Anno II. Capodistria, Dicembre 1904. N. 10-12 PAGINE ISTRIANE PERIODICO MENSILE UN'IMITAZIONE DEL „PARADIS0" DI DANTE nel secento. i. Chi tra noi facesse la storia della varia fortuna che l'Ali-ghieri ebbe in Istria, certo compirebbe un'opera non vana: che raovendo dai versi stessi in cui Dante poeta ricorda »Pola presso del Quarnaro» e dalla caratteristica che Dante filologo nel De vulgari eloquentia da della parlata Istriana, gia ai primi passi (a. 1394) s'imbatterebbe in un codice della Com-media scritto ad Isola, circa lo stesso torno di tempo, in cui al Vergerio Capodistriano Leonardo Aretino indirizzava i di-scorsi intorno ai meriti deli'Alighieri, del Petrarca e del Boc-caccio; e luiigo la via dei secoli gli avverrebbe piu volte di scoprire 1' orme del Poeta, dove piu dove meno profonde, fino a questa etii, nella quale al generale risveglio degli studi danteschi s'e nobilmente ed efficacemente associata 1'Istria nostra, da Francesco Gregoretti, che cerco di agevolare ai giovani lo studio del divino poema con un commento che altri giudico per molti aspetti pregevole1), a Luigi Suttina, che di quanto intorno a Dante si scrive va con diligenza informando. Certo gli e che tra 1' orme piu profonde dovrebbe contare anehe questa, di che verro parlando, da niuno innanzi notata. Poiche, se alcuni toccarono di Marco Petronio Caldana da Pirano, due di essi soltanto ne dissero con qualche ampiezza, ristretti tuttavia alle notizie biograflehe; gli altri o non anda-rono piii in la del nome, o ripeterono quei due, non curandosi *) Dott. Giuseppe Bianchini in Rivista delle Biblioteche e degli archivi, Luglio-Agosto 1902, p. 125. di vagliarne le notizie, in piu luoghi errate o esagerate: tutti schivafono la fatica di studiarne 1' opera, la Clodiade, poema latino in 12 canti'). II Belloni, ch'ebbe a fare ampia ricerea di tutta la flori -tura epica posteriore al Tasso e da lui derivata2), fra cento e pili poemi non conobbe il preselite. Alla quale mancanza cerchero di rimediare altra volta con uno studio critico di tutto il poema; intanto mi piace rilevare l'eco che in esso ha avuto Dante. II. Clotilda, vedova del re Clodoveo, ha perduto anche il figlio Childeberto, successore di quello; e il regno spetterebhe ora legittimamente al primogenito di Childeberto, Clodio, l'eroe del poema. Se non che altri due figli di Clotilde e zii di Clodio glielo contendono. Nel nono canto s'e alla dichiarazione di guerra. Clotilda e balestrata da diversi affetti: dali'una la stringe l'amore di madre, dall'altra 1'intenso affetto per il nipote e la causa piu giusta; il pensiero della guerra civile le toglie ogni, bene, si ch'ella invoca la morte. Ma Clodoveo impietosito di lei, discende dal Paradiso e la invita a visi tare gli astri per sua pace. Trasportati da un cocchio, trasvolano il c-ielo della Luna, di Mercurio, di Venere, del Sole, di Marte, di Giove, di Saturn o, il cielo stellato e il primo mobile, e passano nell' Empireo, dove lianno mirabili visioni e godono la vista di Dio. Cosi Beatrice e venuta dal suo «beato scanno® impietosita di Dante, cosi con lui s'č innalzata di cielo in cielo. Ma gi& a questo punto non e chi non s'accorga dello smisurato divario che corre da modo a modo, da ragione a ragione. Nel Pe-tronio della sublime concezione Dantesca non resta, direi cosi, che l'ossatura: la sua Beatrice, mutatasi nel vecchio Clodoveo, perde tutta 1'ineffabile dolcezza delFanima, tutta la smisurata profondita della mente, tutto il fascino — e naturale — della *) Clodiados libri XII. Cliristianissimo Ludovico Magno Galliac, Na-varrae, etc. regi invictissiino Sacri Marci Petronii Co: Caldanae. Venetiis, j\IDCLXXXVII. Ex Hieronvmo Albricio in Vico D. Juliani. — Cito sempre la pagina, mancando la numerazione per versi. 2) Antonio Belloni: Gli epigoni della Gerusalemme Uberata. Padova, Draghi, 1893 e II Seicento, Milano, Vallardi — cap, III pp, 117—164. figura dantesca; il suo Dante, diventato Clotilde, rimpicciolisce e quasi scorapare. Essa Clotilda viaggia le vie del cielo senza struggersi come il Fausto italiano nell' insaziata e tormentosa ricerca del vero; ascolta muta la lezione di meteorologia e di astronomia che il suo consorte le infiora di erudizione mitolo-gica. Appena quando sar& nell' Empireo la assaliranno alcuni dubbi che vorra sciolti, ma da dilettante, pacatamente. III. Se le linee generali deli' episodio rivelano a prima vista la loro derivazione dalla Commedia, meno evidente e poco copioso riesce il raffronto delle particolaritk E ci6 si spiega dalla brevit& che la descrizione del viaggio ha dovuto assu-mere nella Clodiade quale episodio, e dalle mire differenti che il poeta di essa perseguiva. Poichč dove il Petronio attinga a parti piu ristrette e adattabili d'altri poemi, sia la Tebaide, o l'Eneide o la Gerusalemme, Peco n'e maggiormente sensibile. Piu anzi: dal Tasso ha quasi interamente tradotto due episodi. Appena per le scene svolgentisi nell' Empireo 1' infiuenza del modello e piu rimarcabile. Ora convien ch' Elicona per me versi, Ed Urania m'aiuti col suo coro, Forti cose a pensar metter in versi. [Purg. XXIX, 40]. Cosi Dante facendosi a parlare di cose celesti e divine invoca 1' assistenza di tutte le Muse e particolarmente di Urania. E il Petronio nell' accingersi a simile fatica [203]: Jam furor insolitum iuhet arduus edere Carmen, Lucidaque aerio transmittere nubila lapsu, Duc precor Uranie Permessi e valle vagantem Pegason. Nel primo cielo pareva alPAlighieri [Par. II 31]: che nube li coprisse, Lucida, spessa, solida e polita, Quasi adamante che lo sol ferisse. Non sarebbero una reminiscenza i seguenti versi, con cui l'Istriano deserive il primo innalzarsi agli astri? [206]: fulgentia nubila lucis Inter, et ardentes late radiata nitores Tollitur. Q,uello che Clotilda vede nel primo mobile, risponde alla visione che Dante ha nell' Empireo : [212]: Eunt immania fiumina lucis, Clothildamque beant. Qui regiflcos comitatus, Quis canat aethereis undantia seriea gemmis? [Par. XXX, 61]: E vidi lurne in forma di riviera Fulgido di fulgore .... [m, 64]: Di tal Humana uscian faville vive, E d'ogni parte si mettean nei flori, Quasi rubin clie oro circoserive. Nell' Empireo, agli occhi meravigliati della regina, si preselita, at procul, o longo quantum procul intervallo!, una innumerevole serie di anime, quale piu, quale meno vicina a Dio, ordinate in nove giri [213]: viso par saecula stantia gaudent Nuniine, et obtutus proprior quicumque tueri Jamdudum nieruit, maiori luce beatur. E la identica visione Dantesca [c. XXVIII]: intorno a un punto lucentissimo, Dio, si muovono in nove cerchi concentrici i nove ordini celesti: L'rtl procul, o longo quantum procul intervallo! par quasi voler spiegare perche a Dante 1' imma-gine divina apparisca come un punto. Grli altri versi trovano la loro piena rispondenza nella terzina [ivi, 106J: E dei saper clie tutti hanno diletto, Quanto la sua veduta si profonda Nel Vero, in che si queta ogn' intelletto ; e nel verso [ivi, 112}: E del vedere e inisura mercede, compendiato nel meruit deli' ultimo esametro. Clotilda e stretta da un dubbio: Cur non aiqua manent felicem gaudia gentemV Cur sedet illa super, vel cur minor illa priori ? Lo stesso dubbio agita Dante rispetto ai gradi di beati-tudine dei beati e ne interroga Piccarda [III, 64]; qui Beatrice previene le sue domande su questo ed altri quesiti e gli di-scorre [c. XXIX] della creazione degli Angeli, dopo averli distinti nel canto precedente per ordini e per uffici, della ribellione di una parte di essi e della beatitudine di quelli che si serbarono fedeli a Dio. Tali, se di poco §i inverta l'ordine della trattazione, sono i lineamenti della risposta che Clodoveo d& a Clotilda [213—215]. Ma anehe in questa parte 1' analisi piii minuziosa e particolare non ci porta ad ulteriori accosta-menti. Forse fu. con intenzione che il poeta imitatore nell'enu-merare le gerarchie celesti segui 1' ordine inverso a quello della Commedia, partendosi dagli Angeli e mettendo capo ai kSerafini. Nella Clodiade seguono a questo punto [216] le lodi di Maria, ed infine, agli occhi dei due viaggiatori sfolgora Dio, che il Petronio dipinge coi colori dell'Apocalisse [c. IV]: il signore siede in trono, circondato il capo deiriride; intorno, su ventiquattro troni, siedono altrettanti vecchi dalla bianca veste, i quali ad ora ad ora s'inginocchiano dinanzi a Dio e offrono le proprie corone; vi sono sette ardenti candelabri d'oro e presso quattro animali [218]-. his oculi toto de corpore lucent Innumeri, certo seinper fulgore micantes, Ardua magnanimi primurn tenet ora Leonis, Et vituli servat, faciemque artusque secundum, Tertia frons hominem pnefert, Aquilamque volan tem Aspeetus postreinus habet. Sono gli stessi elementi di cui Dante s'e giovato per altro luogo della Commedia [Purg., c. XXIX]. Clotilda s'afflssa in Dio e convien che un nuovo dubbio le nasca [2i8]: Cur veniunt tripliees Uno de nomine formae, Trinus et interdum, sed mox mihi eernitur Unus ? II mistero della Trinita! Con esso e con quello delle due nature Dante finisee il suo poema: misteri impenetrabili, a comprendere i quali gli manco 1'intelletto [XXXIII, 139]: Ma non eran da cio le proprie penne. Se non ehe la inia men te fu percossa Da un fulgore .... Cosi Clotilda, non appena ha voluto penetrare l'incom-prensibile, si sen ti mancare: Sed dum loquor, unde favillai, Unde mihi immensum confundit lumina fulgor? E a lei Clodoveo: ;U4 PAGlNE iSTbIANk Immensos teutasti c ara recessus, Poena secuta no l as .... .... Frustra moliris inertes Ire super vires, mentique extondore cursus. IV. L' episodio induce varieta nel racconto, ma non e fine a se stesso. Se fosse altrimenti, male il poeta avrebbe provve-duto alPeconomia del poema, dando a quello 1'ampiezza di tutto un canto. Qual'e dunque 1'altra ragione del suo essere? Come Virgilio nella Eneide s' e giovato della discesa al-1' Averno per magnificare la gioria di Augusto, come 1'Ariosto inventa 1'episodio della grotta, dove la maga Melissa faccia noti a Bradamante i nascituri di Časa d'Este, come il Tasso gli antenati di questa istessa Časa mostra efflgiati su uno scudo, cosl il Petronio, il quale dedico la Clodiade a Luigi XIV di Francia, nelPiride splendente intorno al capo di Dio, fa che per grazia di questo Clotilda veda e Clodoveo le additi ad uno ad uno, e ne preclica le imprese, tutti i discendenti loro, fino a Luigi XIV, di cui vaticina le grandi virtu e le gloriose imprese. Compiuto l'atto d'una dediča al Re Sole, 1'altro di ricor-rere al luogo comune della predizione che desse campo a eantar le lodi del monarca, veniva dietro da se. Poiche Luigi, il quale si sentiva centro ali' universo e dali' universo preten-deva d'essere adorato, avrebbe avuto per offesa un poema che a lui indirizzato non lo esaltasse. Bisogna pero riconoscere al Petronio il merito d' aver fatto cosa abbastanza nuova d' uno spediente antico ; che nella gran parte degli imitatori del Tasso a farci sfilare innanzi le tediose serie di antenati o di posteri, rientra il mago gia noto dalla Gerusalemme'), laddove nella Clodiade s'e ricorso a Dante. L'essersi accostato al quale in secolo che il cantor dei tre regni ebbe scarsi ammiratori2), non 1) Belloni II seicento, pag. 157. 2) Per le influenze dantesche negli epiei, vedi il Belloni Gli epigoni ecc. passim. Di speciale interesse per noi e il vedere come abbiano tratto partito dal Paradiso Tommaso Balli nel Palermo liberato 1612 (ivi, p. 364), e Giulio Malmignati ne L' Enrico ovvero Francia conquistata, 1623 (ivi, p. 224), tutti e due anteriori al nostro. e piccola lode per il Petronio. Ma 11011 crediamo che altrettanta gliene possa venire dal tentativo di rifar Dante: del corpo gli e riuscito un simulacro, e ranima n'6 fuggita. Trieste. Baccio Ziliotto. GIACOMO CASANOVA in difesa del dialetto veneziano. Vi sareste mai aspettati che il nostro dialetto, tanto arguto e brioso, trovasse nella seconda meta del settecento un incom-petente e screanzato detrattore nel francese abate Richard? Or bene; non sapr& male oggi ad alcuno, e tanto meno ai simpatici fratelli Istriani, il cui idionia si' discosta poco o nulla dal nostro, ch' io rimemori come quella buona lana ma sottile ingegno del Casanova rivedesse per benino le bucce al signor abate, a detta, del quale il linguaggio veneziano sarebbe ne piu ne meno che une dialecte (!) tres corrompue de rilalien1). Queste parole, dialecte tres corrompue, un' asineria anche in francese, urtarono i nervi al Casanova, non essendoci nes-suna ragione di scriverle, mentre «chi dice Dialetto dice tutto, trattandosi del modo in cui i Veneziani favellano, che e piu conforme al Toscano, e quello che fra tutti i dialetti dell'Italia s'approssima piu al medesimo, eccettuato il Romano*2). *) Description historique et cntique de l' Italie. Dijon Desventes 1766. Una seconda ediz. e di Pariš Saillant 1769. S'avverta che nonostante questa ed altre castronerie sul conto del Veueto Governo, non intendiaino gia asserire 1' opera del Richard priva d' ogni pregio; su di che, anzi, citiamo il giudizio ben piu autorevole di Alessandro D'Ancona, che nel suo abbondante e preziosissimo Saggio d' una Bibliografia rag. dei viaggi e descriz. d' Italia in lingue straniere che fa seguito al Giornale del viaggio di M. de Montaigne in Italia (Citta di Castello Lapi 1889) ne scrive cosi: «L' opera non e certo senza difetti; ma contiene utili ragguagli sullo stato d' Italia circa la metž, del secolo XVIII, e puo essere percio consultata con frutto». 2) Supplimento aH' opera intitolata Confutazione della Storia del Governo Veneto d'Amelot de la Houssaje. Amsterdam 1769 c. 273. E prosegue con fino spirito e schiaffandogli sul viso il galateo: «Cosi io di questo signor Riceiardo abate diro, che non sa quel che si dica; m a non diro gih, che il suo giudizio sia corrottissimo, perche questi odiosi superlativi non appar-tengono a chi parla in stile onesto. Qual linguaggio e piu dia-letto di quello che sta in bocca de' Francesi? E sicuramente corrottissimo, poichč e composto da rovinosi avanzi del barbaro Celtico, e dalle frasi italo-latine, che il bizzarro genio della Nazione stroppio ; e pure se gli ha un certo tal quale rispetto, si chiama lingua gentile, si vuole impararla, si acearezza, si costringe 1'orecchio ad udirne il suono di buona voglia, e si fa volentieri una certa smorfletta colle labbra per pronunciarla graziosamente, e chi la chiamasse corrottissima lingua, cosi, senza cerimonie, passerebbe per grossolano e discortese. Inci-vilissimo mi pare che si dimostri questo abate nel chiamar corrottissimo uno stile di parlare, di cui, a spiegarsi in faccia a lui, i Veneziani non si sarebbero serviti, se non fossero stati verso esso cortesi a segno di voler celargli nulla». Ma ora viene il buono, che conchiude la sua filippica col rinfacciargli di non conoscere nemmeno la propria lingua, pur avendo la temerita di sentenziar su le altrui: «Diro poi ancora ch'egli non pu6 esser riputato da chicchessia buon giudice, inperciocche non sa la lingua sua propria, ecl oltre al basso stile suo, che non si vergogna a pubblicare, egli fa anche de' solecismi. Dialecte, parola greca, poi latina, poi italiana, poi spagnuola, e poi francese, e maschile in tutte le lingue, e tale e registrata nel dizionario istesso deli'Accademia francese, e 1'abate Richard la scrive femminile, ne si puo dire che quel-1' une invece d' un sia errore di stampa, perche femminino c' 6 pošto appresso anclie l'epiteto corrompue». Bravo Casanova! Busse bene assestate, e bene meritate! Venezia, Novembre 1904. Dr. Cesare Mnsatti. MORATIN e GOLDONI La voce d' un illustre straniero ehe, ammiratore del Gol-doni, ebbe la ventura d'entrar seeo lui in amichevole consue-tudine e della sua prima visita al Nostro lascio ricordo in una lettera ispirata a venerazione filiale, soner& cara a quanti apprezzano nel Veneziano T indole onesta e buona e fanno stima adeguata deli'opera sua. Fu seritta nel 1787, 1'anno in cui, licenziate al pubblico le Memorie, le notizie sulla vita del Goldoni cominciano a farsi ben rare. Solo una diecina di lettere ci parla, con lunghissimi intervalli, della travagliata sua esistenza in quegli ultimi anni di vita. II 29 aprile di quell' anno Don Leandro Fernandez de Moratin, autore allora d' una sola commedia, che non riusciva a far rappresentare, quasi il teatro cui poi dovette la cele-brita, fosse restio ad accoglierlo fra la sua gente, seriveva da Parigi a Don Eugenio de Llaguno y Amirola ') : «Se Le dicessi la visita che feci ieri, EUa m' invidierebbe: ma poiclie e certo che val meglio eccitar 1' invidia che la compassione, glielo racconto. Trovai Iberti in časa del conte di Aranda, ci abbracciammo, ci denimo conto reciprocamente dello stato della nostra salute, e la prima cosa che gli chiesi fu, se viveva Goldoni. — Vive, e sta bene. — E dove dimora? — A Parigi. — In che via, in che časa ? — Se vuole vederlo ci andremo assieme. — Q,uando potr& condurmi? — Domani. — A che ora? — Alle undici. — E dove ci troveremo? — Sul boulevard, presso via Richelieu. — Saro la. — Non man-cher6. — Arrivo il giorno e l'ora fissata, ci andammo, e vidi il mio buon Goldoni, vecchio, amabile, rispettabile, allegro, grazioso, cortese.... non mi saziava di vederlo! Parlammo lungamente di teatro, e si compiacque infinitamente quando gli dissi che ne' teatri di Madrid si recitavano di frequente e con applauso La sposa persiana, La moglie saggia, La locan-diera, La finta ammalata, II servitore di dae padroni, 11 burbero benefico, La bottega del caffe, La famiglia deli' anti-quario, e altre stimate produzioni della sua tanto abbondante ') Obran postumas de D. Leandro Fernandez de Moratin, publicadas de orden y a expensas del gobierno de S. M. — Madrid, 1867. Vol. II, pag. 94. vena. Mi parlo della patria ingrata che 1' obbligava a viverne lontano, trattenuto da una pensione che gli dk questa corte; e nel ricordarlo gli vennero le lagrime agli occhi. Io, per parte mia, lo secondai, perche in fatti e cosa crudele che il merito d' uomini si straordinari, onore della loro nazione e del loro secolo, si disconosca e disprezzi al punto che la superba repubblica di Venezia permetta che il Goldoni viva agli sti-pendi d' un governo straniero e che un' altra nazione abbia da dar sepoltura a un suo figlio che tanto contribui alla sua farna, ai suoi diletti e alla sua gloria». II Goldoni, per riguardi che bene intende chi conosce l'uomo, nella terza parte delle Memorie non sfoga mai il suo rancore contro il governo della repubblica, n6 esprime l'ar-dente suo desiderio di tornare a Venezia e chiudere la la sua gloriosa esistenza. Ma cid che scrive il Moratin prova a suf-ficenza che Valentino Carrera senti assai bene quale dovesse esser 1' animo del poeta in quegli anni, quando nella sua com-media Gli ultimi giorni di Carlo Goldoni, flnge che 1' esule nell'anniversario del di delle nozze annunci alla buona Nico-letta il loro prossimo ritorno in Italia. Nelle lettere del Moratin e un'altra volta parola del Goldoni, in data 25 maggio dello stesso anno 1787, in risposta ad una missiva di Don Eugenio Llaguno, ma non saprei dire a che cosa si faccia allusione. «Ho eseguito il suo incarico (scrive il Moratin da Parigi) leggendo al Goldoni il passo ch' Ella gli dirige. Lo gradi mol-tissimo e si mette ai Suoi ordini con le migliori intenzioni')». Di quest'amicizia tra due celebri commediografi di nazioni latine pare resti ricordo anche in opere che a me non fu dato conoscere. Adolfo Calzado, pubblicista spagnuolo, che al Congresso letterario e artistico di Venezia nel 1888 parlo ripetutamente del Goldoni, afferma, senza dire pur troppo dove abbia trovato la notizia : »Moratin conobbe Goldoni a Parigi e lo fece štupire recitan-dogli scene intere delle sue commedie, da lui stesso dimenticate2)*. Op. cit. pag. 99. 2) Congres litteraire & artistične International 1888. Venise. Adolfo Calzado. Conference 6tur Goldoni. (Grande salle de l' Athenee. 22 Sept.). — Alla conferenza del Calzado segiii un'altra del Fradelotto sullo stesso argomento. Cfr. L'Adriatico, 1888, 23 settembre. Delle sue relazioni col celebre drammaturgo spagnuolo il Goldoni non ci lascio ricordo. Quando lo conobbe, le Memorie doveano essere gia impresse o d'imminente pubblicazione, e nelle poche lettere che vanno dal 1787 al '92, non ricorre quel nome. Ma il Moratin nel tempo che si trattenne a Parigi dovette frequentare assiduamente časa Goldoni. Mi lusinga a crederlo la vicendevole simpatia che I a lettera tradisce e la ammirazione profonda del Moratin per il Maestro. Nel Numero Unieo pubblicato a Venezia, inaugurandosi il monumento, 1'Urbani annuncio la scoperta d'un'appendice manoscritta alle Memorie che dali'87 giungeva con la narra-zione al dicembre del 1792. E ben probabile che in quella appendice si legga il nome del Moratin. Ma dalla lieta novella son passati venfanni e piu, ne la preziosa vivanda fu pe-ranco imbandita agli studiosi ed agli ammiratori del Veneziano. Forse il fortunato scopritore attende di farlo nella ricorrenza del seeondo centenario della sua nascita ? In tutti i časi ne affrettiamo col desiderio il momento. Fin qui il poco che mi fu dato raggranellare sulle relazioni che corsero tra il nostro Goldoni e Leandro Moratin. Poco, ma non senza interesse e da tenerne conto a chi nar-rando la vita del Nostro non voglia seguire, con inopportuna e comoda scrupolositA, come gia troppi feeero, le Memorie soltanto. II. Nell' ultimo decennio del secolo XVIII il Moratin fece un lungo soggiorno in Italia e, come attestano i diari del suo viaggio, frequento con partieolare interesse i teatri1). Del Goldoni che sullo scorcio di quel secolo e nella prima met& del passa-to dominava il repertorio delle compagnie ita-liane, egli vide rappresentare molte e molte commedie. Di alcune (II cavaliere di buon gusto, La bottega del caffe, II servitore di dne pifdroni) non da che il titolo, d'altre si limita a giudicare con un laconico epiteto. Commedia graziosa gli parve Sior Todaro brontolon, ch'egli vide recitare al Teatro Sant'Angelo di Venezia, e graziosissima gli sembro Nicoletto mezza camisa (cioe la Bona mare) recitata nel Teatro Vecchio II viaggio in Italia 6 nei due primi volumi delle Obras povtumas. di Mantova. Trovo invece muy mala Gli amori di Zelinda e Lindoro, e non ha torto. In cambio scrive sul Campiello, rappresentato nel Teatro San Crisostomo a Venezia. «Non vidi mai cosa piu somigliante ai nostri sainetes: vi si dipingono i costumi del popolo, il suo linguaggio, le sue chimere, i suoi spassi, gli amori, le nozze; i personaggi son calzolai, pescatori, sguatteri, vecchie, gente di piazza. Piacque per la verit& della imitazione, non per l'interesse o artificio della favola: non c'e azione; son tutti episodi che si succedono senza legame ne opportunit&». Spesso attori e pubblieo attraggono la sua attenzione piii della commedia. Nello stesso Teatro di San Crisostomo si rap-presentano Le smanie per la villeggiatura e il Moratin fa di quella serata il seguente quaclretto : «Prima della commedia venne alla ribalta la prima attrice a dire un prologo in verso sciolto, e fra il secondo atto e il terzo 1'amoroso tenne un discorso in prosa (senza dubbio fatto per lui), in istile figurato, rimbombante e vuoto, ringi'aziando il generoso pubblieo. Questo pubblieo si componeva, per la maggior parte, di laeche e di gondolieri che, essendo il primo giorno della stagione, entra-vano gratis. In mezzo alla platea si vendevano castagne e pere cotte e negli intermezzi vidi girar alcuni boccali di vino. Strepito grande, allegria innocqua, applausi e grida alla fine». Nello stesso teatro vide una commedia La somiglianza inganna ossia Le avventure di due Arlecchini gemelli. Non dice di chi, ma sara stata una riduzione del noto lavoro del Goldoni se non proprio il lavoro stesso. Ammira la licenza degli attori che faceano uso amplissimo di parole bandite dal galateo, e loda 1' immensa naturalezza della loro recitazione. Ma anche senza che la recita di qualche lavoro del Goldoni gli offra opportuniti di parlare del suo teatro, il Moratin che spesso e volentieri disserisce sull'arte drammatica (viag-giava in missione semi-ufticiale 1' Europa per studiare i teatri stranieri) non manca di accennare semprg di nuovo al com-mediografo italiano. Una volta lo nomina d' un fiato assieme a Corneille, Moliere, Racine, Voltaire, Metastasio e Alfieri, secondo lui i geni che meglio illustrarono il teatro. De' suoi connazio-nali Lope e Calderon il drammaturgo neo-classico non voleva saperne e poco apprezzava Shakespeare, del cui genio pero clovette pur indovinare qualcosa se gli parve mettesse conto tradurre Am leto. Ebbi un' altra volta modo d' accennare al suo severo giudizio sulia rigogliosa produzione goldoniana degli anni 1750-51 dopo il fiasco deli' Krede fortunata1). Scrisse il Moratin che il Goldoni avrebbe assai meglio sodisfatto alle ragioni dell'arte se, invece di abbozzare. sedici commedie mediocri, si fosse limitato a darci una sola, ma eccellente. Non ha torto; giova pero hotare eh' egli non tien conto delle circostanze eh' obbli-garono il poeta a quello sforzo inaudito del suo ingegno. II Goldoni viveva della sua penna. Avrebbe potuto vivere egli, il Moratin, delle sue cinque commedie, anehe se fossero state tutte capolavori? Non per questo l'ammirazione sua per il Goldoni era men profonda, e nel suo Viaggio in Italia nota anehe una volta: «Dopo il Goldoni la poesia comica ha fatto pochi pro-gressi: quel celebre autore, purgato ch'ebbe il teatro della maggior parte delle mostruosita che vi trovo, produsse, tra molte opere di merito inferiore, alcune seritte tanto bene, che finora nessuno e giunto a superarle. Nessuno di quanti vollero imitarlo o competere seco lui, seppe eguagliarlo..E un'altra volta alludendo alla letteratura della sua patria: «Nella commedia noi non possiamo presentare neppure una dozzina di lavori comparabili a quelli che si possono trascegliere dal solo Goldoni, e in questo riguardo siamo loro (agli italiani) anehe inferioru. Ma son giudizi tirati giu alla carlona e di poco valore. Alludeva il Moratin alla scena classica del suo paese, quella cioe ch'era per lui tutt'altro che classica? E allora come pen-sare ad un parallelo tra un teatro che con a capo il Lope e il Calderon, seguiti da una splendida schiera d' epigoni, ab-braccia e raccoglie in se tanta parte della vita intellettuale del paese e 1'opera del Goldoni che alla stretta dei conti estrinseca solo il piccolo mondo della sua Venezia ?... O in-tende alludere al tempo suo, e in quel caso io non so se gli sarebbe stato possibile ricordare anehe un solo lavoro spa-gnuolo che possa degnamente sostenere il paragone con le migliori commedie del Goldoni. Del resto, la sua eritica, come bene osservo gia il Fari- l) Una diavoleria di titoli e di cifre in Flegrea. — (Napoli) 20 mag-gio 1900. nelli1), mostra assai piu arguzia che profondita e spesso, direi, non e ne arguta ne profonda. «Pare 1'inventario d'uno scrivano», noto il Menendez y Pelayo2) dei diart di Leandro Moratin. Sentenza severa ma giusta. Un tale, trattando delle Opere del Moratin, aveva detto: »Perche una situazione sia comica conviene che non sia troppo interessante». E il Moratin gli obbietta: «11 che vuol dire... La putta onorata, La Pamela, La buona moglie d i Goldoni... tutte queste sono commedie molto cattive, perche v' ha in esse momenti e passioni tanto interessanti che costringono a sparger molte lagrime a chi le veda recitate in teatro . L' osservazione di quel critico poteva esser vera e anche no, ma certo il Moratin fu male ispirato nella scelta dei tre esempi citati. Nulla di comico in Pamela nubile, e ben poco ne' due drammi popolari. III. II Moratin, che tanto apprezzo 1' opera del Goldoni, s'assi-mil6 le teorie e la maniera sua cosi da poter entrare nel numero dei suoi imitatori ? In uno seritto che s' intitola dal nome dei due commedio-grati la domanda s' impone. Adolfo Calzado, nella conferenza gia ricordata, affermd: «Si ha torto a pensare che Moratin abbia imitato Goldoni; l'occhio meglio esercitato e piu penetrante non scoprirel^be che qualche incontro casuale di fattura e di procedimento; avendo ambedue un'eguale visione del teatro, seguirono la stessa strada^. Ch'abbiano avuto del teatro una visione in tutto eguale, e dir troppo. Mentre 1'intento educativo del teatro morati-niano e la prerogativa sua piu marcata, il Goldoni, per quanto tenero della morale, volle sempre dilettare prima che inse-gnare. Ma tutt'e due si prefissero di ricondurre il teatro del loro paese alla naturalezza, combattendo 1' uno i drammi spet-tacolosi fuori d'ogni verit&, il Goldoni la commedia estempo-ranea sfrondata ormai d'ogni sua gloria, e la divisata riforma 1) Arturo Farinelli. Leandro Fernandez de Moratin e il Canton Ticino. Bollettino storico delta Svizzera italiana, 1892. 2) Citato dal Farinelli, ibidem. bandirono con un lavoro (II teatro comico, La commedia nueva) ch'e quasi insegna a tutto il loro teatro. Chi legge la Comedia nueva ricorre subito in verita con la mente al Teatro comico, ma solo per 1' affinita nel genere del lavoro, non per identitži di particolari. II luogo dell'azione (un caffe), un burbero assai benefico (Don Pedro), le sferzate continue a poetastri che senza un bricciolo d'ingegno e di buon senso s'accingono a scrivere per le scene, potranno far pen-sare alla Bottega, al Burbero, ai Malcontenti e non saranno questi forse neppur incontri fortuiti, perehe del teatro goldo-niano il Moratin ebbe pratica grande, ma di vera imitazione non e il easo di parlare. Ancor meno potrebbe esser detta ricalco di lavori, quali il Frappatore, il Contrallempo, 1' Av-venluriere onorato, 1'allegra commediola del Moratin intitolata El Baron, cioe un cavaliere d'industria, che lusinga la vanit& e 1'ambizione d'una provinciale per carpirle quattrini e vuol sposarne la flglia per godersi la vistosa dote. L' unica commedia dello spagnuolo dove reminiscenze gol-doniane appaiono verosimili e, direi, la Mogigata (la Bacchet-tona) che nel concetto generale a cui s'ispira e in parte nella esecuzione ricorda il Pudre di famiglia, ben noto al Moratin. Non analisi di caratteri, ma solo studio d'anibiente č in questo lavoro scritto dal Goldoni nel 1750, quando la foga del comporre molte e varie commedie non gli permetteva di dar cure particolari a nessuna. In un quadro vastissimo, abilmente distribuito e colorito, Pautore mostra i mali effetti della pre-dilezione d'una matrigna per la sua propria prole a danno dei figli di primo letto del marito, 1'educazione falsa e scelle-rata che un iniquo precettore da ai giovani affidati alle sue cure e la bonta deli'educazione domestica in confronto a quella ne' conventi. »Commedia piu morale assai che ridicola» avverte Pautore nella prefazione. A cencinquant'anni di di-stanza, ora che arte e morale son tutt'al piu due buone cono-scenti che quando s' incontrano per istrada si salutano e ciascuna tira innanzi per le sue faccende, noi delle preoccu-pazioni moralistiche del Goldoni sorridiamo. Ma imbandire allora alle demoeratiehe platee d'Italia, abituate a misere commedie a braccia, tanta copia di morale, senza stancare, provocando anzi l'applauso, era segno deli'opera benefica della riforma sul pubblico e innanzi tutto del genio del .Goldoni che non si smarrisce in astrazioni, ma tutto svolge davanti agli occhi dello spettatore in scene ricche di vita. Con shakespea-riana disinvoltura le mutazioni a vista succedono l'una all'altra, anche per dar luogo a scene di poche battute. Mancava bensi lo studio, mancava ancora tanto, che le figure in verita son fantocci coi filo che le muove a tutti visibile; ma nello svi-luppo delPazione, nel rincorrersi degli episodi, nell'intreccio dei singoli gruppi e interessi, si scorge il genio drammatico che incalza, senza sforzo, quasi senza riflessione. Certo perche piu morale assai clie ridicnla questa com-media fermo l'attenzione del Moratin. II quale, per l'esagerato rispetto suo all'unita d'azione e perche inflnitamente inferiore al maestro nel dar veste drammatica alle sue concezioni, non tolse ali' ampia tela goldoniana che un solo gruppo, condensd l'azione in un unico fatto, ma approfondl, e bene, i caratteri. II Goldoni, sempre prodigo di figure e d' incidenti, aveva mostrato le conseguenze deli' ipocrisia nella doppia antitesi costituita da Lelio e Florindo, figliuoli di Pancrazio, e da Eleo-nora e Rosaura, figlie di Geronio. Moratin non mette in scena che due ragazze, Clara e Ines, non sorelle, ma cugine, figlie, la prima, a Don Martino, l'altra, a Don Luigi. Ines, educata liberalmente, e docile, aftettuosa, sincera. Dovrebbe farsi sposa a Don Claudio, ma il fidanzato, giovine sciocco e libertino, non e di suo genio. A Clara suo padre di uneducazione gret-tamente 9evera, e favorisce la finta inclinazione sua alla vita monastica. Ma la ragazza di nascosto giura fede di sposa a Don Claudio. Delle due sorelle goldoniane, l'una, Eleonora, cresciuta in časa, e semplice e buona, 1' altra, dal convento dove fu allevata, ritorna ipocrita e maligna1). Florindo, 4e-dotto dali' interesse, si dichiara prima ad Eleonora, poi, non incoraggiato abbastanza dalla ragazza, volge ogni suo pensiero a Rosaura e, per estorcere il consenso dei padri, la rapisce. Nel termine di poche ore (benedetta l'unit& di tempo!) Florindo si offre sposo a Eleonora, promette il matrimionio per-sino alla serva Fiammetta, e fugge poi con Rosaura. Non basta. Sotto la sapiente guida del]'aio Ottavio questo fior di giovinotto si fa giocatore, donnaiolo e ladro. Ruba al padre *) [Geronio] ha due figlie; una educata in časa, e 1' altra da una zia che fa V allegona del convento, non potendo in Italia pronunziarsi questa parola sopra la scena. Memorie II, cap. XIII. 300 zecehini e laseia apparir reo di tal furto suo fratello Lelio, ragazzo di tutfaltra iudole. Degno allievo del Florindo goldo-niano, anche Don Claudio ruba, con l'aiuto del servitore Per-rico, una somma destinata da Don Martino a un eonvento. Col matrimonio tra il giovine scapestrato e la bacchettona terminano tutte e due le commedie. L'unione di due pessimi soggetti sarebbe castigo vicendevole abbastanza efflcace, ma la gidsfizia drammatica del buon tempo antico vuole aneora che Clara vada priva di certa eredita (grave col po, cui solo la generosit& della cugina mette rimedio) e che Florindo, in espiazione dei suoi traseorsi, si imbarchi sopra un veliero per un quadriennio« Questi i punti di contatto tra le due commedie. Affinitti materiali d'invenzione, nulla piu. Della maniera goldoniana, dello spi rito del suo teatro si cercherebbero indarno traccie nel lavoro del Moratin, perchč, nell' esecuzione lo spagnuolo segul al solito il Molifere, e non altri. Tanto che chi leggesse la Moghjata senz' aver presente la commedia del Goldoni/ ricorrerebbe col pensiero al francese, come sempre fa chi scorre il teatro del Moratin, al Moličre soltanto. Affermo troppo dunque il Farfrielli in un fuggevole ac-cenno ai due cpmmediografl, dicendo che lo scrittore spagnuolo aveva sfruttato il Goldoni'}. Meglio conchiudere con Cesare Levi che 1'esempio recente della riforma goldoniana e i contatti personali tra i due poeti esercitarono su Moratin, aneor giovine e nuovo al teatro, un'influenza salutare2). Anche il Calzado, che, scrittore spagnuolo, padava ai veneziani del loro Goldoni, sedotto dal desiderio d' unire in un vincolo spirituale il suo paese aH' Italia,' seorse tra il Moratin e il Goldoni rapporti che, in verita, son ben deboli e non esi-stono affatto. No m nel teatro;' ma gli parve seorgere qualche affinitti nella loro vita. Concediamogli pure ch' abbiano avuti comuni gli slessi gusti semplici nella vita prirata, lo stesso carattere spensierato e gioviale e alternative d i prosperita e di srenlura (queste poi chi non le -ha?); ma quando il giorna-lista spagnuolo asserisce che i copiosi carteggi del suo conna-zionale e le Memorie del Goldoni si -rassomigliano come due l) Giornale storico della letteratura italiana, vol. XXX, pag. 287. 2j Cesare Levi. II riformatore del teatro spagnuolo (Leandro Moratin), Rivista teatrale italiana. Vol, III, pag. 244, goecie di acqua1), chi potrebbe dargli ragione? Tra le lettere private del Moratin, scritte come il cuor gli clettava, senza preoccuparsi d'una postuma pubblicazione, cui egli certo non pen so e le Memorie che, se al carattere di chi le scrive re-stano documento mirabile di sinceritA, procedono invece guar-dinghe, temprano giudizt, tacciono nomi e cose la dove toccano delle relazioni dei contemporanei con 1'autore, trattenuto sempre da riguardi infiniti, soverchi, io non vedo rapporto alcuno. I punti di contatto tra 1'opera e la vita dei due si riducono in verita a poca cosa. Innovatori 1'uno e 1'altro, non fu senz'aspra lotta che riescono a far valere le nuove idee e le forme nuove. E pur ottenuta la vittoria, 1'impeto e la malignitA degli avversari possono ancora tanto, che il Veneziano deve ceder loro il campo ed esulare in Franeia ; il Moratin dopo i trionfi riportati col suo capolavoro (KI si de las nuias) non conduce piu a termine nuove commedie cli cui aveva gia divisato il piano. Muo-iono tutti e due assai lontano dalla patria, e la stessa terra ne aceoglie la salma. Zehenthof, agoslo 1904. E. Maddaleua. Un capitolo vertjacolo iqedito contro il giuoco. IC del secolo XVI ed e noto che, anche allora, a Venezia, si giuocava a rompicollo: convegni pubblici e luoghi privati davan ricetto ai degeneri nepoti de' buoni padri e Temi invano guatava e fulminava atroce: non la berlina, non la deturpa-zione del riaso e clelle orecchie valevano ad estirpare la trista passione. II lotto pubblico ereditato dai genovesi e accolto dal Governo nel 1590 aveva avuto, come precedenti, una specie di lotteria nel 1504 e una lotteria con premi nel 1521, la cui origine e narrata dal Sanudo come »novo modo di vadagnar 'i t On croirait Ure len Memoires de Qoldoni». Calzado, op. cit., p. 15. metendo pocho cavedal a fortuna*1) e non sono le sole dal buon diarista ricordate. Noi riportiamo codesta in data Febraio 1522 assai interessante (>.01110 cpiella ehe da una chiarissima idea della cosa. Scrive adunque il Sanudo2): «----al presente in questa terra inRialto non si atende ad altro oh'a meter danari su lothi, idest precii che si mette a tanto per uno, zoe soldi 10, soldi 20, soldi 31, lire 3, ducati uno et ducati do ad sunimum, e li precii montano chi piu, chi mancho fino 1500 ducati, zoe pani de seda e di lana, quadri, fodre di pili sorte, argenti numero grandissimo, e di belle cosse, perle grosse et belle zoie di piu sorte, pater nostri di ambracan et fino uno gato mam on vivo, cavalli, chinee etc. fornide et tutto si mette a lotho, siche tutta la Ruga di orexi da una banda e 1' altra e a questo, et assa' tapezarie, veste de seda, vesture de restagno e di seda, e altro. I tem, la Ruga de' zoielieri; siche non si pol andar per questi lochi, tanto persone e che par una Sensa; et ogni zorno si cava boletirii-cori dir 'pacientia quando 11011 si ha nulla, et quando si ha precio si crida precio. Et acio non siegua fraude, per li Capi di X fo comesso a li Provedadori di Comun sier Lunardo di Prioli, sier Daniel Trivixan, sier Filippo da Molin che non si potesse meter lotho alctin senza sua saputa, et che fosse messo Le robe a precio justo, et mandano uno scrivan a veder cavar li boletini. Q.ual si cava a questo modo, videlicet, in una cosa di orinal e pošto taliti boletini quanti hanno deposita, seeondo il precio dil lotho, e uno putin il cava, et in consonantia cava di 1'altro orinal, dove 6 tutti li boletini, zoe altratanti parte bianehi, parte segnati precio et il numero dil precio, e tutti e posti in una maieta. Hor cavando il nome, cava poi 1' altro di la maieta ; et se e bianco, uno ch'e li crida pacientki ,* se e precio, si dice qual precio li tocha, e si fa nota et si porta a 1' oficio di Provedadori di Comun et scontro, e chi vince va a tuor quello ha vadagnato. Molte donne ha pošto danaro in ditto lotho; siche tutti core a meter poco per aver assai, perche si vede tal con un dueato averli tocha ducati 100 d'oro, e tal perle che val ducati 180 e via discorehdo; e ') v. Pompeo Molmenti in «Gazzetta Musicale di MiIano» N. 23 (6 Giugno 1901) pp. 355—6. 2) I diarii di Marino Sanuto, Venezia 1892, Tonio XXXII pp. 500-1 (in data Febraio 1522). tal, che ha pošto assa' boletini, et sempre li vien fuora pa-eientia. Chi mete in vari nomi; ehi dice cose bizare et ha il boletin dil scontro. E tra le altre, Io fui ozi con uno mio carissimo amico et richo patricio, qual messe piu boletini su argenti con questo moto *felix concordia» tamen non ave nulla fin qui; si resta a cavar li altri lothi, et non solina a RialtO) ma eliam a San Marco su la 1'iazza. E tal lothi lo Marin Sanudo fin qui non ho voluto lisegar alcun dan aro, perche parmi sia cosa inlicita et forsi potria esser bararia; et e st&, per li Signori di note over Pi'ovedadori di Comun, preso uno che meteva piu boletini di qucllo dovea nel lot.ho; fu pošto in berlina etc>. Parecchie notizie riguardanti il giuoco a Venezia nel secolo XVI possiamo ricavare anche da un pregevole articolo dello Zdekauer'), il quale, lasciato da parte quello che s'eserci-tava con carte false o dadi viziati, lo suddistingue in tre forme: giuoco privato specialmente tra persone di bassa condizione in cui le somnie, in generale, eran relativamente piccole; il giuoco ne' ridotti e convegni aleuni dei quali l'A. ricorda a S. Barnaba, ai Carmini, iu Calle dei cinque a Rialto, a S. Ge-remia e a S. Moise (ne i nobili disdegnavan talora compagnie men degne); finalmente, come terza foggia di giuoco, e anno-verato quello che si compieva nei campi, sui ponti, sui cortili; i poveri frati dei S. >S. Giovanni e Paolo vedevano il convento invaso da una frotta di giovani che si facevan lecito di sol-lazzarsi con la palla e mai fu per tra Martino che, volendoneli impedire, s' ebbe le busse in ricambio. Le gondole, gaie suaditrici d' amore, vedevano anche carte tremanti e dadi balzanti e il Palazzo ducale ancora poi che i gondolieri e i servi non sapevano come meglio ingannare la noia dell'attesa mentre i padroni lassu legiferavano, se non coi giuoco. Chi voglia farsi esatto conto del come la Republica perseguisse i colpevoli non k che da scorrere nel recente volume di Giovanni Dolcetti2) 1'appendice V (pp. 212 e sgg.) intitolata appunto «Legislazione sul giuoco* ove son raccolti i vari decreti pro-mulgati dal 1172 al 1797: nel 500, che a noi ora interessa «11 giuoco a Venezia sulla fine del secolo XVI» in Are hi vi o Veneto. Anno XIV. Tomo XXVIII, pp. 132 e sgg. *) Le bische e il giuoco d'azzardo a Venezia, 1172—1807. — Venezia 1903. Libreria Aldo Manuzio, editrice, maggiormente, ve n' a a dovizia. L'A. non li diede natural-raente per esteso: li restringe spesso ma non per cio la fosca passione riesce men trista neireloquenza delle leggi tonanti a suo vitupero. I nobili sorpresi nelle čase da giuoco eran privati per 10 anni dagli uffici puhlici e condannati alla multa di 300 ducati d'oro, i popolani rei dello stesso delitto banditi per 10 anni dal territorio: gli accusatori e i denunziatori, come di rito, eran premiati (26 maržo 1506. Cons. X). Poco dopo tutti i giuochi venivano proibiti «excepiti che de balle et ballestre* e si aggravavano le pene precedenti: permettendosi solo »consueti et honesti zuoghi* (17 giugno 1506. C. X). E cosi via via si prosegue ne passa anno, direi, che una nuova legge non vegg'a la luce del sole, nuove teste deli'idra cui 1'ostinazione e la per-vicacia eraclea dei giocatori scapitozzava. Si facevan decreti contro il lotto, contro il giuoco del «pandolo» eol quale «11011 solum li Putfci ma ancora huomeni fatti et con Ta Barba nelle piazze pubbliche Campi, et altre strr.de di questa Citta giocano non havendo rispetto alcuno alli viandanti», contro le scommesse (15 ap. 1553. C. X); si viefa il giuoco in Piazza S. Marco (17 Maggio 1561) decreto che si rinnova otto anni dopo, in Campo S. Zaccaria (29 Luglio 1586) in campo de' Frari (29 Sett. 1589) a S. Gerolamo (29 Aprile 1590), attorno alla Chiesa di S. Stefano (16 Gen-naio 1593). — Bofonchiava il Garzoni1) contro i giuochi «de' dadi, de' carte e di tutte le sorti, et similmente di tutti i tripudij pieni di mollitie, et. di lascivia, ne' quali intervengoiio mille peccati il giorno, e l'hora. Ivi interviene la cupidita, radice di tutti i mali, anzi la rapina che vuol spogliare il prossimo; l'immise-ricordia verso quello, che li cava sino la camicia, se puo; l'in-ganno, che spesse fiate oceorre mesehiato eol furto; la bestemmia contra Dio, il disprezzo della Chiesa, la corruttela del prossimo, il peccato deH'ira, 1'ingiuria contra il fratello, et la villania: l'inosservanza della testa, et l'homieidio alcune volte. Ivi ac-cadono i giuramenti, gli spergiuri, il testimonio iniquo spesse fiate, il desiderio ingiusto della robba d'altri. Ivi avengono ') II theatro de vari, e diversi cervelli inondani nuovainente formato, et pošto in luce da Thomaso Garzoni da Bagnacavallo ecc. In Venctia Appresso Fabio, et Agostin Zoppini fratelli 1591 (p. 65). tutte le sciocchezze, e le stoltizie, che 1'liuomo possa imagi-narsi. Un giocatore diventa servitore del gioeo, anzi schiavo, che non puo in modo alcuno spičcarsi da quello; perde il suo vanissimamente, conosce la malitia del gioco, et non la fugge riceve danno da esso, et volge l'ira contra Iddio, prepone il diletto di tre dadi alla divina lode; per non esser otioso, sta maggiormente otioso*. Anche il Verdizzotti nella biografia del Molin premessa alle rime1) tocca il medesimo tasto quando afferma che il poeta veneziano fuggiva 1'ozio «et gli altri poco honorati tratteni-menti de' giuochi di carte et d'altro, ne i quali si sta hoggidi per lo pili miserabilmente immerta et perduta la gioventu della maggior parte delle persone per nobilta di sangue, et per altezza di fortuna grandi ed illustri, consumando il tempo, et la faculta in crapule, et dishonesti piaceri, con detrimento dell'honore, del corpo, et deH'anima loro®. Nel IV dialogo »del Franco2) un giocatore cosi parla a Caronte che esige 1'obolo: «Non so in che giuoco non habbia veduto le mie disgratie. S' ho fatto a Toccadiglio, e a Sbaraglino, non ho si tosto toc-cati i dadi, che mi ban no sbarattato del mondo. Se a Tarocchi, mai non conobbi ne quella buona ventura traditora. Se alla Bassetta, di quante carte ho cliiamate, non me ne rispose mai una. In quante notti di Dicembre sono, che non mi trovai di vincita due quattrini». E il Garzoni stesso in quel capacissimo calderone detto la »Piazza universale di tutte le professioni del mondo» dove, pleniš manibus, se non gigli verso un intruglio di cognizioni importantissime per noi, curiosi e non ingrati nepoti, assegna un capitolo speciale ai giocatori «in universale et in partico-lare»3), nel quale, dopo la consueta sfilata d'autori che gli fan da colonna, ricorda i giuochi d'allora che divide in fanciul-leschi «et in giuochi da huomeni*. Se li vegga chi vuole: tanti sono.che ci viene meno il buon volere; ricorderemo solo che si giuocava, tra l'altro «a tarocchi, a primiera, a gile col ,i:) Rime di M. Girolamo Molino. — In Venetia 1573. 4) Dialoghi piaeevolissiini di Nieolo Franco da Benevento. — In Venetia. Presso Altobello Salicato MDXC (p. 73 t.°). 3) Discorso LXIX deli'opera citata: edizioue di Venezia del 1592 (pp. 560 e sgg.). 1'AGiNli ISTRIANE 331 coi bresciano bruscando una da quaranta almen per volta, a tnonfitti, a trappola, a flusso, a flussata, alla bassetta, a cricca, al trenta, al quaranta, a minoretto, al trenta un per forza, 6 per amore, a Raus,........ a i dadi da tavole, a quei da farina, a scaricar 1'asino, a toc-cadiglio, a sbaraglino, a tre dadi • j, A Un° di codesti giuochi rassomiglia un anonimo1) le cure d amore: - L' amor se proprio co se la bassetta, che 1' homo ghintra cusi a puoco a puoeo, ma el non ha perso la prima gazeta che ti '1 vedi spazao, ti '1 vedi tocco, de sorte che va lin a la baretta, a chi no se de malmaro, o de zocco, cusi anche 1' amor se. a sto partio che pi che 1' homo perde pi el v& drio. Nella «Zattera» del Cieco d'Adria-) v'a tra gli altri un gentiluomo che • • • giocando a primiera ha fatto flusso. Senza cibo pigliar sonno, o ristoro Giuocherebbe la sua parte del Sole, K di San Marco, havendolo, il thesoro. Di mille scudi, e non vi vendo fole, Le eavate facea, ma un torto raro Gli hano fato le carte mariuole, Poi che havuto ei non ha piu aleun denaro Giuocato ha la bellissima consorte, E al fin giuocato i denti a un seudo il paro. Olimpo da Sassoferrato, il noto strambottista, in un sonetto agli scolari3) comincia Si sei scolar non giocare alle carte e in un altro, indirizzato agli stessi, ') vedi «La Caravana«, Rime piasevoli di diversi Autori ecc. Parte Prima. In Venetia per Sigismondo Borgogna 1573 (p. 23 t.°). a) Rinje di Luigi Groto ecc. P. IIP (p. 129,. In Venetia Appresso Ambrogio Dei 1610. 8) in Parthenia. Libro novo di cose spirituali composto per C. Bal-dassarre 01ympo da Saxoferrato. — In Venetia per Benedetto et Augustino de Bindoni nel Anno del Signor MDXXV a di XIII, de Decembrio. Non giova andare a Padova a Bologna Non giova girc a Perosia a" Pavia Per nome de stndiar philosophia E poi tornare a časa con vergogna Chi vuol stndiar le leggi glie bisogna Lašciar la mala e trišta compagnia La volupta, li giuoebi lasciar via Pigliar la verita non la nienzogna. e cosi conclude un ultimo sonetto codato Pero tiglio habbi cura Non seguitar il gioeo aeerbo et crudo Che spesso lhuom per (juello resta nudo. E il Čara via '): I se da spasso anche a la inanina, Con la pritniera, bassetta, e '1 quaranta, Stimando scndi manco che puina, Vaga (i dis-e) sto resto, ch' e settanta, Che questi no šara la mia ruina, Cusi zogando i se bertiza, e canta, Come che s1 ei zngasse de favetta I ghe ne zugherave una caretta. I no vadagna, de trenta una fiata Sti gonzi perehe i vien assassinai Da chi de trufarie sa ben la pata, E quando i vinti scudi a vadagnai, I va de longo a trovar la so mata, f Che con do lichi la gli i ha licai, E cusi al fin i deventa mendichi, Se i fusse di un milion de scudi richi. Ma chiudiamo i rivi che i prati gia abbastanza bevvero ne e nostro scopo discorrere partitamente del giuoco a Venezia nel 500: ci basti conoscere, anche alla meglio, il clima morale d'allora per ben gustare il capitolo inedito che ora do alla luce tolto dal noto codice Marciano 248 (it. cl. IX) intitolato «Rime del Veniero e di altri«, frutto probabile di quei geniali ritrovi a ca' Venier, dove le dotte dispute s'intrecciavano e la poesia e la musica mitigavano la noia del Mecenate che intorno a se numerava il fior tiore dei letterati veneti. L'ario-nimo consiglia un suo amico, giocatore arrabbiato, a lasciare ,') Naspo Bizaro, Con la Zonta del lamento ecc. ecc...In Venezia, et in Bassano,. Per Gio: Antonio Remondini (p. 55). una buona volta tal vizio che 1'avrebbe ridotto al lanternino e a darsi a tutt' altro, aH' amore, per esempio, o, meglio ancora, allo studio; cosicche ora che 6 presentato e rimpannucciato alla meglio il mio uomo, m'inombro e lascio ch'egli snoccioli il ternario. Antonio Pilot. Pi per mostrarvc ehe son vostro amigo, Ca per mostrar, che so componer versi, Ve scrivo adesso questo, che ve digo, Per dolerme con vu, za ch' have persi Quauti soldi, ch'havevi per voler Tagiar senza pensar dreti, e roversi: Ben che me pore dir, caro missier Vu ste a criar, e mi no digo niente Vu have per mal de quel, che mi ho piaser Po chi no sa che non dire aitramente Vu fe da savio a no ve desperar Per che per Dio fasse rider la zente: Ma sare ben pi savio a 11011 zuogar Pj contentarve d'haver hahu sta pesta Che le carte per vu sta in pezorar: Per che piu presto perdesse la vesta Che vadagnar un cinquanta ducati, Caveve pur sta voia de la testa Per che (sappie Signor) che tutti i inatti Sta saldi in t'un humor, e chi ha cervello Se chiarisse, e tuo zo de questi trattj: O quanti grami che s'anda in bordello Che steva ben, che giera ricchi a cana E' adesso i ha de besogno d'un marcello: Se vit havesse tutta padoana Quanti scudi in dies' anni 6 sta stampai, Quante merchadantie se ž, la Doana: E' ch'el perdesse, e no vadagnar mar, D'i piu richi ch«?' fosse, in puochi zorni E1 sarave (a la fe) d' i piu spelai: Sapie Signor che 1'6 cosa da storni No se saver cavar fuora del zuogo Che da lu no s'ha nome danni, e scorni: L'e pezo in t'una časa, che n'e '1 fuogo, E1 spamassa mo, m' areccommando a Dio, Questo mi vel so dir, si ben non zuogo : Si che ve voi pregar ehe da qua in drio Incaghe al zuogo, e che ghe dighe toia Chi vuoi zuog'ar, che mi me son chiario: Cancaro al zuog'o, e a quei, che ghe n' ha voia Se perde i soldi, e po sora marcao Coloro che vadagna ride e soia : Vorave esser pi presto inspiritao, Che varirave a farme sconzurar, Ch'haver sto zuogo si fitto^nel cao: Sto zuogo non saveu zo ch'el sa far E1 sa far nome mal, e costion, 'E a chi no sa, insegna biastemar: Per Dio, ch' el zuogo se una destrution De le persone, e grami, chi no '1 laga, Grami, chi no se mua d' opinion: Che co se se infrisa, fin che s' ha braga Al cul, se vuoi zugar, e al cao da drio Co n' h a ve soldi, tutti ve n'incaga: Si che ve priego caro Signor mio Muoeve un pochetin de fantasia E cerche de trovar altro partio: Ve priego si 111'ame, trove altra via Da intertegnirve, che sia de piu honor Ch'el zuogo certo se una minchionaria: Pi presto intertegnive con Amor O con qualche vertu, che ve deletta Che questo ve sara de piu favor: Varde troveve qualche morosetta Che vu posse pensar, che sia corriva, Che procieda con vu sempre a la retta: Trovella hella, e che la sia lassiva E varde, no trove qualche mengrela Ch'un di ve peta po la pelatina: E che vu no trove tal cattivella Che con le sue parolle inzucharae Ve tegna sempre netta la scarssella: Aldi, per che qualc'una con ochiae A ponto fe 1' amor con zentil donne, Con le piu g'iote, et con le piu trincae: Che credeu, che le sia forsi colonne, Me meravegio mi, puol far San Piero Le se ancha esse, co se 1'altre donne: 'E anche vu fare nieio, a dirve '1 vero Tior d' i libri vulgari, e studiar Che mi che no so niente, e me despiero: Che vu ve posse forsi inamorar De tal sorte in tel lezer, che per Dio Chi ve pagasse, no posse zuogar E' con bel modo n' havesse chiario. Sili'orisi ilei Conti ii Mi seiei toiipi STUDIO CRITICO (Contin. — vedi A. II, pag. 293). II Pucci fa degno riscontro agli altri frati canzonati a ragione dal Gregorovius. Merita tuttavia, che io noti, coni' egli oltre a cio, assegni alla supposta fuga di due (non piii tre ne quattro) leggendarii Pierleoni-Frangipani-Anicii da Roma (V. pag. 19, 23, 24) non gia la data dell'833, si bene quella del 1155, 0 giii di li; cioe, come lo Schonleben, quella della morte di Ar-naldo cla Brescia e dei torbidi che quella morte suscito. Nella nostra questione adunque Benedetto Pucci vale un bel nulla; tanto piu ch' egli e posteriore al Panvinio, cui cita. II Cubich, che in questa fantastica genealogia bevve di grosso, cita, oltre al Pucci, anche il Freschot, e certi antichi Ms. avuti da Venezia (Cfr. 1. c. II, 49). Ma siamo sempre a quella. Tanto gli autori citati, quanto 1 manoscritti, non valgono una pippa di tabacco. I manoscritti devono essere di epoca assai recente, e o-pera di genealogisti per ridere, come fra poco vedremo; l'au- tore poi Casimiro Freschot, che pubblieo 1'opera: Nouvelle Relation de la ville et Repnbligue de Venise, Autrecht, 1709) nella Parte III: des farailtes Nobles de Venise, p. 123, parlando della famiglia Michiel, non dice cio che gli fa dire il Cubich, ma cosi si esprime: «On veut (sic!) qu' absolument cette famille soit d'origine Romaine, et vneme qu' elle vien de celle des Anices....» ma non ci črede affatto. Io inveee posso dimostrare con prove di fatto, che siamo di fronte a una solenne mistificazione anche riguardo ai Mi-chieli-Frangipani di Venezia, come riguardo ai conti di Veglia. Grazie al cielo le cronache venete piu accreditate, come: quella di Giovanni Diacono, quella di Martino da Cauale e quella del Dandolo, sono a me tanto familiari, quanto i documenti che si riferiseono ai conti cli Veglia. Ebbene; se la fuga dei tre fratelli fosse avvenuta nell'833, e dessi fossero riparati a Venezia, questo fatto non do veva sfuggire ai due primi. Invece; vedi amara derisione della sorte! In quelle fonti si fa il nome di tutte le famiglie patrizie venete, e s' indica la citta onde ebbero origine; ma fra tante famiglie, provenute da tanti e si diversi luoghi, qualcuna eziandio dali'Italia, nemmeno una venne da Roma, e men che meno si fa il nome della famiglia Michiel. Dunque, astraendo dal fatto certo, che la famiglia Michiel non e Frangipani; possiamo essere sicuri, che essa non era a Venezia ne nel IX ne nel X secolo. I Michieli vennero, (secondo alcuni pero) da Roma; ma se vennero, ei si fu dopo il 1000. Martino da Canale (del secolo XIII) non li nomina neppure. II Dandolo poi, che scrisse la sua rinomata Cronaca nel secolo XIV, e che mori nel 1354, viveva pertanto, quando i Fregapani di Venezia erano ancora esistenti, perche nel Muratori (1. c.) si dice, che la famiglia si estinse nel 1347. Ora il Dandolo, quando tratta dei dogi Vi-tale e Domenico Michiel, non si sogna neppure che fossero Frangipani, ne sa nulla della faccenda dei Micheletti cui al-lude il Cubich; segno evidente che queste notizie sono ag-giunte cervellotiche di autori di secoli posteriori. Ed e difatto cosi: Mare'Antonio Sabellico, morto nel 1529, nella sua Istoria Viniziana (Deca I, Libro VI), parlando di Domenico Michiel, nulla dice delle monete di cuoio coniate in Terra Santa. Questo partieolare trovasi appena nel Doglioni (Historia Venetiana, Venezia, 1593, p. 83) che deve averlo tolto dalle Vite dei dogi veneti, pubblicati dal Maraton, e scritte da Marin Sanudo. ') Ponendo insieme le diverse notizie si viene a sapere, che la famiglia Miehiel, seppure venne da Roma, venne probabil-mente-poco dopo il 1000; perche Vitale Miehiel resse il do-gado dal 1096 al 1102, e suo padre Andrea fu spedito dalla Repubblica a Costantinopoli nel 1084 (Cfr. Zanotto, Storia della Repubblica di Venezia, I, 199, Nota 1). Questo mio modo di vedere e confermato dai documenti riferiti dal Romanin, nella sua nota Storia d i Venezia. Egli adunque riporta nel vol. I (pag. 347-395) diversi documenti degli anni 827-1094; ma fra le firme non s' incontra mai 1111 Miehiel, ne un Frangipani. Invece fra le firme d'un documento del 1097, trovo: Andreas Michael, il quale con tutta probabilita e quell'Andrea, padre del doge Vitale Miehiel, che nel 1084 venne spedito a Costantinopoli. Le notizie che il Romanin riporta nel volume II toccando del doge Domenico Miehiel (1118-1130), sciolgono eziandio la faccenda delle monete di cuoio, cui accenna il Cubich (II, 49, nota 2), da fonte sospetta pero. Sembra adunque accertato,— perche il fatto e riferito dallo Zanotto (op. eit. I, 205, Note) e dal Cappelletti (Storia di Venezia, I, 460), che il doge Domenico Miehiel, trovandosi all'assedio di Tiro (1123), e prolun-gandosi 1'assedio, essenclogli mancato il danaro per pagare la truppa,' abbia fatto coniare delle monete di cuoio, da cam-biare, al suo ritorno a Venezia, con monete d'oro; «onde (con-tinua il Romanin, II, 46, 47) ancora lo stemma della famiglia Micliiel porla sopra fascia azzurra ed argentea venVuna moneta».. E for.;e questo lo stemma dei Frangipani di Roma, quale ce lo deserive il Gregorovius?2) — Baie! — E nella nota J) Cfr. Mnratori, Script. XXII, 424: «MiciiieIi di Malamocco; fecero Sant' Agostino. La lrro Anna era prima sbarre: ma Messer Domenico Mi-cMeti Doge, essendo ali'acquisto di Terra Santa, fece battere Ducati di cuoio, e levo in quelli su la sua Arma. Vennero prima di (da) Roma . 2) B. ;so di Seifrido a proposito dei tre fratelli, uno dei quali, Nicolo, si sarebbe portato in Dalmazia, mbi familiam Bou-panorum (Bonpan). et Fanorum (Panj Teggiae reliquil».... E Draselluts filius Mcpco de Drasi, (nome.... de Leo, de Casera, de zu-jiana de Omeno, de Paulo Sudi..., de Marina, Kuba Saeeo, Petrus de Dnino, de Slanga, de Stoi, de Mamma, de Alberto, de Cerne, de Barba, de Bravo, de Grossa, de Morta, de Matafarro, de Greea, de Manduca Vacca, de Miraganiba, de Foriporta, de Sergi, de Saraceno,... de Segna, de Gam-bostorto, de Longo de Cavallino, de Barba Gingi (Gigi?).... mulier de Gi-bulo, filia de Oenua, de Plavgipano, Petrus de Pauno,... subito dopo: i discendenti di questo Nicolo, passati in Croazia.... furono i capostipiti »Francopanorum (al nom. Franco-pan) el Signiorum» (di Sign ?). Peccato, che al Seifrido si possa prestare poca fede, e che non citi la fonte cui attinse questa 110-tizia interessante; che altrimenti noi saremmo certi, che il cognome originario (o soprannorae) dei conti in questione era: Ban o Pan, due varianti per me identiche; e quanto al Fran-co-pan, ci renderemo conto fra breve. Bisogna sapere, che i discendenti di Doimo, divenuti pili tardi vassalii anche dei re ungheresi, a cagionc dei feudi che tenevano in Croazia, estesero, gia dal secolo XIV, un'infinita di atti in lingua croata, con caratteri glagolitici. Ora, in questi Atti croati, essi non si dicono mai «de Frangepanibus*, ch'e un'imitazione del predicato dei Frangipani di Roma, bensi "de Franhapanb e talvolta: FranUopah e Frangopan (Cfr. Urbaria lingua croatica conscripta, nel Vol. V dei Mori. Ili-slor.-jurid. Slav. Merid., p. 192, 214, 259, 290, 295). Che cosa significa questo cognome, che va cosi diviso: Franco + pan ? Ecco. Pan, come abbiamo veduto, significa dominus, signore; franco dice: libero, il germ. frči; puo pero significare eziandio: di naione franco; e, nella lingua croata, anche Francesco. Ma fra pan e ban io non fo distinzione al-cuna; e ban significa: govei-nalore di una prorincia. Abbiamo adunque le seguenti etimologie: Libero o franco governatore, Libero o franco signore, Francesco governatore. Francesco signore, Francapana poi e il caso genit. di Franco pan. 11 cognome originario adunque dei conti di Veglia sarebbe stato: Ban o Pan; ma siccome questo e un nome generico, a meglio caratterizzarli, Vennero detti: Francopani, come quelli di Roma furono in origine Fraipani, poi Frdiapani. II cognome Pan e realmente dalmato, e lo troviamo qui gia nel secolo XI. Cosi in una memoria del 1080 s'incontra un