Anno IX. Capodistria, Giugno-Luglio 1911 N. 6-7 PAGINE ISTRIANE PERIODICO MENSILE PAOL.O TEDESCHI (Trieste, 1836 — Milano, 1911) Inieger vitae scelerisque purus. II fato, che gli protrasse 1' esistenza faticosa e disagiata sino ali' ottantesimo quinto anno, non aveva, eol progredire di lui nell' etri e col sopravvenir degli acciacchi, scemato lena alla sua maschia fibra di lavoratore, non aveva avvilito in lui 1' entusiasmo n6 deli' apostolo deli' italianitii ne deli' assertore del patriotismo; ed egli, bencM esule, bencM privo della vista, benche superstite di quella che fu la generazione dei nostri nonni, era tuttavia una vegeta e gloriosa forza della vita nazionale e intellettuale delle terre nostre, un raggiante faro sul cammino del nostro diritto, un maestro da ascoltare, un esempio da seguire. Dettava oramai di rado; ma non sapeva o non voleva risolversi a tacere deflnitivamente; come se temesse, rima-nendo inerte, di rompere il maggiore e migliore dei flli che ancora lo tenevano allacciato al suo diletto paese natale. E noi, che tanto abbiamo palpitato e fremuto, giovinetti, su le elo-quenti pagine civili e patriotiche di Paolo Tedeschi, leggendo nelle colonne deli' Indipendente le sciolte prose de' suoi ricordi, pervase tutte da quel sottil senso di malinconia ch' e caratte-ristico degli scritti e dei discorsi dei vecchi, commossi torna-vamo col veloce pensiero ai tempi in cui egli aveva non pure scritto ma anche operato. Nobili e indimenticabili tempi; nobili e indimenticabili sopra tutto per questo: che avevano un sol culto, quello dell'idea; un sol disprezzo, quello della materia. Erano insomma gravi e soavi momenti quelli in cui ci avve niva di tuttavia porgere ascolto alla lontana voce del decli-nante ma non stanco vegliardo; ed egli certo sapeva d'eser-citare ancora, d' oltre il mare e d' oltre i moriti, un beneflco influsso sulle nnove generazioni della sua terra; e ne gioiva e pensava con minor rammarico alla prossima fine. E la fine venne; e 1'annoso e glorioso patriarca discese nella pace eterna della tomba fra il compianto di quanti amano la patria, apprezzauo il lavoro, rispettano le lettere. Ma non mori tutto. Dura e durera 1' opera sua di patriota e d' uomo di lettere. O disseminati ne' migliori giornali della provincia (nel triestino Tempo anzitutto e nella capodistriana Provincia), o raccolti in opuscoli ed in volumi, i non pochi scritti politici e letterarii di Paolo Tedeschi lian questo di speciale che subito li contraddistingue e li fa riconoscere: una piena, sana, genuina impronta d'italianita, una rara correttezza cli lingua e di stile, una schietta vena cli piacente e, quasi diremmo, casalingo umorismo. Fu, & vero, talvolta un po' loquace e un po' causeur, come dicono con termine intraducibile i francesi; am6, e vero, seguire un po' troppo pedissequo la schiera ch' ebbe a duca e maestro il grande Manzoni: ma seppe sempre, qualunque argomento trattasse, farsi leggere con cliletto e profitto; e non spinse il suo onesto romanticismo a nessun eccesso d' odii e d'esclusioni. Per tal guisa pote equanimemente riconoscere in tutta la loro interezza gli straordinarii meriti del Carducci in giorni in che la fama del grande poeta era ancora fortemente discussa. E anzi riceve dal Carducci stesso (come da tanti e tanti altri illustri) piu d' una attestazione di stima e la carto-lina postale, ormai tanto divulgata in fac-simile e farnosa, in cui il cosl detto cantore di Satana affermava la sua lede in Dio, pur dicendo essergli impossibile accostarsi con intelletto d' amore al Cattolicismo . . . Pace dunque alle ossa, onore alla memoria di questo immacolato cavaliere del Buono e del Bello! E se non piu possono giungerci dalla operosa Milano altri suoi messaggi, altri suoi saluti, altre sue nuove, giunga almeno il suo ardente spirito, per rivedere i cari noti luoghi, per trascorrere con gli ossigenati venti delPAdria le nostre verdi campagne, i nostri ignudi contrafforti alpini, per soffermarsi a guisa di leon quando si posa su gli anneriti vertici dei nostri romani e veneti monumenti. Tuttavia, nel Regno vicino, dove aveva per lunghi anni condotto (dimorando a Lodi) vita di modesto insegnante, era poco conosciuto. In compenso, era conosciutissimo da noi, per il molto appunto che, come dicemmo, aveva operato, nell'epoca dei primissimi ardori nazionali e patriotici, in una coi migliori triestini e con gli istriani Antonio e Nicolo de Madonizza, Fran-cesco e Carlo Combi, a dimostrazione deli' esser nostro e a sostegno dei nostri diritti, e per tutto cio ch' era andato via via operando pe' comuni ideali anche posteriormente, sebbene da noi tanto lontano e costretto a lavorare da mane a sera per sostentarsi . . . Questo 6 quanto, col cuore tuttavia stretto dall'ambascia, possiamo dire di Paolo Tedeschi a poehi giorni di distanza dalla sua scomparsa, non certo a saldo dei debiti che abbiamo verso di lui grandissimi, ma a doveroso riconoscimento dei varii e incancellabili meriti suoi. Meglio e di piu in altro momento '). G. Q. Le dottrine reišgiose di Francia in un sonetto inedito del Labia. Quando gli illustri tilosofi francesi annunciarono al mondo stupefatto che Dio non esisteva piu e che era tempo di finirla eolle credenze religiose sostituendo loro, invece, la colendissima dea Ragione che, a quanto pare, esisteva (non sappiamo poi se nelle teste esimie dei colendissimi tilosofi su lodati) moltis-simi, naturalmente, anche per cambiar aria, abboccarono al-1' amo paghi di sottrarsi al pesantissimo fardello della credenza in un Dio giudice supremo e di caracollare liberamente, come maialetti in brago, pei floridi campi della dea Venere. ') Buoni e abbastanza diffusi cenili biografici di Paolo Ter1 reco il Piccolo del 4 giugno u. s. Leggi anche le necrologie deli'/ dente dello stesso giorno e della Fiamma del 10 giugno. Ma gli spiriti retrivi, ciechi, conservatori (come si direbbe ora nell'aulico gergo delle gazzette) non mancarono nemmeno allora: i quali continuarono ad alimentare e a covare le vecchie idee sorridendo impavidi dinanzi al rumoroso ciclone devastatore. Del loro numero fu il buon abate veneziano Angelo Maria Labia (1709 75) il quale nelle sue satire edite e nelle sue inedite, ben piu numerose, che son riuscito a scovar fuori di questi giorni piacevolmente scherza e; talora, amaramente si querela delle nuove dottrine che, oltre il resto, corrompe-vano ancor, ci6 che pili gli stava a cuore, la sua cara citt&. Notevolissimo parmi, in proposito, il sonetto «Miracoli? le xe cogionarie* ehe edito nella nota edizione del Gamba l), codato, in 17 versi, trovo invece nella miscellanea Correr 250 (cc. 728) con una coda ben piu lunga e fiorettato di tali sen-tenze che stimo opportuno darlo ora alla luce come quello che puo apparire come inedito del tutto: »Miraci li ? le xe cogionerie Che ste cose in natura no se da: El mondo ancuo xe troppo illumin& Per buttarghe in tei oehi ste scarpie. Le xe imposture, le xe birbarie De preti e frati che s' a imagina Per guadagnar; xe tutte falsita L' anirae, i Santi, i Cristi e le Marie. Basta che ben credemo in quel desora E anca qua ghe saria da dubitar Perche no gh' e chi 1' abbia visto ancora«. Questo, se mi no fallo, xe '1 pensar De sti spiriti forti e po in malora I zura quello che no i pol provar Perchš i vol sostentar L' onor de so Muier e de so mare Incerti dei so fioli e de so pare ! Credemelo, compare, Che. vogarave quanto se pol dir Quando go incontro de dover sentir Costori con ardir A spazzar come tante veritae Le piu grosse e masenghe falsitae Che sar& stae portae Da qualche libro o liogo oltramontan De fede e buon costume niente san. ') p. 20, Vol. X ; MDCCCXVII. Ma solo un barbaggian Podaravc ingiottir sti so bocconi Se, ben i studia farli parer boni El fin de sti birboni Altro no xe, infin, che imposturar Religion, sacerdoti e sacro altar! Ve lo pode pensar Che razza de costume strambalao Nassa da ste dottrine in ogni cao Ma ancor no mo impazzao Ma in quanto al mondo ghe scometteria De indovinar dove che sta genia Co sta so bella sia Cerca de capitar benchfe zelante Comparisca del Trono e del regnante Con arte da furfante I procura via via, cosi, bel bello De far ai so paroni el trabucchello E mandarli al bordello Perchš chi scazza vera religion Segno che no i vol piu nessun paron. Ve digo la rason Cosi s' a visto in Scozia, in Inghilterra In Fiandra e in altri lioghi dove gera Fede Romana vera. Che come zo de sedia i 1' ha buttada Ancora ai so sovrani i 1' ha schizzada E fino la k arrivada L' insolenza bestial de sta fazzion A far mazzar dal boia el so paron : Ve digo in conclusion Che disgrazia piu grande no ga i stati Quauto aver de sta sorte de privati Che, propriamente, nati I xe per la rovina e destruzion Delle leggi, dei Stati e Religion No i ga nelle sue azion Altra mira e disegno doperar Che queilo de se stessi sodisfar. Senza niente pensar Ai effetti funesti che ne vien Tanto al comun come al privato ben. Ah! prego il Sommo Ben Che confonda e disperda sti sguaiai Vera peste del mondo e veri guai! Donca šari sbeffai Chi credera li gran prodigi e tanti Che ha fatto Dio per mezzo dei so Santi E sarži tutto impianti Le cose che me dise la Scrittura Operae da Moisš con fede pura? Che aveva la natura Pronta al so senno e fava tali cose Che al volerle contar manca la vose! E che ancora famose Le xe nei libri, statue e tradizion De quasi tutte quante le Nazion. Taso le operazion Dei časi sorprendenti che s' k visto Quando che xe comparso Gesucristo Lš, se vede provisto E consoli nei so bisogni ognun Senza che desgusti se parta alcun. A vista de ciascun E1 fa che l1 orbo veda, parli il mutto E quel che giera sordo senta tutto. Sel vede col pie sutto A caminar seguro sora el mar E colla vose 1' onde el fa calmar; Sel vede a far sbalzar I morti vivi dalla sepolttira Che pensandoghe su me vien paura : Donca se la Scritura Che ga de verita prove sincere V0II6 che non contegna cose vere Le sarii pure e mere Fiabe ancora le cose che i ga scritto Dei Romani, dei Greci e deli' Egitto E falsamente ditto Sara che Livio, Seneca e Platon Abbia scritti lassa con Ciceron. Co xe cussl, rason Avaria i Cattaveri a no badar A quanto ghe savessi seritturar O carte presentar Per impedir che senza remission I ve tioga le čase e possessiou Perchfe a proporsion Assae piu. scarse prove vu gavš De quelle che da stolidi neghš. Altro de forza gh' 6 E fondamenti sodi de rason Nei libri della nostra Religion De quel che vu patron Dei fondi e capitali che gavž Mostrfe i scritti che in časa conservč. Quieti no ve move Ascolteine che parlo da dovvero Con scienza, veritade e cuor sincero Quel che digo xe vero In forza ancora de quelle rason Che vil stessi adnsft per profession .........*) I miracoli i Santi crittichčs O le vostre scoverte publichš. Diseme ora perch£ Ve par che a creder Dio se stenta assai Per la rason che nol se vede mai O pezzi d' incensai Con occhio material dunque volž Che Dio se veda che incorporeo xe ! Mi penso che burlč Perchž no čredo che si6 tanto grossi Da pensar che Dio abbia e pelle e ossi In maniera che possi Esser soggetto aH' occhio corporal Come sel fosse corpo material. No ve ne abbiš per mal Se col nome comun de miscredente Anca da matti ve tratta la zente. Mi no ve digo niente Ma supponfe che ve tiri in desparte E ve mostri depento in tela o carte Tutto quello che 1' arte Puol mai de bello far per il dissegno Come per forza del talento e inzegno Vu, alloro per impegno Co 110 vedfe el pitor che la lavora Dire che da per si le s' ha form& E da per si schiara In quell' ordine vago e sorprendente Che rapisce, che incanta chi d& mente Cussi vu finalmente Se eostretti a pensar per sostentar Cose che fa le piere delirar Se no se da mandar.. . Ali' ospeal dei matti a far la manua Lasso che chi xe savio ve condanna. A lettere de spanna, Ve dise questa fabrica mondial Ch' el so autor xe invisibile, imm(>rtal. l) Manca il verso nel ms. In zucca tanto sal Ga donca adesso el mondo illuminA E nelle gran dottrine incamina Che tanto raffina Sostente che in ancuo lu sia vegnuo A diferenza del tempo scaduo. Mo no g o mai abuo Sta idea ma accordero con distinzion Quello che čredo giusto e de rason Che ancuo ghe sia del bon E sodo in apparenza lo concedo Ma in sostanza e real mi ve lo nego Perchš altro no vedo Che scetticismo schietto e grossolan, Vestio colla livrea de zaratan, Causa d' ogni malan AH' interesse publico e privato E senza distinzion de classe o stato Vedemo za de fato Che el bon costume casca a tombolon E che no gh' e piu fren de religion: Tirai dp.lla passion A brena averta i corre a precipizio Senza discrezion, senza giudizio. No se vede che vizio Che malafede, impianti, falsita Che no čredo compagne mai sia sta Viste in nessuna etA; Ma solo dopo che ste pellegrine Xe sta portA fra nu niove dottrine Da certe soprafine Teste moderne che vantando va D' aver el (sic) alfin come che va Tutto fuora eav;\ Dali' ignoranza ed altri errori grossi Che gavea i nostri vecchi fin sui ossi. Se piu zovene fossi Vorria, protest o, far toccar con man Che i xe veri impostori e Zerattan Zente che sotto man Lavora quanto i puol per distruzion De tutti i Stati e della Religion. Come il mio acuto lettore facilmente scorge parecchi punti nel presente sonetto anno una non disprezzabile impor-tanza: oltre che il costante accenno alle nuove idee d'oltralpe le quali il poeta giudicava tutt' altro che mezzi efficaci di illu-minata politica sottile 6 1' osservazione che le tanto strampalate riforrae altro non potessero essere che un garabetto meditato alla costituzione della republica, pur sotto il manto della devozione ali' autoritA legittima, e quella piii innanzi che «chi scazza vera religion* fa capire che non vuol saperne di alcun freno di legge; naturalmente dovevan soccorrere alla mente deli' abate i passati esempi d' Ingliilterra, di Scozia, di Fiandra. Facile gli riesce poi il confutare coloro che mostravan di dubitare della tradizione divina mentre la vena satirica va sempre piu fiorendo gagliarda in fine dove il Labia afferma il crescente scetticismo causa d' ogni malanno ali' interesse publico e privato e della corruzione dei costumi. Tale motivo non e nuovo nel nostro poeta ma in questo sonetto e svolto nella forma piu chiara e, direi, piu profetica: le numerosissime composizioni poetiche veneziane del 700 che ancor giacciono inedite racchiudono un inesplorato tesoro di ammonimenti di vario genere che darebbero motivo assai al Labia di rallegrarsi della sua lungiveggenza ancor ora: esse (sempre che mi passan tra le avide mani che ansiose corrono alla ricerca inappagata, nella sua pienezza, del terribile e mi-sterioso perche della fatale abborainevole rovina di Venezia) mi dan brividi di gioia come studioso, di raccapriccio come cittadino germogliato, e non me ne duole, dal suo seno. Antonio Pilot. ippiti taicali sia narlata della camtapa istriana. (Contmuazione; vedi N. ant.) 43. Nella campagna istriana avviene anche altra muta-zione fonetica, cioe si premette la labiale l a sostantivi che incomincian per vocale (prostesi). P. e. la lombrela per «].' om-brella» ; la \epoca per «1' epoca» (p. e. adesso semo in t' una lepoca piena de imbroiegi); el Unverno per «l'inverno»; la \ombra per «l'ombra»; el 1 istd per «restate»; la lellera per 4'ellera». Ma anche questa concrezione prostetica deli'articolo e un idiotismo toscanissimo; mica poco! Infatti il Fanfani (856, col. 2) a proposito della voce »la lellera* (ricordata anche dal Petrocchi II, 39, col. 1 di sotto) osserva: »detto per idiotismo, incorporato 1' articolo nella voce, come lamo e landrona» per <1' amo» e 4'androna*.— Cosl il campagnolo d'Istria dice anche el lusignol per 1'usianolo, come dicesi e scrivesi oggi. Ma si noti che cosl scrissero Agnolo Firenzuola, Giovanni Ghe-rardini e Luigi Pulci nel «Morgante». II Cardinal Bembo e il Sannazzaro scrissero anzi il luscignuolo (lat. luscinia). Cfr. P. II, 98, di sotto, e F. 886. II Boccaccio {Decam. g. V, nov. IV) ha questo passo che pare istriano: «et udendo cantar el lusignolo*. 44. Dove. Come avverbio di luogo, questa voce si nel parlare cittadino, che nelle locuzioni del vocabolario italiano, b sempre determinata e vale «in quel luogo nel quale»; invece nel parlare campagnolo b ripetuto ogni dl in senso indetermi-nato, nel significato cioe di «in qualche luogo», significato che al dialetto cittadino b ignoto. In campagna si dice: — Savard dove, se sta notigia xe vera — per: «-sapro in qualehe luogo , — Trovarb dove el mio capel — non gia nel senso di *trover6 dove b il mio cappello>, ma nel senso di »trovero in qualche luogo il cappello*. — No čredo che i sa dove, che lu a Capo-distria xe sta in preson — per dire: »non čredo che in alcun luogo sappiano ch' ei fu in carcere a Capodistria». — Quest'uso b anche deli' aureo Trecento. Vedine un beli' esempio nella comicissima istoria di fra Oipollo del Boccaccio (Decam. g. VI, n. X, pg. 108, II): «E dove che elle poco conosciute fossero, in quella contrada quasi in niente erano dagli abitanti sapute» — nel senso: «se in alcun luogo d'Italia erano poco note, li erano sconosciute*. — II campagnolo istriano anche dice: — Vien dove mi —, modo che a noi cittadini strazia gli orecchi, quale torma di sintassi nordica. Viceversa b forma nordica, com' io sono svedese; ch& anzi b bel modo popolare toseano, ricordato dal Petrocchi (I, 788, col. 1) nella proposi-zione: — Vieni (a) dove me. 45. A come. Dicesi in campagna: — .4 come go sintii, lu 'l ga torto. — Me par che a come i parla, no sia vero. — Vedaremo a come. — Siffatti modi, che a certi posson puzzar d' ostrogoto, son modi congetturali italianissimi, come nota il Fanfani (353, col. 2); e come osserva il Petrocchi (I, 519, col. 2) son modi prettamente popolari. Vedi gli esempi toscani: «A come dice lui le cose sarebber diverse>. — «Se tu parli a come parlano loro, fai scappar tutti>. — «A come parla pare un santo». 46. Quando. Quest'avverbio di tempo nella eampagna istriana viene usato, come il «dove» gia veduto, nel senso in-determinato di *qualche volta, una volta*. P. e.: — Se savara guando. — Dramavo che 'l vignissi guando. — El finird quando de far dispeti. — Ti fara giudizio quando. — Al-manco quando! — per: *altneno una volta> e piu spesso per «finalmente». — Uso del Trecento anche questo. 47. Ihe. Le locuzioni nelle quali il parlar campagnolo istriano usa questo pronome relativo sostantivo, non hanno a che vedere col dialetto cittadino. Per maggior chiarezza clas-sificher6 questi modi: a) — Che donehe cossa? — Quest'ap-parente barbarismo, frequentissimo fra i campagnoli, 6 anche modo italiano arcaico; vedi Petrocchi, I, 442, col. 2 di sotto; b) nel significato di «qualche eosa» : — Se ti ga che, dame che magno. — Se savessi che, glie rispondaria subito. — El ghe da sempre che ai poveri. — Qercard, e trovaro che. — Siffatto modo, ricordato dal Tommaseo, b arcaico, ma espressivo e di conio italiano. II Petrocchi, (loc. cit.) ha 1' esempio tratto dagli Avv. Cicil. «Se egli ha che». — Con un verbo cui preceda la particella negativa non, il che equivale a nulla. — Perchč no ti lavori ? — No go che. — No trovo che, par repegar ste braghe. — Anche questo 6 modo arcaico letterario. II Cardinal Bibbiena serive: «Non ho che gli ponga inanzi». — c) nella frase non so che, d' uso cotidiano, non gift, nel solito significato della frase letteraria «un certo non so che», segno di cosa vaga, indeterminata, che non si sa spiegare, ma nel significato di vero articolo e pronome indeterminato. La sola la frase campagnola «non so che» equivale a «qualclie cosa». — Go fato per gena no so che. — Vien, ti magnara de mi no so che. — Dinanzi ad un sostantivo equivale aH' articolo indeterminato uno, pl. alcuni. — Go visto el sarto che 'l portava no so ehe vistito. — In vespero el nongolo ga toča corer a stuar no so che candela che ardiva tnal. — Daghe no so che soldi. — Stassera a barba Nane, co 'l menava no so che hote, un manzo ga fala un pie. — Doman devo andar a gercar no so che lavorenti. — Ogi go no so che opere. Questo e anche modo trecentesco ital., usato spesso assai dal Boccaccio, nel «Decamerone» e nel «Corbaccio». 48. Chi. Da solo quest,o pronome personale equivale nella eampagna istriana a gualcuno, e preci-amente nelle seguenti locuzioni: a) interrogando: — Xe chi gua? — Ti ga trova chi per strada ? — lera chi in časa ? — Non gik nel senso di — chi 6 qua? — chi hai trovato per istrada? — chi era a časa? — ma in quello di: — c'6 qualcuno qui? — hai trovato qualcuno per istrada? — era qualcuno in časa? — h) col verbo infinito. -- Se gavessi chi cusinarli, compraria caparocoli — cioe: «se avessi chi me li cucinasse....» — No trovo chi lavarlo, e me toča 'ver el fagolet.o sporco — cioe: «non trovo chi me lo lavi ...... Questi modi sono anche italiani, abbenche ci sembrino errati. II Boccaccio ha: «e se ci fosse chi farli*. — Vedi anzi P. I, 445, col. 2 di sotto. — II Fanfani (315, col. 1) reca il bellissimo esempio, che par tolto dal parlar dei campagnoli istriani: «Non c' e chi mangiare questa cena*. E come poi si dice non so che per una cosa, cosl si dice non so chi per uno, gualcuno. 49. Marmoro. Detto per »marino», a noi cittadini fa da ridere e pare voce slava. Invece e forma della lingua letteraria arcaica; cfr. P. II, 162, col. 1 di sotto. Ed inoltre conserva 1'impronta della sua origine latina *marmor»t donde il tedesco der Marmor e lo slavo mermer o mramor. Dicesi: — Volč meter la ciesa nostra co la ciesa de X.; la i altari xe de legno, i nostri xe duti de marmoro. — Che bela piera! la par de marmoro. — El ga i cali de le man duri come el marmoro. — Co guel apetito el rosighessi anca el marmoro. — Ed ora si noti: II Boiardo scrive: «Un bel sepolcro di marmoro adorno* ; il Nannucci ricorda la frase «nello mar-moro* e il Cammelli scrive: «Tu mangi il legno, il marmoro. 50. Leie. E' d' uso campagnolo cotidiano per legge. — La leie caga la rajon. — Coss' te pretendi de meterme leie a mi? — Ma non 6 storpiatura slava, bensi 6 voce letteraria arcaica ; la ricordano il Petrocchi (II, 39, col. 1 di sotto) e il Nannucci; e trovasi di piu nella celebre Vita di Cola di Rienzi. 51. Racamare. Dicesi: Altro che racami! la gapa, la (japa xe per ti. — Le nostre ragazze no ocori che le sapi racamar, ghe basta saver far la cal(;a e colzer radici. — La pretendi de esser una racamatrice (o racamadora). — Questo verbo per «ricamare» 6 fior d' italianita. Vedi P. IT, 662, di sotto, e F. 1216. 52. Madesi. E' la particella rinforzativa di si, ma si, che il campagnolo istriano adopera ogni momento, non solo nel confermare un fatto, ma anche per esprimere maraviglia al racconto di cosa che gli paia impossibile. — Ti sa che la dona de barba Luca ga ciapa el loto ? = Madesi. — Anche questa e voce arcaica (vedi P. II, 107 di sotto; F. 891), ma italiana quanto mai. Ricordisi che l' ebbe ad usare Annibal Caro nella sua apologia. — Cosi e italianissimo i i pleonasmo Sicuro si che in campagna 6 d' uso di ogni di e che fu usato assai nel secolo XIV (cfr. P. II, 956, col. 2 di sotto). 53. Pajese. Si dice cosl per paese e a noi cittadini fa far le smorfie come d' una storpiatura slava. Ma ben a torto che pajese per paese b voce arcaica italiana, usata da tra Guitton d'Arezzo. Cfr P. II, 428 di sotto; F. 1058. II poeta Iacopo da Lentino scriveva paise. 54. Onni. E' pronome per ogni, ed 6 veramente italiano sebbene antiquato. Vedi il P. II, 389, col. 2 di sotto. 55. Si. La forma della congiunzione condizionale se in citt& non viene mai alterata. Nella campagna invece la si dltera in si. Lasciamo da banda il fatto che nel periodo ipo-tetico latino la congiunzione k appunto si (si fuisses hic, magna profecto vidisses); certo 6 che siffatta forma a certi cittadini sa di barbarie. — Si xe impossibile, guarda de combinar quel nostro a far. — Mi preparo un piato dr. piv.; si V men, el trova pronto. — Ma anche la cong. si per se non solo e letteraria e fu usata dagli autori fra il sec. XIII e il XVI, ma — come osserva il Petrocchi, II, 956, di sotto, IV parola — č ancor oggi vivissfma nelle montagne toscane. Dunque il si campagnolo d' Istria 6 ben poco barbaro. 56. Promcttere. 11 campagnolo istriano non usa questo verbo soltanto nel senso di «dare un' assicurazione leale di far una cosa», ma anche, e piu spesso, nel significato di permettere, consentire. — Sior maestro — dicono i ragazzi — el me pro-meti de andar a časa ale diexe e meza, che. go de portar el pranco in campagna. — Dopo de quele barufe no 'l ghe ga piu promesso de meter pie in časa sua. — Si tu' pare te prometi, te ciogo con mi doman in gita. — Un vecchio visitatore dei morti di questo paese (morto gi& da alcuni anni) nella carta d' ispezione cadaverica scriveva sempre: pro mete sepultura a le ore ecc— Anehe quest'uso & italiano; vedi P. II, 611, di sotto, col. 2; F. 1185. L'ebbero persino alcuni autori. Cosi il fiorentino Benvenuto Cellini (1500-1570) serive: «Un' impresa che non lo promette 1' arte®. II Fanfani osserva che & un »brutto idiotismo»; ma sia brutto quanto si vuole, resta pero sempre italiano. 57. Cognoscere. Basta in citt& che ad uno scappi detto cognosso per conosso (= conosco), e lo si identifica tosto per un s'ciavon Ma a torto, e torto marci o! La forma cognosser non solo 6 letteraria arcaica (vedi P. I, 500, di sotto; F. 344), ma e forma che oggi, con i suoi derivati, b vivissima nel contado toscano. Vediamo un po'. II campagnolo istriano dice: — Ogi me ariva col treno un cognossenle, che iera sogio de mio pare defunto. — Toni xe omo selvadigo; no 'l cognossi nd amici, ne parenti, ne cognossenti. — Ora la forma cogno-scente, si agg. che sost., non solo la si trova negli scritti del sec. XIV, p. e. nei famosi «Ammaestramenti degli Antichi*, ma vive nel contado fiorentino, come osserva il Petrocchi stesso. Dicesi aneora: -— Vien ti con mi doman a Parenzo; ti me aiutara, parche la mi go poco cognossenga. — No go fato e gnanca no me piasi trope cognossenge. — Ebbene, questo derivato non solo fu usato nelle Favole d' Esopo del sec. XIV e nel Volgarizzamento antico di Severino Boezio, i vive oggi pili che mai nella campagna toscana e in modo speciale nel contado di Pistoia, ove dicesi p. e. (cfr. P. II, loc. cit.): «Non fd cognoscenze nove». E del verbo cognoscere persino la forma cognoscemo (istriano cognossemo) del pres, indic. b proprio dei campagnoli toscani. (continua) Francesco Babudri. Jtoatui di scultura oeneziami a Cberso Chi volesse conoscere la storia deli' isola e della cittš, di Cherso, non tarderebbe a soddisfare il proprio desiderio colla lettura delle opere di vari scrittori, sia italiani che stranieri, frutto di dotte fatiche ed accurate indagini. Dopo aver frugato con solerzia negli archivi, di storia assai si scrisse, ma cio che ancor rimane a fare sarebbe un elenco degli avanzi storici che oggi ci rimangono. Benche a detta di Plinio *) vi siano state delle terre murate sull' isola di Cherso, pure si possono dire scarsi i resti deli' era romana2), abbondantissimi invece sono gli avanzi di quell'epoca, in cui la patria nostra stava sotto il dominio di Venezia, di quella serenissima repubblica, che da Paoluccio Anafesto sino alla comparsa del primo Napoleone, seppe attraverso un mil-lennio serbare intatta la sua indipendenza e la supremazia sul mare. II mio tentativo di illustrare questi avanzi non sar& l'uor di luogo perche se tante cittA. deli' Istria vanno gloriose delle loro vestigia veneziane, anche Cherso per la sua struttura si appalesa del tutto veneta. Non v' & dubbio che fossero state in g ran numero le fa-miglie nobili che vi abitavano ali' epoca del dominio veneto; ci6 ci viene avvalorato dalla quantit& di stemmi che ancora oggi si vedono scolpiti sugli architravi di porte e porticine sino nelle piu segrete calli della citt&, e dalla cronaca di Andrea Dandolo apprendiamo che i signori veneziani vi avevano dominio sin dali' anno 991. Ma i palazzi dei nobili non žmno oggi 1'aspetto suntuoso d'altre volte; sparirono le avite ricchezze, si estinsero le nobiltži, e le antiche e sfarzose sale cedettero il pošto a miseri abituri di pescatori e popolani. Sicchč non di rado ove apparisce uno stemma a bassorilievo, o un acquaio veneziano, si vedono ammucchiati attrezzi di pešca, ordigni rurali e simili. Sulle flnestre arcuate dei veneti ') Vedi Plinius Secundus »Historiarum mundi» Lib. III, 25. s) Ne va eccettuata la cittA di Ossero, 1'antica Apsorus, ehe vanta come ognun sa, un ricco miiseo di preziosissimi cimel1'. Ultimamente alcuni scavi auno condotto alla scoperta delle traccie del foro romano. palazzi stanno oggi tese reti o tramagli ad asciugare, sotto gli antichi archivolti stani.o ammassate sagene e tisie da pešca, e nei caminetti ali' uso francese adorni di stemmi e fregi, vengono custoditi gli orcioli di olio c di vino. Dove in altri tempi vi abitava agiatamente una sola famiglia, oggi ve ne stanno addensate dieci, dappoiche i ricchi appartamenti a forza di tramezzi e di soffitt', furono ridotti a piu piani e a piu quartieri. Ma fine ancor peggior>- ebbero molti oggetti antichi, che oggi per 1' archeologo avrebbero uno storico valore o un' impo'tanza artistica, i quali per la solita eu-pidigia dei tesoii nascosti furono ridotti a pezzi, o usati per la muratura di nuove čase da zappatori '), o finalmente venduti a vile prezzo a scaltri foresrieri che ne arricchirono i loro musei d' oltremonte. Ma v' e di piu: non e soltanto al popolino, in parte compatibile, perche rozzo ed ignorante, che va ascritta la profanazione dei monumenti artistici, ma bensi a gente colta e civile. Sono stati appunto certi iconoclasti del secolo XIX a privarci degli stupendi emblemi di S. Marco, che abbellivano le porte della citt&, e quei magnifici leoni alati furono dai bai^bari scalpelli ridotti a nude lastre di sasso. Pero, il furore di quei vandali non si limito ali' isola nostra, poichč pur troppo leggiamo che anche a Gradišča furono distrutti due grandi leoni alati che ornavano 1' uno il torrione della Campana, 1' altro la porta detta di Germania8). Cosi pure a Padova, ndo si ridusse a caserma il convento di Santa Giustina, sx fecero intonacare le pareti seppellendo tutte le preziose pitture, e per farvi aderire la malta si ordino di picchettare i dipinti a forza di martellina 3). Come le altre citta deli' Istria che giurarono fedeltit a Venezia, cosi anche Cherso era racchiusa da fortissime mura coronate da merlature, e fortificata da cinque torri che forma-vano riparo sicuro contro aggressioni notturne di pirati e di Uscocchi. Di tutto cio oggi no a ci rimangono che pochi metri di mura al Prato, e una torre sola, quella che s' erge sulla ') E' accertato che lo stemma scolpito in pietra della famiglia Ma-labotta, rappresentato da un grappolo d' uva, fu murato per crassa igno-ranza durante la ricostrazione del tetto della vecchia časa in sestiere San Giorgio. 2) Vedi Val. Patuma «Epigrafi gradiscane» in »Forum Julii» I, 7. 3) Vedi Giuseppe Caprin «Istria nobilissirna« Vol. II, pag. 98. collina a occidente della citt&. Se non che le merlature della medesima sono una ricostruzione moderna, perchfe le originali minaccianti rovina furono demolite. Altri avanzi di mura osser-viamo la, dove alcune casupole si fabbricarono a ridosso della cinta. II solo leon di San Marco che ci resta, testimonio d' una grandezza che fu, stava sulla facciata a mare della torre sinistra ali' entrata del porto. Ma quando le manomissioni van-daliche raggiunsero il culinine, esso termino a pezzi fra i rottami della spiaggia sottostante E li per incuria degli uomini rimase abbandonato per lunga serie d' anni, corroso dal mare e invellutato dalle alghe marine, servenclo di appoggio alle donne del popolo quando andavano a sciaccjuare i loro lerci panni. Intanto la cittk, al pošto delle antiche mura vedeva aprirsi spaziosi viali, mentre il materiale di rifiuto veniva asportato e gettato sulle sponde del porto. Ed e cosi che i frammenti del leone furono sepolti, ma la memoria rimase viva nella mente dei vecchi chersini. Al dottor Petris, divenuto podesta di Cherso, venne 1' idea di ridare alla luce quel leg-giadro monumento di scultura veneziana e procurd i mezzi finanziari per la spesa necesBaria. Si diede mano al lavoro che alacremente ferveva sotto la scorta del su detto signore, e a dispetto di certi cervelli appannati che malignavano su quegli scavi, ecco dopo breve tatica apparire alla luce i gio-riosi frammenti. Furono ricomposti e formano oggi il piu bel monumento storico della citt&, collocato sulla torre deli' oro-logio in piazza maggiore. Dobbiamo dunque serbare al Dr. Petris perenne gratitudine, per aver salvato il leon di San Marco alle deturpazioni dei secoli scorsi e averlo ricollocato in quel pošto che degnaraente gli si conveniva. Delle quattro porte principali della citta '), due sole arri-varono intatte fino a noi, la porta Bragadina e la porta Mar-cella; in ambedue si vedono ancora oggi i cardini di ferro impiombati al muro, su i quali giravano i pesanti battenti, chiusi a sera dai portinieri, per assicurarsi dalie orde sel-vaggie, che la notte sbarcavano sull' isola, scorrendone le campagne a solo scopo di rapina. Osserviamo sopra ii volto della porta Marcella, a destra io stemma Marcello, a sinistra l) Oltre alle porte maggiori, v' erano delle porte secondarie chia-mate «pusterle». quello di časa Cicogna, nella parte posteriore verso 1' interno della citt&, stanno lo stemma del doge A. Gritti, e una lapide che reca la seguente scritta: sperandeo barbo chersi et avxer1 praeses in amore et ivstitia par pater moenia haec pro civibvs ad seovritatem redvxit dvxit pace — dvxit corda ex eo solo nata solo arbor de bona spe lector vade et memoriam adde an dni 1689 La porta Bragadina piu bassa della prima e di forma piu tozza, 6 fornita di uno stemma a croce e di due altri mezzo distrutti. Sopra ambedue le poste si riscontrano ancora le traccie deli' emblema della Repubblica, cancellato a colpi di martello. Fra le piu forti famiglie nobili de' secoli passati, va an-noverata in prima linea quella dei Petris divisasi in molti rami, parecchi dei quali oggi sono gi& estinti. Dicesi che il capostipite di questa famiglia sia stato un certo Pietro che apparisce per la prima volta nel 1310 '). Benche ognuno di questi rami abbia l) Colui che gode maggior farna 6 di certo il cav. Nieolo de Petris, nato a Caisole nel 1585, sposato con Lucia Grimani, morto nel 1640. Fu fregiato nel 1619 del titolo di cavaliere «in pleno collegio alla presentia di molti nobili nostri e di buon numero di cavalieri et frequenza di altre persone civili, per aversi egli adoperato nei bisogni della Rep. nostra et con la persona et con lo ingegno non solo a difesa deli' isola di Cherso tenendo la sopraintendenza et il comando di milizie, senza alcuna spesa pubblica, ma anco trasferendosi a rilevanti imprese impostele da nostri generali, nel che si & dimostrato coraggioso et prudente. Oltreche ha con generositš, propria sua et de suoi maggiori offerto et esposto senza rispar-mio le sue fortune a pubblici bisogni. Per li quali servigi prestati po tra egli portar la centura, la spada, le vesti, li sproni e tutti gli altri orna-menti militari che fanno tutti gli altri di simil dignita graduati*. Una copia di questo documento che fu dato a Venezia nel palazzo ducale il giorno 4 luglio 1619, viene conservata dal Dottor Giusto de Petris-Plauno a Cherso. lieli' arma gentilizia qualche fregio differente, lo stemma dei Petris k lo scudo inquartato vale a dire diviso in cjuattro spazi eguali per ima linea perpendicolare ed una orizzontale che si incrociano. Di questi stemmi scolpiti in pietra ve ne sono moltissimi. A tacer d' altri di poco conto diremo di un beli' esemplare che sta sulla facciata della časa in calle dei Fabbri, ove anticamente abitavano i Signori Petris de Caisole, quando reduci dal loro castello, facevano soggiorno in citta. Se ne scorge un altro piu piccolo sulla faccieta principale della chiesa di Santo Spirito, uno sull' architrave del portone del vecchio palazzo Tintinago ed uno di formato diverso sopra 1' entrata della časa Petris-Stefanello in via del Torrione Ma forse 1' esemplare piu bello e piu grande di tutti, 6 quello che sfugge alla vista del visitatore, perche trovasi internato fra čase di agricoltori, al num. civ. 713 in calle Ottaviano Bembo, sulla facciata prospettante il cortile. Vi si osserva in alto sopra lo scudo inquartato, 1' elmo volto a sinistra ornato alle parti da bei fogliami ed altri fregi, mentre ai lati inferiori stanno avviticchiati due draghi dalle fauci spalancate (vedi fig. 1). Senza numerarne altri, privi di qualunque or-namento, per lo piu rozze opere cli bassori-lievo, di cui 1' elenco sarebbe troppo lungo, restringiamoci a dire di uno, singolare per una brisura che reca nel quarto superiore destro, consistente in due fascie gemelle poste in banda. Tale stemma, lavoro di rozzo scal-pello, lo troviamo su di una porticina nel ballatoio di una časa di marinari N. 413 in una androna di calle Ottaviano Bembo. Fra le piu note voli famiglie del secolo XVII, tiene il primo pošto quella dei cavalieri Sforza. I diritti di possessione su vasti pascoli e boschi in varie parti deli' isola spettanti a questa famiglia, stanno a provarcelo gli antichi documenti dei nostri archivi. Lo stemma gentilizio & lo scudo ovale tagliato da una fascia orizzontale, mentre nel campo si osservano mazze ed altre armi da battaglia deli'epoca cavalleresca; vi e sovrapposto 1' elmo volto a destra con visiera abbassata. Un esemplare ancor bene conservato si trova scolpito sulla vera della cisterna nel chiostro di San Martino in Valle, dove gli Sforza vantavano estesi possedimenti. Un altro non meno in- 'co eovt^. (fig- 2) teressante spicca sul coperchio tombale nella chiesa del con-vento delle Benedettine a Cherso, ove appunto trovansi le sepolture di questi cavalieri. Sotto lo stenama leggiamo un' epi-grafe sepolcrale deli' anno 1643 (vedi fig. 2). Un' altra famiglia nobile del secolo XVII, estinta gi& da molti anni, era quella dei Fer-ricioli, nobili di Ossero, donde vennero a Cherso, la quale diede i natali a parecchi uomini d' alto affare. Siccome era consuetudine di quei tempi, di seppellire i cadaveri delle persone distinte nei chiostri e nei sagrati, troviamo le tombe di questa famiglia nella cappella dedicata a S. Caterina al Prato. La lastra di pietra che cliiude 1' arca, reca scolpite le iscrizioni funerarie e le insegne gentilizie, cioe lo scudo rotondo diviso da una croce in quattro parti uguali. Sono raffigurate nella ripartizione superiore destra ed inferiore sinistra, due volatili soranti volgenti il capo a sinistra, sor-montato da una piccola corona, mentre negli altri due campi sono rappresentati due martelli d' anni cavalleresche. Anche una lapide di pietra d' Istria, conservata nella terrazza Bol-marcich in piazza della Riva, ci offre uno stemma chiaro di časa Ferricioli, cui stanno sovrapposti una mitra ed altri fregi araldici. Al di sotto vi si legge un'iscrizione ampollosa deli'anno 1687, fatta. scolpire dall'abate Dom. Ferricioli ch' era dottore in teologia (vedi fig. 3). Fra i nobili piu facoltosi del secolo XVIII noteremo i De Moysis '), oggi Moise, la cui nobilta venne a cessare colla caduta della Repubblica. I loro stemmi li troviamo a mosta sul castello di Cosliaco in Istria, donde i Moise si portarono nella nostra citt&, per prendervi stabile dimora ; oltre di cio sulla vera della cisterna in časa loro, dove si vede scolpito in alto rilievo lo stemma gentilizio, raffigurato dal leone rampante. Un altro ancora piu bello spicca sull'architrave di un portone interno nei cortile (fig- 3) 'j Nei libri «Erbatici», pergamene del secolo XVIII conservato nella fattoria del Capo, si riscontra il nome De Moysis scritto sempre in questa guisa. (fig. 4) della vecchia časa, ed un terzo finalmente trovasi incastonato fra le rovine della chiesa diruta di Santo Stefano nell' ubertosa vallata di Pischio, ov'erano le vigne e gli oliveti di quei nobili signori. Oltre due illustri letterati secentisti, vanto di questa famiglia 6 1' abate Giovanni Moise (1820-1888), il reputatissimo linguista, che lego la celebriti del suo nome alla preziosa grammatica della lingua italiana, lodata persino dal severo Carducci (vedi fig. 4). Un bel lavoro eseguito sugli albori del secolo XVI 6 1' antica časa Rodinis in via Na-scimben. II bel portone reca lo stenama di famiglia consistente in due ruote sormontate da una stella, ovverosia di una figura, che secondo il costume di allora simboleggiava il nome del casato. Notoriamente tale uso si riscontra spes-sissimo nell' araldica antica. Come per esempio le famiglie italiane Colonna- della Rovere ecc. cosi anche i nobili d'Istria: Polesini, Daino-Oliva ecc. avevano i loro stemmi composti di ligure che per lo piu ne simboleggiavano il nome ). Due stipiti lavorati artisticamente reggono 1' architrave che a la data del 21 aprile 1505, e porta inoltre una bella iscrizione latina (vedi fig. 5). L' uguale stemma si trova sopra due altre porte in piazzetta San Martino, in quel corpo di edifici che apparteneva a questa famiglia, e su di un caminetto in pietra ali' uso fran-cese. Ma alla bella facciata del su nominato palazzo cinquecentesco, fabbricato in pietra squadrata, fu tolto il suo carattere antico, poi chž fu tutta intonacata, e pel solito pessimo gusto imbiancata con calce Rim:mgono ancora intatti gli archivolti delle finestre. Da molti anni venne a rnancare la cospicuitA, a questa časa, vi v ono pero ancora oggidl alcune famiglie di agricoltori, discendenti forse da questa nobile schiatta 2). Ma 1' edificio che meglio d' ogni altro mantiene almeno esternamente la sua impronta antica, e di certo il palazzo (fig. 5) ') Cfr. Caprin «Istria nobilissima« Vol. I, pag. 253. La famiglia Rodinis non apparteneva alla nobilta chersina, era forse. nobile di qualche altra citta vicina. Quantunque appartenesse al četo popolare, era si potente da gareggiare colle piu nobili. Borri in calle San Marco Per un vasto portone si accedeva nell' interno di questo palazzo, ove vuolsi vedessero la luce il celebre umanista Francesco Patrizio e il vescovo Marcello. Sull' architrave vi 6 aflisso lo stemni a in pietra, composto dallo scudo svolto a cartoccio, traversato da due faseie gemelle poste in banda. Le bifore prospicenti la piazzetta sono in istile gotico veneziano, e conservano i begli archi acuti; ma le in-quadrature originali furono in parte murate, sicche dentro del-1' antico finestrone si vedono delle piccole aperture quadrilatere che danno luce alle interne stamberglie in cui furono ridotte le sfarzose sale d' un tempo. Le altre tinestre che prospettano la calle San Marco, appartengono gia ali' epoca della rinascenza. Alcuni piccoli stemmi con differenti fregi, posti su porticine interne e secondarie del palazzo, sono ancora a dimostrarci in mezzo alla miseria la loro nobile origine. Scorrendo con 1' occhio sulle vestigia veneziane, non 6 possibile che ci sfuggano le abitazioni dei nobili signori Drasa, in calle Sant' Isidoro, le belle čase dai muri a vista in pietra squadrata, dove due belle tinestre ad arco tondo, ed un acquaio in pietra con archi gemelli adorni di fantasiosi ornati, ci ricor-dano il loro antico vanto. Sopra le porte troviamo gli stemmi di famiglia accompagnati dalle iniziali B. D., collo scudo san-nitico recante quel pezzo onoriflco che nell'arte araldica prende il nome di capriolo o cavalletto, il quale secondo alcuni pare v"lia raffigurare lo sprone del cavaliere, secondo altri quel-1' arnese su di cui si deponevano le armi da battaglia 2). Ebbe origine da questa stirpe il famoso condottiero Colano Drasa, che tanto merito s' acquisto alla gloriosa battaglia di Lepanto. Troviamo li appresso ancora uno stemma ch' e da accen-narsi per le brisure che vi si osservano, le quali dovrebbero signiticare una parentela contratta tra le famiglie Drasa e Petris. Lo scudo sannitico e partito: a sinistra spicca il cavalletto a destra 1' inquartatura dei Petris. Un' altra famiglia d' illustre lignaggio, menzionata anche dal Fortis nel suo saggio di osservazioni sull'isole di Cherso ') Questo edificio apparteneva al ramo Petris-Marcello Si chiama oggi palazzo Borri perchš nel secolo scorso era passato in proprieta di una famiglia di tal nome. 2) Vedi F. Tribolati «Grammatica araldica» Milano, Hoepli Ed., Cap. VI, pag. 35. ed Ossero, fe la famiglia Colombis. Gode certa rinomanza Bla-sius de Colombis, comes palatinus, che visse nel secolo XV, fondatore del convento di San Martino. Stanno i suoi stemmi sulla facciata della časa Rossi in riva nuova, sulP ingresso della vecchia časa Colombis in via San Giacomo, e recano scolpita la colomba in atteggiamento di volo, con nel becco il ramo-scello di olivo (vedi fig. (>). Come a Buie, a Umago, a Rovigno, dove si giostrava e si correva ali' anello, cosi anche a Cherso uno spettacolo par-ticolarmente favorito era la giostra che si correva al Prato Sappiamo che questi di-vertimenti durarono in certi luoghi deli' Istria fino alla caduta della Repubblica; cio avveniva anche da noi, ed io stesso mi ricordo di aver udito dei vecchi a parlare di giostre e tornei, cui avevano preso parte i loro genitori. I com-battenti montavano robusti corsieri dalle bar-dature rilucenti; e di ci6 fanno ampia testi-monianza certi avanzi consistenti in isperoni d' argento, gualdrappe fornite di stemmi gentilizi, guarnimenti dorati e simili, che si conservano tuttora in alcune famiglie della cittži. Altre memorie che ricordano V epoca di Venezia, sono i fuvnaioli artistici, che troviamo in gran copia, e di forme svariatissime, le čase a gueffo, i frequenti cavalcavia, le innu-merevoli altane, le logge soleggiate ossia i liago2), le quali opere secondo il Caprin formano la caratteristica del secolo XVIII. Fra i tanti ornamenti che abbellivano le čase dei patrizi chersini, van ricordati gli stupendi lavabo, dei quali si conservano oggi solo pochi esemplari, perche molti furono asportati dagli antiquari-rigattieri, che si spesso infestano la nostra citt&, facendo bottino di quanto di prezioso capita loro sottomano. r) A Venezia si tehevano le giostre e i tornei in piazza San Mareo (Cosi P. Molmenti «Storia di Venezia nella vita privata» Cap. VIII, pag. 219). A Pirano si correva ali' anello il di di San Giovanni per ricordare la battaglia navale vinta nelle acque di Salvore contro Federico Barba-rossa; nel castello di Portole si allietava il tempo col gioco del toro. — Cfr. Caprin «Istria nobilissima* Vol. II. pag. 9. 2) Poco adoperata da noi, usatissima nelle citta a mare deli'Istria, la parola «liag6» dovrebbe provenire secondo la spiegazione del Molmenti dali' aggettivo greco v,Xiav,c che significa soleggiato. — Cfr. Pompeo Molmenti «Storia di Venezia nella vita privata» Bergaino 1905. Vol. I. Cap. II, pag. 66. (fig. 6) Ne rimangono ancora due bellissimi: uno in časa Budin in Via Abate Moise e uno in časa Petris in Via Sperandio Barbo, che assieme ad un caminetto cinquecentesco il quale si trova nella časa 672 in calle sant' Isidoro, formano delle opere ammirabili, che rispecchiano 1' ingegno e la pazienza degli scultori vene-ziani. Ne van dimenticati il portone del Duomo e la loggia pubblica, la quale d' interessante ci olfre la colonna dove in antico si davano i tratti di corda ai delinquenti e malfattori esposti al pubblico ludibrio. In calle Adrario e in via Francesco Patrizio, alcune finestre arcuate, abbeliite da fregi deeorativi, ci aiutano a dimostrare la bellezza scomparsa di signorili dimore. Nella calle su detta ci e dato di osservare lo stemma della cittži rappresentato dali' ippogrifo, incastonato tra i muri di una casaccia. Si sa che per ordine della Dominante si eressero in tutte le citt& istriane i pili di pietra, che dovevano sostenere le antenne su cui sventolava il vessillo deli' Evangelista; mentre quelli di Pirano e di Buie sono ornati dello stemma della Re-pubblica e della figura di San Giorgio, quello di Cherso e semplice e porta soltanto la data del 1735. In calle Ottaviano Bembo fu dissotterrata, durante uno sterro eseguito per la costruzione di una scala, una bella targa di pietra, che stando alle descrizioni del Tribolati, dovrebbe essere un lavoro del secolo XV. Fu murata sull' ingresso di u:.a časa a gueffo. Vi si osserva lo scudo incavato e pendente, fornito alla parte superiore sinistra di un intaglio, attraverso il quale durante la giostra passava la lancia del cavaliere. Sopra di questo stava 1' elmo chiuso come si usava portare in battaglia, che per6 e stato infranto da qualche maldestra pic-conata quando stava per rivedere la luce. Adornano il lavoro alcuni fogliami bellamente disposti ali' intorno (vedi fig. 5). Un altro lavoro degno di menzione 6 uno stemma rinve-nuto da poco tempo, e fatto murare sulla facciata della časa ali' imboccatura della via San Giacomo. Alcuni fogliami inta-gliati ed altri fregi arrotondati circondano lo scudo ovale tim-brato dali' elmo graticolato, su cui campeggia quella pezza onorifica che e propria dello stemma del doge Pasquale Mali-piero '). Inoltre troviamo lo stemma di Agostino Barbarigo *) Sirnile allo stemma gentilizio di časa Scampicchio, antica famiglia nobile della citti di Albona. doge, su in alto sulla facciata posteriore del Duorao, quello di časa Bembo sopra la porticina della sagrestia del monastero delle Benedettine e finalmente quello dei Grimani '), in una brisura degna di studio, che ci apparisce nell' arma genti-lizia, della famiglia Petris-Ercole. Cosi pure gli stemmi che rappresentano armi o suppellettili a seconda dei mestieri esercitati non sono rari. In calle dei fabbri ne troviamo uno recante la squadra, il martello e la cazzuola, tracciato in leg-gerissimo rilievo nel sopracciglio di un portone, dove, secondo una versione popolare, sor^eva anticamente un monastero di donne. Un altro su di una porticina a volto nei pressi della piazzetta S. Martino ci mostra un martello sormontato da una lettera D, un terzo poi in Via Rialto di data 1492 reca il solito motto *in hoc signo vinces» accompagnato da vari attrezzi marinereschi. Nel chiostro dei frati minori, e precisamente nel primo cortile circondato da un loggiato ad archi ov'e la cisterna pubblica, si pu6 vedere una vera di pozzo che porta ali' intorno sei bellissimi stemmi di diverse famiglie. Gli scudi svolti a cartoccio sono accompagnati dalle iniziali dei nomi, o da qual-che iscrizione come questa: «probasti me». Nell'interno della cliiesa vi b la sepoltura di: «Marcello de Petris de Chersio episcopi» morto nel 1526. Sul coperchio tombale spicca la figura giacente del vescovo scolpita in rilievo e contornata da arredi sacri. Non e nostro compito di frugare nelle biblioteche del convento per speciflcare le opere d' arte che vi stanno racchiuse, ricorderemo soltanto il prezioso cantorino ornato di magniflche miniature, opera paziente di qualche monaco che riempiva col suo nobile lavoro le lunghe ore di solitudine. Questo codice prezioso, che data dali' epoca in cui 1' arte stava appartata nei chiostri, fu danneggiato al tempo del breve dominio francese, quando alcuni soldati napoleonici ne ritagliarono le piu belle iniziali per portarle nelle loro regioni. Iguazio Mitis. II nome Grimani ci apparisce (come e giA, accennato altrove) allorchfe si parla del matrimonio del cavalier Nicolo de Petris. E' ricordato poi dal Caprin Antonio Grimani, il quale dopo essere stato sconiitto nelle acque del levante era caduto in disgrazia della Repubblica. Fu esiliato a Cherso e ad Ossero donde fuggi, riparando presso il flglio cardinal Do-menico a Roma. Ma aveva reso tanti e si insigni serrigi alla Repubblica che merito di essere restituito agli onori e assunto in fine alla suprema dignit& del dogado. — Cfr. Caprin, op. cit., II, pag. 30. MISCELLANEA ii Un carine sulle origini e le vicende di Pola II Kandler stampo nell'Istria II 317 alcuni Versi in onore di Pola d' ignoto autore, riportandoli da una citazione del cinquecentista Marcantonio Flaminio. Giova riferirli inte-gralmente, perch6 dovremo averli sott' occhio nel farne il con-fronto con quelli che piu innanzi pubblico per la prima volta. Pola vetus, tete posuit loviš inclvta proles Astrigeri; nondum norant tua littora nomen, Non cultor, non messor erat; montana colebant Agrestes tantum Nymphae loca, montioolaeque Immistis Satyris Fauni, Dryadumque choreis 5 Delia lustrabant, pharetramque, arcumque sonantem Attonitae sensere ferae: per littora passim Nereidum cantus audiri et stertere Phocae. Progenies loviš huc veniens, quo tempore Colchon Aesonides adiit Phryxeae vellera pellis 10 Ablaturus, ait: Comites Argiva juventus Hic memorem nostri condamus nominis urbem ; Et si quos longi ceperunt taedia cursus, Hic maneant, sedemque sibi, placidainque quieteni Invenient. Placuit sententia, protinus urbem 15 Aedifleant magni Pollucis nomen habentem. Hic alto primum ponunt delubra Tonantis Nec procul armiferae statuunt Tritonidis arcem, Legiferamque deam celebrant, patremque Lyaeurn, Neptunique aras in curvo littore condunt. 20 Crescit opus, longe lateque haec farna vagatur; Sic celebrem populiš urbem, generique nepotum, Atque vetustate insignem gens Thessala condit, Ante etiam belli Trojani tempus, et ante Debita quum divis caderet gens Dardana fatis; 26 Quam clari imperio reges tenuere vigentem Legibus et Divum cultu, et probitate virorum. Post haec illustrem magni fecere Quirites. Cum dominae facta est Romana Colonia gentis. Sic Deus excrevit, sic ingens fama, tenetque 30 Praeclarum in populiš per tot jam saecula nomen. I versi inediti ai quali accennavo pii su e che hanno stretta aftinit^ coi precedenti, si leggono nel Codice Marciano lat. XIV 68, carte 46-47. Li trascrivo modificandone 1' intf-r-punzione e togliendo solo quegli errori che sono dovuti ali' in-sufficienza deli' amanuense: Primordia civitatis Polae Polui sub Poluce Pola Jovis inclita prole : Nullis adhuc viris ceperant mea littora nomen; Non sator non messor erat, nemorosa colebant Agrestes nimphae tempe, montana plerumque Lustrabant Delia sociis armata pharetris. Multae iam cecidere ferae, cantusque ') sonoros Nereides et jura dabant; in ripis aquarum Praecipites illas miro candore vidisses Exerceri ludos et ubera. nuda inovere. Huc veniens 8) res ipse Polux, his nuptiis 3) et ardens: 10 Hic sedem ponamus, ait, delubraque deum Statuit, et Paladi Cererique sacravit honores. Peana canunt Jovemque patrem, placidumque Lieum. Dant eireum nomenque sacrant, dum super in astris Ethereis placide magis fulget nomine regis. 15 Post hunc me reges multi rexere: signanter Me coluit Roma: ludorum aspice molem Et excelsa diviim menia recolenda tropheis. Hinc Carlus, Orlandus acer pugnavit et ingens Bellum egit, non absque cede, et horrentia virorum 110 Corpora lapideis cernis tumulata sepulcris. Ha quam felix, quam dives agris, auroque superba Stabam classe potens, armata milite, ferox. Ast quia nil flxum sinit natura, deonsum Troia ruit, Cartago minax, florentes Athenae Maerent, Roma gemit jam quae mucrone, corusco Imperio premebat orbem. Sic fletibus usis Fortuna currenti rota me volvit ad ima. Heu quam mentis inops, qui se putat esse felicein Prosperitate fretus mundana; eu colligo quantum Post zephiros plus laedit hyems. post gaudia quantum Serius succedant luctus. Invenies certum Fore nichil melius quam nil habuisse secundum. Urbs antiqua Polae regalis filia Romae. Da un attento rj.ffronto delle due poesie si deduce con tutta sicurezza che la seconda b un rifacimento della prima ') II codice : canthiosgue. 2) II codice : unicus. 3) II codice : niptis. e non viceversa. Ad accertarsene bastano alcune osservazioni: la I 6 tanto stilisticamente, quanto prosodicamente piu corretta della II; in questa parecchi versi desunti da quella, sono gua-stati dalle modiflcazioni introdottevi: cosi nel primo verso la trasposizione della parola Pola e il passaggio di inclita dal nominativo (1) ali' ablativo (II) avvengono senza riguardo alla prosodia; nel secondo verso il nondum norant (I) diventa illo-gicamente ceperant (II); e chi ne ha voglia potrdi moltiplicare da s6 gli esempi. II raffazonatore pero a un certo punto diventa indipendente, che dopo aver rabberciato nei primi 17 versi i 31 esametri del modello, continua di suo a discorrere di varie cose che d&nno un certo interesse al componimento e che si prestano a varie considerazioni. In prova della grandezza raggiunta da Pola sotto i Romani, 1' anonimo poeta cita 1' anflteatro, ludorum molem, e i templi degli dei, e prosegue: «Hinc Carlus, Orlandus pugna-vit....» Hinc? Di dove? Dai templi, dali'anflteatro, da Pola? Comunque si risponda a queste domande, c' 6 in queste parole una nuova testimonianza sulla diffusione della leggenda caro-lingia nell' Istria, che pu6 aggiungersi a quelle raccolte da Camillo De Franceschi '). «A Pola — egli informa — il ma-gniflco Teatro colonnato e rivestito di finissimi marmi orientali fu chiamato dal popolo sino al secolo XVIII il Palazzo di Orlando. Intorno ad esso erasi andata formando una curiosa leggenda, che assegnava il merito della sua edificazione a Carlomagno, il quale ne avrebbe fatto un dono al proprio tratello Orlando, da lui creato capitano deli' Istria e della Venezia«. Anche l'Anfiteatro, secondo altra tradzione sarebbe stato opera del prode re di Francia. Ma il nostro autore, come si vede, va piu oltre, aftermando che Orlando combatte a Pola non senza grande strage e che i cadaveri degli uccisi riposano nelle arche di pietra. Abbiamo qui con tutta proba-bilitŽL riflessa una credenza popolare: nella cictii dove il teatro, 1' anflteatro e il torrione del vicino promontorio del Musil erano messi al servigio degli eroi carolingi, poteva bene formarsi la leggenda che i tremila sepolcri romani sparsi per la campagna fossero un documento palese delle prodezze compiute a Pola dal paladino Orlando; sarebbe anzi strano se quelle arche ') Antiche leggende cavalleresche in Istria, in «11 Palvese», Trieste I, 10. funerarie che per la loro quantita colpirono 1' immaginazione di Dante e di quanti nei secoli susseguenti visitarono Pola non avessero parlato misteriosamente alla ingenua fantasia del popolo. A questo punto (v. 22) la poesia con rapida raossa si carabia in lamento ed 6 gik ben lontana dali' argomento annun-ciato dal suo titolo, il quale invece s' attaglia egregiamente ali' altra poesia c' ha servito di fonte. La decadenza di Pola comincio nel Trecento causa le pestilenze e la guerra di Chioggia, durante la quale, tra il 14 e il 28 luglio 1380 i Ge-novesi la misero a ferro e fuoco, spopolandola 2); continuo poi con varie alternative nel secolo veniente, al quale penso ap-partenga la nostra poesia sulla regalis filia di Roma 3). III Un eremita albonese La fievole voce giunge a noi dal Codice Marciano lat. XII, 114, ed e di un naufrago della vita salvatosi entro la cella di un eremitaggio. Gli amici si meravigliavano che egli, Pasio padovano, uoino di mondo un tempo ed onorato di varie cariche, fosse andato a seppellirsi in mezzo a un bosco in quel d'Albona: Primo intuitu rnirantur homines cur hic in nemore et extra patriam vitam elegerim eum olim fuerim suffultus dignitatibus. 1) Dante, Inf. IX 113 sg.: Si com' a Pola presso del Quarnaro, che ltalia chiude e suoi termini bagna, fanno i sepoleri tutto il loco varo. Altri accenni di letterati ai sepoleri di Pola si vedano per ora nel Kandler in Noiizie storiche di Pola (Parenzo, 1876) p. 202 sgg. Ma di cio trattera con ben altra ampiezza e profondita Camillo De Franceschi in un lavoro che mi auguro di veder presto pubblicato. 2) C. De Franceschi: La popoiaz. di Pola nel sec. XV e nei seguenti, in Archeogr. triest. XXXI pp. 224 sgg. 3) Citti regale Pola 6 chiamata anche in documenti di quel tempo. E gli amici tentarono di toglierlo a quella vita per ricon-durlo in patria. Ma egli si sentiva felice cosl, lontano dalle orribili nefandezze del mondo, sicuro dalla perversitA degli uomini, libero dalle noie della cittii, godendo in francescana semplicit& le bellezze della natura e 1' ingenua compagnia di quei contadini, probabilmente slavi, poiche confessa di non comprenderne la lingua: Et magni facio cantum aviculae, aquarum impetus, flores et plantulas, galinas parvulas, ova sorbilia quam hominum blanditias. Albonam video Flanonam sentio et circum habeo rusticos homines, sed bonae fidei, et tantum doleo ipsos non intelligere et se,cum loqui etiam. La lunghissima poesia, della quale ho portato come esempio le tre strofe citate s' intitola De rita solitaria et claustrali ed e dedicata al capodistriano Antonio Elio, vescovo di Pola e patriarca di Gerusalemme. Fu scritta il 27 luglio 1566 ad Albona Baccio Ziliotto. MULA e MULO, nel dialetto triestino. Vale la pena di studiare il significato di questo vocabolo, nella parlata triestina: esso vi ha assunto 1' accezione di «ra-gazza» e «ragazzo» sconosciuta nei dialetti contermini, nel dialetto istriano p. e. che usa, invece, fia, ragazza, puta, mentre mula o v' 6 del tutto sconosciuto o appare vocabolo forestiero, importato da Trieste, di cui, per il continuo incre-mento dei mezzi di comunicazione, 1' influenza linguistica sul- 1' Istria, specialmente nella parte occidentale, diventa sempre pili sensibile, informiuo Muggia e Capodistria, citta che vanno triestinizzando la loro parlata, a vista d' occhio. Scartiamo subito, come improbabile, 1' ipotesi che il trie-stinismo in questione sia, per un processo ideologico qualsivoglia, derivato dali' omonimo inulfi, animale nato da accoppiamento equino e asinino, e facciamoci a considerare invece 1' altro signiflcato della voce che ora c' interessa, signiflcato diffuso nella maggior parte del dominio romanzo: detta voce, nel signiflcato di pianella, era viva nel florentino ai tempi del Varchi che ne fa menzione nel suo Ercolano, il francese moderno usa regolarmente mule per pantofola, lo spagnolo mulilla e usato nella stessa accezione e nel dialetto rovignese mula signiflca esclusivamente pianella. Niente di piu probabile, dunque, che mula abbia designato, nel «tergestino», la calza-tura delle fanciulle popolane, e che da questa esse siano state poi denominate. Tale processo ideologico 6 frequentissimo: ne fanno fede il napoletano ciocia e ciociara, il francese cotlllon, nel signiflcato di donnina, il recencissimo paglietta, nel senso di giova-notto elegante o giii di li. II maschile mulo si sar& sviluppato, piu tardi, dal fem-minile mula e avr& assunto, facilmente, i vari signiflcati di «apprendista, amante, drudo, fidanzato» a meno che non sia avvenuto il processo inverso cosa non improbabile, quando si voglia tener fermo ali' etimologia che di tal voce diede il Meyer-Liibke, cioe a „mulleus calceus", sorta di borzacchino che i giovani romani di famiglia cospicua calzavano. Tutto cio non infirmerebbe per nulla la nostra ipotesi, ch6 tale e non altro vuol essere la spiegazione etimologica che abbiamo data di questa voce. A. Craglietto. Commenda o vescovato (Saggio di storia). (Continuazione ; vedi N. ant.) Ben differente pero si presenta la seconda lacuna e noi speriamo di rischiarare sufficientemente quei 414 anni di mistero che avvolgono 1' episcopato capodistriano. »Se si pno supporre che nel periodo della prima lacuna Capodistria abbia continuato ad avere i suoi vescovi, senza che questi abbiano avuto campo di illustrarsi con fatti od in avvenimenti speciali, in modo che il loro nome passasse alla storia, lo si puo fare con maggior fondamento per il secondo periodo nel quale riteniamo di trovare prove sufficienti per dimostrare che non si b in diritto di dichiarare soppresso senz' altro durante tale epoca il vescovato di detta citt&. Perche, se non ci sono documenti scritti che parlino per esso come per gli altri v scovati istriani in questo enorme inter-vallo di quattro secoli, vi parlano per esso memorie altrettanto importanti quanto i documenti stessi. Noi sappiamo che, cedendo alle insistenze dei Longobardi, il vescovato di Pola aderi al riconoscimento della metropolia aquileiese, mentre gli altri vescovi, sempre fedeli a quella di Grado, perche di sentimenti politici bizantini, tentarono di formare una provincia ecclesiastica indipendente da ambidue i patriarcati, cominciando a consacrarsi a vicenda. In questo periodo continua difatti il sillabo dei vescovi deli' Istria, nelle «Indicazioni» del Kandler, per le diocesi di Trieste, di Cittanova, di Parenzo e di Pola e non mancano notizie che per quelli di Capodistria e di Pedena. E' questo il periodo che va in media dagli ultimi anni del 700 alla meti deli' XI secolo. I vescovi che si consacravano mutuamente erano dnnque quelli di Cittanova, di Parenzo e di Trieste. Erano essi dunque si forti da resistere e agli anatemi di Grado ed alle pressioni dei Longobardi? Solo Capodistria e Pedena avevano dunque dovuto soggiacerg a tanta oppressione? Ci sembra strano invero, che una citt& di tanta vitalit& come Capodistria, gi& avviata ai commerci ed alla gloria delle armi, protetta cosl bene dalle invasioni, ch6 in essa in tempi anteriori avevano avuto ricovero perflno Patriarchi (508), abbia dovuto soggiacere a tanta miseria e per si lungo tempo. Non possiamo adunque assolutamente associarci al Be-nussi ') nel ritenere, che il vescovato di Capodistria subito si estinguesse dopo soli qaindici o vent' anni di rinascenza, per-chč i Longobardi, »ostili al patriarca di Grado» (il quale aveva ricostituito tale vescovato) «non tolleravano in provincia ve-scovi da lui dipendenti ed a lui fedeli*. «Vi avra contribuito fors' anehe,» continua il Benussi sospettando della debolezza degli argomenti, «1' opposizione degli altri2) veseovi e le de-presse condizioni economiche, insufflcienti a dotare decorosa-mente la nuova sede vescovile». Ci si permetta di rilevare subito che intorno al 770 av-venne la grave ribellione di Parenzo al Papa ed 6 probabile che vi prendessero parte anehe gli altri veseovi fonnanti la chiesa istriana indipendente. Dal 774 al 788 dura il nuovo ed ultimo dominio bizantino sull' Istria ed il vescovato capodistriano avrebbe dovuto rimet-tersi subito, perche se anehe nel 770 era stato angustiato dai Longobardi, pur sempre era rimasto ligio ai sentimenti bizan-tini. Noi sappiamo dal Babudri stesso, che