received: 2010-06-25 UDC 343.102:343.255(450)"15/17" original scientific article IL "GRANDE ASSURDO": LA TORTURA DEL TESTIMONE NELLE PRATICHE D'ETÀ MODERNA Loredana GARLATI Università degli Studi di Milano-Bicocca, Facoltà di Giurisprudenza, Piazza dell'Ateneo Nuovo, 1, 20126 Milano, Italia e-mail: loredana.garlati@unimib.it SINTESI Le pratiche d'eta moderna (secoli XVI-XVIII) costituiscono una pagina per molti aspetti ancora poco esplorata della letteratura del tardo ius commune. Sebbene la storiografia giuridica se ne sia occupata piu volte incidentalmente (specie per effetto della recente 'rivalutazione' della produzione editoriale forense rispetto a quella ac-cademica), mancano tuttora studi sistematici e di sintesi. Eproprio all'interno di questo genus letterario, mirabile sintesi ed espressione di equilibrio tra prassi e teoria, specchio fedele del rito inquisitorio 'praticato' (e po-tremmo quindi dire vigente) nelle diverse aree geografiche (e di conseguenza all'interno dei quadri politici-istituzionali connotativi delle diverse esperienze territoriali dell'eta moderna), che va ricostruito un tema 'scabroso' e al tempo stesso dai delicati profili giuridici quale quello della tortura del testimone. In un processo cognitivo di stampo inquisitorio che mira alla ricostruzione della verita processuale, il testimone, fonte di prova, vive una situazione paradossalmente simile a quella dell'imputato: la sua parola, in un sistema di prove legali, é considerata di cosí stringente necessita e di imprescindibile utilita da giustificare il ricorso alla tortura. Parole chiave: processo inquisitorio, tortura, testimone, pratiche criminali, secc. XVI-XVIII THE "GREAT ABSURDITY": TORTURING OF THE WITNESS IN MODERN AGE TRIAL DOCUMENTS ABSTRACT Modern Age trial documents (16^-18^ centuries) represent a largely unexplored segment of late common law literature. Even though legal historiography frequently touched upon this topic (in particular as a result of the recent 'revalorization' of 81 Loredana GARLATI: IL "GRANDE ASSURDO" ..., 81-104 forensic publishing production if compared to academic), systematic and synthetic studies are still absent. It is within this literary genre - excellent synthesis and expression of equilibrium between theory and practice, the true (and thus valid) mirror of the investigation process in a variety of geographical areas (and thus placed within political and institutional backgrounds that are connotative of the diversity of territorial Modern Age experiences) - that the delicate topic of the torturing of witnesses will be reconstructed. In the cognitive and investigative procedure which aims to reconstruct the truth, the witness as a source of proof was put in a situation that was paradoxically similar to that of the accused: his word, in a system of legal evidence, was considered to be of such stringent necessity and unquestionable utility as to justify the use of torture. Key words: inquisition trial, torture, witness, trial documents, 16th-18a1 centuries IL VELO DELL'INDIFFERENZA Vi e un profilo del processo penale che a vario titolo e per diverse ragioni ha susci-tato un'attenzione costante da parte della storiografia storico-giuridica: la tortura del-l'imputato, momento centrale e di snodo nello svolgimento del processo di stampo inquisitorio, principale oggetto di una critica serrata soprattutto nell'eta dell'illuminismo. La demolizione della tortura sorti effetti ad ampio raggio, che andarono ben oltre la semplice abolizione dell'istituto: nella sua rovinosa caduta, infatti, la tortura tra-scino con sé alcuni capisaldi e principi cardini dell'inquisizione stessa, dando cosi av-vio alla modulazione di nuove forme procedurali. Nel tempo si sono succeduti studi di sintesi generale o di analisi specifica che della tortura giudiziaria hanno ora affrontato le modalita applicative, ora le finalita attribuitele; ora il ruolo rivestito nella sistematica probatoria, ora la connessione con altre branche del sapere, in particolare quella medica (Rossi, 2008, 163-199), ora le posizioni assunte volta per volta dalla criminalistica di fronte a tale istituto, fino a verificarne tracce d'uso, sotto mutata specie, anche nelle eta successive alla formale e legale abrogazione (Garlati, 2007, 377-380).1 Ne esce un quadro variamente composito, in cui la dottrina a volte svela intime con-traddizioni,2 dove il coraggio si fonde con il timore, i sussulti garantistici con la difesa 1 Quasi impossibile, e forse superfluo, dar conto della corposa bibliografia. A partire dall'opera di Piero Fiorelli, ancora oggi imprescindibile punto di partenza, chi si è occupato di temi attinenti al processo penale di antico e nuovo regime ha inevitabilmente dovuto affrontare anche la questione della tortura dell'imputato, questione che tuttavia, proprio per le molteplici prospettive di indagine, rimane inesauribile materia di studio. 2 Si tratta di centraddizieni dalle mille variegate sfaccettature. La criminalista dell'età matura di diritto comune, spesso accusata dai suoi detrattori di essere quasi ispiratrice delle pratiche di tortura, mostra segni di perplessità di fronte al suo impiego, cosi che le regole dettate per disciplinarne l'uso appaiono 82 Loredana GARLATI: IL "GRANDE ASSURDO" ..., 81-104 della tradizione, la paura del rinnovamento con l'esigenza di riforme, il tutto in sintonia con un mutevole quadro socio-culturale di fondo. Piu si radica l'esigenza di tutelare diritti naturali individuali, di cui si postula l'esistenza, piu si accentua il conflitto con l'immanenza dello Stato (e dei suoi organismi giudiziari) nel meccanismo processuale e punitivo, coinvolgendo drammaticamente beni e valori non disponibili dal singolo. Il processo inquisitorio, espressione immediata della progressiva erosione della centralitá dei privati nella giustizia criminale e, contemporaneamente, dell'utilizzo di quella stessa giustizia come strumento di misurazione dell'efficacia del potere politico (Sbriccoli, 1991, 21), con conseguente ingresso del soggetto pubblico 'Stato' nella dinamica processuale (Sbriccoli, 1998, 232), vive sulla e della parola dell'imputato e non esita a ricorrere a mezzi di forza pur di ottenerla. A fronte di quanto fin qui evidenziato, stupisce una sorta di trascurata indifferenza riservata dalla letteratura al tema della tortura del teste, una noncuranza che investe anche gli esponenti del riformismo illuminista: appassionati e fieri oppositori dei tormenti inflitti agli imputati, essi risultano invece frettolosamente distratti, se non incomprensibilmente silenti su ció che riguarda l'analoga sorte spettante al testimone. Perfino un "propugnatore di riforme processuali per il suo tempo ardite" quale Mario Pagano (Fiorelli, 1953, I, 258) definisce necessaria la vessazione dei testimoni (e ognun vede nell'uso dell'espressione 'vessazione' un'implicita ammissione di perse-cuzione indebita nei confronti dei testi, per quanto rispondente ad un'utilitá superiore) (Pagano, 1801, cap. XX, 97).3 Non va tuttavia sottaciuto che Pagano si riferiva alla come il tentativo di arginarne forme di eccesso. Al tempo stesso, questa strategia finisce per avallare e legittimare la prassi in atto, anziché proporre soluzioni alternative. Non sono poi estranee certe ambiguità neppure al movimento riformista settecentesco, come rivela un'attenta lettura di Beccaria, che se da un lato ripudia in toto la tortura, dall'altro mostra di non voler abdicare ad un caposaldo come quello della confessione dell'imputato (la parola, dunque, come momento irrinunciabile del processo penale), tanto da proporre la comminazione di una severa pena all'imputato silente (Garlati, 2006, 293294). E lo stesso puó dirsi per un altro affiliato alla ristretta cerchia dell'Accademia dei pugni, Alessandro Verri, che pur propugnando l'abolizione della tortura, non resiste alla tentazione di definirla "ingiusta, ma non inutile" (Massetto, 2003, 1436-1437). Un atteggiamento non diverso si riscontra nel fratello Pietro, che dopo aver vergato pagine appassionate contro la tortura (si tratta delle celebri Osservazioni sulla tortura, in cui, tra l'altro, con rabbia cieca e un uso spesso 'disinvolto' delle fonti, l'autore si scaglia indiscriminatamente contro i doctores, rei, a suo dire, di malleveria verso la quaestio), tenne l'opera a lungo sotto chiave, per non scontrarsi con il Senato, protagonista negativo, per sua stessa ammissione, del sistema giudiziario milanese ma di cui non poteva alienarsi le simpatie per riuscire a risolvere a proprio favore una intricata questione di eredità familiare. Un atteggiamento cosi pavido non fu passato sotto silenzio dal Manzoni, che nel tentativo di ristabilire un minimo di verità storica sulle fonti criminalistiche messe sotto accusa da Verri, non risparmiava all'illustre pre-decessore una stoccata critica per un simile 'calcolo utilitaristico' (Manzoni, 2002, 159-60). "Ammet-tiamolo; le 'Osservazioni' le ha scritte Jekyll, ma è Hyde che le ripone nel cassetto" (Cavanna, 1999, 128). Per le vicende ereditarie che sconvolsero la famiglia Verri cfr. di Renzo Villata, 2003, 651-713. 3 Alta si leva invece la voce di Franchino Rusca, il quale contrappone alle ragioni che "sembrano giustificare in qualche maniera l'uso della tortura, un cuore sensibile" che non potrà mai ammetterla (Rusca, 1776, 38, ma sulla tortura al teste si vedano le pagine 41-49). 83 Loredana GARLATI: IL "GRANDE ASSURDO" ..., 81-104 carcerazione dei testi "i quali non vogliono deporre ció che del delitto sanno" e a questo proposito egli precisava che per quanto riguarda l'arresto dei testi "nei più gravi delitti [...] le mani dell'inquisitore sono disciolte d'ogni legame, e la civile libertà non è per nulla sicura. D'altra banda poi senza si fatte necessarie violenze i gravi delitti rimarrebbero mai sempre impuniti. La pubblica corruzione legittima la pubblica vio-lenza, la necessità fa l'apologia del disordine" (Pagano, 1801, cap. XX, 97-98). Eppure la tortura del testimone, a mio parere, restituisce al meglio la ratio del sistema inquisitorio e la sua filosofia ispiratrice: verità, verità ad ogni costo, anche se sulla 'qualità' di quella verità molto ci sarebbe, ovviamente, da discutere. Se già la tortura all'imputato ripugna alla nostra coscienza di 'moderni'e all'attuale sensibilité dei giuristi, quella al testimone appare addirittura incomprensibile: il "grande assurdo", appunto, per usare le parole di Tommaso Briganti (Briganti, 1755, tit. IX, n. 23, 154), destinata peró a resistere a lungo "prima di scomparire nell'ombra" (Fiorelli, 1953, I, 256). Evitando la sempre insidiosa trappola di giudicare il passato con il metro dell'oggi, è compito dello storico del diritto analizzare tale istituto senza preconcetti o pregiudizi, per comprenderne le linee portanti e ricostruire cosi, in modo più com-piuto, i tratti e l'essenza dell'ordo inquisitorio. Appaiono particolarmente adatte ad assolvere tale compito le pratiche criminali di età moderna, per quel loro saper forgiare la prassi e al tempo stesso esserne forgiate, in un circuito che si alimenta reciprocamente, mirabile impasto di principi teorici e distillato di esperienza forense quotidiana, ma soprattutto precisa documentazione del carattere 'giurisprudenziale' (o dottrinale) del sistema giuridico d'ancien régime, in grado di evolversi grazie soprattutto all'apporto interpretativo dei doctores. Le pratiche ci restituiscono l'immagine di un mondo giuridico che sulla questione della tortura del teste condivide, come spesso accade, talune posizioni, ma tradisce anche diversità di opinioni che, lungi dal costituire mere sfumature di pensiero, sottendono un diverso modo di concepire il processo stesso. IPRESUPPOSTI Tra Cinque e Settecento nessuno dei pratici mette in discussione la possibilità di torturare il teste:4 con alcuni limiti, a certe condizioni, solo se ricorrono taluni presup-posti, come prudentemente osservano gli autori,5 ma non vi è chi ne contesti la liceità. La prima osservazione è che imputato e testimone, che rivestono all'interno del processo un ruolo diverso, sono assimilati ed equiparati, per ammissione degli stessi 4 "In criminalibus posse testes torturae subiici non est ambigendum, cum DD. uno ore hoc fateantur": cosi Bassani, 1755, l. II, cap. III, n.1, 177. 5 Precisera Guazzini che il giudice deve essere ben attento "ne testes indebite torqueantur" (Guazzini, 1671, defens. XIX, cap. I, n. 1, 275). 84 Loredana GARLATI: IL "GRANDE ASSURDO" ..., 81-104 criminalisti, per ció che riguarda il tema della tortura. Anzi, se possibile, quella inflitta al teste e si una tortura piu moderata nella forma concreta di attuazione, anche se, come si ammonisce, essa "non debeat esse nimis aspera nec nimis levis" (Guaz-zini, 1671, defens. XIX, cap. XIII, n. 1, 284), "sed moderata" (Farinaccio, 1614, q. 79, n. 81, 526) (ad esempio, la corda,6 anche in questo caso ordinario strumento di tormento,7 viene inflitta una sola volta, senza ripetizione,8 per una mezz'ora al massimo,9 o, come riferiscono alcune fonti, per il tempo di un Credo o di un Padre Nostro,10 in una commistione, usuale e per nulla casuale quando si parla di tortura, tra accenti religiosi, funzione catartica del dolore e macabri rituali)11 ma meno rigorosa nell'individuazione dei presupposti applicativi e, di conseguenza, irrispettosa di quelle minime garanzie che la prassi riconosce in capo all'imputato. Se infatti per poter torturare un teste occorre l'accertamento del corpo del reato (Follerio, 1554, rubr. Capiat informationem, n. 24, vers. est etiam nontandum), 6 Melchiori riferisce di tre squassi di corda pubblica, inflitta "non con altra intenzione, che di fargli aprire la bocca, acció risponda in concreto, o affermando, o negando" (Melchiori, 1741, cap. XII, 60). 7 Con riferimento alla prassi toscana, Savelli ci informa che è ammesso contro il teste solo il tormento della fame o del dado, altrimenti denominato stanghetta (Savelli, 1707, § Pratica crimínale, n. 41, 8). Con la stanghetta si comprimeva la caviglia del paziente tra due tasselli o dadi di ferri concavi. Risultava tuttavia un tormento poco efficace, se si guarda allo scarso numero di confessioni ottenute con tale mezzo. Fu perfezionato in età moderna, quando le stanghette vennero sostituite da gambali, di legno o di ferro a seconda dei paesi, entro i quali stringere, oltre ogni limite di sopportazione del dolore, la gamba della vittima. Fiorelli ritiene che questo strumento a Firenze prendesse il nome di dado (Fiorelli, 1953-1954, I, 198-199). Nel caso del tormento della fame, invece, si tenevano i testimoni senza mangiare e bere: il fatto poteva essere interpretato come tentativo di costringere alla confessione senza una vera e propria tortura (Fiorelli, 1953-1954, I, 207). 8 Savelli ammette la ripetizione nel caso in cui sopravvengano nuovi e gravi indizi (Savelli, 1707, § Tortura, n. 17, 345), "vel non omnia purgasset" (Guazzini, 1671, defens. XIX, cap. I, n. 13, 276). 9 In questo senso, tra gli altri, Guazzini, 1671, defens. XIX, cap. I, n. 13, 276; Farinaccio, 1614, q. 79, n. 82, 526. "Tortura debet esse levis, nempe unius quadrantis horae" (Bassani, 1755, l. II, cap. III, n. 2, 178). Per Cavallino il teste andava sospeso per un certo apprezzabile spazio di tempo e l'indeter-minatezza, ancora una volta, è indice dell'ampia sfera di intervento lasciato al giudice (Cavallino, 1587, § Recognitionis actus, f. 66). 10 Se la tortura viene disposta "ad tollendam maculam, vel ad videndum in quo dicto ipse testis persistat cum ista tortura," deve essere inflitta "per breve temporis spatium, ut puta unius Credo unius Pater noster vel unius Ave Maria" e non si richiede ratifica (cosi Guazzini, 1671, defens. XIX, cap. XIII, n. 1, 284 e Maiorana, 1677, lib. I, cap. VI, n. 1, 17). Savelli distingue a seconda del tipo di tortura: se in linea di massima la determinazione della durata è rimessa all'arbitrio del giudice, lo si invita tuttavia a non superare la mezz'ora se si tratta della fame, cui il teste è sottoposto per purgare qualche 'vizio', cosi che la tortura ne supplisca l'inabilità. Nel caso del dado, invece, basta il tempo di un credo o di un miserere (Savelli, 1707, § Pratica criminale, n. 42, 8). 11 Certe affermazioni, che possono oggi apparire ammantante di ovvietà, nel Cinquecento rispondevano invece a precise finalità. Cosi, Zavattari, mentre fotografa la prassi milanese, avverte: "Testes metu tormentorum facile contra reum mentiuntur; nam dicunt: melius est, ut deponamus hoc, quam patiamur tormenta. Itaque non tanta fides est adhibenda huiuscemodi testibus, qui per tormenta aliquid dixerunt quam si sponte id fateantur" (Zavattari, 1584, n. 93, 33). 85 Loredana GARLATI: IL "GRANDE ASSURDO" ..., 81-104 condizione che giá determina un parallelismo con le circostanze richieste per la tortura del reo,12 parallelismo che, come vedremo, sará una tipica costante, e se si deve trattare di un reato cosi grave da comportare l'applicazione di una pena cor-porale13 e per il quale devono esistere indizi al capo al reo principale (Farinaccio, 1614, q. 79, n. 71, 525),14 se alcuni (ma sul punto le posizioni si fanno divergenti) ri-chiedono, per buona prassi, che si proceda prima all'esame del reo (Guazzini, 1671, defens. XIX, cap. I, n. 9, 276)15 in modo che in presenza di una sua eventuale con-fessione la tortura del teste diventi superflua,16 e se quasi unanimemente si individua nella tortura al teste un rimedio sussidiario (cfr., per tutti, Bassani, 1755, l. II, cap. III, n. 36, 178; De Rosa, 1747, t. II, lib. I, cap. II, n. 7, f. 17), una sorta di ultima spiaggia cui approdare solo qualora non vi siano altre vie percorribili o altri modi per provare il delitto,17 quella stessa dottrina é pronta a sostenere che per tormentare il teste non sono necessari indizi cosi stringenti come quelli che legittimano la tortura dell'imputato:18 si procede, infatti, in modo sommario, rimettendo tutto all'arbitrio 12 La ragione é infatti che se il delinquente non puo essere torturato se non consta il corpo del reato, a maggior ragione non puo esserlo il teste (Bossi, 1562, tit. de Tortura testium, n. 43, 214; Farinaccio, 1614, q. 79, n. 70, 525). Chiaro anche Guazzini: "Si non potest torqueri principalis delinquens, non constito de corpore delicti, multo minus debet torqueri testis" (Guazzini, 1671, defens. XIX, cap. I, n. 1, 275). 13 Se invece il delitto non é grave, il teste chiamato puo essere trattenuto o incarcerato secondo la sua qualitá (ossia se nobile oppure no, se sia uomo o donna), lasciando la decisione al ragionevole arbitrio del giudice chiamato "a bilanciare tutte le cose con prudenza" (Moro, 1755, l. 1, cap. III, n. 22, 112). 14 Di nuovo ci si richiama alla posizione dell'imputato, sostenendo che "indicia contra reum debeant esse sufficientia ad ipsum reum torquendum, ut testes possint torqueri in caput ipsius rei" (Guazzini, 1671, defens. XIX, cap. I, n. 5, 275). Precisa tuttavia Maiorana che nell'ipotesi di omicidio la tortura puo essere inflitta durante l'inquisizione generale nei confronti di persone informate sull'identitá dell'autore del delitto anche quando non precedano indizi contro qualche persona in particolare, sempre che sia stata accertata la commissione del reato. Si dicono informati coloro che, ad esempio, erano presenti sul luogo del delitto (Maiorana, 1677, lib. I, cap. V, n. 3, 13). Per De Rosa occorre la prova del delitto in genere (De Rosa, 1747, t. II, lib. I, cap. II, n. 2, f. 17); per Ambrosini gli indizi acquisiti contro l'imputato devono essere tali da rendere possibile l'esercizio della tortura nei suoi confronti perché si possa torturare il teste (Ambrosini, 1750, l. II, cap. III, n. 4, 110). 15 Precisa De Rosa che in questo caso l'imputato é esaminato "non uti reus, sed ad investigandam veritatem [...] nam ut reus de crimine interrogetur super crimine, valida indicia precederet" (De Rosa, 1747, t. II, lib. I, cap. II, n. 8, f. 18). 16 Cosi Moro, 1755, l. 1, cap. III, n. 20, 111, anche se il giurista non manca di interrogarsi sul destino del teste nel caso in cui il reo sia fuggiasco: come far precedere la confessione dell'imputato all'inter-rogatorio e alla tortura del reo se il primo si é dato alla macchia? A Moro, in questo caso, non resta che proporre la carcerazione sine die del teste, o almeno finché il giudice non lo reputi opportuno, consegnandolo poi a persona sicura (Moro, 1755, l. 1, cap. III, n. 24, 112). 17 Lucidamente Melchiori afferma che un minimo di regole devono essere fissate dal momento che "il tormento inferito 'in caput alterius' é assai piu odioso dell'inferito 'in caput proprium'; cosi ogni amator d'equitá" cerca di fissare dei presupposti applicativi (Melchiori, 1741, XX, 133). 18 Sostengono infatti gli autori che per poterla irrogare non occorrono "indicia ita sctricta prout contra reos" (De Rosa, 1747, t. II, lib. I, cap. II, n. 17, f. 18). Tra questi indizi si puo tuttavia annoverare anche la deposizione resa stragiudizialmente, arricchendo la trattazione di un'ulteriore simmetria con la 86 Loredana GARLATI: IL "GRANDE ASSURDO" ..., 81-104 del giudice (Guazzini, 1671, defens. XIX, cap. I, n. 8, 276 e Ambrosini, 1750, l. II, cap. III, n. 6, 111), dilatando cosi i giá ampi confini della sua discrezionalitá. "Io stimo, che anche quando il caso sia giusto per la tortura del testimonio, per caritá, si debba, quando si possa, dilungar la carcerazione del testimonio e procurare per quanto convenga, acció dica il vero per evitare la tortura" (Moro, 1755, l. 1, cap. III, nn. 22-23, 112). E palese, da una lettura complessiva dell'opera, il tentativo messo in atto da Domenico Moro, "il piu moderno Scrittore de' nostri tempi" (Briganti, 1755, tit. XIII, n. 29, 204),19 di raggiungere quella veritá tanto agognata dal sistema inquisitorio attraverso strade che non passino necessariamente attraverso il dolore fisico. Si tratta di percorsi alternativi che sembrano rispondere piu a ragioni di economia processuale che di tutela del singolo: salvare e conservare il piu possibile il materiale probatorio raggiunto. Non e un caso che Moro suggerisca al giudice di mantenere, in fase di interrogatorio, un atteggiamento si serio, ma non inutilmente severo, per non incutere timore nel teste e confonderlo, cosi come ritiene siano da bandire maltrattamenti di ogni tipo, messi in essere con atti o con parole: "i maltrat-tamenti non possono che generare male perché alcuni hanno l'animo cosi forte da disprezzare ogni tormento e non dicono ció che sanno; altri di animo vile, che per le sole minacce rivolte dal giudice dicono ció che non sanno," a dimostrazione che certe perplessitá o rivendicazioni, espresse dai riformisti illuministi, stavano divenendo nel Settecento una sorta di patrimonio condiviso (Moro, 1755, l. 1, cap. III, nn. 8-9, 104). Cosi come non va sottaciuto che Moro, al pari di Pagano, in un afflato garan-tistico, propone di sottrarre il teste ad un'incomprensibile tortura, ma al tempo stesso ne propugna l'incarcerazione, vera e propria pena corporale che sfugge ad ogni logica giuridica. Il teste paga una colpa che non ha; viene privato della sua libertá senza che gli si possa imputare alcun reato di cui pagare il fio, a dimostrazione che molte ancora erano le antinomie presenti in un rito che non poneva l'individuo e la tutela dei suoi interessi (o diritti) al centro delle proprie strategie o soluzioni normative, ma era la finalitá del rito stesso (il trionfo della giustizia attraverso l'individuazione del colpevole) a prevalere su ogni altra considerazione. La dottrina si lacera in particolare su un punto, una questione dall'apparenza meramente tecnica ma in realtá chiaro marcatore delle implicazioni connesse alla tortura del teste. I criminalisti si interrogano sulla necessitá o meno di presentare copia degli indizi prima dei tormenti, come avveniva del resto per l'imputato, in modo da offrire al testimone la possibilitá di conoscere il cammino processuale compiuto fino a quel momento e, di conseguenza, le ragioni di quell'ultimo doloroso passo. posizione del reo: "sicut extrajudicialis confessio contra reum facit indicium ad torturam, ita et contra testem respectu sui dicti, idcirco torqueri potest" (De Rosa, 1747, t. II, lib. I, cap. II, n. 14, f. 18). 19 Su Domenico Moro vedi Garlati, 2003, 1071-1151. 87 Loredana GARLATI: IL "GRANDE ASSURDO" ..., 81-104 Vi sono autori, Egidio Bossi in testa, quasi capofila di un orientamento in tal senso, che negano tenacemente questa possibilità.20 Il motivo? Cosi facendo si fini-rebbero per distruggere mille e più processi:21 un teste informato degli atti pro-cessuali è un teste in grado di predisporre difese, dice Bossi (Bossi, 1562, tit. de Tortura testium, n. 39, 214). Claro, in avallo di simile argomentazione "cui nemo contradicit" (almeno fino a quel momento), precisa che ció si vide "in practica observari" (Claro, 1570, § Finalis, q. XXV, vers. Solet dubitari, f. 87). Aggiunge Melchiori che è necessario procedere sommariamente, senza alcuna disputa o discussione, essendo sufficiente che il giudice rinfacci verbalmente al teste quanto emerge contro di lui. Una diversa soluzione finirebbe per "palesare intempestivamente ció, che molto importa se ne resti celato, e cagionerebbe tante dilazioni al giudizio, che la Giustizia da somigliante tortura riceverebbe assai più detrimento, che utilità" (Melchiori, 1741, XX, 133). Affermazioni che non richiedono ulteriori commenti. Altri (come per esempio Guazzini, 1671, defens. XIX, cap. XV, 286; Savelli, 1707, § Tortura, n. 13, 345;22 Ambrosini, 1750, l. II, cap. III, n. 22, 112-113; Personali, 1585, n. 32, 194)23 respingono tale tesi e distinguono a seconda che il teste sia torturato perché accusato di falso e di ció reso convinto attraverso altre testi-monianze, oppure per contraddizione con le proprie precedenti deposizioni. Solo nel primo caso la copia degli indizi, qualora richiesta, deve essere concessa. In quest'unica ipotesi, quindi, quando cioè non si sia di fronte ad una semplice situazione processuale integrata dal comportamento del teste (quale la vacillazione o la variazione), ma alla contestazione di un vero e proprio reato, che necessita a sua 20 È una strada percorsa, ad esempio, da giuristi come Cavalcani (1590, tit. De probatione et repro-batione testium, II parte, n. 145, f. 123) o da De Rosa, anche se quest'ultimo ne precisa la ragione tecnico-giuridica: si procede a tortura senza aver dato copia degli indizi né i termini a difesa dal momento che la variazione, la vacillazione, il mendacio costituiscono già da soli degli indizi e sempre che questi comportamenti risultino da atto scritto (De Rosa, 1747, t. II, lib. I, cap. II, n. 8, f. 18). 21 "Si aliter fieret, destruerentur mille processus", ribadisce Claro efficacemente (Claro, 1570, § Finalis, q. XXV, vers. Solet dubitari, f. 87). 22 Nel passo il giurista esclude la possibilità di un impiego della tortura nella fase informativa del pro-cesso, occorrendo la pubblicazione e l'assegnazione della copia degli indizi per consentire al teste di esercitare le proprie difese attraverso un procuratore legale. Fanno eccezione i tribunali supremi, che hanno competenza nei reati atrocissimi, gli unici a cui è permesso tormentare senza assegnare prima le difese. Con riferimento alla realtà napoletana, Maiorana sostiene che le corti baronali e regie non possono torturare il teste senza autorizzazione del viceré, non richiesta quando invece sia protagonista la Gran Corte della Vicaria. In ogni caso, l'autore abbraccia la tesi che se il teste mente e si voglia provare la sua falsità per mezzo di altri testimoni e renderlo cosi convinto, non si potrà negare allo stesso copia degli indizi per non pregiudicarne la difesa (Maiorana, 1677, lib. I, cap. V, n. 15, 16). 23 Precisa Personali che dando copia degli indizi al teste, in particolare qualora la sua falsità sia sostenuta da un altro teste, gli si renderà più facile dimostrare la propria innocenza: "ex his satis perpsicue patet Bossii opinionem non indistincte esse veram." 88 Loredana GARLATI: IL "GRANDE ASSURDO" ..., 81-104 volta di essere provato, si torna ad un procedimento 'ordinario': il teste assume la veste di vero e proprio imputato e, al pari di quello, gli si riconosce l'esercizio del diritto di difesa, attraverso la consultazione degli atti, nonché la successiva sottoposizione alla pena prevista per la falsitá.24 E avverte Guazzini che, a dispetto della pur autorevole opinione di Bossi, in caso di mendacio non si deve negare al teste la difesa adducendo come pretesto la paura di subornazione, "quondam in proposito consideretur etiam favor defensionis qui om-nino praevalere debet timori subornationis, cum tutius sit nocentem absolvere quam condemnare" (Guazzini, 1671, defens. XIX, cap. XV, n. 3 , 286).25 Si noti la facilitá con cui si passava dalla condizione di teste a quello di reo - introducendo giá allora l'ibrida figura del testimone-imputato che tanto dibattito ha suscitato tra gli studiosi dopo le recenti riforme processuali (Garlati, 2006, 273-275)26 cosi come l'inter-scambiabilitá tra i due 'stati', utile per comprendere l'impiego dei tormenti nei confronti del primo. Il teste, secondo le fonti, viene torturato pro habenda veritate (al pari dell'imputato), e se pensiamo che l'imputato e torturato in quanto considerato egli stesso mezzo di prova e testis contra se, allora l'estensione della tortura al testi-mone non solo appare meno incomprensibile, ma addirittura rispondente ad una precisa logica interna del processo stesso. Dice bene Fiorelli: "ammesso il principio della legittimitá dei tormenti, sarebbe stato un assurdo [...] escluderne l'applicazione ai testimoni. Unico motivo di discri-minazione tra questi e gl'imputati era la considerazione della loro innocenza certa" (Fiorelli, 1953, I, 258). Un motivo di non poco conto, verrebbe da dire, ma e il concetto stesso di 'innocenza' ad avere allora contorni meno definiti e contenuti meno certi di quelli attuali, come si vedrá nel prosieguo del lavoro. Sul teste, in particolare su quello a discarico, ma non solo, aleggia sempre un non so che di sospetto che rende il giudice diffidente nei suoi confronti: si crea cosi il paradosso di un sistema probatorio che fa del teste uno dei principali strumenti di colpevolezza (ricordiamo infatti che due testi idonei, maggiori di ogni eccezione e contesti formano una prova piena) ma da trattare in modo guardingo e circospetto. 24 Riassume efíicacemente i termini della diatriba e delle diverse posizioni dottrinali Concioli, 1684, Tortura, res. V, 459. 25 Dello stesso tenore le affermazioni di Ambrosini, 1750, l. II, cap. III, n. 23, 113. Ancora piu incisivo Concioli, il quale, ammettendo le difese, le motivava cosi: "defensiones non solum permissae sunt de iure civili et canonico, sed etiam de iure naturali" (Concioli, 1684, Tortura, res. IV, 456). Offre una chiara idea dell'incessante dialettica interpretativa sul punto e su quanto fosse rilevante la questione Farinaccio, 1614, q. 39, 222-226. 26 Chiarisce questo punto De Rosa, per il quale il teste che spontaneamente si ripresenta in giudizio dopo essere giá stato interrogato e depone in modo difforme rispetto al passato perché spinto a ció da qualcuno, dovrá a sua volta essere esaminato come "principalis in se et testis quoad alios" (De Rosa, 1747, t. II, lib. I, cap. II, n. 12, f. 18). 89 Loredana GARLATI: IL "GRANDE ASSURDO" ..., 81-104 Con una certa seduzione linguista Carlo Antonio De Rosa riassume cosi le ragioni dei tormenti: "sicut metallum a terra foditur et industria extrahitur, ita ab hominis corde eruitur veritas". E prosegue: se un teste occulta la veritá deve essere torturato perché, come avviene all'oro con il fuoco, la veritá con la tortura torna a risplendere (De Rosa, 1747, t. II, lib. I, cap. II, n. 1, f. 17). Imputato e teste, quindi, custodiscono entrambi quel sommo e prezioso bene che é la veritá, la quale va riportata alla luce anche a costo di strapparla a viva forza dalle profonditá in cui si cela: per questo l'uno e l'altro condividono il medesimo destino. UNA TEMIBILE TRIADE Tuttavia, la tortura del teste finisce per metterne a nudo la vera natura, quella su cui maggiormente insistettero i suoi nemici per motivarne l'abolizione: essa, a differenza della litania recitata incessantemente dai giuristi per tacitare la propria co-scienza ed ammantare la pratica di perfetta legalitá, non era tanto un mezzo pro-cessuale per ottenere la veritá, quanto una pena anticipata e gratuita nel caso del testi-mone, il quale la subiva non solo per mendacio (commettendo in questo caso un reato, quello di falsitá, nel corso del processo),27 ma anche nel caso di una classica triade prospettata dalle pratiche, ossia variazione,28 vacillazione "sic aureis iudicis 27 Il testimone che invece mente sotto giuramento in una causa civile non puó essere torturato (solo il processo penale ammetteva una simile prassi), ma non poteva andare esente dalla pena prevista per lo spergiuro. Per Bossi in una causa civile il teste vacillante non veniva torturato, a meno che non fosse vile "nec sit differentia, an simus in criminalibus vel civilibus quia genus erorum admodum sordidum est" (Bossi, 1562, tit. de Tortura testium, nn. 14-15, 210). Aggiungono i doctores che nel caso in cui vi sia un numero ragguardevole di persone sospettate di falsità, non convenga sperimentare la tortura con tutti, ma solo con due o tre maggiormente indiziati (Bossi, 1562, tit. de Tortura testium, n. 10). Se in questo modo si riesce a stabilire in modo sufficientemente attendibile la verità, si rende superfluo il prosieguo della tortura, "il cui odio va risparmiato per li casi d'assoluta e precisa necessità" (Mel-chiori, 1741, XX, 134). C'è chi pensa invece che ció vada lasciato alla valutazione del giudice (Personali, 1585, n. 40, 197) e chi ritiene che invece tutti debbano patire il supplizio dal momento che sono tutti sospettati di non voler dire la verità, affermando, in modo categorico, che la posizione di Bossi, che tanto seguito aveva in dottrina, "non servatur in practica" (Claro, 1570, § Finalis, q. XXV, vers. Torquentur, f. 87). 28 Lineare la definizione di Cavalcani, per il quale si dicono vari i testi che in una deposizione prima dicono una cosa poi un'altra (Cavalcani, 1590, tit. De probatione et reprobatione testium, II parte, n. 139, f. 123). Per Bassani tale variazione doveva peró riguardare il fatto principale o le circostanze sostanziali (Bassani, 1755, l. II, cap. III, n. 17, 177), quali quelle relative al tempo, al luogo, al nome, alla patria (Ambrosini, 1750, l. II, cap. III, n. 19, 112) o la negazione di affinità e consanguineità (Guazzini, 1671, defens. XIX, cap. II, n. 9, 277). Aggiunge Moro che si deve considerare vario non solo colui che di propria volontà mentre narra un fatto ora dice una cosa ora un'altra, ma lo è anche chi, dopo aver reso la propria deposizione giudiziaria, rifiuta di ripeterla: anche nei suoi confronti si dovrà esercitare la pressione della tortura (Moro, 1755, l. 1, cap. III, n. 11, 106). 90 Loredana GARLATI: IL "GRANDE ASSURDO" ..., 81-104 offendit" (Zavattari, 1584, n. 59, 21) e contraddizione,29 fermo restando una certa difformità interpretativa sul significato da attribuire alle tre espressioni (Guazzini, 1671, defens. XIX, cap. I, n. 1, 275), che per di più alcuni considerano sinonimiche30 e altri invece concettualmente distinte.31 In particolare, vi è un profilo su cui vale la pena soffermarsi. Si dice infatti contrarius sia il teste che si contraddice e depone variamente, asserendo, ad esempio, prima che un fatto è accaduto a Pavia e poi a Roma (Cavalcani, 1590, tit. De pro-batione et reprobatione testium, II parte, n. 166, f. 125),32 sia più testi che depongano su un medesimo fatto (e siano perció contesti) ma con dichiarazioni difformi e contrastanti. Per alcuni nel primo caso il teste non va torturato, ma si deve indagare per verificare se la prima attestazione non sia frutto di semplice dimenticanza (Moro, 1755, l. 1, cap. III, n. 11, 106). Nella seconda ipotesi, invece, Follerio insegna che quando si prova la maggior dignità ed integrità di colui che chiama rispetto al chiamato, ció basta a renderlo 'maggiore di ogni eccezione' e a giustificare la tortura applicata al secondo (Follerio, 1554, rubr. Capiat informationem, n. 23, vers. Pro-ceditur autem). Se invece tutti i testi godessero di pari dignità, nessuno di loro dovrebbe essere torturato e nessuna delle loro deposizioni potrebbe valere (Guazzini, 1671, defens. XIX, cap. III, n. 3, 278). 29 Si dicono testi contrari quelli che depongono variamente (si noti la sovrapposizione concettuale con la definizione precedente), o, nel caso in cui vi siano due testi, se uno afferma e l'altro nega (Cavalcani, 1590, tit. De probatione et reprobatione testium, II parte, n. 166, f. 125). 30 Per Domenico Moro nella testimonianza la varietà non differisce dalla contraddittorietà, perché non vi è contrarietà più manifesta tra "l'affermare e il negare, cioè tra il si e il no." Per il giurista di area napoletana la varietà e la contrarietà sono situazioni processuali verificabili solo tra più testi, quando uno depone in un modo e un altro in un modo difforme, come avviene, ad esempio, se Tizio sostiene di aver assistito al delitto insieme a Caio, poiché si trovavano entrambi sul luogo del delitto, e Caio, a sua volta interrogato, neghi la circostanza e al contempo affermi di non sapere nulla del fatto. In questo caso si valuta quale tra i due sia più degno di essere creduto e si sottopone a tortura l'altro (Moro, 1755, l. 1, cap. III, nn. 11-14, 106-107). Sono convinti della sinonimicità dei termini anche Guazzini, 1671, defens. XIX, cap. II, n. 1, 277; Melchiori, 1741, XX, 132 e Ambrosini, 1750, l. II, cap. III, n. 17, 112. 31 Per Bossi è vario il teste che afferma il contrario di ció che ha appena sostenuto; è contrario colui che afferma due cose che si elidono l'un l'altra essendo impossibile la loro contestuale veridicità; è vacillante colui che "temendo et dubitando varie loquitur" (Bossi, 1562, tit. de Tortura testium, n. 16, 210): ipotesi che si verifica, secondo il parere del criminalista milanese, quando ad una dichiarazione stragiudiziale fa seguito una diversa dichiarazione in giudizio; "dicimus quando quis in tortura unum asserit, postea repetitus dicit aliud, posse repeti torturam totiens quoties ita variat." Cosi è vario colui che prima asserisce di essere certo di un'affermazione e poi non lo è più o viceversa; chi asserisce di non sapere e poi di sapere, di non ricordare e poi di ricordare, con la precisazione tuttavia che non si ha varietas se il teste si corregge immediatamente allegando una giusta causa per l'errore o la correzione (Bossi, 1562, tit. de Tortura testium, 210-211). 32 Ed un altro autorevole giurista napoletano è pronto a precisare che se di regola il reo in questo caso va torturato, una simile operazione è da escludere qualora il teste receda dalla prima dichiarazione per giusta e provata causa. Puó accadere, infatti, che egli, dopo aver reso la propria deposizione, abbia notizia della verità da un fatto nuovo (De Rosa, 1747, t. II, lib. I, cap. II, n. 8, f. 18). 91 Loredana GARLATI: IL "GRANDE ASSURDO" ..., 81-104 Se in un primo momento anche un giurista come Domenico Moro sposa in toto un simile assunto (cfr. nota 28), in virtu dell'auctoritas di cui godono i giuristi che la sostengono,33 successivamente la ripudia con altrettanto vigore, con finezza argo-mentativa e lessicale. Il giurista meridionale precisa infatti che e indubbio che il teste che chiama deve essere di miglior qualitá del chiamato, ma che ció non basta per poter affermare che la tortura dispensata al teste chiamato sia giusta. Ció signi-ficherebbe, per l'autore, stravolgere uno dei capisaldi teorici dell'impianto probatorio: se infatti bastasse il detto di un solo teste per torturare un altro che si rifiuti di concordare con lui vorrebbe dire, per analogia, che in assoluto e in generale basta la deposizione di un singolo per disporre la tortura, il che contravverrebbe il ben noto brocardo unus testis nullus testis, soluzione, questa, inaccettabile, a detta del Nostro, in quanto non deve sussistere differenza di disciplina e di presupposti tra tortura che si somministra al teste e quella che si dá al reo (Moro, 1755, l. 1, Addizione al cap. III, § VIII, n. 21, 133-135). Si intreccia con questo un altro profilo particolarmente sentito dalla dottrina, che torna, ancora una volta, a scindersi su due distinte posizioni: per alcuni un unico teste torturato fa piena prova quando deponit de facto proprio; altri invece negano una simile impostazione, sostenendo che, quando si richiedono piu testi per formare la prova piena, la tortura non puó e non deve supplire al difetto del numero (Ambrosini, 1750, l. II, cap. III, n. 24, 113). Il tema della 'variazione', invece, si presenta intimamente connesso a quello della ripetizione del testimone. Va premesso che tale espressione designa la pratica che imponeva al teste di confermare in un momento successivo e davanti all'imputato la deposizione resa. Si trattava, presso alcune corti, di una mera formalitá, che non implicava alcun confronto dialettico: al teste venivano rilette le dichiarazioni rila-sciate in fase informativa e gliene si chiedeva conferma. Ogni modifica generava varietá, ogni difformitá produceva contraddizione, ad ogni esitazione corrispondeva una vacillazione.34 Nel tentativo di regolamentare la complessa e intricata materia, fornendo canoni procedurali, indubbiamente flessibili in virtu della loro natura giurisprudenziale ma ri-spondenti alla volontá di fissare criteri di disciplina uniformi e piu certi del mero arbitrio personale o della consuetudine locale, i doctores ritenevano che tra due dichia-razioni contraddittorie, si dovesse, di regola, prestar credito alla prima, "cum secun- 33 Tra questi anche un giurista 'di riferimento' per Moro, ossia Carlo Antonio De Rosa (De Rosa, 1747, resolutio XXXV, n. 1, f. 239). 34 E cosi il teste esaminato e poi citato per ripetere la sua deposizione era sospettato di aver reso false dichiarazione se non compariva e lo si poteva a questo punto inquisire e punire per falsita (Concioli, 1684, res. II, 448). E quindi evidente che tali situazioni potevano verificarsi o all'interno della stessa deposizione o tra piu deposizione rese in momenti diversi, cosi come e palese che la discordanza poteva riguardare un solo teste (ossia e il teste stesso a contraddirsi), oppure vi potevano essere piu testimoni che rendevano su un medesimo fatto dichiarazioni diverse. 92 Loredana GARLATI: IL "GRANDE ASSURDO" ..., 81-104 dum censeatur emanatum per subornationem" (Guazzini, 1671, defens. XIX, cap. XVI, n. 1, 287), oppure a quella resa sotto giuramento (Cavalcani, 1590, tit. De pro-batione et reprobatione testium, II parte, n. 145, f. 123).35 Se entrambe fossero state giurate, allora, e solo allora, si doveva dar corso alla tortura, che si prestava quindi ad essere usata come strumento di ratifica di una delle due, stando a quanto proclamato da Bossi e da Claro (Claro, 1570, § Finalis, q. LIIII e q. LXIII).36 E non e un caso che siano proprio due giuristi attivi in territorio lombardo a suggerire una simile soluzione: la prassi di far giurare i testi fin dal loro primo interrogatorio era tipica dell'ordi-namento giuridico milanese, a differenza di quanto avveniva in altre realtá geo-po-litiche, in cui il giuramento era deferito al teste in un secondo momento, dopo l'inter-rogatorio del reo e solo nel caso in cui questi ne chiedesse la ripetizione (Garlati, 1999, 119-122). Che l'esclusione del giuramento dalla prima deposizione risiedesse nella volontá di evitare la tortura nel caso di due dichiarazioni contraddittorie ed entrambe giurate, e rivelata espressamente da Domenico Moro, osservatore della realtá sette-centesca napoletana. Ad avviso del criminalista campano, mai si deve ricevere il giuramento del teste, perché "se qualche teste o non si ricorda bene o non si spiega bene o per malizia tace qualcosa di vero e lo si scopre dopo che il teste e stato inter-rogato e mandato via, lo si possa di nuovo chiamare e interrogare piu diligentemente, mentre se si facesse giurare subito il teste e poi si rilevassero delle contraddizioni non si potrebbe piu mutare la deposizione contraria, anche se non vi fosse stata malizia nel teste, stante il giuramento giá ricevuto, e si dovrebbe venire alla tortura" (Moro, 1755, l. 1, cap. III, n. 7, 102). Ne consegue logicamente che la mancanza di giuramento rende possibile l'eliminazione di eventuali contraddizioni senza particolari formalitá, cosi come si puó ovviare ad eventuali dimenticanze e se anche vi e volontá di mentire "si puó convincere il testimone e ridurlo a veritá con pazienza, evitando giuramenti falsi e tortura" (Moro, 1755, l. 1, cap. III, n. 7, 103).37 35 Attingendo all'esperienza, Savelli chiarisce che se in linea di massima é vero che nel dubbio su quale sia la disposizione cui dar credito ci si debba attenere alla prima resa sotto giuramento, in pratica ac-cade quasi sempre che il teste prima neghi e poi, dopo aver sperimentato la prigione o assaggiato i tratti di corda, si risolva a dire la veritá. Per questo motivo, anche se e stata la prima dichiarazione negativa ad essere giurata, prevale il secondo detto. Allineandosi tuttavia alla posizione della dottrina dominante, Savelli esclude che in questo caso si debba punire il teste per falsitá o spergiuro, dal momento che il secondo detto si riceve in correzione del primo (Savelli, 1707, § Pratica criminale, n. 49, 9). 36 Ricorre spesso l'idea della tortura al teste come mezzo di ratifica della sua deposizione, in particolare qualora manchino qualitá soggettive (del teste) od oggettive (della dichiarazione), quasi che i tormenti possano sanare i vizi e i difetti presenti. Se della tortura che rende idonei testi altrimenti inammissibili si tratterá a breve, si deve ricordare anche che Melchiori, contrario, come si vedrá, all'uso della tortura per costringere a giurare un teste riluttante, ammetteva invece che il teste fosse appeso alla corda per ratificare la deposizione in sussidio del giuramento negato. Si vede chiaramente come si cerchi in questo caso una patente di legittimitá che, spostando i termini della questione e le ragioni giu-stificative, non ne escluda tuttavia l'impiego (Melchiori, 1741, cap. XII, 61). 37 E l'autore non nasconde il proprio stupore di fronte a quei pratici che, al contrario, sostengono la necessitá di far giurare i testi prima di tutto, prima cioe di esperire qualsiasi atto nei loro confronti. 93 Loredana GARLATI: IL "GRANDE ASSURDO" ..., 81-104 Del resto, va tenuto fermo il principio della necessitá del giuramento, dal momento che "testes deponentes sine giuramento non probant et eorum dictum est nullum" (Guazzini, 1671, defens. XIV, cap. III, n. 1, 255). Per lo stesso autore, la possibilitá di un doppio giuramento sarebbe esclusa, dal momento che chi ha giá reso deposizione giurata "non tenetur amplius iurare" (Guazzini, 1671, defens. XIV, cap. IV, n. 14, 256). Vi é poi un caso di scuola, ma privo di riscontro nella pratica, di due 'detti contrari' pronunciati senza giuramento: entrambi risultano inutilizzabili, in quanto privi di qualunque efficacia o valenza probatoria e non danno luogo ad alcuna con-seguenza processuale o sanzionatoria (Cavalcani, 1590, tit. De probatione et repro-batione testium, II parte, n. 150, f. 124). Non va sottaciuto, tuttavia, che nei criminalisti convivono due anime: se da un lato si vuole irreggimentare la materia, dall'altro non si disdegnano 'soluzioni di fuga' generiche, che evidenziano una sorta di strabismo tra 'ricerca dell'ordine' e remis-sione all'arbitrio. Cosi, di fronte alla ridda di opinioni di chi sostiene che ci si debba attenere non tanto alla prima dichiarazione ma a quella resa sotto tortura e che in caso di soggetto torturato piu volte si debba sempre prestar fede all'ultimo pronuncia-mento, Guazzini avverte che non si puó dare una regola certa, se non quella di guardare al detto piu verosimile, indipendentemente dall'ordine progressivo o di ogni altra qualitá (Guazzini, 1671, defens. XIX, cap. XVI, n. 11, 287).38 "Agitatur quaestio an testes varii sint torquendi, ut subornatorem nominent, an vero ad videndum in quo dicto persistant" (Bassani, 1755, l. II, cap. III, n. 9, 177). Scegliere l'una o l'altra opzione, alla fine, é solo una 'questione nominale', perché in entrambi i casi la tortura del teste risponde ad una logica precisa: la parossistica e ossessiva ricerca della veritá.39 La si insegue infatti in entrambe le situazioni prospettate: il teste che varia il racconto della propria deposizione oscilla tra veritá e menzogna e occorre accertare quale rivesta la prima o la seconda qualitá; chi mente perché costretto e sedotto da altri deve collaborare con il giudice non solo per ripristinare la veritá processuale dei fatti, ma anche per rivelare il nome del subornatore, in una catena in cui colpevole si aggiunge a colpevole e 'giustizia cerca di rendere giustizia'.40 38 Si veda anche Cavalcani, 1590, tit. De probatione et reprobatione testium, II parte, n. 155, f. 125. 39 Lo attestano indirettamente le parole di Savelli, per il quale i testi che in un primo esame depongono una cosa e poi nella ripetizione un'altra senza addurre fondato motivo della loro variazione o della sopraggiunta revoca dovrebbero essere torturati per vedere in quale detto persistono. Questa é l'opinione di molti, ma, a giudizio dell'autore, si tratta di una "pratica non buona che distruggerebbe quasi tutti i processi". La tortura in questo caso deve invece servire per conoscere i nomi dei sub-ornatori (Savelli, 1707, § Testimoni, n. 11, 340). 40 Addirittura possono essere costretti a deporre sotto tortura i testi che ammettono di essere stati indotti a dichiarare il falso dietro minaccia di distruzione dei campi o dell'intero loro raccolto. La tortura mira a far confessare i nomi dei responsabili: anche in questo caso e un'informazione che si cerca 94 Loredana GARLATI: IL "GRANDE ASSURDO" ..., 81-104 Si irrogava inoltre la tortura al teste silenzioso, perché un autorevole orientamento sosteneva che falsus est tanto quel teste che occulta, tacendo, la veritá, quanto quello che ex professo mente, equiparando la taciturnitas, che e assenza di parola, alla menzogna, che e alterazione espressa della realtá (Garlati, 2006). Secondo un'opinione a onor del vero contrastata, si sottoponeva a tormenti anche chi si rifiutava di giurare (Cavalcani, 1590, tit. De probatione et reprobatione testium, II parte, n. 157, f. 125; Maiorana, 1677, lib. I, cap. V, n. 9, 15), come ricordato in particolare da Claro, che riportava il caso di un uomo condannato alla fune per questo motivo e che dopo i tormenti si era convinto a giurare (Claro, 1570, § Finalis, q. XLV, vers. Sed pone, f. 130). L'ipotesi solleva le vivaci proteste di Barto-lomeo Melchiori, per il quale, essendo il giuramento un atto interno della religione, non puo essere estorto con la forza: "non est religionis cogere religionem" (Melchiori, 1741, cap. XII, 60). COLPEVOLI DI 'ESSERE' Sorprende (se ancora rimane qualche aspetto delle dinamiche inquisitoriali in grado di stupire) non la tortura impiegata sulla base di questi presupposti 'oggettivi', situazioni comunque scaturenti dal processo stesso e dal confronto tra giudice e teste, ma quella irrogata 'a prescindere' da tali condizioni, ossia in ragione dello status soggettivo del teste o di presunzioni maturate dal giudice. Ad esempio, i testi vili sono torturati per la loro qualitá personale, salvo poi as-sistere all'affanno con cui i doctores cercano di spiegare il concetto di viltá: per alcuni e legato alla mera professione e cosi sono vili coloro che combattono con le belve, gli histriones e gli ioculatores, uomini come dice Bossi, appartenenti ad un genus sordidum (Bossi, 1562, tit. de Tortura testium, n. 3, 207) ma non manca chi sostiene che la dignitá derivi non dal maggior o minor lignaggio o dal mestiere41 che, per quanto umile o spregevole, presenta pur sempre una sua utilitá sociale, bensi dalla condotta di vita. Il tema finisce cosi per intrecciarsi con quello della buona o cattiva fama, che e il solo criterio suggerito al giudice per esercitare al meglio il suo arbitrio. L'infamia, che si definisce 'per sottrazione' o a contrario rispetto alla buona fama, e che puo essere di fatto, ossia determinata dalla mancanza di rispettabilitá sociale, o di diritto, conseguente cioe ad una condanna penale, getta un'ombra sinistra sulla credibilitá del teste, che puo essere dissipata solo grazie ai tormenti. "Et ita concludunt communiter attraverso il dolore e l'uso del corpo come 'strumento probatorio' (Maiorana, 1677, lib. I, cap. V, n. 4, 14). 41 "Non conta se chi chiama e dottore o notaio e il chiamato zappatore ma si deve passare piu oltre colla diligenza perché non é impossibile né difficile che il dottore o il notaio menta per salvare il reo" (Moro, 1755, l. 1, cap. III, n. 17, 110). 95 Loredana GARLATI: IL "GRANDE ASSURDO" ..., 81-104 doctores" (Claro, 1570, § Finalis, q. XXIV, vers. Item infamis, f. 85). Guazzini ritiene che la tortura vada applicata solo se l'inabilità a testimoniare discenda dall'in-famia o dalla ratio delicti, mentre la si debba escludere per pauperes o per quanti esercitano vile officium, ut birroari, tabernarii, mulieres et alii similes (Guazzini, 1671, defens. XIX, cap. X, n. 11, 282). Ma non riscontrando una uniformità di opinioni dottrinali sul punto, finisce per caldeggiare la soluzione propugnata da Claro, per il quale la valutazione deve essere fatta in concreto dal giudice. Di fronte al dubbio se il teste vile possa o meno rendere testimonianza senza tortura, il giurista alessandrino aveva infatti affermato che "hoc relinquendum est arbitrio iudicis, qui iuxta qualitatem personarum et facti poterit arbitrari an talis testis torqueri debeat vel non" (Claro, 1570, § Finalis, q. XXV, vers. Sed quaero, f. 87).42 Vi è anche chi, in modo esplicito, ravvisa un'equiparazione tra giuramento e tortura per quanto riguarda l'infame: non potendosi richiedere il primo, gli si addossa la seconda quale garanzia di attendibilità delle dichiarazioni rese, supplendo quindi al difetto del giuramento per "conciliare alla persona macchiata quel credito, che senza d'essa non se le potrebbe prestare" (Melchiori, 1741, cap. XII, 60)43 e in modo che "resti espurgato nel testimonio il difetto dell'incapacità, ed il suo detto provi, benché sempre meno di quello che proverebbe un uomo d'integra fama" (Melchiori, 1741, cap. XX, 131). Per il vile o l'infame si introducono ulteriori eccezioni rispetto alla già scarna 'trama ordinaria' tessuta per la tortura al teste. Se, come si è detto, di norma il teste puô essere torturato una volta sola, il vilis vel infamis deve essere tormentato una prima volta in ragione del suo stato e una seconda a ratifica delle sue dichiarazioni. Se in questa seconda fase depone in modo diverso rispetto alla prima, dovrà essere torturato una terza volta perché confermi o la prima o la seconda deposizione (Cavalcani, 1590, tit. De probatione et reprobatione testium, II parte, n. 157, f. 125).44 E vi è anche chi ritiene che il teste vile possa essere torturato nella totale assenza di indizi, preferendo poi all'espressione 'vile' quella di "levis persona, sive ratione personae, sive ratione exercitii, sive ratione delicti" (Carerio, 1550, § Observare curabis, n. 180, f. 38). 42 In questo senso si esprime anche Priori, il quale sostiene che solo il teste infame sia meritevole fino al secondo grado della tortura (che consiste per l'autore nel levare da terra il paziente e tenerlo per un 'buono spazio' sospeso). Per il vile cosi come per quello che si rifiuta di deporre ció di cui e a conoscenza ci si rimette all'apprezzamento del giudice (Priori, 1622, 115). 43 Anche se poi lo stesso autore e pronto ad ammettere che di regola i testi indegni per 'mancanza di fede' si devono licenziare senza giuramento e senza tortura, riservandosi quest'ultima ai soli casi gravissimi e quando manchi ogni altro genere di prova. 44 Vale qui il limite fissato per il reo, che non puó essere torturato piu di tre volte, anche se la questione non era pacifica. Follerio, ad esempio, riteneva che si potesse torturare l'accusato una quarta, una quinta o piu volte se sopravvenivano nuovi indizi (Follerio, 1554, rubr. Et si confitebuntur, n. 109). Claro, quale monito a quei giudici che giorno e notte in tormentis fatigant, fissa il tetto massimo delle tre volte, ma come Follerio, concede la possibilita di infliggere ulteriori sofferenze se emergono nuovi elementi indiziari (Claro, 1570, § Finalis, q. XXI, vers. Ulterius, f. 82). 96 Loredana GARLATI: IL "GRANDE ASSURDO" ..., 81-104 Ancor piu che nel caso dell'imputato, la tortura al teste rende palese la sua funzione salvifica: "e una medicina con la quale purgare i vizi del teste," scriverá Cavalcani (1590, tit. De probatione et reprobatione testium, II parte, n. 150, f. 124),45 "talis tortura purgat defectum testis adeo ut fidem faciat contra reum," aggiunge Claro (Claro, 1570, § Finalis, q. XXV, vers. Sunt etiam, f. 87), evocando quell'idea di purgazione che sará raffinatamente irrisa nel Settecento da Pietro Verri.46 Non solo. In tutti questi casi il meccanismo in questione rende possibile la de-posizione di testi altrimenti inidonei,47 rispondendo in questo modo ad esigenze di utilitá processuale:48 ottenere il maggior numero di informazioni e assicurare cosi quanti piu colpevoli alla giustizia. Avverte infatti il toscano Savelli che, se non si ricorresse alla tortura per sanare i vizi dei testimoni, la maggior parte dei delitti re-sterebbe impunita, perché pochi sono i testimoni e ancor meno quelli ai quali non e possibile opporre cause di inidoneitá (Savelli, 1707, § Tortura, n. 17, 345).49 E pur tuttavia, Carerio, con cautela e in ossequio ad una precisa volontá ordinatrice e regolamentativa del rito penale, precisa che se esiste un solo teste e questo non sia maggiore di ogni eccezione, non basta la tortura a tramutare il suo pronunciamento in un possibile indizio contro il reo (Carerio, 1550, § Observare curabis, n. 180, f. 38). La testimonianza come dovere civile? La prassi non potrebbe essere piu lontana da quanto sostenuto in via teorica: seppure si ribadisce che "testis officium est pubblicum et necessarium" (Guazzini, 1671, defens. XIV, cap. XI, n. 1, 261, ripreso da Concioli, 1684, Tortura, res. XX, 471), non si esita a torturare il teste che spontaneamente si presenta a deporre, ritenendo che quel suo offrirsi volontariamente ai giudici finisca per renderlo sospetto (Bonifazi, 1768, lib. IV, tit. VI, n. 21, 214), a maggior ragione se 45 Nello stesso senso De Rosa, 1747, t. II, lib. I, cap. II, n. 21, f. 18. In maniera ancora piu ampia Melchiori riconosce che "é proprieta della tortura purgare fra gli altri vizi, quello dell'incostanza, e della variazione de' testimoni, ed in conseguenza di restituire la fede a quel detto, in cui persistono nella quistione" (Melchiori, 1741, cap. XII, 61). 46 "Non v'é chi negare possa che la corda, la veglia, il canape e simili ingegnose invenzioni non sieno del genere de' Purganti, non diro gia della Senna e del Rabarbaro, ma dei purganti in genere" (Verri, 1763, 169). 47 "Quando veritas aliter sciri non potest, ut ipsa veritas habetur, recedimus a regulis iuris communis [...] quando veritas haberi non potest a testibus integris, tunc admittuntur testes minus legitimi": cosi, efficacemente Marsili, 1583, n. 31, f. 76. 48 Si risparmia invece la tortura sia al teste 'carico di eccezioni', che nulla proverebbe anche deponendo, sia a colui che nega o falsifica non la sostanza del fatto ma circostanze irrilevanti ai fini della condanna dell'imputato, sia a quei soggetti normalmente esclusi dai tormenti in ragione della loro condizione, quali i dottori, i nobili, (Melchiori, 1741, XX, 134-135) e i minori di quattordici anni (Ambrosini, 1750, l. II, cap. III, n. 14, 111). Per quanto riguarda invece i chierici, Claro ritiene pos-sano essere torturati nelle tre ipotesi tradizionali dal momento che "magis enim peccat clericus celans veritatem, quam laicus" (Claro, 1570, § Finalis, q. XXV, vers. Sed nunquid, f. 87), anche se "isti sacerdotes torqueri debent a suo iudice ecclesiastico et non a iudice laico" (Guazzini, 1671, defens. XIX, cap. I, n. 16, 276). 49 E una tesi che raccoglie consensi tra i maggiori giuristi del tempo. 97 Loredana GARLATI: IL "GRANDE ASSURDO" ..., 81-104 si tratta di persona vile (Bossi, 1562, tit. de Tortura testium, n. 9, 209). L'avverbio sponte viene inteso in senso lato, perché se è vero che il primo riferimento è a colui che testimonia senza essere stato citato dalla curia, è anche vero che tale condizione abbraccia anche chi, essendo stato convocato, non abbia opposto le eccezioni che lo escludevano dalla testimonianza oppure "quando aliquid dixisse quod ab aliis veri-similiter scire non poterat" (Guazzini, 1671, defens. XIX, cap. VI, 279). Pericoloso poi essere vicini o domestici, perché si veniva torturati nel caso di reati commessi in casa, sul presupposto di una presunta conoscenza dell'effettivo svolgi-mento dei fatti (cfr., ad esempio, Maiorana, 1677, lib. I, cap. V, nn. 5-6, 14; Fa-rinaccio, 1614, q. 79, n. 39 ss., 523; Guazzini, 1671, defens. XIX, cap. IX, n. 1, 281)50 e, come si afferma, senza necessità di alcun indizio a proprio carico (Personali, 1585, n. 35, 196). Il limite è dato dalla buona fama di cui gode il vicino o quando la presunzione sulla contiguità di vita tra i due vicini sia vinta da congetture contrarie (Guazzini, 1671, defens. XIX, cap. VIII, n. 2, 280).51 Cosi, ritrovare un cadavere in casa comporta l'estensione della tortura a tutti coloro che vi abitano, a partire da quelli di cattiva fama (Follerio, 1554, rubr. Capiat informationem, n. 20, vers. Si autem). In modo identico si procede qualora sia il padrone di casa a non denunciare subito il fatto:52 il suo silenzio o reticenza che dir si voglia è indizio di colpevolezza sufficiente ad torturandum. Diversa invece l'ipotesi del furto, a parere del Personali (Personali, 1585, nn. 3637, 196-197): ad essere torturati saranno solo gli ospiti o i servi di mala fama. La diversa disciplina, secondo l'autore, discende dal fatto che in caso di ritrovamento di cadavere in una casa si presume che il colpevole si annidi tra gli abitanti e perció tutti devono essere sottoposti a supplizio indipendentemente dal loro status. Il furto puó invece essere commesso da un estraneo e quindi, in via cautelativa, si procede a torturare solo i soggetti di mala fama.53 50 Precisano tuttavia gli stessi autori che sia il padrone sia i domestici sono esentati dai tormenti se provano di non essersi trovati in casa al tempo del commesso delitto. 51 Insiste sulla rilevanza della buona o cattiva fama Guazzini, per il quale solo nel secondo caso si puó disporre la tortura, esclusa invece per i vicini sorretti da buona fama (Guazzini, 1671, defens. XIX, cap. VIII, n. 2, 280). 52 È consentito invece torturare il padrone di casa di buona fama, sempre che ricorrano due o più indizi a suo carico (Maiorana, 1677, lib. I, cap. V, n. 7, 14). Da queste ultime note appare chiaro l'intersezione dei diversi profili fin qui esaminati (taciturnitas, fama, indizi e congetture) fino ad una tortura che si presenta quale ibrido strumento: il padrone è torturato in quanto teste o in quanto possibile colpevole? Il suo silenzio è indice di una responsabilità diretta quale autore del delitto o la mancata denuncia si configura come volontario rallentamento di una celere e pronta giustizia? Si puó dire che qualunque risposta si voglia dare all'interrogativo, la tortura costituisce qui più una punizione che un mezzo di ricerca del vero. 53 Precisa l'autore che esiste una presunzione di mala fama nei confronti del padrone che tiene servi dalla cattiva condotta di vita, dal momento che si puó logicamente dedurre che lo sia anche quella del padrone. Di diverso avviso Bossi, per il quale nessuna differenza intercorre tra furto ed omicidio: la consumazione all'interno di un'abitazione (elemento che li accomuna) è sufficiente per procedere alla 98 Loredana GARLATI: IL "GRANDE ASSURDO" ..., 81-104 Da uno strazio cosi crudele non sono risparmiati neppure i piu stretti congiunti: infatti, qualora si ritrovino in casa di un soggetto gli strumenti per coniare false monete, tutti i fratelli del presunto reo vengono torturati se uomini di cattiva fama (Personali, 1585, n. 38, 197), a riprova di come la non credibilitá di un soggetto, riflesso di una condotta di vita, prevalga su ogni altra considerazione. Qualche giurista invoca prudenza: "il giudice deve essere accorto e religioso, che non tormenti ingiustamente i testimoni, il che suole accadere nei delitti occulti de quali si ignora l'autore e non si possono avere le prove, perché spessissime volte i domestici sono stati tormentati innocenti" (Bonifazi, 1768, lib. IV, tit. III, n. 23, 193). Qualcun altro sollecita la stessa cautela, ma con fini diversi: si invita infatti il giudice ad essere "prudens in adhibendis tormentis ut semper incipiant a magis suspecto vel timidiori, et potius a patre quam a fili," riproponendo regole giá in uso per il reo (Personali, 1585, n. 39, 197). Ma l'irrogazione della tortura diventa una sorta di regola generale quando si ritiene che un testimone non dichiari fatti che invece verosimilmente deve conoscere, "ut puta si factum sit de recenti" (Concioli, 1684, Tortura, res. XX, 471).54 Si pensa, al tempo stesso, vi siano soggetti verisimiliter informati "si delictum fuisset com-missum ante domum, apothecam, vel stationem ipsius testis" (Guazzini, 1671, de-fens. XIX, cap. V, n. 1, 279). Per alcuni debbono precedere tre ammonizioni a ri-spondere congruamente e dagli atti deve risultare che si é adempiuto a tale formalitá e che, al tempo stesso, si é indicata al teste come possibile la 'comminazione' della tortura (De Rosa, 1747, t. II, lib. I, cap. II, n. 24, f. 18), la quale dovrá essere ancora piu lieve di quella giá usualmente poco intensa prevista per il teste (Guazzini, 1671, defens. XIX, cap. V, n. 2, 279). E sulla veritá presunta, che ribalta ogni logica probatoria, cosicché non é il ma-gistrato a lasciarsi sedurre dai fatti, ma ad imporre ai fatti la propria veritá pre-costituita, si regge l'intera impalcatura della tortura. Cosi colui che nega di essere stato presente al fatto, quando si ritiene invece verosimile il contrario,55 e dichiara perció di non avere visto né di sapere nulla, tortura dei suoi occupanti, indipendentemente dalla natura o tipología del delitto (Bossi, 1562, tit. de Tortura testium, n. 11, 209). 54 Vi é un tempo entro il quale non é ammesso non ricordare? Per i giuristi d'antico regime si, anche se poi, ovviamente, la concreta determinazione crea inevitabili discrepanze tra le diverse posizioni. Per taluni é 'antico' un fatto accaduto un anno prima dell'interrogatorio cui é sottoposto il teste, per altri occorrono tre, per altri cinque anni per poter ritenere giustificata e plausibile la mancanza di ricordi certi. Si parla per lo piu di longum tempus, con quella solita indeterminatezza espressiva che rimette il tutto ad una valutazione discrezionale ed effettuata caso per caso. Riassume in modo esemplare questa disputa dottrinale insanabile Guazzini, 1671, defens. XIX, cap. VII, 280. 55 Bonifazi non si accontenta di una probabilitá, per quanto verosimile, chiedendo che consti la menzogna di chi nega di aver assistito al fatto, ricorrendo ad una formula, quale quella di 'constare', equivalente nella terminologia giuridica ad essere provato, a risultare pienamente dagli atti (Bonifazi, 1768, lib. IV, tit. VI, n. 21, 214). 99 Loredana GARLATI: IL "GRANDE ASSURDO" ..., 81-104 subisce la tortura perché si nutre il sospetto che maliziosamente celi la verità,56 a meno che egli non riesca a provare la sua effettiva assenza (De Rosa, 1747, t. II, lib. I, cap. II, n. 18, f. 18): al di fuori di quest'ultima ipotesi, per renderlo convinto basta un solo teste quod sit dignior (Bossi, 1562, tit. de Tortura testium, n. 10, 209 e Maiorana, 1677, lib. I, cap. V, n. 3, 14), contravvenendo la nota e già richiamata massima dell'unus testis nullus testis. A maggior ragione, si irroga la tortura al teste che confessa facto intervenisse affermando perô di non aver visto nulla, presumendo qui, ancora più che nella prima ipotesi, la consapevolezza di una verità che non si vuole palesare (Guazzini, 1671, defens. XIX, cap. IV, n. 1, 278). In linea di massima non occorre che il teste ratifichi la deposizione resa sotto tormento, come invece era richiesto per la confessione del reo, anche se Savelli precisa che "se si procurasse a cautela tal ratificazione non sarebbe biasimevole" (Savelli, 1707, § Pratica criminale, n. 43, 8). Esclude invece la necessità di una ratifica Melchiori, sostenendo che la tortura inferta agli infami, ai vari, ai vacillanti è disposta non già per estorcere a forza al teste la verità, ma per purgarlo del suo difetto: una volta che tale obiettivo è stato raggiunto, l'esame reso è perfetto e non necessita di ulteriori conferme. Si deve altresi considerare che tale tipo di tortura consiste nella semplice sollevazione da terra per pochi minuti e pertanto "non puô eccitarsi nel torturato quella intensione di dolore, che facci presumere estorte le sue parole" (Melchiori, 1741, XX, 133). Discorso diverso per chi, come si è visto poc'anzi, occulta la verità: dal momento che si vogliono ottenere informazioni su circostanze che ostinatamente si nega di sapere, si dovrà procedere con tutti i gradi della quaestio, "il che fa presumere di loro, non meno che de' rei, che la verità gli sia stata estorta, e per conseguenza siavi bisogno di perseveranza e conferma" (Melchiori, 1741, XX, 134). Si ripropongono qui i dilemmi giuridico-morali che attanagliavano la dottrina di fronte a dichiarazioni ottenute per cruciatum corporis, rivelando cosi l'intima con-traddizione tra la 'patente' di verità legalmente attribuita a quelle dichiarazioni e i dubbi sulla credibilità di affermazioni estorte con la violenza. Come conciliare la libera determinazione del soggetto e la coercizione fisica? Attraverso la ratifica, che, resa lontano dai luoghi dei tormenti, acquietato il dolore fisico, a debita distanza di tempo, garantiva l'utilizzabilità delle parole del 'paziente', allontanando il sospetto di un condizionamento e di una avvenuta brutale 'estorsione'.57 56 Maiorana sostiene che in questo caso si deve derogare ad una tortura breve: essa, infatti puó essere irrogata per un tempo 'notabile'. Ció comporta un'ulteriore eccezione: se ordinariamente la tortura del teste non necessitava di ratifica, in questo caso, al pari di quanto avveniva per il reo confesso, la ratifica era richiesta (Maiorana, 1677, lib. I, cap. VI, n. 1, 17). 57 Guazzini sintetizza in modo chiaro sia i termini del dibattito sia le ragioni delle soluzioni qui indicate sia i dubbi che si addensano intorno ad una dichiarazione resa sotto i tormenti (Guazzini, 1671, defens. XIX, cap. XIV, 285). 100 Loredana GARLATI: IL "GRANDE ASSURDO" ..., 81-104 Un'ultima annotazione. La tortura del teste non e mera ipotesi astratta. Gli autori delle pratiche fotografano e certificano, con alcune incursioni nella loro esperienza personale, una chiara realtá: se Melchiori puo dire che il Dominio veneto si astiene dalla sola pratica della tortura nei confronti degli infami (Melchiori, 1741, cap. XX, 131),58 Tommaso Scipione, "cive romano ac in ferrariensi legatione advocato fiscali" (come recita il frontespizio della Praxis criminalis sive processus informativus di Tranquillo Ambrosini, dallo Scipione ad modernam praxim redactus), puo dire che in quattordici anni di professione criminale non ha mai visto torturare testi infami, o 'verosimilmente informati', ma e costretto ad ammettere che piu volte ha assistito alla tortura di testi vari e contraddittori (Ambrosini, 1750, l. II, cap. III, n. 24, 113-114). Ed Egidio Bossi non si limita a precisare che la tortura del teste e piu utile di quella del reo, ma anche piu frequente, tanto da poter dire: "ideo quotidie video poni ad torturam socios crimini et infames" (Bossi, 1562, tit. de Tortura testium, nn. 1 e 3, 207). Savelli, inoltre, riferisce di aver piu volte visto il Magistrato della cittá di Firenze torturare un teste contrario (Savelli, 1707, § Testimoni, n. 19, 340) a dimostrazione che tale prassi interessava indistintamente tutte le realtá politico-giuridiche e attraversava epoche diverse, prova evidente della intensa circolaritá delle idee e delle soluzioni che le pratiche veicolavano. Non solo e non tanto nella scientia iuris accademica, dunque, quanto soprattutto nella prassi e nella letteratura che vi si riferiva, i volumi in folio dei giuristi moderni rivelano una straordinaria duttilitá di contenuti, pur se scontando un inevitabile prezzo in termini di 'certezza' e di uniformitá giurisprudenziale. "VELIKI ABSURD": MUČENJE PRIČE V NOVOVEŠKIH PRAKSAH Loredana GARLATI Univerza Milano-Bicocca, Pravna fakulteta, Piazza dell'Ateneo Nuovo, 1, 20126 Milano, Italija e-mail: loredana.garlati@unimib.it POVZETEK Intenzivno, srdito iskanje dokazil o krivdi obtoženca v okviru mehanizma, kakršen je inkvizicijski postopek, znotraj katerega sobivajo protislovni pritiski (pasti v zvezi z zakonitostjo dokaza, ki težijo k zadušitvi vsakršne svobode sodnika pri ocenjevanju in obsežne vrzeli v korist diskrecijske pravice sodnika, ki odpirajo pot izražanju proste presoje), je po mnenju nekaterih pravnikov upravičevala zatekanje k mučenju priče. Šlo je za postopek, ki je pri samih avtorjih sprožal več previdnosti in vzbujal večjo razdvojenost, kot v primeru uporabe istega sredstva pri preiskovancu. 58 Aggiunge l'autore che di fatto si tratta un tipo di pratica non molto in uso e che sebbene sia permessa de iure ognuno si astiene dal praticarla. 101 Loredana GARLATI: IL "GRANDE ASSURDO" ..., 81-104 Nadvse zanimiva je ugotovitev, da v zvezi z mučenjem pričevalcev obstajajo v Italiji zelo raznolike izkušnje. Na eni strani imamo "lombardijskipostopek", pri katerem so si omislili in opredelili okoliščine, ki v večini primerov opravičujejo telesno kazen in izpričujejo strogost celotnega milanskega procesa, nasprotno pa imamo v drugih okoljih pojav omejevanja mučenja, čeprav praksa kaže, da je bilo trpinčenje povsem običajno in pogosto uporabljeno. Vstop mučenja na dokazno prizorišče je onemogočal vsako obliko samoodločbe pričevalca. Šlo je za neke vrste psihološko podrejenost preiskovalcu, za preiskovalni aparat, ki je pri pričah vzbujal strah, pomenil je grožnjo uporabe "orodja za povzročanje bolečine". Vse to je lahko vodilo k nezanesljivemu nastopu priče in postavljalo pod vprašaj verodostojnost samega pričevanja. V tej perverzni igri je čezmeren pomen, ki je bil znotraj dokaznega konteksta pripisan pričanju, nujno zahteval pridobitev slednjega. Obenem je težava, da bi v praksi zadostili "garantističnim" predpostavkam v zvezi z njegovo sprejemljivostjo (za dokaz obtoženčeve krivde sta bili potrebni najmanj dve ustrezni, usklajeni in vseh ugovorov de visu ali de scientia razbremenjeni priči), paradoksalno povzročala, da se navkljub velikemu številu navzočih prič pogosto ni bilo mogoče dokopati do trdnih - Ijanju dejstev zaradi čustvenega dojemanja dogodkov (prepuščenega subjektivnim receptivnim sposobnostim in čutni dovzetnosti posameznika) in osebnim pripombam, ki so jih izpodbijali z mučenjem priče. Nekateri avtorji smo ta ukrep opredelili kot "veliki absurd". Absurd, v imenu katerega se je priča v postopku iskanja pravice in rekonstrukcije resnice prelevila iz "sodelavca" v žrtev taiste pravice. - letje FONTI E BIBLIOGRAFIA Ambrosini, T. (1750): Praxis criminalis sive processus informativus in sex libros distinctus ad modernam praxim redactus a Thoma Scipioni. Venetiis, apud An-tonium Bortoli. Bassani, M. A. (1755): Theorico-praxis criminalis addita ad modernam praxim D. Thomae Scipionis. Ferrariae. Bonifazi, A. (1768): Institutiones criminales in quatuor partibus distributae. Venetiis, apud Jo. Baptistam Recurti. Bossi, E. (1562): Tractatus varii. Lugduni. Briganti, T. (1755): Pratica criminale delle corti regie e baronali del Regno di Na-poli. Napoli, Per Vincenzo Mazzola. 102 Loredana GARLATI: IL "GRANDE ASSURDO" ..., 81-104 Carerio, L. (1550): Practica nova causarum criminalium. Venetiis. Cavalcani, O. 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