezzevoli tolti da vaghi flori, da frutti saporiti, da gemme brillanti od altri fenomeni della natura, che ad orecchio abituato alle frasi leziose del galateo galante delle cittä suoneranno forse ridevoli e grotteschi. Dessi sono perö gen-tilmente espressivi, per 1’analogia diretta dell’immagine coli’idea che si vuol enunciare; e pella sinceritä del sentimento che li detta, palesano la rispondenza della fräse coli’ affetto da cui deriva, assai piü efflcacemente di quello il facciano gli svenevoli complimenti dei vagheggini di cittä. La persona ainata e, a seconda del sesso, ora una rosa, ora un giglio, un garolano, un flor di basilico, di pisello, ora una ciliegia, una fragola, ora zucchero, or cannella, or miele e latte, or farina, or malvagia; poi diamante, perla, rubino, or la stella Diana e simili. E certe frasi comuni ricorrono pure in cosi fatte poesie, come p. e. il voto, che il ciel sia tanta carta e il mar inchiostro per signiflcare in iscritto ciö che si sente. Frequentissimo nella poesia italiana e nella greca e 1’ incarico dato o spontanea-mente assunto dagli uccelli di portar messaggi; e la brama di morire e poi risorgere per goder amore, e il parlar ritraente il linguaggio dei flori e apostrofi alle stelle, ai monti, al mare e cosi via. La poesia del popolo, immagine fedele della vita in ogni sua fase e vicenda, varia di concetto e di forma come variano gli affetti che la ispirano. Essa segue l’uomo in ogni stadio di sua esistenza. Interprete fedele deli’ animo umano, ne rispeechia le liete e le tristi impressioni, la foga delle passioni e la calma, 1’ esaltazione della speranza, 1’ accasciamento e la tetraggine della disperazione. Stimolo adunque al verso popolare gaio o mesto, affettuoso e passionato, pungente e satirico, o mite e soave, si e il prepotente bisogno di versare la piena dei varii affetti del cuore. Diversi sono quindi i generi di poesia popolare ed hanno i nomi istessi di poesie affini deli’ arte, che, come dicemmo, derivarono da quella. Innanzi tutto vediamo ehe a due bisogni potenti deli’ animo obbedisce 1’ uomo in qualunque luogo, sotto qualunque cielo tragga la sua esistenza, quello di pregare e quello di esilarare tratto tratto lo spirito stanco delle eure della vita; quindi preghiera e divertimento sono dovunque incentivi a poesia. Di poesie ispirate a sentimenti di religione, a fatti della storia sacra, vi e traccia fin da tempi primi del cristianesimo. Oltre a brevi liriche di carattere religioso, vi ha espansioni poetiche dello stesso argomento espresse in canti, leggende e laudi e rappresentazioni seeniche di fatti ed avvenimenti della storia sacra. Fr a Salimbeni testifica ehe nel 1233 si cantavano poesie sacre da gente del popolo d’ogni sesso, etä e condizione, e che in tutta 1’ Italia era giä comune quell’ uso. In un codice ma-gliabecchiano del XIII secolo si e trovato 1'esempio di laudi e leggende di tal fatta. Le piü antiche sono di S. Francesco d’Assisi, e c’ era a Firenze una classe di persone detta dei Laudesi. La poesia sacra assumeva talora argomento e forma di giaculatorie. Vi hanno pure esempi di cerimonie singolari per solennizzare la festa di un santo. Un cantastorie sale sul palco, dove si erge il simulaero ed ivi declama o canta le lodi del Santo, facendo a gara con altri colleghi ehe dopo di lui ascendono la stessa tribuna, mentre il popolo a /idamente ascolta, e con applauso rimunera la calda parola, 1’ accento, il gesto, 1’ atteggiamento in generale dell’ispirato cantore. Gli assembramenti di popolo nella ricorrenza di feste religiöse diede origine, com’e noto, fin da tempi antichissimi ai capilavori di poesia lirica e drammatica, di cui va superba la Grecia classica. II bisogno sentito di raccogliersi per isciogliere voti ed espandersi in divote preči non esclude quello, innato nell’ uomo di tuffare, in occasioni di feste, nel sollazzo gli affanni e le amarezze della vita. II lieto convegno, 1’ umor festivo ehe aleggia dintorno, 1’ avvicinamento d’ ilare e briosa gioventü porge facilmente occasione a scatti di gioia chiassosa, ehe senza pur trasmodare, come talvolta avviene, in tripudi e bagordi, possono creare tra un popolo di campagna, non ancor affetto di cori'uzione, un’ atmosfera di gaiezza, in cui la poesia sollazzevole trova alimento e favore. Ed ecco spiegarsi da se 1’ origine della ballata, ehe risale fino ai tempi di Aureliano nel 3.° secolo, della ridda e del ballonchio, due danze campestri con accompagnamento di canto, nominate in una novella del Boccaccio. Anche oggi si usano la tarantella nel Napolitano, la furlana e la villotta nel Friuli, la vilota ed il nio fra i Veneziani. Quindi trag-gono origine anche i cosi detti Maggi, poesie d’amore cantate il 1.° Maggio, quando ergesi un ramo dinanzi la porta della persona amata, un uso invalso fino dal secolo XIII. « Nei bei mesi d’ aprile e di maio La gente fa di fior le ghirlandette, Don/.elle e eavalieri d’ alto paraio Cantan d’ amor novelle e can/.onette ». Nel brulichio di gente raccolta a festa, il riso, la celia, il motto, il frizzo, il gioco, il eanto sono manifestazioni naturali d’a-nimo lieto. Cantano i vecclii le canzoni e le arie apprese da fan-ciulli. Questi a lor volta saltellano e sgallettano tra la gente cantando e schiamazzando e tra i loro giuochi ävvene pure di poetici, come questo che usasi anche nella Grecia. I fanciulli giuocano a gettarsi un fazzoletto annodato e clii lo getta nel seno di un altro dice: Uecellin volö, volö Sopra nn albero si posö, E nel posarsi disse .... segue un proverbio. Chi non 1’ h a pronto deve fare una penitenza. Anche i piii devoti di Bacco hanno pronta la lor poesia, come p. e. quella dei beoni di Lucea : ....................Bo — o — b ö Messer nö, che non e fuor d’ ora Si puö stare un altro po'; Ci riman del tempo ancora. Per trincare e far glo’ glo’. I canti carnascialeschi sopra tutto, ehe riflettono 1’ebbrezza della gioia popolare, da chi furono insegnati a Lorenzo de’ Medici, al Machiavelli, al Poliziano, al Pulci, se non dal popolo, ehe aveva i suoi poeti di tal genere di poesia, come il Massa legnaiuolo, Pietro cimatore, Guglielmo detto il giuggiola, il gobbo da Pisa ed altri, prima ehe agli accennati poeti d’ arte venisse in mente di dar forme artistiche a quei sollazzevoli coniponimenti ? Oltre a questi generi di poesia, ehe rispondono, come dicemmo, a due potenti bisogni deli’ animo umano, la preghiera e la ricrea-zione, dvvene altri molti attagliati alle varie fasi e vicende della vita. La poesia accoglie 1’ uomo al suo nascere e ne accompagna i vagiti colle ninne nanne, «Speranza mia, speranza mia de cuore, La mamnia ehe t’ha fatto se consuma; La se consuma e se va consumando E a sto putelo la ghe va cantando. I očeti del mio ben se va serrando Se va serrando, se verze, se sera Femo pase el mio ben, e no piii guerra» ne segue il corso della vita, e il saluta morente col funebre pia-gnisteo. Di piagnistei funebri si fa cenno fin dal secolo XIII. Le computatrici di Roma a quel tempo non erano altro che 1’eredi del mesto patrimonio di poesia lugubre, ehe spirava dai lamenti delle prefiche antiche. Un vestigio di tali pianti poetici del popolo tro-viamo oggidi ancora nel cosi detto «vöcero» della Corsica, una canzone funebre in ottonarii legati assieme in sestine, e cosi pure nel «tribolo» usato in Calabria: Chiangianu li Signori E puru li populani La morti di ’stu giovani Chi non si puö pensari. Non v’ e arte o mestiere, non un genere qualunque di vita ehe non abbia i suoi modi particolari di manifestazione poetica. Neppure gli orrori del carcere, neppure la vita perigliosa e contaminata del bandito hanno forza di attutire 1’ estro poetico. La letteratura poetica popolare della Sicilia abbonda d’ esempi di poesia carceraria, ehe suona or mesta e flebile, or disperata e bestemmiatrice. Anche il brigante ealabrese ha il suo sfogo poetico, da cui traspare spiccato il carattere selvaggio e spavaldo del ramingo predone, cui periglio e rapina ed uccisioni sono elementi di vita. A’ suoi occhi la lotta coli’ autoritä e atto di rappresaglia legittima contro il potere dello Stato, ehe colla forca e col carcere attenta alla sua esistenza libera e avventurosa di re della foresta. La poesia popolare pero piü diffusa e coltivata e la poesia d’ amore, variamente intonata a seconda dei moti deli’animo suscitati dali’ arcana potenza di una passione, ehe fa vibrare le corde piü dilicate e sensibili del cuore. L’ amore e la forza animatrice dominante nella poesia popolare italiana. Ali’amore s’ispirano in gran parte le canzoni popolari italiane, ritraendone con fedele espressione ogni sua fase, dalla tenera e dolče alla focosa ed ardente, dalla carezzevole alla gelosa, dalla fidente alla disperata. Nella poesia italiana pero anche lo sfogo piü violento non eccede i limiti del-1’imprecazione, deli’invettiva, della satira, della pungente facezia: esso lascia intravvedere un forte risentimento, un penoso rammarico ch’ erompe in parole aeri, per una delusione subita, per un godi-mento rapito; ma non spira odio feroce, smania furiosa di vendetta. Un’ eccezione ne fa la poesia corsa, affettuosa pure, ma a tratti, fortemente appassionata, crudele e sitibonda di sangue, com’ e del-1’ indole di un popolo dagli odii di famiglia feroci ed ereditari. Questa poesia e quella della colonia albanese in Sicilia di carattere precipuamente guerresco hanno molte attinenze colla gi’eca moderna, coine si vedra in appresso. L’ amore e adunque la prima tra le umane passioni ispiratrici di poesia popolare. Questa e lo specchio fedele clie ne riflette gli ardori, gl’ impeti, i modi varii onde si estrinseca la sua potenza. Essa assume accento e colorito diiferente, perche risponde ai differenti impulsi ond’ e mossa. E qui giova citare 1’eloquente pittura, ehe fa della passion d’amore il Rubieri, siccome quella, che porge lume a riconoscere 1’ origine dei varii generi di poesia amorosa e delle forme e eombinazioni diverse di ritrno, ehe adopera a seconda deli’alfetto cui dä, espressione. «Dal primo voto d’amore — egli serive, a pag. 176 — al giorno nuziale, quante mai possono esser le fasi per cui la passione e con essa la poesia suoi passare? V’e la timida allusione; 1’ incoraggiamento; la dichiaräzione; il ritegno; il timore; la speranza; la promessa; la gioia; 1’ostacolo; la rassegnazione; la resistenza; il consenso; il sospetto; il rimprovero; il corruccio; la gelosia; la separazione; il dolore; il pentimento; la scusa; il perdono; la riconciliazione; l’im-pazienza; la sventura; il conforto; e talora 1’ infermita, la morte, la disperazione. E ognuno di questi temi secondarii puö dar motivo ad un’infinitä di altri piü secondarii ancora; la casa ove dimora la persona amata; la finestra cui s’ affaccia; la strada per cui passa; il sole che la irradia nel nascere, che sembra salutarla nel tra-raontare; la luna e le stelle che brillano su lei ed in lei; un albero ehe propizio adorna, o importuno asconde il suo soggiorno; il sasso che l'icorda il luogo ove si assise; una semplice foglia ehe si muova dalla parte da cui essa dovrebbe venire; un suo sguardo, un sospiro, un sorriso, una parola .... sono altrettanti subbietti, ehe a lor volta variano ali’ infinito, a seconda deli’ infinita varietä delle cir-costanze ehe possono produrre e delle idee ehe possono suscitare». Quindi hanno origine le varie fogge di poesie popolari d’amore; dalle composizioni piii semplici, meno appassionate, ehe del bello e vago in natura traggono le tinte a pingere 1’ ingenua impressione di amore, quali sono gli stornelli, p. e., « Fiorin, fiorello Di tutti i fiorellin ehe fioriranno II flor deli' amor mio sarä il piü bello » alla poesia popolare passionata, suscettibile di varie gradazioni, come sono le vicende di una passione, ehe nata appena, cresce e si al-larga, ora s’ infiamma, ora langue, or si ridesta e rischiara al mi-raggio di speranza, or affievolisce; or delira e spasima, ora pende incerta e dubbia, per risorgere poi rabida e furiosa o schernevol-mente faceta e mordace. Avvi esempi in copia di ciascuna specie. Di poesia passionata, ecco p. e. una poesia umbra: «M' e slato detto che tu vuo' partire. Specchio deli’ occhi mia ’ndove vuo' andare ? M’ e stato detto ehe vuo’ andare a Roma Mammeta piangerä, e non sara sola; Io piangerö, che il mio cuor te tiene Io piangerö, ehe il mio cuor t’ho dato».... E una veneziana: «In dove xestu sta ehe ti e sta’ tanto O delicato flor del paradiso? üopo ehe ti e sta via go sempre pianto, Da la mia bocca no s’a visto un riso; Adesso ehe ti e venuo, io rido e canto, Me par che s'abbia verto il paradiso» E una friulana: Tu, tu ses tu la mia zoje Tu ses lo mio content; Senza te duquant mi annoje Non hai pas naneh’ un moment. La poesia satirica va dalla fina arguzia all’ingiuria sanguinosa. ln aleune regioni pi'evale la forma faceta e.l’ironica, in altre la sarcastica, la violenta, la imprecativa. Eccone qualche esempio: Siciliana imprecativa, Figghiuzzo, t’ haju un odiu mortali, Mancu lo nnomu ni pozzu sentiri, Ti vorria malettedu a lu spitali, E tri frevi maligni pozz’ aviri.... Umbra faceta: 0 ragazzina dalle belle ciglia, Ognun che passa a un angelo v’agguaglia; Vi voglion tutti, roa nessun vi piglia. Veronese faceta: La mama del mio ben m' ä mandä a dire Che su la grela la ine vol rostire, E mi gho mandä a dir, se la savesse Che sulla grela se rostisce el pesce. Yeneziana invettiva : Conzacareghe ga una bela puta. I denti marzi e la bocca ghe spuzza. El naso longo come una caroba; La saria bela, ma la ga la goba. Romagnola: Se medicn potessi addiventare, Lo vostru male ve vorria guarire, Per no veddeve piü, bella, a penare; E ve vorria comprai 'na medicina De verderame, toscu e de calcina. Evvi poi anche la poesia galante, piü intesa a far un’ osten-tazione di amorositä, che uno sfogo di vera passione: E se la legge (la lettera), e scritta con amore Sigillata col sangue del mio core. E se la legge e scritta con desio Sigillata col sangue del cor mio. E un madrigale : E tu per nome che ti chiami Nina Sempre per Nina te voglio chiamare L’ acqua che ti ci lavi la mattina Ti prego, Nina mia, non la buttare, E se la butti, buttala al giardino Ci nascerä un bel giglio e un gelsomino. Altro genere di poesia popolare e la tradizionale, una varietä della quäle e la memorativa, che si mantiene con stabilitä sorpren-dente, come e il caso de’ proverbi, e contiene pensieri ed idee ripetuti dovunque, se anche in forma un po’ diversa, p. e.: « L’ amor comincia con suoni e con canti E poi finisce con dolori e pianti». La rosade delle sere Bagne el flor del sentiment; La rosade de mattine Bagne el flor del pentiment. 11 paese perö dove piü copiosi e profumati spuntano i fiori della poesia d’amore e la gentil Toscana, le cui Campagne ridenti e i clivi ubertosi son seminati di abituri, entro i quali abita una ma-niera di gente lieta e giuliva, che oltre alle disposizioni piü felici sortite da natura benigna, si mantiene perennemente ilare e briosa per le condizioni del vivere colä piü propizie che altrove. La poesia di questo popolo de’ piii accessibili alle dolcezze d' amore, cui nep-pure lo sconforto delle delusioni puo strappare note tristi, ma al piü una lepidezza, un frizzo acre, un motto arguto e pungente; la poesia, dico, di questo popolo, oltre ad esser in se saporita e pia-cente, si rende in particolar modo prestevole a raffronti con quella del popolo greco moderno. Questo pero, nelle vibrazioni della nota tenera e patetica raggiunge il toscano e lo supera; ma nell’intonazione forte, e nella vivezza ed energia della passione non ha chi ’1 superi. Prima di passare alla poesia popolare greca moderna, non possiamo ommettere alcune considerazioni ancora sulla poesia ita— liana, ehe abbiam eercato di tratteggiare flnora sulle generali. E’ par ineredibile, ma e pur vero, ehe le veritä piü comuni son quelle che 1’ uom scopre da ultimo. Oggidi noi assistiamo al lavorio intenso appassionato di dotte persone, diretto a salvare dali’ obilo della rumorosa civiltä nostra quelle poesie fresche e brillanti di nativa bellezza, che, quali ascose violette fragrantt, per secoli giacquero neglette od appena degnate d’ uno sguardo dalla fastosa poesia letteraria. ’Gli e che si comprese alla perfine, che 11011 e soltanto 1’ arte poetica in genere che si rattempra e invigo-risce rifacendosi sulle tracce della sua origine e attingendo alle limpide fonti d’ ispirazione poetica popolare; ma che nelle canzoni s’ intravvide netto e spiccato il carattere di un popolo, il rifiesso della sua vita intima, 1’ espansione piena e sincera dell’ anima sua. E ben vero, che fin dal 1818 1’ infelice Leopardi cominciö a teil de re 1’orecchio avido alla voce del popolo e si diede a raccogliere canti popolari: e vero che il Tommaseo ne fu invaghito in modo che andava vagando pelle montagne di Toscana, intento a raccogliere villerecce canzoni, quali gli erano tramandate dall’inconsapevole eco di quelle pendici, campo di rozzo, ma non gelido certame poe-tico tra pastorelle e bifolchi; ma non e men vero, che i canti popolari italiani, prima che dagli italiani, furono raccolti e studiati da dotti stranieri come Walter-Scott, Goethe, Körner, Fauriel, e dal Müller, che mori prima di publicare la sua raccolta. Questa fu poi publicata dal Wolf, sotto il titolo di «Egeria» raccolta di poesie popolari italiane, Lipsia, 1829. II Kopisch publicö gli «Agrumi», Berlino 1838; il Witte «italienische Volkslieder» Berlin 1839; il Reumont «toskanische Volkslieder» Berlin 1840. La via aperta dagli accennati illustri forestieri fu poi calcata da una vera falange di eruditi italiani che si diedero tutt’ uomo a far incetta di poesie popolari. 11 lavoro dura tuttodi indefesso. V’e come un’ansia feb-brile di salvare dalla dispersione i prodotti della poesia popolare, cui l’irruente praticismo della moderna civil tä, minaccia di som-mergere. Ecco i titoli di alcune delle principali raccolte; Tigri Giuseppe, Canti popolari toscani, Firenze, Barbera 1856; una 2‘1 edizione 1860, una terza 1869. — Leone Vigo di Arcireale, Canti popolari siciliani, Catania 1857. — Giulio Ricordi, Canti popolari lombardi, raccolti e trascritti con accompagnatura di pianoforte, Milano 1857. — Cost. Nigra, Canti popolari del Piemonte, Torino 1858. — Ant. Casetti, un mucchietto di gemme, Napoli 1866. — Scipione Righi, Saggio di canti popolari veronesi, Verona 1863. — Adolfo Wolf, Volkslieder aus Yenetien, Wien 1864. — Domenico Comparetti ed Alessandro D’Ancona, Canti e racconti del popolo italiano, Torino, Loesclier 1870. Anche un istriano, il prof. Ive rovignese e indefesso raccoglitore di poesie popolari deli’ Istria e cosi tanti altri. Ora venendo alla poesia greca moderna, ci e forza anzitutto descrivere 1’ambiente in cui ebbe vita ed alimento, a fine di rico-scerne il carattere ed apprezzarne debitamente il concetto, il colo-rito e tutte le altre proprietä che la distinguono. II campo e vasto assai e non possiamo che sorvolarlo, perche i limiti ristretti di un programma scolastico non ci consentono di fare altrimenti. La Grecia, il bei paese, cui il Carrer saluta coi versi, . . . . . . Oh Grecia, oh madre Dell' arti e degl’ ingegni; a te s' inchina Italia, a cui tutto s’ inchina il mondo . . . (i la classica terra, ove prima in Europa rifulse la scintilla del genio umano, che due volte irradiö l’occidente, ad accendere in prima, poi a ridestare il sopito amore ed il culto di quegli studi che piü onorano 1’ umanitä, le scienze le lettere e le arti. Sormontata dai gioghi giganteschi dell’Emo nevoso, da cui si dipartono verso il mare in isvariate diramazioni monti e clivi, che segnano distinta-mente le parti del paese, e qui e la abbassandosi, od ergendosi con ardite movenze porgono all’occhio aspetti vaghi e attraenti; col-l’argenteo specchio del mare, che d’ogni intorno ne lambe la costa frastagliata; cinta d’ogni parte da una corona d’isole che riflet-tono nelle acque i contorni ed il paesaggio, or arido e brullo, or vestito di lussureggiante vegetazione; con una configurazione di suolo riccamente accidentata; con seni e golfi entro cui il mare s’ insinua placido ad accogliere il tributo dei pittoreschi suoi fiumi,... la Grecia e uno de’ piü bei paesi del mondo. Essa alberga un popolo privilegiato de’ piü ambiti doni di fantasia e sentimento, il quäle fino da remotissimi tempi senti ripercuotersi nell’ orecchio, — mirabilmente conformato a sentire la musica del bello, —l’eco delle note affascinanti di poesia fervida, ardente, immaginosa, da quelle terre che prime il sole saluta. Iniziatrice ed auspice della civiltä. greca fu la musica, la cui magica potenza sulle masse ci viene simboleggiata nei miti e nelle leg-gende che avvolgono le persone dei priini vati, Museo, Orfeo, Lino, Eumolpo, Anfione. La tradizione ci narra che furono essi i primi a dirozzare le genti, a richiamarle a miti sensi di religione e di vita civile unicamente a mezzo del fascino di una musica soave ed ispi-rata, cui cedevano intenerite ed ammaliate le belve feroci, le piante, gli oggetti tutti della natura insensibile ed inanimata. Lo stesso concetto si riscontra anche nella poesia greca moderna. Siccome al Greco antico tutto che di bello e di grande s’incontra in natura appariva animato e palpitante di vita, anche il moderno si dipinge nella fantasia e campi e prati e selve e laghi e il mare e ogni cosa come vivificata e spirante amore e poesia. Augelli graziosi dalle penne screziate aleggiano fra gli uomini, quali genii benefici re-canti messaggi d’amore e di gioia; altri invece tinti di colore oscuro, come i corvi, son forieri di sciagure. Altrove i cupi anfratti delle selve, dei monti, sono popolati da mostri e draghi, che met-tono nell’ anima arcani timori, immagini paurose ed orribili. Dinanzi a loro si arretra impaurito ogni animo forte; il canto e la poesia soltanto hanno potenza di domarli. Nella raccolta di canti popolari (tpayoüSia po>|j.a’y.ä) del Firmenich-Richartz — Berlino, 1887, Parte II, pag. 118, abbiarao uno dei tanti esempi della magica potenza del canto. La canzone e intitolata «toö [looaixoö 7.ai toö oToty=!ou » del cantore e dello spirito». Gianni, poeta popolare, scioglie il labbro ad un canto dolce, patetico, in inezzo alla campagna, in sul cader del giorno. Tutto e silenzio d’intorno; un manto di neve copre la terra e in quella calma solenne echeggia sonora, ammaliante la voce del vate ispirato. Gli augelli d’intorno si destano; si desta pure il drago e s’avventa contro il poeta. «Perche turbi i sonni miei e della mia sposa? gli grida; io ti vo’ divorare»; ma intenerito dali’ accento di sue preghiere e piii dal racconto che gli fa, d’essere un cantore inviato ad allietare le nozze di due sposi felici, il lascia. Canzone stupenda nella sua semplicitä che ricorda quella bellissima di Uh-land « des Sängers Fluch » ma £ assai piü comniovente. Altrove e l’odio feroce del nemico, che cede dinanzi a poe-tico lamento, cantato da prode guerriero infelice, tratto prigione su turca galera. II guerriero incatenato volge dalla prua il mesto sguardo alla patria che non vedrä piü, pensa a’ suoi cari, alla consorte, ai figli e versa la piena del suo dolore in flebile canzone. La nave si arresta, il capitano nemico commosso 1’esoi’ta a prose-guire e quegli esclama (pag. 153 della Raccolta del Tommaseo): «frepT£ }i£ xö Xotouxo JAOO io BoXsiov, XajJ.TlOOpa JXOO Na x’ ap^Yjvr^aüJ ÖXißfcpd, xal va xa npi£oov, e ’l fa con accenti di dolor si mesti, che il capitano lo libera, il mette a terra e gli dona un cavallo, perche corra a darsi in braccio a’ suoi cari. Da questi e da altri saggi che ci accadrä di citare nel corso di questo studio, si raccoglie ad evidenza, che la vena di poesia popolare che distingue quella nazione trae origine dai primordi della sua vita. Essa corse senza interrnzione pel lasso di tanti secoli di traversie, mantenendosi sempre viva, anche in tempi in cui era, si puö dire, l’unico conforto della nazione, l’unica voce affermativa della sua esistenza. II popolo greco moderno conserva tuttodi non pochi tratti caratteristici del tipo antico. Anzi tutto il vivo, intenso afTetto alla sua famiglia, ai parenti, ai congiunti. II distacco da suoi cari, quando avviene per morte, gli strappa dal petto accenti di mestizia non dissimili da quelli, che ricorrono nelle scene di lutto dipinte da Omero, p. e. nel canto VI v. 410 e ss., od in altri luoghi del-1’ Iliade. Da tali sfoghi luttuosi spira perö sempre il conforto, la speranza di rivederli nell’altra vita; ma non v’ e dolore che ag-guagli la pena d’ animo, lo schianto di cuore, che prova il greco, astretto a lasciare i suoi cari per irsene a vivere in paese straniero, desolato di affetti. Le canzoni dette rpa^ooBia avayiopr^tr/.ä o •/(optTjj.ot, che tratteggiano appunto il duolo affannoso del distacco da persone care, sono una specialitä, direm cosi, della poesia popolare greca. In esse il dolore ha un’espressione di tenerezza assieme e di de- solante sconforto, che strappa le lagrime : vAvot|e, ÖXtßepTj xapScä, y.a'i itcxpa(j.jxevov /eiXt, vAvoe4s, ns; u,ou twcote, v.a’- itapijydpVjae jas. Ilapvjyopia 'y 6 8avato;, y.’ sXevjjj.oauv’ 0 Xäpo;‘ c0 Ccuvxavo; 6 yu.>pia|AÖ; irapr^optäv žev e'/e;’ XaiptC’ vj (lavvct to rcaiži, xa't natžt t-Jjv jAotvvav, Xmpt’CovTat r avSpo^uva, tä .... (Firnienich. P. II. p. 170) (Apriti, cuor desolato, sciogliti labbro doglioso; Apriti, dimmi al-cunche e mi conforta. Morte ha un conforto e di pietä e capace Caronte: 111a non e conforto che allevii la separazione tra’ vivi, quando la mamina lascia il figlio, 0 questi la mamma; quando sposo e sposa si staccano, sposi che svisceratamente si amano...................................). ln altra canzone, che precede quella teste citata, intitolata «iivoz* ci si mette innanzi il quadro di giovane greco, cui vaghezza di ve-dere il mondo spinse a lasciar la patria. Ei prova il vuoto di affetti fra gente estranea, che per lui nulla sente, e pentito anela al ri-torno in famiglia, in mezzo a suoi cari, senza i quali gli riesce incresciosa la vita. Assieme alla famiglia ristretta, il Greco ama con tutta 1’ anima la famiglia grande, la sua nazione, la sua patria, per la quäle sacrifica tutto che ha di piii caro, la vita stessa senza ombra di vanterie, nell’ intima persuasione di non far che un atto di dovere, come se si trattasse della cosa piii naturale del mondo. Ne forniscono la prova i canti guerreschi della nazione, che sono come brani staccati di una grande epopea, che narra i fatti, senza esaltare quasi mai le persone che li compiono. Lo stesso amore ai cui conforti il Greco e tanto sensibile, non ha vezzi per lui, ne at-trattive, quand’e la patria, che lo chiama al cimento. Oggetto di sprezzo, di aborrimento e un capitano innamorato agli occhi de’ suoi pallicari. *. Uccidetelo, gridano, uccidetelo il vagheggino che ci prende 1’ oro e va a sposare la sua biondina. Nostra biondina e la pištola, nostra amante, la spada». « ßapsTte to'v töv xEparäv ßapstte tov tov «ouotvjv « ’Ak'o (iä; itYjpe tö (fXtupta, vot 'navžpst)6^ tijv poöoaav. «. H poöaaa etvat ntaxoXta, xat tö anaöt xovtoöXa! » 11 sentimento di devozione alla patria, che gli e sacro, come sacra e ogni cosa che gliela ricorda, ci spiega la tenacitä, con cui il popolo greco conservö non pochi usi e costumanze che risalgono ai tempi deli’ etä classica della nazione. S’ intende che ciö vale pel popolo greco nel vero senso, per quello che vive discosto dalle cittä e da centri maggiori, nei quali la civiltä mondiale allivella- trice si fa strada dissipando costumi e modi di vita pafticolari, per sostituirvi forme e maniere di esistenza ammodellate dal piü al meno ad mi tipo comune cosmopolita. Daremo qui alcuni di quegli usi, ehe hanno attinenza cogli antichi, facendo capo a quelli, che si ri-feriscono ad avvenimenti iieti della vita. Sponsali. — II matrimonio e appo loro sacro ed estimato tanto, ehe gli {jtfafioi sono sprezzati, e adirittura abborriti, come presso gli antichi ateniesi gli afa^oi. La vita celibe e tenuta in conto di uno sfregio, di una mancanza di devozione alla patria, ehe vuole cittadini probi e intemerati, padri di famiglia, non gente scapola e licenziosa. Siccome a Sparta godevano dispensa da certi servigi militari onerosi i cittadini ehe avevano molti figli; cosi anche tra i Greci moderni son tenuti in pregio i padri di ricca figliuolanza. S. Giovanni e per le fanciulle quello che e S. Nicolo in alcuni paesi deli’ Occidente. Da lui invocano lo sposo. Le ragazze si radu-nano il pomeriggio della vigilia del santo, recando seco ciascuna un pomo, ehe si tuffa in un’anfora piena d’acqua, che vien chiusa e lasciata sopra una terrazza fin dopo i vesperi del giorno di poi. Allora le si raecolgono intorno, cantano un inno al Santo. Ciascuna ha in mano un vasetto con manico, col quäle attinge deli’ acqua dali’ anfora. II vasetto si alza quindi sui pollici dalle donzelle stesse, due per volta, e si guarda da qual parte prima cominci a dondo-lare. Se dalla destra, vuol dire ehe il voto e esaudito. Pel riserbo imposto alle donne in genere nell’ Oriente, le donzelle da marito vengono a conoscenza dei giovani a mezzo delle cosi dette « pro-xenetes» che fanno I’ ufficio d’intermediarie di matrimonii. Fino negli ultimi tempi, non era la sposa che recava in casa del marito una dote; ma, come appo gli antichi, lo sposo doveva guadagnarsi la sua consorte con doni o prestazioni di lavoro a favore dei ge-nitori di lei. Vale poi la massima « si vis nubere, nube pari». Teo-gnide censurava Telesicle d’ aver sposato una schiava, e della stessa taccia si rendono eolpevoli alcuni anche oggidi. L' onta si addossa anche ai figli, che non altrimenti si appellano per dileggio che «figli della serva». La vigilia delle nozxe la sposa si conduce al bagno, accompa-gnata come in trionfo da suonatori e da uno stuolo di donne. Alle nozze, si balla, si suona, si canta. Canti epitalamici dal titolo tpa-YoöSt toö ya[i.ou, ricorrono spessi nella raccolta del Firmenich. ’Avvene uno (a pag. 154 P. II) tutto fiorito di leggiadre e graziöse imma-gini della piü bella poesia orientale; un altro li presso, un vero profumo di poesia, sparso intorno alle persone di due sposi felici. Si canta pure e suona in sulla strada « dinanzi alla chiesa, ove sta per entrare la sposa. Questa incede con occhi bassi e con af-fettata lentezza, con a fianco due donne e due congiunti, tutta carica di ornamenti. In alcuni luoghi essa porta un velo sul capo, di color rosso o giallo per nasconder le lagrime. Una face arde fino al termine delle cerimonie nuziali. L’ uso delle corone nuziali vige tuttora. Esse si conservano fino alla morte. Gli antichi le la-ceravano o consacravano a qualche divinitä nel caso di sepai’azione dei conjugi. Anche la coppa di vino e ancora in uso. II padre della sposa libava pel primo, la consegnava di poi al genero; questi alla sposa, e la stessa coppa si offriva poi ai parenti, a tutti i convitati. Cio avviene con lieve differenza anche adesso. II prete, benedetti gli sposi, porge loro una brocca di vino, poi ai parenti, ai testimoni, ai padrini. Anticamente la sposa non doveva toccare la soglia di casa del marito. Arrivata li, alcune donzelle la sostenevano, e se vi giungeva in carrozza, se ne bruciava 1’ asse. Adesso sulla soglia della porta si mette un crivello con di sopra un tappeto. La sposa vi passa sopra. Se si rompe, e cattivo augurio. II poeta improvvi-satore e i due saltatori non mancano al convito di nozze, come ai tempi omerici, I mariti di oggi, come gli antichi, distribuiscono noci e mandorle ai convitati, in segno ehe fanno getto di tutte le leggerezze e dei piaceri della giovinezza. Per le nozze scelgono un giorno, in cui il cielo e sereno. Le spose ehe desiderano di sapere se sono amate percuotono sulla loro mano una foglietta di rosa. Se scoppietta, sono in festa. Gli usi nuziali offrono qua e la delle differenze. Jn Epiro i genitori degli sposi invitano alle nozze parenti ed amici a mezzo di un bel giovinetto ehe porta loro una bottiglia di vino. Segno di aggradimento deli’ invito si 6 il dono ehe si fa dagli invitati, di un agnello od ariete con nastri e ciondoli il giorno innanzi gli spon-sali. La notte ehe precede, gli invitati dal padre della sposa, si rac-colgono in casa di lei, quelli invitati dai genitori dello sposo si ra-dunano in casa di questo. Tutte le cerimonie nuziali sono accompa-gnate da canti. Si canta nell’abbigliare e velare la sposa; si canta quando sta per uscire dalla casa paterna, mentre si avvia alla chiesa, nell’ atto ehe le si leva il velo. Si canta durante le danze ehe si ianno il giorno stesso ed anche il terzo di appresso, quando le parenti e le amiche vanno colla sposa alla fonte, ov’ ella attinge in una brocca nuova fiammante e di poi butta nella fonte minuzzolini di pane e dolci, per poi unirsi alle Campagne e ballare in tondo. II giorno solenne prima deli’ alba, le congiunte e le amiche della sposa la vestono ed acconciano per bene, e quando arriva lo sposo, la conducono a lui. Qui segue una scena commovente. L’ addio di lei alla mamma e detto con parole rotte da singhiozzi e pianti. Gli astanti piangono, lo sposo stesso commosso : Lasciatela qui, esclama; ed ella di scatto: Nö, soggiunge, vengo, ma lasciatemi piangere. II distacco dalla casa paterna segue di poi fra canti in cui spicca la nota mesta. II Tommaseo raccolse e tradusse, come meglio pote, qualche canzone allusiva a queste scene (pag. 93 della sua Raccolta). Da tricipiti (xptx&ptfia) monti Uno sparviere mosse parole: Posate aure, posate Stassera e un’ altra sera. D’ un giovinetto le nozze si fanno Una fanciulla bionda si sposa.......... Ed un addio della sposa alla mamma dolente: Lascio i salnti alla contrada, e saluti a’ miei; Lascio alla madre mia tre coppe d’ amaro, L’ una la bea di buon’ ora, 1' altra il mez/odi, La terza, 1’amarissima, nei di solenni. Anche la prosa della vita, ehe sussegue alla poesia delle nozze trova la sua espressione, corae p. e. nella seguente canzone intito-lata «Sposa e cognata»; La colombella, la sposa nostra Siede sulla via e canta; E ne giovanetto teme, ne giovane, Ma la cognata fervente Che la fa alzare per tempissimo; Leva, signora sposina, ch' albeggia. Quando impasterai tn i nove pani, Da mandar fuori i pastori E da aspettare altri nove? Altrove, eome nell’ isola di Creta, i membri del corteo nuziale, giunti alla porta di casa, ove ha da entrare la sposa, traggono i loro (jraaaXiSss) pugnali e con essi graffiuno le porte, incidendovi croci e segni preservativi di malanni. Questo costurne data da tempi antichi. 1 Greci antichi incidevano pure sulla parte superiore della porta qualche motto o sentenza, corne p. e. MyjSev slottw xaxöv, «nulla e’entri di cattivo»; il che mosse una volta il cinico Diogene a far 1’ arg uta domanda: «E como fari ad entrarvi il padron di casa?» Tra questi usi e riti nuziali va notato pur questo, il dono cioe di noci miste a sesamo (jj.sXoxapu5ov), simboli di purezza, so-lerzia e feconditä, ehe la donzella porge allo sposo nell'atto ch’ei sta per varcare la soglia di sua casa con lei. Ne offre un esempio bellissimo il canto a pag. 103 della raccolta del Firmenich, ch’e inserito pero tra quelli di origine non prettamente popolare. Esso s’intitola «ol a’icmrpwA» gli amanti, e ci rappresenta una vaga fan-ciulla malata d’ amore. Tre donzelle vanno a salutarla. Una le reca un ramoscel di basilico, 1’altra una pera, la terza che 1’ama sin-ceramente, un fazzoletto di lagrime. Questa la invita a mirar dal-1’ alto di sua casa il giovane (aY7sXo|i/xtY)s) dagli occhi d’ angelo, per cui langue d’amore. Indi la lascia e va dal giovane e gli pai-la della donzella ehe per lui sospira. 11 giovane si schermisce dicendo, ch’ella e troppo timida e restia amante. Un di s’affaccia alla finestra e scorge il baldo garzone, scintillante di drappi preziosi su focoso destriero. «Dove vai?» gli dice, la timida amante. Ed egli: Vo a sposarmi, e se ’1 brami, vien tu pure alle mie nozze, qual paraninfa. « Va pure, gli risponde la donzella con voce languente, e alla tua bella di tutto parla fuorche de’ miei difetti. » Con islancio repentino di affetto il giovane esclama: !Exet a; ’4ožtaoouv xa xapuSta, x’ a; /aXaa6o5v ot K’ e/.«, TjjxetS, xoxouva jj.ou, v a xafiuifiev aY“5lvJv- (Le noci dispensi, a suo piacer, chi ’1 vuole. vadano a monte le nozze; Vieni, o cara, tu sei la mia donna, la delizia mia, amor ci unisca). Dagli sponsali alle danze e breve il tratto: La danza greca moderna ritrae deli’ antica. Questa, com’ e noto, non era un’ arte meramente meccanica, un solazzo, un festevole convegno di persone d’ ambo i sessi, per far pompa di bellezza, di vesti e gemme bril-lanti; ma un’arte nel vero senso, un’ esplicazione del senso estetico insito nel popolo greco, fatta a mezzo di leggiadre movenze ed atteggiamenti della persona ritmicamente regolati e volti a rendere una scena della vita, a costituire nell’ insieme una rappresentazione. Nessun popolo della terra seppe meglio del greco animare la danza, infondendovi spirito grazia e passione. Essa era appo loro una scuola di civilta, un mezzo efflcace di trasfondere nel popolo sentimenti nobili; un diletto ad un tempo ed una palestra di educa-zione civile e patriottica. Essa era una vera azione drammatica, ehe si rappresentava danzando, a suon di mušica e con accompa-gnamento di canto: era a sua volta una commedia, un dramma, una farsa od una satira, uno scherzo, una caricatura di vizii e di-fetti sociali esposti alla berlina pivi temuta, quella del ridicolo. La singolar passione ehe avevano i greci antichi^per il canto e pel ballo, 1’hanno i moderni, i quali, quando ballano, cantano, e quando cantano, ballano, sia ehe la danza venga mossa dalla man-döla o dalla chitarra, o sia ehe la si faccia senz’ istrumenti musicali. Omero dice piü volte ehe il canto ed il ballo sono gli ornamenti di ogni convito. Questa passione nazionale si conservö. «I moderni — leggesi nella beli' opera intitolata « Quadri della Grecia moderna del Dr. Pierviviano Zecchini e di altri — di Nie. Tommaseo, 2.a edizione. Vol. unico. Venezia, Cecchini 1866, pag. 259. ss.» — cantano nelle officine, nelle vie, in ogni casa, nelle cittä, e nei villaggi, nella barca dei pescatori e nella golletta di guerra, nel-occasione degli agguati dei Clefti e di quelli dei pirati; in una comitiva di pochi e sollazzevoli amici e nel folto di una carovana, sul campo di battaglia e nei luoghi della vendemmia, ai natali e alle nozze; e chi canta e cosi commosso dal soggetto ehe 6 tema al suo canto, eh’ egli poco si cura degli applausi e nulla della mer-cede di un’ adunanza, eh’ estatica sta a sentirlo, e la quäle alla sua volta si mette anch’essa a danzargli intorno. Spesso, come mi toccö di vedere in Megara in un pranzo dato al famoso Gardachiotti Griva nell’ occasione del battesimo di un suo figliozzo, il poeta si contenta solo di cantare sul suo mandolino le arie cleftiche, ch’egli improvvisa, come gli aotSot antichi, e intanto due danzatori non man-cano di divertire la brigata, danzandovi allegramente, un’ usanza ehe vigeva anche ne’tempi eroici».... Ballano nel dl delle nozze intorno la chiesa, come Teseo intorno al tempio di Venere a Corinto; e spesso sostano nelle loro marcie militari e nei loro viaggi tanto da produrre qualche ballo. Ve ne sono tante delle danze e parecchie hanno un significato. La danza storica, p. e. ricorda Teseo liberatore della gioventu. «II corifeo della danza — v. op. cit. pag. 265 ss. — e una donna ehe intuona: Nave, che sei partita e mi rapisti il mio diletto, gli occhi miei, la mia luce, ritorna e ridamelo o conducimi seco. Ballano molti giovani e molte donzelle. Comparisce un giovane con una donzella per mano. Essa si disgiunge da lui per dargli uno de’ capi del fazzoletto o d’ un n ast ro, mentre essa ne tiene un altro, for-mando una specie di ponte, sotto al quäle i danzatori, uno alla volta, in guisa di fuggiie, passano e ripassano, prima lentamente, indi celerissimamente, onde poi comporre un eerchio, ehe con bel garbo si muove intorno la conduttrice della danza, finito ehe s’ha da fare giri e rigiri. I danzanti atteggiatisi allora, come sempre, con leggiadria, si tengono stretti tra loro per i polsi e per la cin-tura; e 1’arte della protagonista del ballo consiste, complicate meglio ehe ha potuto, e rese piii lunghe e piii varie le circostanze del la-birinto, ossia le sue e le altrui giravolte, di sciogliersi da quel cerchio, ehe veduto dall’alto di un poggetto sembra una ruota di nastri di fiori e di ltu'e che volteggi rapidamente ». «La danza pirica fu inventata in Candia dai Cureti o Cori-banti. I Trači la ballavano in onore del loro re Seuto, armati di scudi e di spade, percotendo le une su gli altri con molta destrezza. II contrammiraglio Emanuele Tombasi aveva il braccio sinistro co-perto di cicati'ici di ballo. Esso e ballato da uornini armati sino ai denti, i quali procedono con passo guerriero e piglio audacissimo. ln ragione ehe si avanzano al luogo della maggior azione, battono fierainente i piedi, si scuotono terribilmente, muovono il capo come se cozzassero e nel corso di loro evoluzioni, ehe compiono al suono di fiere grida, or mezzo compresse, or alte e spiegate, spaventano pel modo, con eni si mettono a tenzone, senza che per questo accada quasi mai aleun sinistro. Tale e tanto e 1’ entusiasmo, cui vengono rapiti questi tremendi uomini, resi tali anche dal barbaro piacere in loro suscitato da quel ballo, ehe aleuni, anche durante 1’ effervescenza di esso, non possono trattenersi dalla voluttä di ferirsi, e di fatto si feriscono». « L’ arnauta, ballo guerriero in Macedonia, rappresenta le lotte di Alessandro coi Persiani. Vi sono feriti ed anche uccisi». «11 Cadri e danza albanese, ideata dagli antichi per celebrare la spedizione di Persia. In origine era orgica, perche consacrata a Bacco. C’era un coro orbicolare, ehe cantava il ditirambo e danzava al canto di questo inno, a momenti colle mani libere, a momenti fra loro intrecciate. Gli Albanesi fanno lo stesso, girando attorno una quercia». V’e la danza ionica, usata adesso nell’Asia minore, molto lussuriosa, con maschere. Dalle danze, passiamo ai funerali. Circondano il letto del mo-rente i parenti piii stretti, e morto appena, gli chiudono gli occhi e le labbra; poi se ne vanno a casa loro, ove si vestono a bianco, si acconciano la capigliatura a lutto, rivolta in giü e ritornano. Intanto le donne di casa mettono al morto la veste piü bella, lo posano basso, col viso scoperto, rivolto ad Oriente, le braccia in-crociate sul petto; coi piedi verso la porta, come giaceva il cadavere di Patroclo. II letto di morte e come un monumento sacro, intorno a cui si raccolgono parenti ed amici e genuflessi piangono e sin-ghiozzano. Commoventissimo e il pianto delle madri sui morti bam-bini, cui salutano colle piü belle immagini di fiorellini, di pianticina gentile, di uccellettino. II lamento intorno alla salma di bel giovane immaturamente rapito tiene del poetico. Lo s’ inghirlanda di fiori i piü leggiadri; le donne si fanno onta al viso, si tagliano i capelli e li offrono in dono al defunto, come fece Achille de’ suoi a Patroclo. In un canto popolare di Cefalonia intitolato «il giovane morente » compreso nella raccolta del Tommaseo, un giovane in fin di vita, parla alla sua sposa cosi: E quando mi leveranno quattro valenti E quando mi passeranno dal tuo vicinato Allora, amata mia, taglia i tuoi eapelli. I Mirmidoni antichi gettavano pure sul cataletto di Patroclo i loro eapelli e le giubbe mozzate dei cavalli. Elena nell’ «Oreste» di Euripide biasimata di aver risparmiato le sue ehiome e mozzatone la sola estremitä. «Ella 6, dice Elettra, una vecchia civetta «rcaXar») yXaöi». Si offrono confetture, frutta, riso, frumento cotto, focacce con olio e miele e vino, ornate di flori e nastri, ehe il sacerdote benedice. Questi assaggia pel prirao la focaecia, poi ne dä. ai fedeli, che dicono: «gli perdoni Iddio». Ci6 ehe il morto avrebbe mangiato di pane, vivande e frutta in un anno, si dä. ai poveri. Gli antichi usavano pure le Offerte funebri, le libagioni di vino, ehe, ritenevano, bevessero i Mani. Cosi Achille sacrifieando sulla pira di Patroclo, .................da canto gli pose Colle bocche sul feretro inclinate Due d' unguento e di mele urne ricolme. II convito funebre e d’ uso, eome presso gli antichi. Dintorno alle tombe si usa piantare olmi, eome Omero fa dire ad Andromaca, ehe le ninfe dei monti circondarono di olmi la tomba di Ezione. Sulla tomba si usa scolpire od incidere un emblema della professione ehe faceva il morto, p. e. un remo, se era marinaio; cosi fece Ulisse invitato da Elpenore nel Tartaro a deporre un remo sulla sua tomba. Gli Armeni a Costantinopoli usano pure di tali emblemi, le forbici per un sarte, il rasoio per un barbiere, le tanaglie per un fabbro, perfino un patibolo, od un teschio pošto tra i piedi di un decapitato. Si črede pure tuttora a Caronte, al vecchio Manco per antico pelo, il nocchiero delle anime. In un canto greco moderno intitolato «Amore della vita» un giovane pastore lotta con Caronte, eome Ercole nell’«Alceste di Euripide», ehe lotta col dio della morte. Le parole "AiStj; e Taptapo? sono ancora in uso. Nel commento al bellissimo canto greco inserito a pag. 107 della Raccolta del Firmenich, si fa menzione di altre costumanze funebri. In quel canto v’ e un intreccio di scene e di affetti, ehe mette un fremito nell’ anima. E una madre felice di nove figli e di una vaga donzella, eh’e il suo amore, la sua gioia, la sua vita. L’in-vido affetto di lei va tant’ oltre, che per non farla vedere la tien celata, ina non tanto che non ne trapeli il secreto. L’ occhio inna-morato di un avvenente eavaliere di Babilonia la scorge e la do-manda in isposa. Otto fratelli stanno colla madre pel nö. Costantino invece, il piü giovane, induce la mamma ad annuire, ma molto a malincuore. «Chi me la renderä, ella dice, 'A/ Tij/v; ntxpa rj xaP“> rcoiös 8ä |>,oö ttjvs v». Vige tra il militare la fratellanza d’armi. 1 capitani dei pallicari si elevano compagni d’armi da fanciulli di tredici o quattordici anni, ehe poi divengono soldati e si affezionano loro in guisa da divenire per essi in pace e in guerra quello ehe un figlio dei piü amorosi pu6 essere per suo padre. Molte attinenze ancora si potrebbero rilevare dal raffronto dell’antica colla vita moderna dei Greci. Non parliamo della lin-gua — la colta e civile, s’ intende — ehe si conservö piü fedele al tipo antico di quello non sia dell’italiana rispetto alla latina; come lo dimoströ ad evidenza il celebre filologo Miklošič, testž de-funto, il quäle provö*), che della miscea di linguaggi parlati dai varii popoli ehe occuparono le terre greclie, 1’elemento latino-italiano, quindi affine di origine, lasciö tracce piü visibili di ogni altro. L’in dole stessa della popolazione attuale ritrae dell’antica. I Greci delle isole sono anche oggidi piü vivaci, piü destri, piü di-sinvolti, piü accessibili alle passioni di quelli del continente; fieri e solitari i Tessali, astuti i Cretesi; sobri, lrugali e intrepidi gli Spartani; sospettosi e inospitali gli Eleuterolaconi; belligeri gli Achei; voluttuosi i Corinzii; irosi gli Epiroti; indisciplinati gli A-carnani; grossi d’intendimento i Beoti; licenziosi gli Argivi. Le tradizioni dei padri si conservano con religioso rispetto, ma non si ripetono tutte in modo servile. Vi si aggiunge qualche elemento che deriva dalla religione nuova penetrante piü a fondo nelle anime. La religione cristiana mitigö le asprezze della vita antica; ingentili il costume e dischiuse una fonte di sublimi ispi-razioni ignote agli antiehi. 11 Greco sente profondamente la sua religione. La fede £ per lui un bisogno di vita, il suo conlorto, il suo orgoglio; per lei dä. la vita colla calma d’un martire; essa lo entusiasta, lo esalta, lo infiamma, lo irrita fino alla ferocia contro chi attenta alle sue convinzioni. Fu appunto 1’ardore di fede religiosa, da cui attinse forza, vigoria e perseveranza nell’ardito cimento di *) Sitzungsber. der k. Akademie der Wiss. Wien; philolog-histor. Clafise B. 63. Heft III, pag. 532 ss. und Denkschriften, B. 19, 1870, pag. 338 ss. una lotta ineguale, le cui vicende fanno rabbrividire. Ma piü di tutto la religione nuova d’ amore influi sul cuore greco, subliman-done gli affetti, e rendendolo capace di sentire i conforti di un amore incontaminato, le gioie della vita di famiglia. Non si puo dire ehe nella Grecia antica il vero culto d’amore fosse sconosciuto, che alla donna, quäle sposa e madre, non si ren-desse il rispetto ehe le compete. Yi avea anzi regioni, come a Sparta e altrove, ove era tenuta in alto pregio e formava parte importante della vita privata e publica della nazione; pero fatte pure delle eccezioni, non si puo negare, ehe dai tempi eroici in cui figurano modelli di donne, come le Andi’omache e le Penelopi, si discese alle eleganti e colte cortigiane, come le Aspasie, le Frini, le Taidi, e che nei piü bei tempi della Grecia, per fino nella stessa gentile ed illuminata Atene, la donna o scompariva affatto dalla scena della vita o vi faceva mostra come ignobile strumento di piacere. Era riservata alla religione cristiana la redenzione deli’ umanitä, 1’ inse-diamento della donna al pošto ehe le spetta nella famiglia e nella societa. L’ epopea nazionale greco-moderna ci offre i tipi di caste spose, di madri, di eompagne fedeli ehe dividono coli’ uomo conforti e dolori; ehe gareggiano con lui in ispirito di abnegazione; ehe impugnano perfino le armi; ehe sanno reprimere gli affetti piü cari, quando sono intempestivi; ehe rifuggono con orrore da ogni atto ehe possa deturpare la purezza dei costumi. Quasi mai ricorre nelle eanzoni un cenno di donne perdute, cui colpisce e annienta ali’ istante il generale abbominio. L’ amore e puro, santo, inteme-rato, ispiratore di fatti magnanimi, di ardite ed onorate imprese guerresche. II guerriero trova nell’amore il conforto, il lenimento de’ suoi dolori, 1’incentivo a distinguersi, il premio di sue onorate fatiche. II cicisbeo, il cascamorto sono tipi ignoti tra quella gente armigera e valorosa, dagli affetti forti e sinceri, ehe sa amare tenerissimamente senza smanie e languori affettati, come si vedrä dai saggi ehe verremo eitando in appresso, toccando la parte lirica della poesia popolare greco-moderna. E qui conviene anzi tutto delineare la figura della donna greca cui natura privilegiö del dono della bellezza. 11 Greco antico non soleva immaginare nulla di perfetto, se, tra gli altri pregi, non c’ entrava quello della bellezza. L’ espres-sione «KaXo? xa^aOoc» e tipica pel concetto greco in tale riguardo. L’ arte si pasce del bello, deli’ armonico, e trovö il suo culto mag-giore appunto in quella classica terra, cui natura largi di prefe-renza modelli di venustä, di simmetria, di grazia ed avvenen’' Anche oggidi, ad onta di qualche detrattore spiritoso, come 1' ‘ ehe ne disse male, la donna in molte parti della Grecia >' bellezza. Eceo come ci viene raffigurata dal Savar’-anteriormente citata, «Quadri della Grecia moder-« La piü giovane aveva gli occhi pieni di fuoco, fi cigVie nere egualmente arcate. La sua tinta era anifflatissima; le sue guance, graziosamente privano ad ogni momento di nuove rose. I reva fatta per dirci delle cose piacevoli. Quand’ella sorrideva, i denti bianchi, come la neve, contrastavano soavemente col vermiglio delle labra. Esse parevano scintillare di gra^ia e di brio. Dei ca-pelli d’ebano raccolti sulla sommitä della testa, ricadevano negli-gentemente sopra un collo ehe univa alla lucentezza il liscio del-1’ avorio. La base di questo collo modellato dalle grazie perdevasi insensibilmente e si confondeva in un tesoro di linee ; inentre un giustacuore senza inaniche lasciava vedere i con torni. Una veste di cotone finissima, d’ una bianchezza risplendente, discendeva sino ai delicati talloni. Essa era ricamata d’ 1111 fregio di porpora largo quattro dita, collocato con elegante disegno. Una cintura la strin-geva delicatamente e le ondeggiava intorno de] gentil fianco.“ „La seconda le disputava la palma. La sua taglia aveva una maggiore eleganza, il suo portamento era piü nobile. Gli occhi bril-lavano d’ un dolce languore, men-tre le lunghe palpebre modesta-raente abbassate, ne velavano lo splendore, come se avessero temuto di tradire i segreti della sua anima. La sua tinta distinguevasi per una piü abbagliante candidezza; le sue guance, meno colorate parevano un giglio leggermente velato di rosa.“ Altrove il signor Savary ce ne fa ancora questo ritratto. „La terza, converrebbe, o signora, ehe voi 1'aveste veduta per farvene un idea. I miei pen-nelli cadono a suoi piedi, e i miei colori sono senza splendore di-nanzi la sua figura celeste. Immaginatevi i lineamenti ammirabili ehe la natura riunisce talvolta per far i capi d’opera della crea-zione. Animirate la bellezza del loro insieme, la loro squisita del i— catezza, il sorprendente loro avvieendarsi, la loro maravigliosa per-fezione e avrete una debole imagine della novizia di Aerotiri. La freschezza della gioventü brillava sulla sua fronte; una grazia ani-mava ciascuno de’ suoi tratti; dei fulgori sfuggivano traverso le sue palpebre abbassate; qualchecosa di divino respirava ne’ suoi begli occhi; era impossibile di sostenere il fuoco de’ suoi sguardi, se la sua bocca fosse stata anche abbellita dal sorriso.“ Si vede da ciö, ehe nel sesso femminile predornina il tipo forte. Occhio e crine nero; carnagione a fondo bianco-candido; volto, fattezze e profilo artistici; struttura di persona tirata a pennello. La poesia moderna si piace, come 1’antica, di delineare i pregi di feminil bellezza con pennello guidato d'amore. Ne abbiamo tra i molti un saggio nella raccolta de’canti greci del Tommaseo, a pag. 314. Nee* Juö žta Ta (laXXetxta aou ’oav to ’Iloö xaüe xpiya Y^vetat aatzza va [U Nož’ itä>, xa\ Sta tä (ppüStn aou nui^ouv xopaxot) )(pü>[)a « Dirö de tuoi be' capelli, fini come la seta, Ch'ogni capello divien saetta a uccidermi. Dirö delle sopraeciglia tue eh’han dei corbo il colore; Gli occhi della rondine a tuoi somigliano; Quando mi volgo e li veggo, nel cuor mi spengono. Dirö del tuo vitino, ch'e come un anello, De' giovani e sogno, e a te, cara, e vaghezza.“ Descritto cosi l'ambiente in cui ebbe vita e fiore la poesia greca, ci resta d’illustrare le idee generali finora espresse con esempi. PARTE PRIMA IPOIESIA DAMORB. „ Odio il verso che spunta restio Dalla mente con lungo tormento, Odio il verso che finge 1’ accento D’un affetto che in core non fu. Odio il verso che sazia 1' orecchio Ma digiun 1' intelletto lasciö.“ Questo concetto poetico del Carrer fa spiccare il valore della poesia popolare d’amore in genere, e quello della greca in particolare. Nella poesia greca d’amore prevale la nota forte e vibrata Alla donna greca amore non si apprende di leggieri, ma appreso una volta, diviene per lei un elemento di vita, un bisogno del euore, un conforto innenarrabile, una forza morale ispiratrice di grandi abnegazioni, di eroici sacrificii. Non e l’attraenza di beltä, non il compiacimento di vezzi, non l’impressione affascinante del momento, o la lusinga dell’interesse che ispirano amore. Si ama, perche si sente, e non si sente seriamente, se alla simpatia destata dalla vista non si associa la stima de’ pregi morali della persona, se ali’occhio acuito d’ amore non balena di subito la rispondenza perfetta del fascino esteriore colla sinceritä dell’intimo affetto. I canti d’amore del popolo greco delle montagne son l’eco genuina di casti e sin-ceri affetti, quali si destano fra gente non tocca da corruzione. La nota impudica e lasciva non si sente mai sonare nei festevoli con-vegni di quei montanari forti e arditi. Le «tpafooSta» dette con vocabolo semiturco «urpusuva», che vale amori molli, licenziosi, quali si cantano talora nelle cittä al mare, sono abborrite e sprezzate da gente avvezza a privazioni, a stenti e perigli, la quäle cerca nel-1’amore non emozioni di ebbrezza momentanea, ma un sollievo, un conforto della vita. „Megho morta, che disonorata“ risponde una fanciulla a proteste d’amore biasimevole. L’amor sincero, l’amor che tutta investe 1’anima e ne au-menta la potenza, e il vero, 1’ unico che si ricerca rH Äyctirr] ßpoi)(ou? xataXsi, xal rä 6ep(a ^(iepovst,, K’ xy)V £/ui 3a zrjv xapSta, Y1' aoxb jjle öavaxo’vei «Amore i macigni rompe e le fiere addomestica, Ed io l’ho nel cuore; onde m'uccide». Pittura ben altrimenti efficace nella sua semplicitä, di quello non siano le studiate espansioni d’ invaghimento del Petrarca, come: Non ho midolla in osso o sangue in fibra Ch' io non senta tremar. Son. 146, Ed uii altro : D’ un bel chiaro, polito e vivo ghiaccio Move la fiamma che m’incende e strugge E si le vene e ’1 cor m’asciuga e sugge, Ch’ invisibilmente i' mi disfaccio. Son. 150. II motto dantesco ,amor che a nullo amato, amar perdona“ e reso dalla poesia greca con frase strana, ma espressiva : IlaicaSs; xot itveu(j.aitxot tb eupexave ’fpau.;j.Evov 'Oreoü a^aizoxi xat apvrjS^ šivat ao^/iuprjuBvo. «Preti e confessori questo trovarono scritto, Chi ama e abbandona, non e perdonato». La fedeltä. in amore non puö esser significata piü al vivo di quello si faccia col paragone tolto dall’ augello, che e simbolo di tale sentimento: ’Eou Sjuaasi; toö Tpoyumoü et? rrjv ejaittatoouvij ’IIoü eyaae T'&iTEpc too, xal jcXeov vepö 8ev ntvet «Tu somigliasti alla tortora in fedeltä «Che perde il suo compagnö e piü acqua non beve.» Immagine gentile variata della poesia popolare italiana in questa forma: La tortora che ha perso la compagna, Fa una vita molto dolorosa: Va in fiumicello e vi si bagna, E beve di quell’ acqua torbidosa; Cogli altri uccelli non ci s’accompagna. Negli alberi fioriti non si posa Si bagna l’ale e si pereuote il petto, Ha persa la compagna: oh che tormento! Di proteste d’ amor fedele fino alla morte ed oltre tomba, abbonda la poesia greca; e vi domina a vicenda la nota forte e la dolce, p. e!: «Mi squartino, nel mare mi gettino; Le amorose anime nostre laggiü si uniranno» e a pag. 147 della raccolta del Firmenich ne troviamo una bel-lissima. Un’anima ardente, insospettita di mancato ricambio d’af-fetto si lamenta, e si sente rispondere: Ilotö? to slite, TtEptOTepa (lou, Jtocd; to eijte, xpua jxoo ßpycyj ; "Oitoio? tb EtüE, xox<5va jiou, vä jj.yjv ixTiojuepiSY). vAj xb eke t’a^tpov, va jrih]^ x’ 6 yjXcos va 6ajj.itlöo-g. K’äv to eins xo’p’ Avuitavžpv), avžpa [iyjv žvTajjuuavj! (Chi tel disse, colomba mia, chi tel disse, sorgente mia di refri-gerio? Possa, chi te 1’ha detto non viver piü di otto giorni. — Se fu un astro, che tel disse, possa ecclissarsi; se fu il sole, che si spenga il suo lume; se tel disse una fanciulla, che non possa mai trovare un niarito). Cosi puro e il concetto di amore, che quasi non si ammette felicitä amorosa, se v’e un’ombra d’interesse che 1’ offuschi. «L’amore e gioia del povero; questi soffre, pena, muore consolato d’ affetti, che il riceo non conosce. II ricco invidia al povero la sna gioia, i suoi dolorosi, ma schietti, non compri e non cerchi piaceri, la sua sommessa e non vile umiltä». Si va anzi tant'oltre da negare adirittura il conforto d'amore ai ricchi Chi ama una signora, ama un tegolo, Chi ama una poveretta, ama un flore. (Rac. Tom. p. 270). II Greco non puö concepire un nodo d’ amore stretto fra due persone di ceto, di condizioni e fortune disuguali; un’ idea ehe si adombra in una vaga canzone, inserita nella raceolta del Tommaseo. Ci rappresenta una scena d’amore tratteggiata a tinte romantiche, ma di un esilarante semplicitä, che tocca le fibre piii sensibili del cuore, e ci lascia in fine sotto 1’impressione di un quadro com-movente con riverberi di pittura mitologico-classica. Non sembra fattura popolare, ma e assai bella. S’ intitola «la tessitrice». Una bella fanciulla tesse. Passa un contino elegante e dice: Žau, xopv) fiou, StäCeoosi, v.’ žjisva Sk fiujiäaa'.; «Tu čara fanciulla, tessi e di me non ti ricordi?» A cui, ella: ”A v S'.a£ofj.a'., äv THjÄtiyop-at, eaeva 6ujicTi|j.a: E’cj zb Travi v.’ tö JuXote/vo [ion «Se tesso, se aggomitolo, di te mi rieordo, Nella tela dipinto, nel telaio mio Nella punta della spola ho 1’ immagine tua» I tre fratelli di lei, indignati, la uccidono, e mentre e li per spirare, come pentiti, la interrogano Ti 6šXet?, ’ApexoüXa (jlou, ti 6eXei;, ’Apet-^ jaou ; Che vuoi, Aretina mia; ehe vuoi, mia Arete? «Non voglio altro, risponde la donzella, se non, mi lasciate i miei panni insanguinati, e mi portiate a seppellire, passando sotto alle finestre del conte». Questi, al vederne il funebre corteo, si uccide, e la canzone si chiude: « In una fossa li misero, su di un guanciale » K’ -rj nopi) žf£VY) xaXajjuä v.l’ o vio's xunaptoaaxt Kouvet avejios t^v xaXafuä, tp:Xet to xuitapt'oot, vAv že ff/.iäivtat ^aiVTavot, ipiXiäivtat aite6a(i|j.EVOt. «E la fanciulla divenne canna, e il giovane un cipressetto. Scuote il vento la canna, bacia il cipresso, Se non si baciarono vivi, baciansi estinti». L’amore e per la donzella greca una vera religione del cuore. Ella non sa ne puö rinunziarvi, neppure dinanzi ali’ abbandono, al tradimento. L’ irritazione stessa, il dolore del ripudio stentano a strapparle dal petto parole aeri e risentite. Pensa a vendetta, impreca, maledice talora, ma non riesce a odiare chi amö, come ne abbiamo citato un esempio. La poesia corsa ha delle attinenxe colla greca. Campeggia in quella pure un tipo forte, il bandito, ehe si dä alla macchia per isfuggire alla giustizia ehe ’1 ricerca per atti di pri-vata vendetta; — una figura che rasenta quella del clefta greco, ardito, impavido, crudele talvolta e predone, ma simpatico pel mo-vente, ehe lo spinge ad arrischiare la vita. Nella pittura della passione d’ amore pero le due poesie si scostano notevolmente. La donzella greca, anche ripudiata e tradita non ha 1’ anima chiusa affatto ali’ amore. Questo ha messo in cuor suo radici troppo pro-fonde, perche la delusione il possa sdiiantare di subito. La fanciulla corsa divampa al momento, treme d’ ira e di vendetta, e ripudia l'amante che non sa o non vuole lavare nel sangue un’onta recata alla sua famiglia. II Tommaseo ce jie offre dei saggi, come quello appunto, di una sorella, ehe giura di vendicare un fratello ucciso, e caccia da se con dispetto 1' amante, che non ha eor di affrontare 1’ uccisore. Ella piange : D' una razza cusi grande Lasci solo una sorella, Senza cugini carnali, Povera, orfana, zitella; Ma per fa’ la to vendetta Sta siguro, vasta anch’ ella. Nella gentil Toscana, ove la nota fiera non si fa sentire, le poesie popolari di quel genere danno espressione a sensi di placida rassegnazione, di seherzoso dileggio, di languida melanconia. Rare ne sono, ehe danno voce a risentimenti forti ed anche queste as-sumono il colore deli’ invettiva, o deli’imprecazione e non vanno piü oltre, come si puö desumei’e da qualche saggio: Pazienza, se mi avete abbandonato E se mi avete lo core ferito, Se nuova dama vi siete trovato. Dunque sarä per me '1 mondo finito? E sara finito, avrö pazienza! E se non avrö dami, starö senza. Misero chi confida a la fortuna Pazzo chi črede in amicizia umana. Nel mondo non si dk fede veruna; L’ amante piü fedele si allontana. Le donne sono simili alla luna, Fanno li quarti ad ogni settimana. Meglio e lasciarle andare a una a una, E vivere contento a la lontana. Misero chi confida alla fortuna! Pazzo chi črede in amicizia umana! Son povera orfanella abbaudonata. Tutti nel mondo m'hanno detto addio. Se mi lasciate voi, son disperata, Non so quel che farö dolce amor mio. Se mi lasciate in chesta trista sorte, Non voglio campar piü, chiedo la morte. Se mi lassate in questo crudo stato, Non voglio campar piü; troppo ho campato. Non ti fidar di chi ti ride in bocca; Del cor deli’ uomo, non te ne fidare. Ti guarda in faccia e par ehe ti conosca E ti dimostra di volerti amare: L’ uomo 1’ e finto e falso e traditore. Fior di granato. Prendetelo, prendetelo marito, Se avete da scontar qualche peccato ! E cosi di seguito se ne potrebbero citare ancor moltissime di questo tenore. La donzella greca, cui avvince il nodo di amore e conscia fin dalle prime dei doveri, ehe il puro suo affetto le impone. Gli atti di devozione illimitata di abnegazione, di sacrificio di se per la persona am ata ricorrono spessi nella poesia greca. Le dolcezze d’amore non sono lusinghe di mollezza, ma il balsamo degli animi forti dei guerrieri, ehe li rattempra e accende a fatti forti e ma-gnanimi, ad arrischiate imprese, a cimenti perigliosi. A pag. 21 della Collezione del Firmenich c’e una canzone, ch’esaltala fedeltä della consorte di Liaco, prigioniero degli Albanesi. Alle lusinghe di dieci cavalieri ehe vanno a gara di farla sposa, ella risponde: KaXXia vd 'tžu> tö aijia fj-ou rrtv f/jv vd xoxxtvcaij, Ilapa va i8<ü td (xatta (J.ou, Toöpxo? va td 11 consorte la scorge di lontano dali’ alto di una vetta, ed a somi-glianza di Achille nell’ Iliade (c. XIX 420-423) sussurra nell’orec-chio al suo cavallo aleune parole. 11 destriero si lancia di corsa. La sua amata padrona e liberata. A pag. 127, ci avveniamo in leggiadra giovane sposa, intenta a lavare i drappi ad una fonte di presso ali’ onde del mare. Ella canta ed il suono di sua voce arriva all’orecchio di un prode capitano di galea di guerra, ehe di la veleggia. Ei la prega di pro-seguire; ma lei: «non e, dice, umor lieto che m’ispira a cantare. Piango lo sposo mio, che da dieci anni non vidi; invano attendo novella di lui: se in due anni non riede, mi fo’ monaca». La canzone s’ interrompe, e non si sa ehe risposta ella dia alla preghiera dello sconosciuto capitano, perche gli dia cenni sulla persona dello sposo lontano. A pag. 4 della stessa collezione, altra consimile pittura di sposa dolente. La consorte di Luca Calliacuda — il TCp»To;taX).7]>iapt del capitano Andrico ehe fu padre del eelebre Odisseo, il moderno Leonida, ehe difese eroicamente il passo delle Termopili — si strugge pensando allo sposo, di cui da molto tempo non le giunse novella. L’ atteggiamento di giovane e bellissima donna, col crin disciolto, la veste nera, in preda a tormentosa ambascia e giä presso a smar-rire il senno; ehe ore e ore dal poggiuolo di sua casa, lancia 1’ avido sguardo alla marina e fa cenni alle navi, che passano per aver notizia di lui, e quadro di effetto mirabile ehe ci tocca il cuore. Un’altra vi ha a pag. 35, intitolata «to rcoipov jj-avtatov» il fu-nesto messaggio». Dorme in molli piume adagiata, giovane sposa col vol to composto al sorriso e sogna forse d’ amore e vede ritor-nare il suo diletto, il capitano di armatoli Contojanni. II messo di morte, giunto allora, si arresta dinanzi a quella scena di placida quiete e «non mi regge 1’animo — dice — di destarla. Spargete la stanza di soave profumo, acche si desti spontanea» e alla do-manda ansiosa di lei risponde: «Ilixpd (xaVTara ooö ’tpepa anö T065 xaitetävou;» I due versi che seguono, ci dipingono 1’effetto di quell’atroce annunzio, come no ’l potrebbero fare i tratti piü squisiti deli’ ar- tistico pennello. «Dove sei, mamma mia; vieni, vieni; reggimi il capo; stringimelo forte, perche possa dolermi». Chi noa ci vedela plastica immagine di persona stordita dal colpo improvviso, ehe invoca 1’ aiuto deli’ unica persona cara, ehe la puo assistere in quel supremo momento? Non di rado & la sposa, & la madre stessa, come la Mosco, moglie di Tsavellas e madre di Photos, che non regge ali' agonia deli’ incertezza e impugna le armi per esser sempre vicina a’ suoi cari. Nelle aspre lotte dei Suliotti, quella donna eroica si vide, come tante altre, lottare disperatamente contro le schiere prepon-deranti di Ali paschä e meritarsi il titolo onorifico di eroina. IIoü noXe[i.ä ToaßsXoüva, aav ä|tov jtaXXrxäpi' Baatä tpuoexta ’o tjjv rcoS’.av, v.ai xö aitaai ’o to y_epc, Kal jii TouEpETE St jj.a£o aa? ’Exetvi) 6noü ayanoöoa ’£ tov xdojjiov, kav t^oöoa, Mi aooYjV vä vujAtpsuöÄ. (Genitori miei, non vi dolete ch’ io muoia. Scendo all’ altra vita e 11 v’ aspetto. Menate con voi colei ch’io amai al mondo, finche vissi, affinche di lä con lei mi sposi). In tutta la collezione di canti che avemmo sott’ occhio, non ci avvenne di trovarne che un solo ed unico, che tratti d’ infe-deltä; a pag. 122 della raccolta del Firmenich aTtiatou '(ovatxös.» . II giuro d’ amore e sacro. L’ infedeltä, e un abbominio, una mo-struositä inconcepibile, quasi come il parricidio nel codice penale di Solone. La vendettä istantanea, fulminea, che coglie la colpevole, si riguarda come cosa santa fra i Greci, come fra i Serbi, che adoperano il verbo «osvetiti» nel doppio senso, di vendicare e far cosa santa, Tutto cit') riflette il concetto d’ amore, che ha il Greco prima, ma piü di tutto, dopo che la passione d’ amore accesa fra due per-sone, nate per vivere assieme, ha attinto la meta vagheggiata, col vincolo religioso del matrimonio che le unisce per sempre. La fase poetica dell’ amore, quella che precede gli sponsali, & tutta infiorata nella poesia greca di pensieri e frasi gentili e graziöse, d’immagini vaghe e carezzevoli: un vero effluvio di sentimenti dilicati, di modi di dire tolti dal linguaggio dei fiori, dal giocondo aspetto di frutti saporiti; uno sfolgorio di gemme bril— lanti di nativo splendore, che fa vivo contrasto colle leziosag-gini, gli sdilinquimenti e le vaporose dichiarazioni degli amori da romanzo. Nella ricca messe che ci sta innanzi, non possiamo cogliere che alcuni soltanto di quei fiori olezzanti di stile amoroso. Sono efflorescenze di piantine nate sopra un suolo vergine di coltura, ma esuberante di alimento tutto proprio a produrle. Ogni commento, come dice il Tommaseo, non farebbe che sgualcirle. Sappiamo, che a persone di gusto artistico raffinato non parranno tutti gioielli poetici, i versi onde la musa popolare d’amore esprime le emozioni soavi, i palpiti erotici di rozzi eontadini, cui manca ogni lenocinio di forma, ogni risorsa d’ arte piü acconcia ad illeggiadrire il concetto; ma il sentimento puro e vergine non ha duopo di fronzoli per effondersi; esso segue 1’ impulso del cuore, ond’ emana limpido e facondo piü forse di quello che potrebbe fare lo studio della parola, il piü accurato. II linguaggio poetico del popolo, fatta ragione delle differenze naturali d’ indole, di costumi, di lingua, obbedisce do-vunque allo stesso impulso, — l’ispirazione che parte dal cuore ed al cuore e diretta. Ciö risulterA evidente dal raffronto, che verrem facendo degli sfoghi d’ amore della poesia greca con quelli della poesia popolare toscana; come pure, poträ servire a lumeggiarne il carattere, il raffronto di alcuni di quei versi semplici cogli studiati e colti dei poeti erotici dell’ arte, fra cui primeggia il gran cantor delle bel-lezze di Laura. Le poesie greche furono raccolte in gran copia da quei ap-passionato ammiratore della letteratura poetica popolare che fu il Tommaseo, coadiuvato efficacemente da Andrea Mustoxidi, che gliene forni di nuove affatto, ignote ad altri diligenti raccoglitori, quali furono il Fauriel, il Kind, il Iosse ed altri. E ben vero che non e si facile discernere le canzoni di fattura veramente popolare da quelle felicemente imitate da poeti greci posteriori, dei quali taluno, come Dionigi Solomos, si piacque d’ infondere nel linguaggio del popolo le delicatezze deli’arte: nondimeno il giudizio di Nicolö Tommaseo 6 di gran peso, perche il grande letterato oltre a quella deli’ inte-letto aveva anche 1’intuizione del cuore, ehe lo guidö a farne la scelta. La sua collezione distinta, secondo i principali affetti umani, in gruppi intitolati, amore, famiglia, morte, Dio, e un lavoro lette-rario de’ piü coscienziosi e tradisce il vivo interesse deli’ autore pel soggetto impreso a trattare. Al testo greco veramente non sempre esatto per iscorettezze di stampa, segue di solito la versione italiana, dettata senza studio di lingua, nell’ unica mira di render fedelmente il concetto greco. Non possiamo, come si disse, che racimolare qui e lä alcunche, perche lo spazio non ci consente di estenderci, come il richiede-rebbe 1’ ampiezza del soggetto. Amor, clie solo i cor leggiadri invesoa Ne degna di provar sua forza altrove Da begli occhi un piacer si ealdo piove Ch’ i non curo altro ben, ne bramo altra esca. (Petr. son. 114) L’ amore nasce da simpatia, da vagheggiamento d’ occhi rispec-chianti un moto dolce ed arcano degli animi, un’ aspirazione con-corde di due anime, fatte 1’ una per 1’altra, a stringersi assieme eon nodo indissolubile. Esso e figlio di bellezza e di gioventü. L’im-magine poetica di Cupido armato di strali, ehe sta in agguato e saetta i cuori, ei e resa dalla seguente canzone con un’ altra, molto piü semplice e non meno graziosa: IlepStxoöXa 7t'/,oi>f«a}j.EV7} 'no5 ’axa Saovj Ttepßatels Bpo^ca xol pEp^ta 0a arrjaou, va os xotfiiu vä juaaO^s ... «Pernicetta adornata, ehe ne’ boschi passeggi, Reti e panie porrö, per fare che tu ci rimanga. E se nelle panie raie cadi, pernicetta adorna, Una camera ti faro tutta in oro di zecchino. In mez/.o al tuo petto rete d’ oro e intrecciata. II primo volante ehe passa, ci e prešo, infelice! 11 primo volante che passö fu’ io, donna mia. Pregoti, mia signora, dammi la mia libertä». «IlapaxaXüi, o’ žtpevtpa [jlou, žo; [aou ttj Xsuxspiä |xou» II popolo rende d’ ordinario i suoi concetti e le impressioni deli’ animo con immagini e similitudini, ehe rappresentano 1’idea meglio di ogni piü studiata pittura di parole. La poesia toscana ne ha pure di bellissime e graziöse : lo benedico lo flor d’ amore. Rubato avete le perle allo mare, Agli alberi le fronde, a me lo core. Angelica beltade, alma divina. Calamita attrativa d’ ogni core. E il Petrarca: «Questa che col mirar gli animi fura M' aperse il petto, e ’1 cor preše con mano. Ma voi, occlii beati, ond’ io soffersi Quel colpo ove non valse elmo ne scudo. Virtude, onor, belima, atto gentile, Dolci parole ai bei rami m'han giunto, O ve soavemente il cor s'invesoa». Versi di bella fattura, ma inferiori di effetto a quelli della musa popolare di sopra citati. II Greco sente amore e se vagheggia le bellezze di persona amata, il fa per espandere la piena deli’affetto : Tl ta xteviCeu, Ta (ioXXid rulc, nXarat? aou pcjjqiiva; Auo o’ ta otoi£ot>VE fiž 860 äoT)(j.ev!a xTŠvia ... «A ehe li pettini que’ capelli sulle spalle sciolti? Due angeli te li partono con due pettini argentei. I biondi tuoi capelli Al mio cuor son fiamma .... Ta (idrta aou E)(oov EpiuTEC, xa't Ta fiaXXta aou «Negli oechi tuoi sono amori, e nella tna chioma incanti. Ka't Ta xpooä aoo Ta (j.aXXta ydpSat; ’o tov Tafiitoupä |iou. «E gli aurei tuoi capelli, corde della mia cetra» Rarissime volte accade di avvenirci in espressioni d’amore det-tate d’ ammirazione di bellezza unicamente; ma si in esempi di amor timido, ritroso, con aria d’ ingenua civetteria. Dice lo sposo: «Passi e non mi saluti; ti pesa il far motto, E con una parola delle labbra tue consolarmi?» ÜEpvü) xa't Se at /u;oetuj. Ta jiaTta yajir/.ovüj. Tö xavu> yia f?) yEiiovtot, H-a T1“ 06 xa(iotpiova>. Passo e non ti saluto, gli occhi abbasso. Lo fo' per il vicinato; ma io ti vezzeggio». La poesia colta — quando non presta le sue tinte a dipingere entusiasmi a freddo — tratteggia la passione d’ amore con istudio di forme e maniere ritraenti 1’ ideale di lei piü prossimo al vero; la popolare invece, apparentemente povera di colori, ce la mette innanzi viva e palpitante sotto 1’ aspetto di un’ immagine, di un tipo visibile di naturale bellezza, com’ e un fiore, un frutto, una gemma, un augello od altro che di simile, che ne la fa balzare di subito all’ occhio, senz’ ombra di meditazione. Eccone degli esempi. BaciXtxo’ (iupi^Et eSiu, Yj ayäro) jj.ou StaßatVEi ’AtpyjaTE (ts va tt)v e:Soj, žcoV -fj (aou soyatvEi «Sa di basilico qui: passa 1’ amor mio. Lasciatenai ch’io la vegga, ehe 1’ anima mia vuol uscire.» TappoujiaXd [iol> xäxxcvo, kXe|x.ev(u [ie xpoaätpt Na o’ evTsva ’s Tu sei sole del di, e luna della notte, Del cuor mio fresc'aura, e degli occhi miei luce. Meaa5 ata [täupa tpatveoat ’aäv Jtava*fta ypajA|iivir) '11 eüfJLoptptat? |ia£o)(6v)oav, *at š/oov xa|iO[iEVY). Nel bruno sembri come vergine in effigie Le bellezze s’ adunarono e fecero te. Cosi la poesia toscana : Rosa gentil che nel giardin d’ amore Yaga comparsa fai tra verdi foglie II tuo purpureo e candido eolore Luce dä a 1’occhi e pace all’alma toglie. Oh che t' ho fatto, ramerino e salvia? Oh che t’ ho fatto, mazzo di viole ? Fior di piselli Avresti tanto cuor d'abbandonarmi? Ci siam nati come due fratelli. Siete piü bella della melarancia Piü bella della penna del pavone. Vostre bellezze se ne vanno in Francia. E chi vi goderä palmina d’ oro ? E chi vi godera palrna d" argento ? Siete piü bello il lunedi mattina, Massimamente martedi vegnente. Mercoledi una stella brillantina, E giovedi uno specchio rilucente, E venerdi im mandorlo fiorito, II sabato piü bello che non dico. S’arriva alla domenica mattina; Mi parrete figliuol d’ una regina. Fiorin di pepe Morirö, morirö, non dubitate, E quando sarö morto, piangerete. II Petrarca: Del mio cor, donna, 1’ una e 1’ altra chiave Avete in mano .... Amor, che dentro all' anima bolliva Per rimembranza delle trecce bionde . . . . Vedete che Madonna ha ’l cor di smalto Si forte, ch" io per me dentro nol passo . . . Uno spirto celeste, un vivo sole Fu quel ch’i vidi; e se non fosse or tale, Piaga, per allentar d’ arco, non sana. A lui la faccia lagrimosa e triste Un nuviletto intorno ricoverse; Cotanto 1’ esser vinto gli dispiacque. II sole invidioso perche Laura avea salutato il poeta! E tremo a mezza state, ardendo il verno. La testa ör fino e calda neve il volto, Ebano i eigli, e gli occki eran due stelle, Onde amor 1’ arco non tendeva in fallo. E vidi lagrimai' que’ duo bei lumi Ch’ an fatto mille volte invidia al sole, Ed udii sospirando dir parole Che farian gir i monti e stare i fiumi. D’ un bel, chiaro, polito e vivo ghiaccio Move la fiamma che m’ incende e strugge! Onde tolse amor 1' oro e di qual vena, Per far due trecce bionde? e in quali spine Colse le rose e'n qual piaggia le brine Tenere e fresche e die lor polso e lena? In quel bel viso ch' i sospiro e bramo Fermi eran gli occhi desiosi e intensi II cor prešo ivi, come pešce ali’ amo .... E cosi di seguito si potrebbero citar altri versi d’ amore del Petrarca, ehe di certo non brillano al paragone coi meno colti e stu-diati, ma piü vivi e spontanei della musa popolare, come p. e.: M’ exoli];’ 6 -5)Xto?, Ixa^e, (x’ ev.a'vC Mä ’oäv xvj? ™ v.aü[iö [i’ žxatj;£ aXXo Ttpajia. M’ arse il sole ; m’ arse; m’ arse Ma come deli’ amore la fiamma, altra non m’ arse mai. ’Eoü ’aat StajAavxo'itetpa, xat r^Xtoc x-ij; Tjfiipai; Elaac (ps-fY“P1 r*)1» vunTfjf, xt)S EUfioptptäs tb xspai;. Tu sei diamante e sole del di Sei luna della notte e di bellezza portento vExet; xoö -fjXt’ou eujioptpai?, xoö (peY-^P’-0“ aoitpäSs? Toü jxi^Xot) xoü ßevsxcxoö xai? požoxoxxtvažs?. Hai del sole le bellezze, della luna i candori Della mela veneziana i rosei rossori. Altrove 1’alloro e il vago, il melo la dama; il melo, che col colore e la dolcezza e immagine degna di donna gentile, come Dante dice: ......................i fiorelli del melo, Che del suo pomo gli angeli fa ghiotti. La stessa fioritura d’immagini s’incontra nelle dichiarazioni d’ amore, nelle galanterie, nei complimenti diretti alla persona amata. II Greco ne ha di tipici, tutti suoi particolari, a cui qua e lä trovi alcune espressioni aftini nella poesia popolare toscana, che piacciono egualmente; mentre la poesia colta non ne ha di cosi vive e originali. ’Gli e che il poeta popolare ubbidisce all’ impulso del mo-mento; non istudia, non elücubra, ne polisce a scopo di piacere altrui, come fa 1’ arte dei suoi concepimenti. Cortesie d’ amore cosi semplici e graziöse come le seguenti, non ne ha la poesia colta. Mapia fiou, Mapt'a [j.00, Tr;s xafiapt. Maria mia, mia Maria, vezzo della contrada. ’Eo’ eiaai x-qq vioti xrfi xapStä? fioo L otoXo?. Tu se 1’ anima deli’ anima, e del cuor la colonna. Sei rosa all’ alba, rosellina al mezzodi. ’,Ovte; o’ eyevva fj jjtavva oou, vj exxXvjocatc oij(xaivav Ot ayyeXot öltiö tou? oopavob? äveßoxaTeßai’vav Quando ti fea la mamma tua, le chiese suonavano, Gli angeli del cielo salivano e discendevano. E un altro simile: Quando ti fea la madre tua, gli alberi tutti fiorivano, E gli uccellini ne’ nidii soave cantavano. Stipe, nouXt jjiou ’otö yj/jjj xa’i ’otvjV xaXvjv TTjV iLpa, Kat va Yejlc' -/j axpdxa oou TptaVTatpoXXa xa't pooa. Vieni, tortora mia, in buona felice ora. Ed empiasi la tua via di rose e fiori. 'H tujj.op tt]V eojj-optpca oou, Mä ’/avoviat xovtä ’o ise ’ata xaXXv] Ta eStxä aou. Ne’ gigli, nelle rose cerco la tua bellezza; Ma perdono accanto a te, alle grazie tue. Me T"ijv £5 aoo ßXenco Dalla tua vita ho vita e veggo al lume tuo. AtSo Äor^pyta Xajnnjpä slvat Ta Süo oou (j-arta, 'IIoö oTtotov xuTa^ouv, ty)V xapötä toü xävouv 8uo xo(j.(j.aTia. Dne stelle lucenti sono i due oechi tuoi; Che, a chi guardano, il cuore gli fanno in due. Ed un augurio gentile a giovani sposi: MsXaj(ptvö?, (ieXo’/pivr,, 6 0eos va aä? ’Teptao'g Na xajxeTe x’ Iva nacSI töv tprna vä’ jxoidafj Brunetto e brunetta, Iddio v’ accompagni Abbiate un bambino, che all’ amore somigli. L’ apprezzamento di bellezza feminile e vario. 11 colore degli occhi piü piacente si esprime p. e. coi versi seguenti: I neri occhi Amore tinse in desiderio Gli azzurri nel colore che piace agli uomini. Per neri occhi mi perdo, per gli azzurri muoio, Per i Celestini casco giü negli abbissi (’oxciv y.aTsßacvu>). Gli occhi neri, due zecchini; i nerastri dieci, E gli azzurrognoli, quaranta al soldo. La poesia popolare toscana ne ha pure di bellissime, come quella tanto conosciuta : Sia benedetto chi feee lo mondo Lo seppe tanto bene accomodare, Fece lo mare e non vi fece fondo, Fece le navi per poter passare. Fece le navi e fece il paradiso E fece le bellezze al vostro viso. E colorita piü che rosa fresca E chi vi vede, fatte innamorare E chi vi vede e non vi dona il cuore, 0 non e nato o non conosce amore. Dove sei stato, speranza mia bella Consumamento della vita mia? Rosa gentil che nel giardin d'Amore Vaga comparsa fai fra verdi foglie, II tuo purpureo e candido colore Luce da a 1' occhi e pace all’ alma toglie Queste ed altre infinite espressioni gentili della poesia popolare certamente non perdono dinanzi alle ricercate ed iperboliche del Petrarca, come p. e.: Stelle noiose fuggono d’ogni parte Disperse dal bei viso innamorato. Torno dov'arder vidi le faville Che "1 foco del mio cor fanno immortale. Ardomi e struggo ancor com’io solia Laura mi volve.................. Cosx costei che tra le donne e un Sole ln me movendo de’ begli occhi i rai, Cria d' amor pensieri, atti e parole. Ma come ch’ ella gli governi e volga, Primavera per me non e mai. Nel cantor di Laura e veramente ammirabile la facoltä, poetica, la ricchezza straordinaria della tavolozza, ove mesce si copiosi e svariati colori per dipingere i doni di bellezza e leggiadria di Laura. Egli 6 un vero effluvio di modi e frasi, di svariate espressioni, onde si esaltano fino alla stucchevolezza gli occhi di lei, la chioma, il fascino, che spira dalla sua persona: Non für gia mai veduti si begli occhi Che mi struggono si come ’l sol neve. Occhi leggiadri, dove amor fa nido, Ogni loco m’ attrista ov’ io non veggio Que’ begli occhi soavi Che portarono le chiavi De’ miei dolci pensier. Tanta negli occhi bei for di misura Par ch’ amor e dolcezza e grazia piova. Erano i capei d’oro a 1’ aura sparsi Che in milie dolci nodi gli avvolgea; E ’1 vago lume oltre misura ardea Bi quei begli occhi, ch’ or ne son si scarsi. Le trecce d' or, che dovrien fare il sole D’ invidia molta ir pieno. La poesia popolare greca esprime ammirazione d’ occhi con immagini molto espressive, coine vedemmo: Ki av vä |j.Y)V ji’ ayatt«? ’ici{ to tu>v ojxjiaTiiüv oou Nä jr/jv jjuš oaixeiouve oxav itepvüj šen’ IjAJtpö? oou. E se non vuoi amarmi di agli occhi tuoi Che non mi saettino, quando passo dinanzi a te. Due stelle lucenti sono i du’occhi tuoi. Cosi la toscana: Quando 1’ uscio di chiesa voi entrate La lampana coli’occhi 1‘accendete. Quando incontri i miei occhi e fai un riso E poi li abbassi e pieghi il mento al seno, Ti prego prima a darmene un avviso Perche in quel mentre io tenga il cuore a freno. E nelle espressioni forti d’ amore, quanta vivacita dirimpetto alla poesia della scuola, Bäoava, itixpais xac xabjxoi, acpvjaTE ttjv xapSia p.oo I taTL TTjV «plfira 8£v ßaatä» ’itoö xaisi Ta ’oa>6vjxa p.ou Tormenti, rammarichi, ardori dogliosi, lasciate il cuor mio, Che alla fiamma non reggo, che m’ arde le viscere. E la toscana: Dentro al mio petto e una candela accesa, Di dentro bruccia e di fuori non pare. Se c’e qualcun ch’abbia provato amore Abbia pieta del mio infiammato core. II Petrarca: Occhi miei lassi, mentre ch’ io vi giro Nel bei viso di quella che v’ha morti. Piovonmi amare lagrime dal viso Con un vento angoscioso di sospiri. E so ben ch’io vo dietro a quel che m’ arde. E la greca : ■ «Oh avessi il petto di vetro che tu vedessi il cuor mio Com’e nero e muto, mia donna, per te!» «Chi mi vede nel viso, dice, ammarezza non ho! E i’ ho dentro al cuore mortale saetta» EiyS^s -f) cxuXa, v; xapSiai? bnoü jiapai’vet. Vedi fiera spietata che fai i cuori languire. Espressioni ben piü vivaci di quelle del Petrarca. Ma dove la poesia popolare greca lascia di moJto dietro a se la toscana popolare e piü ancora la colta, si e noi tocchi della nota dolente e sospirosa d’ amore. In questa parte, diee il Tommaseo, la poesia d’ arte fa bene a non misurarsi colla popolare per non cadere annichilita. I tormenti e le ansie di un petto anelo e lan-guente non possono aver accenti poetici piii veritieri di quelli della poesia greca. I suoi tocchi, or dolcemente melanconici, or forti e vibrati dipingono al vero le ambasce d’ animo ferito d’amore, come nol potrebbe fare ogni magistero di arte. Ei si vedrä, come dinanzi a quegli scatti di passione aniorosa scompariscano 1’ espansioni laraentevoli e piagnucolose del cantore di Laura. Eccone p. e. uno de’piii semplici della poesia greca: «Zucchero sia’l tuo sonno, e miele il sogno tuo E rose e roselline sul tuo guanciale Tu dormi spensierita ed io fo male nottate, Male nottate, perehe soffro; soffro perche amo.» «Kaxovuy.tau) ytati novtü; tcovä y:att otfairaco.» Quest’ ultima idea 6 un tesoro di sentimento, ch’ esprime nella sua semplicitä molto piü di quello che il Petrarca dice coi suoi versi Pascomi di dolor; piangendo rido, Egualmente mi spiace morte e vita Paseo il cuor di sospir, ch' altro non chiede E di lagrime vivo, a pianger nato. Non ho midolla in osso o sangue in fibra Ch’ io non senta tremar. Amor m’ ha posto come segno a strale Come al sol neve, come cera al foco E come nebbia al vento; e son gik roco, Donna, merce chiamando, e voi non cale. La poesia greca: «Gorgheggiate, rosignuolini, i canti miei E lodate la donna mia, voi che avete dolce la voce. Dite chiaro, che lo sappia lo spasimo del mio core, E i tanti atfanni che soffro per lei.».......... Assai piü graziosa di una simile toscana : Palomba che per 1' aria va' a volare Ferma, che voglio dirti due parole. Yoglio cava’ una penna a le tue ale Voglio scrive’ una lettra a lo mio amore. Tutta di sangue la voglio stampare, Per sigillo ci metto lo mio core E finita di scriver e sigillare, Palomba, portacela al mio amore.» La greca: Vien presto, morte a prendere la vita mia; «Che cessino i miei rammarichi ed i sospiri.» Nä Kd'Jiouve y ntxpats x’ol avanteva^jioi jxou. La poesia italiana: Se mi lassate voi, son disperata. Non so quel che farö, dolce amor mio. Se mi lassate in chesta trista sorte, Non voglio campar piü, chiedo la morte. I] Petrarca: Ite, caldi sospiri, al freddo core Rompete il ghiaecio che pietä contende. E se prego mortale al Ciel s’ intende, Morte o merce sia fine al mio dolore. Kaufiöv [leyaXov e/üj1 tivo? va tov EtJtiü IIou |j." tyouv jt).y;YU)(i.EV0V 8ua> |xaTta, ir’äyaitü Fo grande tormento! a chi lo dirö io? Che m'hanno piagato i du" occhi ch'i amo. II Petrarca: Ma voi occhi beati, ond' io soffersi Quel colpo ove non valse elmo ne scudo. ’Ava0e[i.a tov itujXeys, n<ü? eiv’ yXoxeta Y] dfaKtj Mi ’yui T7 V eSoxtfiaaa v.' stvai rctxpa tpapptäxt. Malnato chi disse che dolce e l’amore! Ma io lo provai ch’ egli e amaro veleno yEo(dta tuu; jj.’ xa'i ’caTptxöv oev i/u> T6v xo'o(j.ov tov ’ßapeÖTjxa, tö OTpiü)j.tx, 8axpt)a ßpE^iu Amor come m’ ha piagato! rimedio non ho . 11 mondo m' e a noia. II letto di lagrime bagno, II Petrarca: Lagrimar sempre e '1 mio sommo diletto II rider, doglia; il cibo, assenzio e tosco; La notte affanno; il ciel seren m' e fosco E duro campo di battaglia il letto. Piovonmi amare lagrime dal viso Con vento angoscioso di sospiri. 5AXüic/)ty), XuiTYjSO» \j.z xa'i ’y^s ed ßcbocva fioo Kal xajis altXdiyyoi; st? I[j.e, itfEVTpa xat xopct (xou. Spietata, impietosisci di me e vedi i tormenti miei E fammi misericordia, donna, signora mia. "OXa ooo eIvou 0Etxä, £wYpaipiaTa e^e'.? ndXXr^ SxXijp-}) jio'vov T-Jjv xapS'.ä ’rcoü 8£v tyjv e/e: uXXrj. Ogni cosa di te e divina; bellezze hai da dipingere, Duro hai, solo il cuore, qual altra non ha. II desiderio languente di persona amata che vive lontana, lo schianto del distacco, lo struggimento e le angosce di chi soffre e trema per l’amante lontano, sono affetti, che, saremmo quasi per dire, nessuna poesia popolare sa esprimere come la greca. Qui il canto s’ ispira a quel sentimento indefinibile di mestizia, che prova il greco a viver lontano da suoi in terra straniera. Le canzoni di questo genere che si trovano raccolte nella collezione del Firmenich, di cui abbiamo di gia fatto cenno, danno tenera e commovente espressione ä quel dolore intenso, inconsolabile, che sente il Greco, per cui la vita, divisa da’suoi, non ha piü attrattive. «L’amore del sapere — dice il Fauriel — le persecuzioni e i pericoli, il desiderio di accogliere qualche po’ di retaggio alla famigliuola, nel dolore piü strettamente amata, spingevano i Greci sovente verso la terra straniera. Ma la gita, per breve che fosse, era dolorosa sempre. E come non doloroso, lasciare quel cielo che si puro sorride alla terra, i be’ monti, le amene vallate, le fonti, il paese dove la madre, la sorella, la moglie, la dama cosi ardentemente amano. La terra straniera al Greco e esilio misero ; ed ei 1’ accampagna coli’ aggiunta di l'pvj|xa, che dice 1’amore di quel che si perde e il timore di quel che si aspetta. Poi lasciando la patria e i parenti, ei non sapeva sicuro di rivederli, se trovar salvo 1’ onore, le vite amate. E la famiglia piange seco, avvolta in simili tenebre di timore e sospetto. Quindi le cerimonie quasi lugubri del dipartire. Quel di convitansi parenti e amici: e dopo mangiato, l’accompagnano pa-recchie miglia e cantano il dolore, il timore, i confusi presentimenti. Cantano e a tavola e in via, canti a ciö, pieni di quasi ideale te-nerezza; altri antichi; altri fatti a caso da chi va o da chi resta; altri dalla madre, dalla moglie, dalla sorella, improvvisi. E non 6 cerimonia, ne esagerazione scolastica; e seria čosa; e grido del cuore e nel cuore. Quel costume ha radici, insieme cogli usi della vita piü cari e piü santi». Ed il Tommaseo, nel commento ad una poesia greca intitolata «la terra straniera» dice: «il povero ama la patria piü del ricco, perche le piccole gioie sono all’animo semplice piü memorabili dei grandi piaceri. II ricco ha divertimenti, distrazioni; il povero ha consolazioni, conforti. II ricco porta la patria nel borsiglio; il povero 1’ha nel cuore» . . . pag. 228. Ecco alcuni versi ispirati a dolor di partenza, di separazione da persona amata: Mtoeüu) (piXot, xXaöaxe [ie, xat 'asi; E'/Opoi jjapette. Kai ’ast? YeitovoitoÄXat? [too, [laöpa va IvžuSrjTt. 'i i parto, amici, piangetemi; e voi nemici, gioite: E voi giovanette, vicine mie, vestite a bruno! Ed un’altra che comincia: Ta (j.äxia Xeve rrj; xapStä?, xapSiä, Statt ’t'/tn; 6Xt’t|, xa't av oe nataiSSi itX’.o . .. E giunta 1’ora ch' io vada. Spasimo e rn’abbatto. Non so s' io torni e se ti rivegga piü. Ma addio ti dico, o fanciulla tenera mia; Allontanarmi d'appresso a te! La mia doglia e cocente. Nero saio porterö..................................... Dinanzi a queste espansioni di sentito dolore, come scade la seguente del Petrarca! Che quand’ io mi ritrovo dal bei viso Cotanto esser diviso Col desio non potendo mover 1' ali Poeo m’ avanza del conforto usato, Ne so quant' io mi viva in questo stato. Ogni loco m’ attrista ov’ io non veggio Quei begli occhi soavi Che portaron le chiavi De’ miei dolci pensier. . . . E le seguenti poesie greche dirette al mare, spietato rapitor di persona cara, conie sono ingenue e spiranti affetto tenerissimo! Tdluna di esse ricorda concetti e sentimenti di poesie d’arte; ma piacciono assai piü, perche in esse spicca netta e sola la forza del sentimento che anima ed avviva la parola: 0äXaaaa, iuxpo6aXaaaa, raipa Y^uxia Autöv tov veöv ’itoü o’ eotstXa jat) fiou Tove rccxpaivfl;, ’AvctQejj.a ’otous ^uXoupYob? ’«oü xävouv td xapoißia . . . Mare, mare, salso mare, or dolce diventa. Questo giovane, che t’ ho mandato, non me 1’ amareggiare, Maledizione a calafatti che fanno le barche. E vanno e ci straniano i bei giovanotti. Partisti aquila mia d’ oro. Ah! non ti scordar di me! Altra non amare nella terra estrania dove vai. L’esordio di questa canzone ricorda 1’ode di Orazio, che piange la partenza di Virgilio (Carm. libr. I. 3): Navis, quae tibi creditum Debes Virgilium: finibus Atticis Reddas incolumem precor, Et serves animae dimidium meae. Illi robur et aes triplex Circa pectus erat, qui fragilem truci Commisit pelago ratem Primus, nec timuit praecipitem Africum .... Sou aTEpvu) itpooxuv^jxaTO tb rcouX't t’ a’JjSÖV’. Kat |j.£ TYj öaXaoaa Ypatp-?;, v.r/i \i.k tö ye\tScIvt. Ti mando saluti coli’ usignuolo, E col mare lettera e colla rondine. E all’ aria dirö che per me ti saluti, E ti dica che una giovane per te si muore. Pellegrinante uccello e doloroso La terra straniera ti gode e io mi struggo di te. SevtTe(j.Evo |xou tcouXi, eXaßa rJ] aou Stbv xdptpo (xou tyjv eßaXa, v.’ etira, xapStä ^ofoou. Lontana tortora mia, ebbi la tua lettera; Nel mio seno la misi e dissi: cuore spezzati. La poesia toscana bella e piacente, _ non ha perö tocchi ener-gici di passione amorosa, come la greca. 15 piacevole, lepida, scher-zosa anche in argomento serio. Eccone im saggio: Tu sei di la del mare e non m’intendi; Passa di qua, che tu m’intenderai. Tu m'hai rubato il cuore e non lo rendi. Va a confessarti e confessati bene. Che la roba degli altri non si tiene Va a confessarti e confessati giusto Che la roba degli altri non fa frutto. E la paura ehe 1’ onda furiosa non sommerga il suo diletto, come esprime amorosamente una giovane sposa! ’Avajxeoa ait’ xr(v ElaXaaaav v) ayd.nr] fiou xotjxäxat üapaxaXcu aa?, xujiaxa, vä jrjjv tov eiuitväxe. In mezzo al mare 1'amor mio dorme: Pregovi flntti non me lo destate. Mesa ’orf) fiiair) x&5 ytaXo5 6eX4 ercXaxcve? omb za häxpoä [ioi>. Mare che tutte 1’ acque e i fiumi bei, Beimi e le mie lagrime, per diventar piii grande. E se vedi scender mai la mia donua Dille che ingrandisti dalle lagrime mie. Altro genere di poesia lirica, tutto proprio dei Greci, sono le focose dichiarazioni e i giuramenti d'amore espressi con fiere im-magini di armi e di guerra. E questa un’ emanazione d’ affetto strana e non facile a comprendersi, se non si pensa all’agitazione convulsa degli animi suscitata nella Grecia ai tempi della grande riscossa nazionale, della lotta feroce scoppiata in sul principlo di questo secolo fra due popoli troppo dispari d’indole, di religione e di civiltä, perche potessero vivere uniti, anche se il freno del do-minio fosse stato piü dolce. L’ efferatezza degli animi spira evidentemente da questi versi: 'Ottolo; jxou ’inj vä o’ äpvij0o>, Jxstvo? etv’ cr/tpoc jitit) Mk xi> |j.ayatpi xč>v ßapü>, xt’ ag vjvat xi’ äSeptpö? [J.01). «Chi mi dice ch’io ti lasci, quegli e mio nemico; Con la spada 1’ assalgo, fosse il fratel mio.» Mä aj 7j0eXe ttjv Koiptu, xt’ a? rfitXt iteöaviu Kt a; 4jQe fiou tJj Saioouve, xt a$ 4]0e |jt£ axoxiuaouve Oh la prendessi e moi'issi pure: E me la diano e poi m' uccidano. Quante stelle sono in cielo, tante spade, donna mia, S' io non t’ amo, öntrino nel mio cuore. Se non t' amo, mi dia Iddio, donna mia Col coltello ch' io porto, e mel dia nel cuore. Di Barberia il mare, di Malta il canale Divori il corpo mio, s' i’ amo un' altra. «Folgori e tuoni e pištole s' avventino Dilotto, sul bei corpo tuo, se m’ abbandoni.» ’AoxpoTteXexta xal ßpovxal? xal raoxoXat's vä jceaouv Mäxca jj.0!) ’axö xopjxaxt aou, [ivj (j.äpvYj0r(s ixoxfc . . . Fra popoli di vita semplice e di tempra robusta non allignano passioni molli e languide. Si ama e si odia con forza. La fellonia in amore o non si conosce o si vendica senz’ esitanza, come sopra dicemmo, nell’ intima persuasione di far cosa giusta. Spasimi d’amore, sofferenze di gelosia, sdilinquimenti da cascamorto son affetti ignoti; tutt’ al piü 6 la delusione, il dolor di amore intenso e non corri-sposto che trova un’ eco nella poesia popolare. II Greco ö piü ener-gico anche in questi sentimenti, che annunzia con tocchi vibrati o disfoga, come nella poesia toscana, in invettive generali contro il bei sesso. Eccone degli esempi: ’Aoitpo? y';vvet' 4 xopaxa; xai [iaüpo? xatavtatvei Kt’ oit OtfaTtVjoet, xc’ äpvTjÖ'jj ’ato otoito toü vä yevjj. Bianco nasce il corbo e nero si fa Chi ama e abbandona tale diventi. flEpisTžpav.c t’ oupavoü, xateßa, *ap y.piat ’IIoö afärojoa u(av aaKXdfjyrjV, xa\ tiupa 0a acp^ayj. Colombella del cielo, scendi a fare giudizio; Ch’ ho amato una spietata, ed or vuole lasciarmi. "Oitoioj TCOTsie: Yuvacxi?, et; ta yXöxä iffi \dyia 0ä rceaec el; Jttxpas xxaü|Aous xal fiaüpa jxupoXo'Yia. Chi črede a donna, a sue dolci parole Cadrä in amarezze e flamme e atroci lamenti. «Chi le parole di donna ascolta e ai giuri suoi crede Nel mare piglia uccelli e pesca nei monti. Come quel del Sannazzaro : Nell'onde solca e nell’arene semina Chi sua speranza pone in cor di femina. Toü e/dpoH oou frrjv äfimawuS'js tä Xoyca inoö aou Xeyet M'i'TE ~ozt ziyovatxi? tcoü oou’ ji-iXst xal xXatyet. Al tuo nemico non creder le parole ch’ e ti dice Ne a donna mai, che ti parla e piange. II popolo toscano di fibra piü molle, meno adatta a vibrazioni forti, sfoga le sue delusioni in amore in modi piü blandi, qui e lä perfino lepidi e scherzosi: Discaccialo, idol mio, se mi vuoi bene, Chi presume rubarmi il tuo bel cuore, Non gli mostrar le tue luci serene, Digli che ad altro cuor giurasti amore, Digli ch’ hai troppo strette le catene, E conservi per me un fido amore: Alfine gli dirai che non conviene Lasciare chi per te si strugge e more. Discaccialo, idol mio, se mi vuoi bene, Chi presume rubarmi il tuo bel cuore. Io me ne voglio andare verso il termine; Vo’ fare una cascina, e li vo starmene. La rovina deli' uom son le femmine. ... . - -/ /- v' " *•" r_: l' . '•• - _• -•• - . _ - _ ' .- 4>. : . ‘tl.-!- ' V !-;!*:• ’• . - - _ -- -4 /v. _j>„r - - - ’ ; V - f : • . 1 ■ -- * -- - : '•*:L‘ "'l-" ■ . ■ ■ ■" ■ - - _ - - ■ - - . ■ 1 - 1 ’TryV' ~~^ v. r‘-; '* v.'C" L-~ i ■ _ • ... ' .'.'.-V '.j. •>■.•;' V j. :•'.' -/■’-• -’.-w * HÄiässJj ". ..