LINGÜISTICA XI LJUBLJANA 1971 UISTICA XI LJUBLJANA 1971 Uredniški odbor — Comité de rédaction: BOJAN COP, ANTON GRAD, MILAN GROŠELJ, MITJA SKUBIC, STANKO ŠKERLJ — Rokopisi naj se pošiljajo na naslov: prof. Stanko škerlj, Filozofska fakulteta, oddelek za romanistiko, Aškerčeva 12, Ljubljana — Prière d'adresser les manuscrits à M. Stanko Škerlj, Filozofska fakulteta, Oddelek za romanistiko, Aškerčeva 12, Ljubljana — Natisnila Univerzitetna tiskarna v Ljubljani v 450 izvodih Lingüistica XI mentó, a siamo, che, avendo preso radice fin dal latino volgare nel congiuntivo (accanto a simus) avrebbe poi sbalzato di seggio anche simus (> semo) dell'indicativo; questo siamo, per l'uso frequentissimo del verbo essere, avrebbe attirato stiamo »suo párente per il senso, poi d-iamo, perché daré si tocca con stare in molte forme... e finalmente and-iamo, nel quale si sente quasi un composto di daré: da essi, -iamo passó a tutti i verbi in -are, che, essendo numerosi, si trassero dietro gli altri«2. Fu Meyer-Lübke a construiré questo quadro, nella sua Italienische Grammatik, del 1890; l'adottó, tal quale, il Wiese nel suo Altitalienisches Elementarbuch (1904), § 231. »Questa spiega-zione non regge«, ebbe a rilevare il Bartoli3, — »per due ragioni. L'una é che s-iamo non pud aver dato il suo -iamo a d-iamo ecc., perché non l'aveva ancora ... quando giá esisteva d-iamo (cfr. semo Nov. ant. 42, di fronte a diamo 45). L'altra ragione sta nel fatto che la prima a sparire fu la desinenza nórmale dei verbi in -iré (sal-imo ecc., v. pag. 182), non quella dei verbi in -are (cantamo ecc.,) come richiederebbe la spiegazione data nel testo«. Ma fin dal 1894 Meyer-Lübke aveva modificato la sua tesi (nel I tomo della sua grande Grammatik der romanischen Sprachen, §§ 210, 223): qui egli parte da stiamo che, attraverso a [síea] steamo, si sarebbe sviluppato appoggiandosi a [ea(ro)] eamus: fa dunque capolino la teoria alia cui base é la forma del congiuntivo esortativo — imperativo di iré. Essa é elaborata piü decisamente in quella sintesi della »grammatica storica della lingua e dei dialetti italiani« che Francesco D'Ovidio e W. Meyer-Lübke diedero nel Grundriss di Grober; la 2. a redazione di questa sintesi usci nella 2. a ediziione del tomo I del Grundriss, nel 1905; giá l'anno dopo ne usci la traduzione italiana a cura di Eugenio Polcari, nei »Manuali Hopli«. Qui, a p. 132, infatti leggiamo: »11 punto di partenza per questo -iamo, che diventa nel sec. XIV Túnico usato nella II, III, é certamente giamo da eamus, che poté avere una gran preponderanza nell'uso dell'imperativo. A lui segui stiamo, andiamo e a questi diamo e poi insieme gli altri verbi della I, e d'altra parte ben molti verbi in -iré, segna-tamente vemamov.. — Questa ipotesi fu riproposfca dal Bartoli4, ma anche leggermente modificata, in quanto, seoondo lui, giamo avrebbe influenzato dapprima gli altri verbi in -iré (sagliamo ecc.), »quindi stiamo (párente di g-iamo perché di significato opposto) e con esso gli altri verbi in -are, e poi i rimanenti«; e fu rinforzata con l'osservazione (cf. ib. p. 186) che la g- ini-ziale nelle forme dell'indioativo gimo, gite, che non si spiega se non dal congiuntivo eamus > jamus > giamo, dimostra la prevalenza della forma del congiuntivo-imperativo e la sua usurpazione del terreno proprio dell'indicativo. — Infine, su questa idea dell'imperativo (congiuntivo esortativo) eamus come punto di partenza é edificata essenzialmente anche la spiegazione che da Eohlfs o. c. II, § 530, della sostituzione di -amo, -emo, -imo con -iamo. Se 2 Meyer-Lübke, Grammatica storica della lingua e dei dialetti toscani. Riduzione e traduzione di Matteo Bartoli e Giacomo Braun... Nuova edizione curata da Matteo Bartoli; Torino, G. Chiantore, s. a., ma 1927. 3 in una nota a p. 180 dell'opera citata nella nostra nota precedente. 4 nella stessa nota citata qui sopra, a p. 180 della sua traduzione e riduzione della prima Italienische Gramatik di Meyer -Liibke. 4 LINGÜISTICA LETO XI. 1971 CDU 805.0-554.2 Stanko Skerlj ALLE ORIGINI DELLA 1* PL. DELL'INDICATIVO PRESENTE IN -JAMO La questione délia 1. a pers. pl. dell'indicativo presente nell'italiano (e in alcurni dialetti italiani) è antica probabiknente quanto la morfologia storica italiana stessa. Dopo che nella III coniugazione latina l'accento sulla terzultima (véndimus) aveva ceduto alla pressione che le altre tre coniu-gazioni (cantámus, habémus, dormimus), unanimi, esercitavano su di esso (véndimus > vendímus, o piuttosto vendémus), i punti di partenza, per la formazione delle forme romanze, erano cantâmu, abému (e vendému), dor-mimu. Infatti, molti dialetti italiani e anche alcuni délia Toscana, fino a oggi mostrano esiti fonéticamente normali, provenienti direttamente da quelle originarle forme latine; cosí, a modo d'esempio, Pracchia (provincia di Prato) ha: cantamo, vendemo, dormimo; l'isola d'Elba: passamo, scendemo, venimo; e similmente nelle Marche, nell'Umbria e altrove (cf. Rohlfs, Histor. Gram-matiJc der italienischen Sprache II, § 530). Anche nell'antica lingua scritta di moite regioni délia stessa Toscana, cosi nei testi antichi di Pisa e di Lucca, le forme »regolari« non sono rare; e distinguono le tre forme Guittone e Ristoro d'Arezzo. — Invece la desinenza in -iamo prevale, soprattutto nella I e nella IV coniugazione, in altri testi toscani fin dal Duecento; a poco a poco, ma abbastanza presto, essa si è insediata, come desinenza unica délia 1. a pl. di tutte le coniugazioni — anche di quella in -ere, la più resistente — nella lingua letteraria. Il problema è questo: Oome si spiega la desinenza -iamo nella 1. a pl. près. dell'indicativo?1 Nessuno ha mai dubitato che la desinenza -iamo provenga dal congiuntivo delle coniugazioni in -ere (habeamus) e in -ire (dormiamus). Ma su quale via la desinenza propria del congiuntivo si è infiltrata nell'indicativo? E da quale forma, da che verbo è partita la spinta? Doveva essere un verbo importante, frequentemehte usato — forse più ver-bi — per tirarsi dietro tanite schiere di altri verbi. Si pensó, in un primo mo- 1 Per essere esatti, la questione comprende anche la 1. a pl. del congiuntivo délia I e délia III coniungazione. Ma non vedremmo una gran difficoltà ad ammettere la sola intrusione dell'elemento caratteristico -iá- f-eá-) del congiuntivo presente proprio délia II e délia IV coniugazione latina nel congiuntivo délia I (cantémo) e dellà III (vendámo). II vero problema sta invece nel passaggio di una forma propria del congiuntivo nella sfera dell'indicativo. 3 Stanko škerlj non che Rohlfs ne allarga la base, vedendo il motivo dell'usurpazione nel fatto che »in non pochi casi l'indicativo interrogativo (imus?, bevimo?) e il congiuntivo esortativo (eamus!, beviamol) si incontrano dawicino nella loro funzione«.5 Intanto, c'è un fatto che dapprima parrebbe parlare a favore dell'ipotesi che eamus fosse l'origine dell'impiego di -iamo all'indicativo: ed è l'uso effet-tivo di forme quali yam, yamo col significato di andiamo all'indicativo, corne infati lo attestano i punti 576 e 632 dellWS, carta 1692. Vedremo nel sèguito (sotto, a p, 7 e 17) quanto sono rare, nei più antichi testi dialettali d'Italia, le forme in -tamo col valore d'indicativo (— eccetto il verbo dovere!). I casi di yam, yamo ( = giamo 'andiamo') dovrebbero dunque avere grande peso nella discussione délia origine délia desinenza -iamo all'indicativo. Ma ci accorge-remo anche subito di qualche fatto che diminuisce essenzialmente l'impor-tanza di questi casi di yam, yamo. Tirando le somme, si puô dire che la spiegazione del problema di -iamo, nel corso di alcuni decenni, ha fatto dei progressa. Si era cominciato col semp-lice accostamento di altri verbi alla forma siamo, senza curarsi dell'antichità relativa di questa forma stessa nell'italiano antico e senza curarsi del problema sintattico che presentava il passaggio di una forma del congiuntivo nella sfera dell'indicativo. Ma poi il problema sintattico è affiorato: si trovó, come punto di partenza, eamus — giamo, che meglio di siamo corrispondeva ai dati délia statistica storica, e che — cosa più importante — nel suo uso di congiuntivo esortativo si avvicinava all'indicativo, potendo servire di ponte tra una funzione del congiuntivo e la funzione dell'indicativo. Si vede che, da un certo tempo, si sentiva in coloro che del problema si occupavano, un certo disagio davanti alio strano fenomeno che una forma del congiuntivo avesse sbalzato di seggio la forma legittima dell'inddcativo. Pare perô che questo naturalissimo disagio, prima e più che dai citati storici délia lingua italiana: Meyer-Lübke, B.Wiese, Bartoli5a, Rohlfs, fosse sentito da alcuni altri linguisti, che délia questione dell'origine e dell'esten-sione di -iamo si interessavano soltanto' incidentalmente. Fin dal 1894, Gaston Paris aveva notato6: »_____si les leres personnes italiennes en -iamo sont sorties de siamo, on ne voit pas bien comment le subjonctif siamo s'est glissé s Osserveró subito che tale vicinanza del senso, se mai, renderebbe piuttosto forte la posizione dell'indicativo, lo renderebbe capace di subentrare, in tali casi, al congiuntivo. (Tant' è vero che nel Contrasto di Cielo, nel penúltimo verso, gimo — e non giamo — sta in funzione di congiuntivo-esortativo: »a lo letto ne gimo a la bon ora«.) La parziale equivalenza della formula interrogativa, nell'italiano moderno: »mi dà un caffè?« e delFimperativo »mi dia un caffè!«, piuttosto poteva aiutare l'indicativo a entrare nella sfera del congiuntivo che non il congiuntivo a soppiantare l'indicativo. 5a Del resto, Bartoli stesso (riportandosi per le forme senesi a Hirsch, Zeits. cit., X, 437) ha notato, nel § 209 a p. 189, che »il cong. dea viene adoperato anche nel-l'indic. e si transforma in dia (nel sen.), onde die e poi dié...« — ma non vedendo nel fenomeno altro che un fatto morfologico e fonético, non ne ricerca l'origine sin-tattica. 6 in »Romanía« XXI, 360, n. 2. 5 Lingüistica XI au lieu et place de l'ancien indicativ semo«.1 Qualche anno più tardi, P. Geo. Mohl, nel suo studio ora citato, rinforzava la critica, includendovi anche la seconda supposizione di Meyer-Lübke che partiva non più da siamo ma da stïamo: »mais on ne nous dit toujours pas pourquoi stiamo et siamo auraient envahi l'indicatif«.8 Invece, la questione del concatenamento tra la forma di congiuntivo e la funzione d'indicativo fu riproposta, con perfetta consapevo-lezza délia difficoltà che ai precedenti tentativi di soluzione del problema di -îamo contrapponeva il lato sintattico, da Alfredo Schiaffini (Influssi dei dialetti centro-meridionali sul toscano e sulla lingua letteraria, in »L'Italia Dialettale« V [1929], 23 s.) Abbiamo l'impressione che nessuno di quanti hanno cercato di spiegare il problema — eccetto forse il Mohl — si sia creduto sicuro di averne trovato uno soluzione completa e definitiva. Anche la forma eamus — giamo come presunta sorgente délia desinenza -iamo, che pure rappresentava una certa possibilità di fare lógicamente scivolare un congiuntivo-imperativo nella funzione dell'indicativo, non porgeva una convincente evidenza. Ció che prima di tutto si doveva chiedere per esser sicuri délia spiegazione, erano degli esempi concreti di un uso effettivo di una delle forme: o eamus o giamo, come sostituto deU'indicatdvo: imus o gimo. Ora, bisogna dire che a questo postulato l'Ai S pare soddisfare: da quando abbiamo trovato le forme yam, yâmo nelPelenco dei paradigmi dei verbi più usati o più interessanti che dà VAIS VIII, taw. 1682 e ss., e in particolare la tav. 1692, ai punti 576 (Umbria) ' Citato secondo P. Geo. Mohl, Les origines romanes. La première personne du pluriel en gallo-roman (in: »Vëstnik královské Geské Spoleônosti Náuk«, Tíída îilo- sofioko-historicko-jazykozpytná, 1900/XVI), p. 29. 8 II Mohl stesso, .pur consacrando il suo studio soprattutto alla 1. a persona plurale nel francese, -ons, ha tentato, di passaggio, di dare anche una sua interpre-tazione dell' -iamo italiano. La imbastisce su due confusioni, awenute nel tardo latino: l'una fonética, l'altra sintattica. La prima, causata dalla caduta, sul suolo italiano, dell' -s finale, fece in modo che le relazioni vocaliche tra l'indicativo e il congiuntivo presente délia coniungazione in -are e quella in -ere apparissero sotto questo aspetto: amámo : amémo / mettémo : mettámo — dunque relazioni vocaliche netta-mente inverse. All'imperativo — »mode infiniment plus vivace dans l'idiome parlé que le subjonctif«, dit Mohl, che vede il punto di partenza délia »nuova coniugazïone toscana«, per quel che riguarda la desinenza délia l.a plurale, nell'imperativo piut-tosto che nel congiuntivo — all'imperativo, dunque, il doppio vocalismo che abbiamo notato si presenta cosi: amémo : amáte e mettámo : mettéte. Alla 2. a plur., »infiniment plus usitée que la 1-ère«, le forme avióte e mettéte si sono conservate cosi aU'indicativo come all'imperativo; »mais la 1-ère personne du pluriel exige une refonte plus claire et plus générale«, afferma Mohl — ma ci domandiamo perché mai la 1. a plur. fosse tanto più esigente. Una risposta alla nostra domanda forse la dovrebbe dare un passo un po'più giù nella stessa pagina (p. 31): »Quoi qu'il en soit, ces subjonctifs en -iamo étaient infiniment plus clairs que ceux en -amo et -emo qui s'échangeaient avec -emo et -amo de l'indicatif«. Ma usando le forme délia 2. a plur. amóte, mettéte, uguali neU'indicativo e nell'imperativo, non si correva lo stesso pericolo di confusione di fronte a metíate e ámete del congiuntivo originario ?, eppure si sono conservate. Insomma: la risposta di Mohl non è sufficiente, non è completa. Le forme: amate — uscita sia da amatis indicativo o da amate imperativo — e mettete — uscita sia da *mittitis o da *mittíte — si sono potute conservare perché l'intonazione, dipendente da un dato contenuto psichico, abbastanza differenziava — 6 Stanko škerlj e 632 (Lazio), a cui vanno aggiunte le forme con s- iniziale nella Terra d'Otranto (db. punto 742 ecc.)—bene inteso: tutte forme ¿'indicativo!, — siamo obbligati a riconoscere che esempi del tipo eamus indicativo non mancano del tutto. S'impone pero anche questa altra osservazione: proprio nelle regioni dove si trovano quei rari esempi di yam, y amo, sam, per tutti gli altri verbi non si trova, nell'A/S, una sola prima plurale in -iamo! II che pare di dimostrare che y amo o giamo (da eamus), proprio li dove la sua esistenza come forma d'indicativo é attestata, non abbia esercitato nessuna forza attrattiva, non abbia dato nassun impuso alia formazione o alia diffusione di altri indicativi in -iamo? Insomma, sarebbe difficile concatenare 1 '-iamo generalizzato con eamus lá dove la desinenza -iamo pare non aver oltrepassato i limiti del verbo iré. Con tale inventario di dati, ipotesi, dubbi per il capo — io, qualche auno fa, peroorrendo i primi capiitoli di quella imponente opera che é la Storia della lingua italiana di B. Migliorini, m'imbattei in questo passo offerto come saggio del latino medievale, tratto dal »libello« redatto dal notaio Teutperto a Lucca nel 80410, »con cui Astruda, badessa di S. María Ursimani, dá a Gudolo casa e poderi a Montemagno, e questi si obbliga a corrispondere una parte dei prodotti«11: ».. .per singulos annos reddere debeamus ¡medietate vino puro da tertia vices uba bene calcata,...; quidem et vobis reddere debeamus per singulos annos medietatem aulivas, ...; et per omnes vendemia reddere debeamus medio porco valeixte dinari sex, ... et per singulos annos vobis reddere debeamus tres pulli cum quindecim ovas« — 'anno per anno dob-biamo daré la meta del vino puro proveniente dalla terza parte dell'uva ben calcata; ... si vi dobbiamo daré ... la metá delle olive ...; e per ogni ven-demmia dobbiamo daré un mezzo porco del valore di sei denari, ...; ... e anno per anno dobbiamo darvi tre polli con quindici uova«. XI mió sguardo si fermó su questi debeamus che, essendo formalmente dei congiuntivi, evidentemente staimo per debemus, equivalgono cioé all'in-dicativo, e dall'altro lato sono gli antenati direttissimi dell'italiano dobbiamo congiuntivo e indicativo. Ecco, mi dicevo, finalmente un caso chiaro e sicuro almeno nella maggioranza dei casi — le due enunciazioni per non esporle al pericolo di una confusione tra l'imperativo e l'indicativo — quando, ripetiamolo, si trattava della 2. a persona. La situazione era différente per la 1. a plur.; soprattutto quando rappresentava un congiuntivo esortativo (o imperativo), si comprende la tendenza di daré a tali forme una desinenza piii esplicita che non avessero le antiche amemo, mettamo. Ë vero che dal momento che anche la 1. a pl. dell'indicativo si lasciô attrarre nella órbita della desinenza del congiuntivo ossia delFimperativo -iamo — questo passagio per l'appunto è 1' oggetto del presente studio —, il ventaggio che la detta desinenza, originariamente propria del congiuntivo, portara, alia chiarezza della frase, svaniva: in certi casi — ad esempio davanti a una frase come »abbando-niamo questo luogo« — si poteva restare nel dubbio se il verbo dovesse esser com-presso come indicativo o come congiuntivo esortativo. Quanto poi alia forma in -iamo, o piuttosto: quanto all'origine della desinenza -iamo nell'italiano, Mohl non pare sentire il bisogno di cercarne il punto di partenza in eamus o in altri verbi del genere, perché egli crede che le forme diamo, stiamo, siamo del toscano siano continuatori legittimi, anzi diretti, di antiche forme dell'um- 7 Lingüistica XI dell'uso di un originario congiuntivo col valore dell'indicativo: non più soltanto ipotesi ma il fatto concreto. Mi si affacciô spontanea la domanda: sarebbe da cercare qui l'origine dell'indicativo in -iamo: dobbiamo, abbiamo, saliamo, cantiamo? La forma debeamus mi si collegô subito con la lunga serie di esempi che da molti anni venivo annotando da testi italiani antichi, soprattutto da »statuti«, »ordinamenti«, »capitoli«, »rególe« del '200 e del '300, dove il congiuntivo del verbo dovere pare fuori posto. Questo succédé abbastanza spesso in proposizioni indipendenti: Guido Fava, Parlamenta... II »La tua discer-zione debía audire devota mente le nostre parole,.. ,«.12 E ancora prima, nella Carta cagliaritana (1070—1080)13: »Et non debeant serbire custus liberas de paniliu assu rennu« (cioè al fisco). Capitoli ... OrsanmicheleI4: »E debia ciascheduno de la conpa[m]gnia dire ongne die a la reverença de la detta nostra Donna ... cinque pater noster...«. Ma ancora più frequentemente succédé, in proposizioni dipendenti, che o il verbo dovere stesso oppure la sua applicazione al congiuntivo ci sembri superfluo. Eccone qualche esempio. A1I'ultimo paragrafo dei Capitoli della Compagnia di S. Gilio^ leggiamo: »Anche ordiniamo e fermiamo che i capi-tani nuovi... debbiano, cho gli loro chonsiglieri e cho i capitani vecchi, provedutamente chiamare due chamarlinghi buoni e sufficienti, ...«: qui, se è giustificato il congiuntivo dopo »ordiniamo«, è superfluo il verbo dovere; basterebbe, quanto al senso, dire: 'ordiniamo ... che i capitani nuovi ... chia-mino', come infatti in altri paragrafi degli stessi Capitoli si legge: (§ 24) »Anche ordiniamo e fermiamo ... che' capitani facciano cantare una messa solenne...«. — Più importante per noi, i casi dove si comprende bene l'impie-go del verbo dovere, ma ci pare soverchio il congiuntivo; come lo usa, tra bro e del latino antico; cf. la sua opera citata, p. 31: »Entre temps, en Toscane, les subjonctifs et impératifs díámo, stlámo et bientôt sldmo avaient restauré ou maintenu l'ï long primitif des types sentiámo, audïâmo .. -, dont l'écho tout au moins a dû retentir encore longtemps dans le latin vulgaire italique«; si veda anche lo studio dello stesso autore: Les Origines Romanes. Etudes sur le Lexique du latin vulgaire (nello stesso volume del »Vëstnik« dell' Accademia cecha di scienze, Praga, 1900), p. 51: »Revenons à dïa, subjonctif de dare en latin vulgaire comme fia est le subjonctif de essere; ... C'est directement à ce dïa de l'ombrien et du vieux latin d'Italie que nous rattachons l'italien dia exactement comme fia remonte à fia«.. — Non crediaino che questa idea abbia avuto dei seguaci tra i romanisti. f Sarà questa la ragione perché Rohlfs, che è pure uno dei raccoglitori dell'X/S e precisamente quello che aveva fatto l'inchiesta nell'Italia méridionale, non abbia allegato, nella sua Grammatica storica..., gli esempi di yamo indicativo come tina riprova del passaggio di eamus congiuntivo o imperativo alla funzione delFindi-cativo? II »libelo« è pubblicato in »Memorie e documenti per la storia di Lucca« V, II, p. 189. 11 Migliorini, o. c. p. 57. 12 in: Gerolamo Lazzeri, Antología dei primi secoli della letteratura italiana, Milano, 1942; p. 423. 13 Lazzeri, o. c. p. 36. m In: Castellani, Nuovi testi jiorentini, p. 653, § 25. 15 In: Schiaffini, Testi fiorentiniï, p. 54. 8 Stanko škerlj gli altri, un Ant. Palma Prete, in una lettera, inviata a Fantino Dándolo Ve-scovo di Padova, del 17 febbr. 145516: »e disse che li debba dar quei dinari...«, — dove basterebbe l'indicativo: 'disse che li doveva daré'.17 — Bastí, per ora, dire che i testi italiani antichi di quel carattere che qui sopra abbiamo quali-ficato come »statuti«, »ordinamenti« o sim., formicolano di proposizioni in cui o l'uso del verbo dovere o la sua forma di congiuntivo ci paiono super- flUi.Wa Ma il nostro sguardo si rivolge idietro, ai secoli che precedono il Due-cento, grosso modo ai secoli tra il sesto e il dodicesimo, al peridodo cioè in cui, con molta probabilità, la terminazione -lamo nacque e si verme consolidando (benché, come tutti sanno, il processo non sia terminato nemmeno nel sec. XIII e delle forme come avemo, conoscemo, sapemo e sim. siano frequenti in Dante).18 Documenti nel volgare italiano di quel periodo sono scarsi. C'è perô il latino medievale, il »basso latino«, il cui studio, lungamente trascurato, ci ha già aiutati a rintracciare alcuni fenomeni di fondamentale importanza nello sviluppo delle lingue neolatine. Particolarmente fertile allô scopo di taie studio è la prima fase di quel periodo assai lungo — cioè i secoli dal VI in poi —, perché allora il latino, durante la gradúale trasforma-zione in idiomi regionali che dovranno presto dirsi »volgari« e che tra non molto diventeranno lingue nazionali — dunque il latino imbarbarito delle »carte« del primo e dell'alto medioevo, delle formule giuridiche e degli »exempla« di lettere, il latino che, più che cagione di sdegno per il purista, è una scaturigine di delizie per il lingüista e dà largo accesso a forme »volgari«. Anche per noi la messe in quelle carte è stata ricca. Basta aprire il sottile fascicolo intitolato Merowingische und karolingï-sche Formulare19, contenente delle »formule« merovinge e carolinge dei se- w Migliorini-Polena, Testi non toscani del Quattrocento (Modena 1953). i' Si capisce che per l'epoca italiana in cui dobbiamo è oramai divenuto forma ambivalente, noi dobbiamo attenerci alie altre persone del presente per decidere se in un dato caso colui che scrive abbia pensato di usare il congiuntivo o l'indicativo. "a L'uso plenoastico del verbe debere nel basso latino è stato notato da Grandgent, Introduzione al latino volgare (Milano 1914), § 72, che allega un esempio da Gregorio di Tours (M. Bonnet, Le latin de Grégoire de Tours, p. 692): »commonens ut... custodire debeant«. Grandgent aggiunge: »Confronta l'uso di dovere in italiano« — senza dire di più. Ma tocca dell'uso del debere latino un'altra volta, al § 117: »Tal-volta il congiuntivo fu sostiuito da debeo coll'infinito: debeant accipi = accipiantur, G. [cioè H. Goelzer, Étude lexicographique et grammaticale de la latinité de saint Jérôme, 1884], 418.« Sfugge perô a Grandgent il tratto altrettanto intéressante: debere qui si usa nei congiuntivo, mentre, per il senso, lógicamente si aspetterebbe l'indicativo. 18 Vorremmo rilevare l'importanza che ha la storia di un costrutto sintattico per la giusta interpretazione délia data forma anche se studiata principalmente dal punto di vista sincrónico, cioè nel suo valore attuale. Tanto più giustificata tale escursione nel passato, nel campo latino, quando si tratta per l'appunto della storia della data forma, dal punto di vista diacronico. Questo non ci scioglie dall'obbligo di rintrac-ciarne anche l'origine interna, di stabilire cioè a quale substrato psichico il costrutto sintattico corrisponda. Questi sono, sempre, i due lati del problema dell'origine dei costrutti sintattici, e, per conseguenza, anche del problema delle forme morfologiche. « edito da J. Pirson, come no. V della »Sammlung vulgarlateinischer Texte«, Heidelberg, 1913. 9 Lingüistica XI coli VI, VII, VIII e IX, per notare l'uso eccessivo del verbo servile debere. L'impiego pleonastico di questo verbo rappresenta una specie di perifrasi del congiuntivo, perifrasi adottata, come vedremo, per rinforzare il senso parti-colare del congiuntivo come espressione délia necessità. II principio di una formula d'Angiô (»Formulae Andecavenses«), del VII secolo20, suona cosi: »[Ego enim illi.] Convenit nobis ad peticionem nutrido nostro, ut aliquo locello nomen illo..., pro assidua servicio suo vel benevolencia..., ei concide-re deberemus« ('[Io a lui.] Abbiamo deciso, a petizione del nostro pupillo, di donargli un poderetto tale e tale ... per il suo assiduo servizio e la sua benevolenza...'). Basterebbe, se mai: »convenit nobis ut concederemus«. Ci rammentiamo degli esempi or ora citati del '200: »... ordiniamo e fermdamo che i capitani nuovi... debbiano ... chiamare due chamarlinghi buoni«. I co-strutti di questo tipo — uso pleonastico del verbo servile debere — sono nume-rosi nelle carte latine medievali. Ë vero che sono piü rari quelli in cui il verbo debere è al suo posto, ma dove pare superfluo il congiuntivo; tipo italiano (oitato qui sopra, p. ): »e disse che Ii debba dar...«. Bisogna avvertire che nel latino medievale esempi del tipo dicit ut debeat non sono rari affatto: nel »Commonitoriuni Palladii«, che fa parte della versione latina del diffusissimo romanzo greco su Alessandro il Grande21 — Palladio visse tra il 363 e il 430 incirca, ma il manoscrito conservato a Bamberg è dal sec. XI — infatti si legge: »Sicut autem dicunt, ut debeatur honorari Rornanus imperator atque timeri, ...«. BelTesempio, ma che perde molto della sua forza dimostrativa per il fatto che dopo dicere ut, dicere quod, nel basso latino, non soltanto debere ma i verbi in generale spesso si costruiscono al congiuntivo. In un altro brano apparte-nente alla tradizione del romanzo di Alessandro (ib., p. 16, 32): »Similiter dicïtur, ut sit in inferno serpens, ...«. Intanto c'è un'altra specie di proposizioni dipendenti dove si aspetterebbe il verbo all'indicativo, e invece debere appare al congiuntivo: sono le relative. Ecco in un documento dell'inizio del sec. VI questa formula: »Rogo te, ... utique coticis puplicis patere iobeatis, qua habeo, quid apud acta prosequere debiam« 'Ti prego ... di ordinäre che si aprano i codici pubblici [ = l'archi-vio], perché ho qualcosa che devo sbrigare negli atti' (Merowingische .. Formulare, p. 5, 5). E poi, il grande passo: subito nella prima delle Formule merovinge ecc., cítate or ora, ci imbattiamo nel congiuntivo di deberej predicato di una proposizione principale: »Debiam accipere a vobis precium, in quod mihi conplacuit, ...«. È esattamente la situazione «di quel debeamus da cui abbiamo preso le mosse, è la conferma concreta dell'uso del congiuntivo nella funzione dell'indicativo. Altra cosa importante: questo uso nell'epoca esami-nata è frequentissimo. Succédé spesso che la perifrasi con debere in funzione servile si altemi col semplice congiuntivo del verbo principale. Si tratta di 20 o. c. p. 4, 23. 21 Kleine Texte zum Alexanderroman, ed. Pfister nella cit. »Sammlung vulgärlat. Texte«. 10 Stanko škerlj disposizioni o ordinamenti; ció che si ordina puô essere espresso o col congiuntivo del dato verbo o, lógicamente, col verbo dovere all'indicativo + l'in-finito. Spesso, infatti, troviamo il verbo semplice: »Si fuerit... qui contra hanc vindicione ... agere conaverit, inferit inter tibi et fisco soledus tan-tus, vobis conponat« (ib., p. 1,13) 'Se ci sarà ... chi cercherà di procedere contro questo atto di vendita, ... egli vi paghi, tra voi e il fisco, solidi tanti come ammenda'. Altrettanto spesso incontiiamo la perifrasi; lógicamente si aSpetterebbe »componere debet«, ma si trova, con sorprendente persistenza, »componere debeata. Abbiamo citato fin ora degli esempi provenienti da carte scritte sul suolo della Francia. Ma le carte stese in Italia offrono lo stesso spettacolo. In una »charta dotis« del 757, in quel di Lucca22 si legge: »et sacerdos, qui inibi deseruire visus fuerit, pro meis peccatis iacinorib[us] pro me D[omi]n[u]m die noctuq[ue] exorare dibeat«. In una altra »charta dotis«, dello stesso anno, stesa nella stessa località ma per mano di un altro »presbítero notario«, la frase consueta ha una forma leggermente différente: »et ipse sacerdos, qui iniuidem fueret ordinatus, pro nostris facinoribus die noctuque laudem D[e]o precare deueas« (ib., p. 6).23 E alia l.a plur.: »oleo vero omnisque annus tam ego quam heredis meus iniui dare deueamus congias tres« (dello stesso anno 757, ib. p. 9). Valgano questi esempi per moltissiimi altri. Del congiuntivo di debere in proposizioni relative, usato in luogo dell'in-dicativo che sarebbe da aspettarsi, non abbiamo trovato esempi sicuri perché molto spesso in essi il congiuntivo puô essere cagionato da una sfumatura potenziale o simile. Anche nelle carte d'ltalia, debere oome verbo servile fa spesso l'impres-sione di essere inutile, superfluo. In una lunga »charta ordinationis et dispo-sitionis« di Bergamo, del 774, pubblieata nello stesso Códice (II, p. 435 s.), si leggono successivamente le due formule: »uolo ut omnia in integrum fiat« e »uolo ut omnia distributum et rogatum fieri debeat«. È esattamento lo stesso uso che abbiamo notato neH'iitaliano del Duecento dopo »ordiniamo e fermiamo«, v. qui sopra p. 8. Tanto basti a dare un quadro dell'uso particolare del congiuntivo del verbo debere nei secoli della latinità medievale, uso col quale propendiamo a concatenare l'uso analogo di dovere nell'italiano antico, ma indirettamente anche l'origine della desinenza in -iamo. Una cosa almeno è certa: nel latino medievale il congiuntivo del verbo debere si usa, e frequentemente, con la funzione delFindicativo. Ma tale uso è più antico ancora. Parecchi decenni fa, Einar Lôfstedt24 attirô l'attenzione dei latmisti, deá comparativisti e dei romanista sul feno- 22 Códice diplomático longobardo, pubblicato da Luigi Schiaparelli, vol. II; Roma, 1933; p. 4. 23 La differenza tra dibeat e deueas sarà puramente grafica, essendosi da tempo dileguate le consonnanti finali. L'essenziale è la forma del congiuntivo usata nella funzione dell'indicativo. 24 La prima volta (e fu notato già da A. Schiaffini, in »Italia Dialettale« V [1929], p. 24) nella Miscellanea in onore di J. Wackernagel, »Antidoron«, Gôttingen, 1924; poi, in forma ampliata, nei suoi Syntactica (1933), II, pp. 129 ss. 12 Lingüistica XI meno di debeant per debent, ma anche sull'antichitä di questo fenomeno. Uno degli esempi relativ! a tale uso si trova, con molta probabilitä, in un passo di Plinio il Vecchio, Naturalis Hist. XVIII 34, 388: »in hunc [seil.: vul-tumum] apiaria et vineae Italiae Galliarumque spectare debeant« ('a questo [seil.: Vulturno] devono rivolgere lo sguardo l'apicultura e la viticultura dell'Italia e delle Gallie'). All'epooa di Traiano: »coloni colonicas partes praestare debeant« (dalla »lex de villae Magnae colonis« § 1, in: Bruns — Gradenwitz, Fantes iuris Romani1; p. 297). Non mancano esempi della 1. a e della 2. a persona; si trova nella Mulomedicina Chironis questo inizio di capitolo (§ 760): »necessarium autem debeam et hoc scribere, immaturos abortus«. E paiono essere non rari i casi di debeamus, che per ¡noi sono particularmente interessanti: Celerinus, Cypriani Epist. 21,2 (cit. da Löfstedt, Synt. II, p. 130): »pro quarum peccato, quia nos fratres habent, debeamus exeubare« (= 'vigilare'); — Servius, Gr. L. IV, 418, 1 »non tarnen possumus de aliis ver-bis neutralibus similiter quae non lecta sunt usurpare, sed debeamus ea tan-tum quae lecta sunt dicere«. É particolarmente instruttivo un passo del Codex Theodorianus XI, 24, 2 (delFanno 370 o 368): »ii vero, qui propria patro-cinia largiantur ['elargiscano'], per singulos fundos quotiens reperti fuerint, viginti et quinqué auri libras daré debeant et non quantum patroni suseipere consuerant, sed demidium eius fiscus adsumat«. Parte da qui il Löfstedt per dare La sua interpretazione, acuta e fine, di questo uso del verbo debere: »siccome tante prescrizioni, tanti ordinamenti, decreti, insomma tante maniere di esprimere quel che si ha da fare, appaio-no normalmente al congiuntivo, non puö meravigliarci se troviamo, in certe circastanze, anche il verbo che esprime il »dovere«, l'obbligo (»das Verbum des Sollens«) posto al »modo del dovere« (»Modus des Sollens«). Löfstedt parla di »una specie di attrazione interna o di assimilazione«, perché la forma esteriore, grammaticale, dal di dentro si modifica sul significato. Questa spiegazione risulta particolarmente convincente grazie ad appropriati accostamenti del nostro debeam, debeamus ecc. ad altri verbi — anche in altre lingue — usati al congiuntivo o ottativo in sostituzione dell'indioativo. Ci é presente soprattutto il tedesco »ich will«, che é per la forma e la prove-nienza il pretto preteriito di un ottativo, ma che, staccandosi dal suo senso primitivo, ha assunto in tutto il singolare del presente Tintero senso e tutte le qualitä sintattiche dell'indicativo per farsi l'unico representante di questo ultimo, — che é, insomma, andato pdü in lä del debere latino. Ingegnandoci a immaginare a fondo il processo psichico e sintattico di questa »consegna degli affari«25, di questo doppio atto simultaneo: la consegna e l'assumersi delle funziom, dovremmo diré ad un dipresso: l'indioativo del verbo servile subisce l'influenza del senso deH'intera enunciazáone, che é il senso dell'ob-bligo, del comando, del »dover fare qualcosa«, a tal segno che cede, che é pronto a disfarsi per permettere al »modo del dovere«, al congiuntivo, di subentrare al suo posto, cioé al posto dell'indicativo. II risultato ne é una 25 In sloveno si direfrbe 'predaja in prevzem funkcij', in serboeroato il termine ufficiale é 'primopredaja'. 12 Stanko škerlj cumulazione di mezzi espressivi: non basta mettere il verbo al congiuntivo, si preferisce di esprimere l'obbligo per mezzo del verbo dovere (e talvolta non si puô neanche famé a meno: per esempio nelle frasi principali); poi, quasi non bastasse il verbo servile allïndioativo, si passa al congiuntivo — senza rifletterci, inconsapevolmente. Se abbraciamo con uno sguardo tutte le fasi dell'uso di debere verbo servile al congiuntivo in funzione d'indicativo, la storia di questo uso si presenta cosi: Le forme débeam per debeo, debeamus per débemus, debeant per de-bent sono conosciute fin dal principio délia notra era. Perô, cosa notevole, quasi únicamente in proposizioni principali.26 Ci è capitato, è vero, un esempio — uno solo (citato da Loefstedt) — in proposizione relativa: »... nunc vero pro catholica... fide alia testimonia proposui, qudbus respondere debeas«, ma si sa che la relazione tra la principale e una relitiva è, in genere, una cosa ben diversa dalla dipendenza delle oggettive o di quelle del nesso causale. Il debeas nella frase relativa citata equivale ai numerosi casi di debere al congiuntivo usati in proposizioni principali. — Altra limitazione notevole: il nostro congiuntivo di debere nell'antichità appare soltanto in provvedimenti ammini-strativi e legali, nella precettistica morale e religiosa, in awiamenti, norme e rególe di vario carattere e contenuto (di grammatica, di veterinaria, di agricultura) — almeno se si ha da guidicare dagli esempi conservati. II novum che porta il Medio Evo fin dai suoi esordi è 1'uso del verbo debere, sempre col senso che mostra negli esempi antichi, in proposizioni dipendenti; cf. il passo già citato: »Convenit nobis ut... ei concidere debe-amus«; o ancora, nella carta cit. Cod. dipl. Ipngob. II, p. 28 »et uolo adque decerno ut... firmum et istauilitum diueas permanere«; del resto, la maggior parte dei casi la offrono sempre proposizioni principali. — L'altra novità consiste nel fatto che 1'uso particolare di debere comincia a poco a poco a farsi largo anche in opere letterarie. Appare per esempio in un brano appar-tenente alia sfera del Romanzo d'Alessandro, e precisamente nella lettera di Dindimo, indirizzata ad Alessandro, sui bramini: »vos autem dicitis multa, quae debeant fieri, et non facitis«. Nel Medio Evo italiano, poi, il procedimento che abbiamo conosciuto nel latino medievale, continua e si accentua in questo senso che l'uso speciñco di dovere — senza diminuiré nelle principali27 — appare frequentissimo in proposizioni dipendenti, sia oggettive (»Mandemo a vui ... che no deipae [= dobbiate] fare cum l'Emperatore alcuna çura in compagna«) che relative: »... a colui m'entorno [ = rivolgo] che debía respondere per me, ... ch'à la força e la virtute de tutte le cose«.28 Mérita di essere rilevato il parallelismo 26 Questa fu dawero una sorpresa per noi che eravamo partiti dall'italiano e poi passati attraverso l'alto Medio Evo per risalire al latino del 1. o secolo. 27 Come ed esempio: »Et debbiaao, il die di Natale e di Befanie... e il die di San Gilio ... fare solempnitade al ferro et ad mano« (Capitoli della Compagnia di S. Gilio, in »Testi fiorentini del Dugento e dei primi del Trecento«, pubblicati da A. Schiaffini; p. 45, 3. 28 Tutt'e due gli esempi sono tolti dagli scritti di Guido Fava, il primo dalla Gemma purpurea, l'altro dai Parlamenta. 13 Lingüistica XI del congiuntivo di debere e dell'indicativo di un altro verbo: »... colui... che debía respondere ..., [colui] ch'à la força...«. Guido Fava adopera debere perfino per una perifrasi del congiuntivo finale: »Unde, a go che la çerama se debía provare, ...vero [ = verro] cum mia mercatandia seguro e alegramente«. II campo piu fertile per osservare questo uso del congiuntivo di dovere (o l'uso pleonastico del verbo dovere) sono ancora gli ordinamenti e le opere didattiche. Ma esso s'infiltra anche in testi letterari, anzi di poesia. Nella Disputatio rosae cum viola di Bonvesin da Riva abbiamo trovato questo pas-so: »Et intrambe sot lo lirio [= giglio] plaezan [= contendono] duramente, lo qual si debía dar sententia justamente«. Si ha l'impressione che la forma del congiuntivo si sia ormai appiccicata al verbo dovere, o piuttosto: che essa gli sia ormai inerente. Abbiamo esposto per sommi capi la storia del singolare uso di questo verbo, e alla fine disegnato lo stato delle cose al limite tra il '200 e il '300, nel periodo cioè quando la desinenza -iamo aveva preso piede nel toscano, senza che le forme in -amo, -emo, -imo perciô fossero sparite dappertutto e del tutto.29 Sarà necessaria un'analisi un po' approfondita di una quantità di casi di dovere al congiuntivo per scoprire, in qualche elemento' riposto del conte-nuto psichico, altre cagioni dello strano fenomeno e, con ció, altre ragioni délia estensione e della saldezza di questo uso secolare. Ma prima di procedere a tale esame particolareggiato, vorremmo ricor-dare che dovere non è l'unico verbo che si presti ad accentuare l'idea della necessità, dell'obbligo, associando al senso primitivo del verbo la forma del congiuntivo. In italiano, nella lingua degli ordinamenti è frequente la locuzione esser tenuti; la troviamo spesso in proposizioni dipendenti: »Anche ordiniamo che' capitani siano tenuti di visitare tutti li 'nfermi.. .«30, ma non manca nemmeno in proposizione principale: »E' detti capitani siano tenuti e debiano procurare.. .«.31 Si confronti l'identica locuzione nel latino medievale degli Statuti della Société del popolo di Bologna32 II, p. 17 (titolo del capitolo VI): »Quod quilibet notarius teneatur venire ad congregationes societatis«. — Bisogna notare che anche questo sinonimo di dovere ha i suoi risoontri nel latino dell'antichità; Lôfstedt, Syntactica II, p. 131 ss., adduce interessanti esempi di oporteat: questo oporteat appare fin da Plinio ed è stato notato ancora almeno in testi del VII secolo. — E ritorniamo all'uso di dovere verbo servile nell'antico italiano. La spie-gazione fondamentale che di debeam latino in luogo di debeo ha dato Lôfstedt, forte dell'analoga spiegazione che aveva dato Jakob Wackernagel di (ich) will tedesco, originariamente ottativo, adottato nella funzione dell'indicativo, conserva la sua validità anche di fronte all'uso posteriore del verbo dovere al congiuntivo. Ma nel latino medievale e, maggiormente, nell'antico » Cf. Migliorini, o. c. p. 226. 30 Dai Capitoli ¿ella Compagnie, di S. Gïlio cit., p. 49, § 21. 31 Dagli stessi Capitoli. 32 In: »Fonti per la Storia d'italiaa IV, 1896. 14 Stanko škerlj italiano, se débeos, debeamus, debeant, debba, dobbiamo ecc. ci colpiscono, la ragione spesso non sta nel modo verbale, ma nel fatto che debere è usato senza necessità evidente: il solo verbo principale al congiüntivo, senza il verbo servile, basterebbe ad esprimere il concetto. (Si veda sopra p. ). In più di un caso l'equivalenza perfetta delle due formule è provata dal loro impiego parallèle a pochi righi di distanza. Agli esempi appena citati si aggiunga quest'altro da un testamento vene-ziano antico (pubblicato da Bertanza e Lazzarini, Il dialetto veneziano fino alla morte di Dante, p. 146): »...Eo Nicoleto Moro... si pregè ser pre' Fe-lipo che dovesse scriver per mió testamento«; e: »e chusi è pregado ser pre' Felipo che scriva per uno testamento«. Sono pieni di tali parallelismi i diversi ordinamenti del Duecento e cosi quei Capitoli della Compagnia di S. Gilio, di cui abbiamo qui sopra citato diversi paragrafl Ma conosciamo questo fenomeno già dalle Formule d'Angio del VI secolo, dove le forme comportât e componere debeat si alternano senza ragione visibile. Qualche altra volta, pero, abbiamo l'impressione che l'autore del tale passo abbia avuto una ragione speciale ancora percettibile di mettere debere. Talvolta il contesto — la situazione, il tono severo del documento, il temperamento di colui che scrive — esige che l'obbligo legale o morale di qual-cheduno di dover fare una cosa si esprima molto esplicitamente. (Anche noi abbiamo detto: »... l'obbligo di dover fare« invece del semplice »... di fare«.) In una lettera del XV secolo33 si legge: »e fo definido ... ch'el dovesse roma-gnir in Patriarchado«. Anche dopo le frasi stereotipe quali ordiniamo, fermia-mo e sim. si ha spesso questa impressione: quasi il verbo introduttivo non possedesse una sufficiente efficacia per esprimere, da solo, il concetto dell'ob-bligatorietà. Un altro verbo del genere è lasciare: »... si come lascoe [ = lasciô] Baldovino nel testamento che dovessero avere.. .«34 A più forte ragione debere pare al suo posto nelle secondarie dipendenti da verbi »neutrali« a questo riguardo, come dire, scrivere: »Scrivemmo che Simone... dee [si aspetterebbe doveva] daré questi danari«35. Anche altre lingue in tali casi introdurrebbero il verbo servile equivalente all'italiano dovere. Bisogna pero stare attenti e non soltanto andaré in traccia di reeonditi moti del substrato psichico, ma anche tener conto di consuetudini o »maniere« istilistiche. Se in qualche passo dei Capitoli della Compagnia di S.Gilio, già citati più volte, debere pare servire a rinforzare il senso dell'obbligato-rietà rispetto al semplice congiüntivo, in altri termini: se pare segnalare una effettiva sfumatura ¿el pensiero: »et poi quelli due ch'avranno più boci, quelli siano et debbiano essere affermai! dal frate per oapitani et per rectori« (o. c. p. 42, 21), — in altri luoghi invece puô darsi che questo apparente rin-forzamento in realtà rientri nell'orbita dei tanti binomi retorici che trovia-mo nello stesso testo: »...possa e sia lecito« (ib. 52, 13), »si tragga e possa 33 pubblicata nella nuova edizione della Serie degli scritti impressi in dialetto veneziano di Bartolomeo Gamba, Venezia-Roma, s. a. ma 1959. 34 dal Libro di tutela Riccomani, nei »Nuovi testi fiorentini« pubblicati da A. Castellani, p. 266, § 98 [mano 13] 35 Libro di tutela Riccomani cit., p. 271, § 136 [mano ¿]. 15 Lingüistica XI trarre«. L'intento stilistico di variare l'espressione nel corso di un paragrafo un po' esteso avrà aumentato l'impiego del verbo dovere (al congiuntivo) in passi come il seguerute36: »Che' capitani facciano cantare una messa per li morti il di di Sancto Salvadore. — Anche crdiniamo e fermiamo ... che' capitani facciano cantare una messa ¡spetiale e solempne ogni anno una volta, il die di Santo Salvadore, ala qual messa sian tenuti tutti quelli déla Com-pagnia d'esservi bene. E li chamarlinghi debbiano daré a ciascheduno, di quello déla Compagnia, una candela; et ala detta messa di morti offerino le cándele al frate al'altare. Et debbiasi logorare almeno una libra di cándele in questa messa. Et ciascuno, in cotai die, dica xij paternostri con avemaria e cum requiem etemam per anima de' morti. Et in questa messa si debbia fare spetiale oratione et spetiale racchomandisgia di tutti li morti déla Com-pagnia.« Abbiamo addotto, da p. 15 in qua, alcuni motivi particolari che potevano indurre coloro che redigevano i rispettivi testi a servirsi del verbo dovere. Con ció non intendiamo mínimamente intaccare l'interpretazione basilare dellUntrusione del congiuntivo nella sfera dell'indicativo (cf. sopra, p. 12). Qui invece abbiamo v jluto indicare qualche motivo speciale che ha potuto, anzi dovuto, aumentare la frequenza del verbo dovere nei testi italiani an-tichi — per concludere: piü frequenti le forme debba (debbia), dobbiamo, debbano (debbiano) ecc., più verosimile l'influsso della forma debeamus — dobbiamo sulla sorti della desinenza della 1. a pl. degli altri verbi. Ma il valore varamente eccezionale di queste forme per la spiegazione della desinenza -iamo nell'indicativo presente di tutte le coniugazioni consiste nel fatto che dobbiamo (come debeamus e come debeam-debba ecc.) rap-presenta realmente e chiaramente un indicativo, è effettivamente divenitato forma deH'indicabivo. Oltre a ció, anche il processo psichico dell'interferenza tra indicativo e congiuntivo questa volta è riscMarato. Alla fine, non è da dimenticare un altro vantaggio che ha debeamus-dobbiamo + l'inf., quale perifrasi del congiuntivo esortaitivo del verbo principale, su quel suo rivale che è eamus-giamo: in un ampio genere di testi — formule legali, precetti religiosi e morali, norme professionali, testamenti e sim. (v qui sopra, p. 13) — debeamus-dobbiamo è frequentissimo, e ha preso pieede anche in qualche testo letterario, mentre è piuttosto difficile trovare eamus-giamo iamo in qualunque specie di scritti pubblici o privati. La nostna interpretazione deH'origine della desinenza -iamo nella 1.a plur. dell'indicativo per mezzo di debeamus-dobbiamo in funzione di indicativo, ci è parsa, dapprima, molto buona. Poi sono venuti i dubbi. Contro di essa, infatti, si possono sollevare alcune obiezioni. Dato che del congiuntivo presente di debere nella funzione dell'indicativo si trovano, fin dal latino, tutte le persone, da debeam a debeant, bisogna domandiarsi perché il sorprendente uso abbia prevalso per l'appunito, e sol- 36 Capitoli della Compagnia di S. Gilio cit., p. 39, § 24. 16 Stanko škerlj tanto, alla 1. a plurale.37 Rispondendo a tale obiezione diremo che debeamus nel latino del Medio Evo non è tanto raro come ci si aspetterebbe. Pure, la più valida replica all'appunto non sta in una particolare forza o frequenza délia l.a pl. di debere, ma nella debolezza, nella situazione precaria, délia l.a plurale nell'italiano, e soprattuto délia l.a pl. nella coniugazione in -are: corne è stato notato da molto38, cantamo da cantamus près, consonava con cantamo perf. da cantà\vï\mus — è vero che non sempre interamente (col tempo è prevalsa cioè la forma con -m- raddoppiata), ma pure in misura sufficiente per esigere, a scopo di differenziazione, una modificazione in una delle due forme. La forma con -m- semplice non è rara nell'italiano antico39, ma essa rappresenta anche la fase anteriore riguardo a cantammo.40 La 1. a pl. près, fu dunque esposta di buon' ora all'attacco délia forma rivale (la l.a pl. del pass. remoto), e perciô più disposta ad accogliere una nuova desinenza che le altre einque persone non minacciate da imbarazzante omonimia tra esse e le corrispondenti persone del passato remoto. — La desinenza -iamo (-eamus) si offriva bene a sostituirsi alFequivoco -amo {-amus) appunto per la vocale a accentata délia I coniugazione; e — caete-rum censeo — perché già da secoli era usata, nel verbo debere, anche come desinenza dell'indicativo. Forse, dunque, la coniugazione in -are sarebbe stata la prima ad accettare, in massa, la desinenza -eamus, -iamo — oltre a certi verbi délia II e délia IV latine, che — come habeamus (p. es. 'abbiamo pazienza'), gaudeamus, saliamus — per il loro senso erano particolarmente suscettibili di confondere il congiuntivo e l'indicativo. Come, del resto, anche eamus délia IV. Un secondo dubbio ci si affacciô quando ci domandavamo se l'ordine cronologico in cui le singóle forme in -amo, -emo, -imo e quella in -iamo comparivano negli antichi testi italiana, confermasse o no la nostra ipotesi41, 37 Sotto questo riguardo, l'ipotesi che propone eamus come punto di partenza, incontra meno ostacoli, perché del verbo ire non si sono consérvate, al presente, che la 1. a e la 2. a plurale; inoltre, e soprattutto, quell'ipotesi si fonda sul congiuntivo esortativo, che ha la sua più forte ragion d'essere appunto nella 1. a plurale. 38 P. es. da F.G.Mohl, nella o. c. sulla l.a pl. nel gallo-romanzo, pp. 6e 71. 39 Si veda p. es. Monaci, Crestomasia.. .1, »Prospetto grammaticale«, p. 619. 40 Sul passaggio di cantavimus a cantammo i romanisti non sono unanimi. Me-yer-Lübke, Grammatca storica..., riduz. e traduz. di M. Bartoli, § 215: »Cant-ammo, sal-immo =j= cant-amus sal-imus sono foggiati su av-emmo (= hàblufimus) ecc., dove la m doveva, come pare, raddoppiarsi, perché seguiva a vocale breve«. Grandgent, Latino volgare, § 424, parlando délia caduta di v nei perfetti deboli, conclude: »Molto più tardi -ävl > âi, ävit > ait e -ai, -âvvmus > -ämus e probabilmente *-âmmus«, dopo aver constato (§ 423) che l'omissione di -v- aveva cominciato nella IV coniugazione tra due l: îvï > ii, »e, più tardi, [portó] alla riduzione di -ïvimus in -îmus e probabilmente *-lmmus (poichè l'allungamento dell'm potrebbe esser dovuto a compenso, o anche, forse, al desiderio di distinguere il perfetto dal presente)«. Rohlfs, Historische Grammatik... II, § 568: »Die erste Person des Plurals zeigt Wiedereinführung ['ristabilimento'] des v (cantavmus > cantammo), um den Zusammenfall mit dem Präsens (in alter Zeit cantamo) zu vermeiden.« Intanto, tutti sono d'accordo sulla priorità cronologica della forma con una -m- sola. 2 Lingüistica 17 Lingüistica XI se cioé dobbiamo fosse tra i piü antichi esempi di -iamo e se risaltasse tra essi per frequenza. Dobbiamo prima di tutto confessare che, non ostante i dati raccolti nei glossari e negld indici della Crestomatía... del Monaci, dei Testi fiorentini pubblicati da A. Schiaffini, dei Nuovi testi fiorentini di A. Castellani, non ostante le lettura di molti altri testi (p. es. áéíl'Antonlogia dei primi secoli... di Lazzeri), i nostri materiali non bastano per rispondere con sicurezza alia domanda posta. Anzi, aggiungeremo súbito che dobbiamo non ci pare essere negli antichi testi italiani tra le primissime forme in -iamo; per di piü, do-vemo pare essere, nei testi esaminati, piü frequente della forma dobbiamo. — íntanto, un po' di analisi — ma ci si impone un'analisi piü completa — fatta sugli elenchi delle forme in -iamo, -amo, -emo, -imo e su l'origine e il carattere dei documenti da cui gli esempi sono tratti, mi ha awertito che la statistica anche in questo caso, se vuole riuscire utile, bisogna che tenga conto di molte cose. Se in un documento di limitata estensione si trovano delle forme quali ábbiamo, sappiamo (accanto a averno e sapemo piü numerosi), mentre il verbo debere non compare sotto nessuna forma, questo non prova la prioritá di avere e sapere nell'uso della desinenza -iamo, perché non eselude affatto che l'autore del testo, ogni volta che gli toccasse di servirsi di questo verbo, pronuncerebbe »dobbiamo«,42 II fatto, poi, che in un documento del '200 gli abbiamo, siamo ecc. siano molto piü rari degli averno, semo dimostra seimpli-comente che l'oscillazione tra abbiamo e averno perdurava, che, insomma, dobbiamo < debeamus continuava ancora a esercitare il suo influsso, oppure che in una data regione (v. qui sotto) non avrebbe mai preso piede. In rela-zione a ció, faro osservare che anche il verbo gire, compresa la forma giamo, é »piuttosto raro« nei testi delle Origini conservati. Se debeamus nella funzione dell'indicativo, che si trova fin dal latino delPantichitá e poi in quello del Medio Evo, aveva mai ad agiré nei senso di attirare altri verbi nell'orbita della desinenaa -iamo, ció dovette aver luogo, principalmente, in quell'epoca in cui, come lingua parlata, giá regnava il volgare, del quale pero non si si sono consérvate che scarsissime tracce. Anche Bartoli, per sostenere la tesi di eamus come punto di partenza, alinde a questo periodo »preistorico« (Meyer-Lübke, Grammatica storica..., riduz. e traduz. di M.Bartoli, p. 180, n. 1): »Vero é che nell' italiano, per dir cosi, storico il verbo gire é piuttosto raro..., ma nei periodo »preistorrico« il no-stro g-iamo poteva essere piü frequente, tanto da avere Fefficacia che s'é detto«. A piü forte ragione noi possiamo ammettere tale efficacia per debere, debeamus, la cui esistenza e frequenza — come forma d'indicativo! — sono fatti accertati ed evidenti. « Un analoga domanda, o piuttosto la risposta negativa a tale domanda, ha giá fatto abbandonare a Bartoli e ad altri l'opinione che la forma siamo fosse il punto di partenza per la generalizzazione di -iamo. « Ugualmente, la forma dovemo e meno frequente di averno, soprattutto in documenti che, coniformemente al loro carattere, non fanno molto uso del verbo debere. 18 Stanko škerlj Alia fine, come ion arduo scoglio minacció la nostra ipotesi l'awerti-mento43 che debere non é nella maggior parte d'Italia l'espressione viva e »popolare« della necessitá, dell'essere obbligati, tenuti, costretti. La consul-tazione dell'.A/S non ha che confermato l'awertimento, almeno nelle grandi linee.44 Non é che debere manchi del tutto. La demanda dell'A/S (vol. II, carta 351): »bisogna restar dentro, accanto al fuoco«, ha anche una for-mulazione collaterale di senso leggermente cambiato; a quest'ultima, al punto 144, fu risposto: 'devíe [dovevi] star a ká', e ai punti 312 e 314: '1 dóa'; il punto 845 (in Sicilia) ha dato: 'divému'; ma queste siono isolette nel mare delle risposte con bisogna, si ha da, é da o é a. Anche la domanda VIII, 1657: »lascialo stare!«, ha súbito una piccola modificazione, ma di senso equivalente: »bisognava lascarlo tale quale era«; la risposta, al p. 286, suonava: 'az duíva lásal stá.. .'.45 La messe delle risposte con dovere é stata relativamente ricca al p. 1637 (vol. VIII), dove al di la della domanda primitiva, si chiedeva la »traduzione« di questa frase: »dovevate venire oggi«. Le risposte contengono il verbo dovere, in diverse forme fonetiche, nei punti: 133,160,172, 238, 286, 318, 367, 397, 520, 534, 582, 654. Ma la gran maggioranza oircoscrive l'idea di dovere con avere da.46 Non c'é dubbio: il verbo dovere é poco usato, almeno oggidl, nella viva lingua parlata in Italia, é poco diffuso nella maggior parte dei dialetti ita-liani47 Se é cosi — come spiegare il frequente uso di questo verbo nei testi del Medio Evo italiano (in continuazione dell'uso nel basso latino)? E come diffendere l'ipotesi che la forma dobbiamo < debeamus abbia sbalzato di seggio le desinenze originarie -amo, -emo, -imo per insediarsi nella 1.a pl. dell'indi-cativo (e congiuntivo) di tutte le coniugazioni? Debere come verbo servile, sotto la forma del congiuntivo nella funzione delFindicativo, appartiene fin dall'epoca postclassica principalmente a un speciale genere di scritti: ordinamenti, leggi, statuti, precetti. Ma in questo campo era allignato si rigogliosamente da espandersi anche in altri generi di letteratura. Sotto gli stessi aspetti questa perifrasi del congiuntivo esorta-tivo ci si presenta nell'antico italiano. Si puó supporre una rinascita autóctona della formula, in base a un idéntico processo psichico (l'infiltrazione del significato nella forma del verbo), — ma non é da escludere nemmeno la continuazione ininterrota dal latino tardo ai primordi delle lettere italiane.48 43 L'ho avuto, anche prima di aver consultato 1'4/S, dalla prof. Maria Corti: gliene sono molto grato. 44 Disgraziatamente le carte dell'Atlante che possono rispondere al nostro intéresse sono poche; le domande non sono redatte, né date le risposte, alio scopo di soddisfare al nostro bisogno di informazione. « La trascrizione delle risposte è semplificata. « Non ci tratteniamo in questo artieolo su dovere nel senso di 'esser debitore'. 47 Mérita di essere notato che l'ATS nelle »Tavole della coniugazione« (vol. VIII, cc. 1682 e ss.), dove sono elencate,' oltre ai paradigmi delle coniugazioni in -are, -ere, -ire, le forme del presente dei più noti e più caratteristici verbi: avere, essere, fare, dare, stare, andaré, sapere, vedere, potere, volere, dire e ancora qualcuno, — passa sotto silenzio doverel 19 Lingüistica XI Comunque, il quadro che offre a questo riguardo Tantico italiano, non diffe-risee essenzialmente da quello dell'epoca latina. II carattere dei testi in cui abbiamo raccolto i piü degli esempi é rimasto lo stesso: precetti, norme morali o professionali. Anche gli autori di quei testi, per lo piü anonimi, sono della mesedima specie: giuristi, grammatici, un veterinario, un ecclesiastico, dal lato latino; dal lato italiano, soprattutto notari e pretti — gente di medioere cultura, ma che nelle rispettive epoche, e in specie nell'alto Medio Evo e poi ai primordi dello scrivere italiano, rappresentava il piü attivo se non Túnico strato ¡sociale »letterato«. s in tali epoche che vengono a galla le piü numeróse e le piü ardite innovazioni linguistiche. Se sono cagionate da reali, autentici processi psichici o sotto la pressione di un sistema linguistico — Tammissione del congiuntivo del verbo debere-dovere alia funzione dell'in-dicativo fu l'efetto di tutt'e due i motivi — qualche volta attecchiscono — come (ich) will, ottativo in origine, nel tedesco —, qualche volta appassi-scono, tal altra volta attecchiscono parzialmente, come per l'appunto il congiuntivo di debere per l'indicativo. Di quest'ultimo la grammatica italiana — quando Tuso secolare si era cristallizzato in un sistema che a poco a poco poteva uguagliarsi alia grammatica latina — soppresse cinque persone del congiuntivo presente di dovere nella funzione dell'indicativo, per ragioni di chiarezza, ma ammise la 1. a plurale dobbiamo e, anzi, estese la desinenza -lamo a tutte le coniugazioni — di nuovo per ragione di chiarezza, cioé per differenziare la 1. a pl. del presente da quella del passato remoto. II verbo dovere come espressione della necessitá, dell'essere obibligati, non é »popolare« nell'italiano d'oggi, nella maggior parte delle regioni d'Italia; farse non lo é piü da molto tempo. Ma é stato molto usato in un linguaggio »técnico« in un época quando i testi di un certo contenuto e di un certo carattere rappresentavano una parte notevolissima dello scrivere italiano. Cosi un uso sintattico, una particolare forma morfologica, »illegittimi« da principio, si sono potuti insinuare nella lingua scritta nazionale, nella grammatica. Dato il rapporto specifico tra il toscano come dialetto e la lingua scritta letteraria italiana, non fa meraviglia che una forma che era stata propria del linguaggio scritto (ma non ancora letterario) fin dall'epoea »preistorica« del volgare in Italia, abbia preso piede appunto in quelTidioma che rappresentava l'humus da cui sarebbe sorto Titaliano letterario. Senza essere stato popolare e diffuso, Tuso del congiuntivo del verbo dovere in funzione d'indi-cativo poté farsi accogliere dalla lingua pratticamente scritta. Una prova di tale interferenza tra la lingua scritta e il toscano é ainche il fatto che in Toscana la desinenza -iamo é piü diffusa che in qualunque altra regione. 48 Per quel che riguarda i Capitoli della Compagnia di S. Gilio e gli Ordinamenti della Compagnia di S. Mario, del Carmine, A. Schiaffini, nell'Introduzione ai suoi Testi fiorentinil, p.XII, scrive cosi: »1 due Statuti di Compagnie religiose indub-biamente sono versioni piü o meno libere da testi in latino notarile; ma si tratta di quel latino appunto che, a sua volta, risente, — e solo a questo patto diviene strumento duttile e preciso, — un ben chiaro influsso dell'invincibile e prepotente volgare, cosi nel lessico come nella struttura sintattica«. 20 Stanko škerlj Un ultima questione: Come abbiamo ad immaginare l'estendersi della desinenza iamo agli altri verbi della prima e delle altre coniugazioni? In altri termini: quaü verbi debeamus avrebbe attirati per primi? Un punto di contatto fonético esisteva tra debeamus, oongiuntivo e indicativo alio stesso tempo, e i congiuntivi della IV (saliamus) della II fhábea-mus, gaudeamus) e di qualche verbo della III (sapiamus, JaciamusJ, i quali potevano scivolare, sulle orme di debeamus nella sfera deH'indicativo. Ma anche la 1. a pl. dei verbi in -are, -amus, per la sua á tónica, e dall'altra parte minicciata di essere scambiata con la 1. a pl. del passato remoto, si apriva al-l'infiusso di debeamus indicativo. Forse il congiuntivo del verbo debere, frequentissimo — negli »ordinamenti«, »capitoli« ecc. — in dipendenza dai verbi ordinäre e fermare, si é comunicato di buon' ora a questi verbi »intro-duttivi«: roriginario »ordinamo e fermamo«, innumerevoli volte ripetuto e sempre seguito dalle diverse forme del presente del verbo dovere al congiuntivo, avrebbe subito l'attrazione emanante dal modo che esprime la vo-lontá, il comando, la necessitá, cioé il congiuntivo, tanto piü che gli stessi »ordinäre«, »fermare« e sim. contengono le stesse idee. In fondo, casi si sarebbe soltanto ripetuto quello che é successo a debeo, debet, debemus ecc. che sono passati a debeam, debeat, debeamus: le forme dell'indicativo hanno ceduto alia suggestione del senso di questo verbo e delle frasi intere infinite volte ripetute, tanto da lasciarsi permeare fino al guscio. Concludendo, io propongo di ammettere debeamus come una delle sor-genti della desinenza -iamo all'indicativo. Non rinuncerei a quel che l'ipotesi di eamus puó contribuiré al chiarimento di dormiamo, cantiamo, vendiamo. Anzi, io allargherei l'ipotesi su qualche altro verbo della IV, II e III coniu-gazione che, simile in questo a iré, per il suo senso si presta in modo parti-colare all'uso al congiuntivo esortativo: saliamus, sentiamus e, si capisce, habeamus (p. es. »abbiamo pazienza«). Aocanto a questi, debeamus occupa una posizione particolare. La sua via, che llia condotto alia funzione dell'indicativo, é stata diversa dai passaggi degli altri verbi menzionati: é stata piü »interiore«, diremmo. E, soprattutto, essa é documentata, é un fatto reale, non una ipotesi. Se G. Paris ed altri si sono domandati come il congiuntivo siamo fosse scivolato al posto dell'an-tico indicativo semo, debeamus dä di tale passaggio l'esempio concreto, facilitando alio stesso tempo anche la spiegazione del processo. POVZETEK O nastanku končnice -iamo Končnici -iamo, 1. os. množ. v indikativu in konjuktivu sedanjega časa vseh konjugacij, iščejo lingvisti in zgodovinarji italijanskega jezika že dolga desetletja izvir in zgodovino. Da pripada -iamo prvotno konjuktivu IV., II in deloma III latinske konjugacije, o tem ni dvoma. Težava pa je bila v tem, kako dognati glagol (ali glagole), od katerega bi bila ta presenetljivo posplošena končnica lahko potekla, in zlasti v tem, kako pojasniti prehod konjuktivne oblike v rabo indikativa. V pričujoči razpravi zastopam mnenje, da je treba videti glavno izhodišče v obliki dóbbiamo, 21 Lingüistica XI oziroma v lat. debeamus, konjuktivu glagola dovere < debere. Prednost naše razlage je v tem, da ne stoji na hipotezi, temveč na dejstvih: oblika debeamus—dobbiamo — enako kakor druge osebe konjuktiva tega glagola — se namreč že od kasne latinščine dalje in v stari italijanščini resnično, efektivno rabi v funkciji indikativa (primer iz začetka IX. stoletja: »... per singulos annos reddere debeamus medietate vino puro ...«); in dalje v tem, da se da ta presenetljiva raba dobro razložiti, če se upošteva psihični proces: smisel tega glagola in celotne vsakokratne enunciacije — »mčranje«, »nujnost«, »predpis«, »zahteva« — vpliva na glagolsko obliko, prvotni, logični indikativ podleže smislu in se umakne konjuktivu. 22 CDU 808-441 Fr art ce B ezl a j EINIGE FÄLLE DES -S- : -eu- ABLAUTS IM SLA VISCHEN Im slavistischen so wie auch im komparativen linguistischen Schrifttum habe ich bisher keinen Hinweis darauf finden können, dass die in den baltischen Sprachen sehr häufig vorkommende Ablautalternierung -ö- in der Reihe der w-Diphtonge auch im Slavischen möglich ist. Diese Erscheinung ist kein spezifisch baltisches Merkmal, wie die früheren Linguisten gedacht haben. So behaupten H. Hirt und H. Amtz in den »Hauptproblemen der indogermanischen Sprachwissenschaft«, auf Seite 146, dass der Ablaut -ö- : -eu- viel häufiger vorkommt, als gemeinhin gedacht wird. Eine Reihe von Beispielen wird auch von H. Hirt in der Indogermanischen Grammatik II, auf Seite 64 angegeben. Doch befindet sich darunter kein slavisches Material. Selbstredend ist dieser Ablaut im Litauischen und Lettischen weit produktiver als in anderen indoeuropäischen Sprachen. Sehr vorsichtig äussert sich darüber Chr. S. Stang, Vergleichende Grammatik der baltischen Sprachen, Seite 47—48, der die Möglichkeit offen lässt, dass das -ö- wenigstens in einigen Fällen schon im Ürbaltischen aus dem -öu- entstanden ist; hinsichtlich der späteren, ausserordentlich produktiven Entwicklung pflichtet er ebendort, Seite 75 ff,, der Ansicht von J. Otrçbski, Gramatyka jçzyka litewskiego I, S. 181 und von A. Vaillant, Grammaire comparée des langues slaves I, S. 121 bei, dass das baltische -au- : -uo- eine Parallelbildung mit -ai- : -ie- und -ui-, dial. -uo- : alten -öi- darstellt. Bei der Arbeit am Etymologischen Wörterbuch der slovenischen Sprache überraschten mich einige Beispiele, die am leichtesten mit dem analogen Baltischen zu erklären wären. Meist sind es Wörter mit begrenztem Areal, die nicht in den allgemeinslavischen Ausdrucksfond gehören. Auf diesem Grund wurden sie bisher von der Fachliteratur wenig beachtet. Für die Bestimmung von balto-slavischen Sprachbeziehungen scheint es von grosser Bedeutung zu sein, dass alles Material, das für die Möglichkeit dieser Ablautalternierung spricht und das mit der vorliegenden Abhandlung keineswegs ausgeschöpft ist, möglichst bald gesammelt und allseitig ausgewertet wird. Durch genaue lexikologische Forschung ist in den letzten Jahrzehnten für eine Reihe von Mundartwörtern in verschiedenen slavischen Sprachen zweifelsfrei festgestellt worden, dass nicht zufällige Neubildungen, sondern ausserordentliche Archaismen diejenigen sind, die bis zu einem gewissen Gràd die üblichen Vorstellungen von der urslaviscLen sprachlichen Einheitlichkeit stören. 23 Lingüistica XI Mit einer bestimmten Reserve habe ich schon vor Jahren in Linguistica VIII, S. 63 auf die Vergleichsmöglichkeit zwischen dem sin. dial sas (m.) »Entsetzen«, V. sasiti, sasim »schrecken«, sasiti se (impf.), sasniti se, sasnem se (pf.) »erschrecken, sich fürchten« (Prekmurje) mit dem lit. suösti »jemanden belästigen, plagen, jemandem zusetzen«, suösis »Unruhe, Sorge, Kummer«, suoslys »Quälgeist, zudringliche Person«, suosle »Beschwerde, Ungelegenheit, Bemühung, Bürde, Last« hingewiesen. Das mazedonische saska »hetzen, beunruhigen, belästigen«, saskanje »Belästigung«, das der litauischen Bedeutung näher steht als die slovenische mundartliche Wortfamilie, war mir damals noch nicht bekannt. Durch die slovenisch-mazedonische lexikalische Parallele kann das ursla, *sasiti »beunruhigen« aus dem älteren *sös- mit viel grösserer Sicherheit rekonstruiert werden, was so wie das lit. suösti nichts anderes als eine Ablautstufe mit langem -ö- zum idg. "saus-, lit. saüsas »trocken«, sla. such-b neben *sus-, lett. sust »trocken werden«, sla. srbchnqti sein kann. Da der Pflanzenname Anemone, gr. anemöne aus dem griecMeschen änemos »Wind« vgl. sin. veternica, dt. Windrösslein abgeleitet ist, können zu ursla. *sasiti auch das sbk. säsa, big. sasän(k&), cech. und p. sasanka. ap. sasanki, sasenki »Anemone, Pulsatilla« gehören. Schwierig sind verschiedene Variationen dieses Phytonyms so wie das big. s-bsbnka, s-bsan, sbsenka, srhnkotka sin-s-yn-kotka und ähnliches, mähr, sisi-sisi, sesi-sosi, altp. sesenki, sesanki, ukr. son usw Doch können diese Schwierigkeiten wenigstens teilweise mit der Verflechtung von *sasiti und "s-bs-hchnoti mit einer Anlehnung an shn-b »Schlaf« erklärt werden; säe sind auch nicht grösser als bei der Etymologie von Duridanov, Studia lingu. T. Lehr-Spiawinski dedicata, S. 81 v., der dieses slavische Phy-tonym mit dem gr. souson »Lilium«, arab. susan, kopt. sosen, hebr. sösan, altägipt. s'ss'n »Lotos« verbindet. Dieser Ansicht von Duridanov pflichtet auch Machek, ESC2, S. 537 bei. Aber auch wenn die Pflanzennamen ausser acht gelassen werden, stellt das sin. sasiti, maz. saska neben dem lit. suösti ein interessantes Problem dar. Das lange -S- in *sös- ist älter als die Entwicklung im ursla. -ch- in such-b, Sbchngti. Deshalb kann das sin. rdh (Adj.) »locker, schwächlich, gebrechlich, zart, sanft, gelinde« (Gutsmann, Volkslied, oststeierisch, Prekmurje) neben dem heute mehr verbreiteten rähel »dasselbe«, V. rahliti, rahljäti »auflockern«, räsiti »lockern, schüren«, sbk. nordwestlich rahao, rahav, rahliti, rahljati »dasselbe« nicht aus *rbch- abgeleitet werden, wie Matzenauer, LF XVII, 199 gedacht hat, weil in den nördlichen slovenischen Mundarten -a- nicht aus -Tb/t-abgeleitet werden kann, man muss vielmehr vom ursprünglichen -a- ausgehen. Mit dem russ. dial. röchlyj »schwerfällig«, röchlja »unbeweglicher Mensch«, wr. röchlja »unordentlicher, unsauberer Mensch« aus *r-bch- (Vasmer, REW II 540) korrespondiert besser das sin. dial. rähek, rahak »abgeschmackt, fad« mit einem näher nicht bestimmten Areal, das sin. räh, rähel entspricht dem russ. rüchlyj, rfichlyj »locker, weich, mürbe, bröckelig«. Aus dem idg. *reu- »aufreissen, graben, raffen« (Pokorny, VWb. 868) ist mit verschiedenen Verlängerungen eine Reihe von baltischen und slavischen Wortfamilien des Typs ryti, rbvati, rom>, runo, rupa usw. abgeleitet, das *erew- 24 France Beslaj davon zu unterscheiden, bleibt streitig (Pofcomy, VWb. 332). Für das litauische ridušes »Skandal, Tumult, Verwirrung, Zerstörung«, das bedeutungsmässig dem sla. ruchb »Unruhe, Bewegung, Alarm« neben riäustis »streiten, zanken« entspricht, behauptet Fraenkel, LEW 727, dass es mit dem lit. räuti »raufen, rupfen«, lett. raut »reissen, raufen« und dem lit. räutis »einander an den Haaren reissen«, lett. rauties »zanken, streiten« verbunden werden kann. Büga, Rinktiniai raštai II, 357 zieht zum lit. riäuses auch das lit. ruösti »bereiten, in Ordnimg bringen, richten«, ruoštis »sich bemühen, sich beschäftigen, tätig sein, sich vorbereiten«, ruošus »emsig, eifrig, ordentlich«, ruoša »Vorbereitimg, Ansicht über das Hauswesen«, rüseti, rušeti »von grosser Geschäftigkeit und Bewegung erfüllt sein, wimmeln«, lett. rüoss, ruošs, ruosi, ruoši, rüosigs »geschäftig, rührig, tätig«, rüosities »geschäftig sein«. Doch während beim slavischen ruch-b gegen rušiti »bewegen, umstürzen, zerstören« keinerlei phonetische Schwierigkeiten vorkommen, muss bei dem baltischen Verhältnis der angegebenen Basen neben *reus- auch mit dem idg. *reuk'-, *reusk',- oder *reuk's- gerechnet werden (Büga, Rinktiniai raštai II 542; Mühlenbach-Endzelin, LDW III 528 geht für das lettische von -sk'- aus). In slovenischen Dialekten finden wir rühati »lockern, erschüttern, rühren« (oststeiererisch), rühati se »sich bröckeln, rieseln«, rühniti, rühnem »einbrechen«, rühma »Tummel, Auflauf, plötzlicher Sturm« (Slovenske Gorice), ruhmati »tosen, lärmen«, vgl. p. ruszyc, sik. rušit', nsorb. rušomaš »toben, lärmen«. Doch wegen des kirchensl. razdrušiti, razdrušati, razdryšati »evertere, destru-ere, abolere« mit dem Übergang -zr- > -zdr- dürfen der Bedeutungen wegen zu dem sin. rah, rašiti auch das sin. dial. razdräsati, razdrähati, rasdrdšati, razdrdšiti »lockern, auflösen, ungebährlich entblössen«, razdras (m.) »der ze-rissene Kleider hat« (Bela Krajina) und auch das sbk. razdras »koji je bez pojasa, koji je razvezan« hinzugezogen werden. Ähnlich gebildet ist auch das slm. zdrähati, zdrdsati »zerzausen, zerreissen«, zdräha »Zwist, Uneinigkeit« Zank«, gewöhnlich pl. zdrahe (f.), zdrahi (m.) »Klatscherei, Intrigen« aus *VhZ-d-rach- (so schon Pleteršnik, SNS II 907). Wahrscheinlich ist auch das sin. drahati »lose machen, lösen, ausschnüren, die Naht trennen, Zwist stiften« (Kobarid), dräsati »auflösen, aufbinden, aufschnüren«, drdsiti »sich entblössen« (Haloze), »die Naht auftrennen« (Rezija) wird nach einer falschen Dekomposition aus den obenerwähnten Kompositen abzuleiten sein und nicht miit dem čech. dräsati, p. drasnqc »kratzen« zu verbinden, wie das Machek, ESČ2, 126 getan hat. Letztere sind s-Intensiva zu drapati »kratzen«. Beim sin. (d)rasati kann man von *rös- ausgehen; wenn das jedoch mit sin. rah, rahel, (d)rahati in Zusammenhang gebracht werden soll, dann treten dieselben Schwierigkeiten wie bei den baltischen Wörtern mit -(i)au- gegen -wo- auf. Es muss eine Konsonantengruppe supponiert werden, die im Slavischen -eh.- ergibt, dies wird aller Wahrscheinlichkeit nach die Gruppe -ks-sein. Aus derselben idg. Wurzel gibt es noch lit. röke »Staubregen«, ruoknöti, roknöti »fortgesetzt nieseln«, rokineti »nieseln (von Sprühregen)«, neben raukas »Runzel, Falte«, rükti »faltig, runzelig werden« (Fraenkel, LEW 706,742). Ähnlich ist die Problematik der jeniger slovenischen Wortfamilie, von der heute in der slovenischen Schriftsprache nur jašek (m.) »Schacht« als Berg- 25 Lingüistica XI werksausdruck verwendet wird, zum ersten Mal belegt bei Vodnik neben Sek. Berneker, SEW I 32, führt nur die Bedeutung »Wasserbecken« an zugleich mit jaškica »Büchse, Gefäss« und leitet es von nhd. Asch »Gefäss«, ahd. asc »Schüssel, Becken, Boot« ab. Da es im Slowenischen kein einziges Beispiel mit dem Anfangs- ja- gibt für das ahd., mhd. oder nhd. a-, ist diese Etymologie mehr als zweifelhaft. Nur Siawski, SEP I 521 behauptet bei p. jaszcz »Butterbüchse«, dass das sin. jaškica »puszka« bestimmt ein Lehnwort aus dem Deutschen ist. Bei Pleteršnik kommt ausserdem auch sin. jaška »Erdvertiefung, Schachtel« vor neben jaeka »Grüblern, Lache, Herzgrube«, pl. jačke »Weichen, Dünnen (oststeierisch) und jaškica »Griffel« als botanischer Ausdruck. Unklar ist sin. dial. jaščar »Speisekammer« (kärntnerisch). Da das russ. jdščik »Kiste, Kasten«, altruss. ask-h, jask-b »Gefäss«, ükr. jascyk »Butterbüchse«, p. jaszcyk »Munitionskasten« (< russ.) aus dem altnord. askr »Holzgefäss«, eski »Korb, Schale« abgeleitet wird (Miklošič, EW 4,101; Berneker, SEW I 32; Vasmer, EEW III 503), scheint es keine Verbindung zwischen diesen Wörtern zu geben. Doch ist im Polnischen schon seit dem 17. Jahrhundert auch jaszcz »Butterbüchse«, dial. »Schüssel« belegt, und siawski, SEP I 520, der sich für keine der angegeben Deutungen entschliessen kann, führt noch wruss. jaška »czerpadlo uzywane w lažni«, an. Semantisch kommt das sin. jašek »Schacht« dem nsorb. jašk »Eingang in das Tönnchen, den Gamsaok und die Reuse oder den Fischkorb« sehr nahe, was Muka, SLR I 535 aus *jašt-bk-b ableitet, Machek, ESC 177 jedoch mit dem čech. jeskynš »Höhle, Grube«, slk. jeskyna neben jask »Tunnel« und dem p. jaskinia verbindet. Ausser Brückner, Slavia III 217 und SEP 200, der jaskinia und jaszcz verbindet, unterscheiden die meisten Autoren streng zwischen zwei verschiedenen Stämmen, von denen keiner zufriedenstellend etymologisch geklärt ist. Um nach den Bedeutungen zu urteilen, müssen sie sich im Slovenischen so verflochten haben, dass sie nicht mehr unterschieden werden können. Die Wortfamilie als lit. üoksas »Öffnung, Hohlraum, Höhlung in einem Baumstamm, Bienenstock, Schlosskammer am Gewehr«, lett. uoksts, üokst »Hintere, Vertiefung zwischen den Hüften, Scham«, uoksta »die vom Specht im Baum gemachte Höhlung, Ort, wo die Bienen sich niederlassen«, pl. uoksti »Fühlhörner der Insekten« neben uokst, uoksta »Spürbiene, Schnüffler«, uokstuöt »Platz für einen neuen Schwärm suchen«, ist auch in den baltischen Sprachen schwer zu erklären. Auch im Litauischen bedeutet uokstai »Spürbienen« und üoksauti »ansehen, spionieren, schnüffeln«. Fraenkel, LEW 1165 bringt diese Wörter mit dem lit. üostas, uostä »Flussmündung, Hafen«, lett. uosts, uosta »Flussmündung, Hafen«, uosleja »Gaumen« in Verbindung. Das ist ein Stamm mit dem langen idg. *öus-, *&us- »Mund, Mündung«, sla. usta, ustbna, ustbje, altpreuss. austo »Mund«, lit. duščioti »schwatzen«, lett. ausät »schwatzen«, aušigs »albern, unartig«, aükslejas, auksleji »Gaumen« (Pokorny VWb. 784; Fraenkel, LEW 26, 1167). Wegen der Häufigkeit des baltischen eingeschobenen Velars vor Konsonantengruppen des Typs -st-, -št- u ä., entspricht das ursla. *(j)ask-h dem Ver- 26 France Beslaj hältnis, wie es mit lit. plčkščias »flach, platt« gegen lett. pläskains »flach« vorlegt, oder im russ. ploskij, sin. ploskev, ploščat gegen plasti, (darüber Stang, Vergl. Gramm, d. balt. Spr. 110—111). Da das sin. -šk- auf -sfc- (Ramovš, HGr. II 293) zurückgeführt werden kann, bereiten auch die slovenischen Reflexe für das ursla. *(j)ask-b keine Schwierigkeiten. Der Bedeutung nach muss man für baltische und slavische Wörter vom ursprünglichen »Öffnung, Höhlung« ausgehen, kennzeichend sind auch semantische Parallelen zwischen dem lett. uoksts »Vertiefung zwischen den Hüften« und dem sin. dial. jaöke »Weichen, Dünnen«, vergl. auch sin. teščina, tešina, tišina »Weiche« gegen lit. tuštimai, tuščimai, lett. tukšumi »Weichen« oder sin. slapina »Weiche« (Gutsmann, DSWb., 189, 428) gegen lit. slepsna »Weiche« (čech., p., sbk., sin. sla-bina »Weiche«). Auch sin. jaškica »Blumengriffel« kann einigermassen den schwierigen Bedeutungsübergang bis zum lit. uokstai, lett. uoksta »Spürbiene, Suchbiene« erklären. Bedenken gegen eine solche Deutung des ursla. *(j)aski> erwecken die Beispiele wie das lit. üodas »Mücke«, lett. uöds, uoda »Mücke« gegen russ dial. vadenh »Bremse«, wruss. vadzenh »Bremse« und sin. dial. vada »Regenwurm« (Straža na Dolenjskem), »Lockspeise, Köder« (Gorenjska, Dolenjska), russ. dial. uvada, privada »Lockspeise, Köder« (Novgorod) und allgemeinslavisch ovad-b, obad-b »Bremse, Ungeziefer«. Das wird auf dem Stamm *ed- »essen« (Fraenkel, LEW 1164) zurückgeführt, doch gibt es auch lit. dial. vüodas »Mücke«. Beachtenswert ist auch das heutige schriftsprachlich slovenische zasäöiti (pf.) »ertappen, erwischen, erhaschen, betreffen«, dial. usäciti »erhaschen«, vereinzelt sačiti (impf.) »fangen«. Miklošič, EW 287 bringt sačiti, ohne die Bedeutung anzugeben, mit sak-b »Fischemetz« in Zusammenhang. Da Pleter-šnik, II 448 auch das lokale sačiti »mit dem Netze Fische fangen« (Kostanjevica) anführt, wird Miklošič nur diese bei Erjavec vorkommende Angabe zur Verfügung gestanden haben. Er bezweifelt nämlich an derselben Stelle, dass zu sak-h auch das russ. prosäk »Seilerbahn, Reeperbahn« neben »Klemme, Verlegenheit, missliche Lage« gehören könnte, vgl. in der Redensart popästb v prosäk »in eine missliche Lage geraten«, was den im Slovenischen belegten Bedeutungen schon ziemlich nahe kommt. Preobraženskij, ESR II 245 und Vasmer, REW II 442 überbrücken die Bedeutungsspanne des russischen prosäk mit der technologischen Erklärung, »dass die ganze Seilmaschine in Unordnung gerät, wenn ein Zwirn in den sučevo genannten Teil gerät, da er alle Strähnen nach sich zieht«. Damit bleibt aber selbstverständlich der Zusammenhang des russischen prosäk »Reeperbahn« und sak-b »Netz, Sack, Tasche« noch ungeklärt; letzteres wird meist als Lehnwort über das lat. saccus »Sack« oder gr. säkkos aus dem hebr. (phöniz.) sag »Sack, Kleid, härener Stoff« (Kiparsky, GLS 129; Vasmer, REW II 569 mit Literatur) angesehen. Nur Machek, ESC2 538 unterscheidet sak-b »Sack«, was mit germanischer Vermittlung sin. žakelj, čech. žok, p. žak, wruss., russ. žak und sak »Netz« ergab, < *saky, G. sak-bve, was über ein nicht überliefertes germanisches Ausgangswort (nhd. Sack, Trampsack »Netz«) 27 Lingüistica XI ins Slavische aus dem lat. sagend, gr. sagene »Netz« vermittelt worden sein soll. Lehnwörter aus Fremdsprachen erweitern in der Regel ihre Bedeutungsspanne später nicht. Deshalb kann man bei dem russ. prosäk »Seilerbahn, Reeperbahn« sofort an einen Zusammenhang mit dem russ. skatb, sku »Seil zusammendrehen, zwirnen, ausrollen«, čech. skäti »zwirnen«, ursla. *s-bkati *s-hkg, sin. vielleicht škabica »Haftel, Knopfloch« (Bela Krajina) < *s-bkhba denken. Mit einem langen -ö- Vokalismus ist dieser Stamm im M/t. suökti pri-suökti »zwingen, nötigen, überreden« (Leskien, Abi. 311; Büga, Rinktiniai ra-štai I 383; Fraenkel, LEW 942) belegt. Zwar würde dem lit. sükti »drehen, winden«, lett. sukt auch »schwinden, entwischen« der Bedeutung nach eher das allgemeinslavische sukati »drehen, winden« entsprechen, während das lit. saukti »gedehnt singen, reden« bedeutet. In den baltischen Sprachen ist auch die lange -ü- Stufe bekannt, vergl, lit. sukis »Wendung, Umdrehung«, sükurys »Kreisel, Wirbel, Strudel« für die in slavischen Sprachen keine Reflexe zu finden sind ausser dem sin. dial. sikec, sikälo »unruhiger, unbeständiger Mensch«, sikav (Adj.), »flatterhaft« (Posočje). Russ. sykatb »zwirnen« ist nur eine Iterativverlängerung zu s-hkati. Inwiefern das überlieferte baltisch-slavische *sök- die europäischen Kulturlehnwörter des saccws-Typus beeinflusst hat, kann nicht mit Sicherheit bestimmt werden. Die Bedeutung sak-h »Netz« kann selbstverständlich autochton slavisch sein und das nhd. Sack, Trampsack »Netz« könnte durch slavische Beeinflussung des althochdeutschen Lehnwortes sac »saccus« entstanden sein. Dadurch entfallen auch die phonetischen Schwierigkeiten der bisherigen Deutungen, selbstverständlich unter der Bedingung, dass die lange -ö- Ablautstufe von u- Diphthongen in der Slavistik nicht prinzipiell zurückgewiesen wird. Ich habe vier Beispiele gewählt, die wenigstens in zwei slawischen und zugleich auch in den baltischen Sprachen vorkommen. Besonders in den slo-venischen Dialekten gibt es noch viele isolierte verdächtige Wörter; ohne jegliche slavische Parallele bleibt eine Rekonstruktion des urslavischen Vokalismus jedoch immer zweifelhaft. So zwingt sich z. B. beim sin. dial. rabljäti »herumschlagen« (Dolenjska) der Vergleich mit dem lit. ruöbti »durchstossen, durchstechen« auf, doch kann der Zusammenhang nicht geklärt werden, solange kein anderer slavischer Reflex aus dem Stamm *röb- evidentiert ist. Auf die Stufe *rub-, z. B. rubineti »einkerben« ist das sin. rba, rbina, »grüne Nussschale«, zurückzuführen, bei Gutsmann im 18. Jahrhundert arba »Muttermund«, sbh. rbina »Scherbe«, vielleicht entstammt auch das sin. dial rucek »entkörnter Maiskolben« (oststeierisch) dem "rubhCb zum lit. išraubti »auskerben«, doch ikann das unterkr ainische rabljati phonetisch auch auf *rgb-zurückgeführt werden. Rekonstruktionen isolierter Wörter können irreführend sein. So habe ich vor Jahren in »Linguistica« I 50 und »Slovenska vodna imena« I 137, das nur in einer Quelle belegte lokale dial. Appelativum dobra »eine wasserreiche Gegend« (Pohorje) mit den slovenischen Hydronymen Dobra in Zusammenhang gebracht. Doch wird im Dialekt von Pohorje das lange -ä- zu -o- labialisiert 28 France Beslaj (Ramovš, HGr. VII 166) und die entsprechende Rekonstruktion würde ~dabra lauten. Dieses Appellativum ist im bairischen lokalen Lehnwort aus dem Alpen-slavischen Daawer »felsiger Talschluss« (osttirolisch, nordkärntnerisch) belegt, ferner in den kärntner Toponymen Daher (Kranzmayer, Ortsnamenbuch von Kärnten I 133) und vermutlich auch in den tiroler Toponymen T aber, Taberer (Mitterrutzner, Progr. Gymn. Brixen, 1879). Das bairische lange -ä-kann nicht das slovenische -t- substituiiren, deshalb kann Kranzmayers Zurückführung auf das slavische dbbrh, im dt. Toponym Tiefer, nicht angenommen werden. Es darf nur das urslavische *dabra supponiert werden, das der Ablautstufe nach dem lit. düobti »aushöhlen, einen Weg ausfahren«, duobe »Grube, Loch«, duobä »Höhlung im Baumstamm«, lett. duöbß »eingesunken, tief, hohl«, in der Toponomastik Duobe, preuss. Tpn. Doben, Dobrin (Fraenkel, LEW 108; Miihlenbach-Endzelin, I 531) entspricht. Nicht minder überraschend sind Beispiele der -ö- Ablautstufe in einer Reihe von -ž- Diphthongen. So kann das sin. dial. pozad »Herd«, im 18. Jahrhundert pusad (Gutsmann), allen heute zugänglichen Daten nach weder aus *po-Zbd-b noch aus *pozed~b abgeleitet werden. Bajec, Besedotvorje I, 27 ist zwar der Meinung, dass es sich um ein roimanisches Lehnwort aus einer unbekannten Vorlage handelt, doch darf man nicht vergessen, dass es in der Bedeutung von »Herd« auch das Wort zid gibt (Podjuna, Pohorje). Die Formen pu&zath, pu&zad, puzad sind noch heute in Zilja und Rož (T. Logar, Material für das LAS) bekannt, in der Rezija pözet. Pleteršnik, SNS gibt pozad auch für Notranjsko an. Da die kärntner Formen na puzeds, pod puzedo, so wie auch pözet aus Rezija am besten mit einem Mundartumlaut zu erklären wären, muss als Ausgangspunkt das ursla. *zad~b gewählt werden. Dafür spricht auch der Akzent, der sich nur aus der Präpositional Verbindung *nä pozade nach dem Gesetz von šahmatov entwickelt haben kann. Das sbk. dial. zad »Mauer« (črna gora) wird auf *Zhdb (Vasmer, REW1450) zurückgeführt, es ist jedoch nicht auszuschliessen, dass es der Herkunft nach der slovenischen Form entspricht, die auf *g'hödh- (Bezlaj, Onomastica jugoslavica II, 67) hinweist. Lit. zidinys »Herd, Feuerstelle, Kamin« neben žaidas, žaistis, žaizdras »Ofen, Herd« aus *g'heidh- kann zwar mit anderen Stämmen durcheinandergebracht worden sein, vgl., lit. priezdä, priežeda, priežada, doch gibt es im Slavischen keine für solche Kontaminationen geeigneten Stämme. Aüch das serbokr. dial. lati lam »wollen« scheint auf ähnliche Weise zu erklären sein. Das Zeitwort ist nur in der Redewendung ko što la »nach Belieben, ut lubet, utrum praeplacet« (Karadzic, Nar. posl. 150; Rječmk 290, 330; ARj V 859) belegt und in der Mundart zweier serbischer Sprachinseln in Rumänien in der Gemeinde Svinca und in den Ortschaften Carasova, Lupac, Clocotici, Jabalcea, Nermed, Rafnic und Vodnic. Nach Angaben des rumänischen Slavisten Mile Tomič werden dort der Infinitiv lat, Ptc. lal, lala, Präs. lam, las, la (Sg.), lamo, late, la(ju) (PI.) ; aor. lado, lade lade (Sg.) ladomo, ladofsjte, ladoše (PI.) gebraucht, ferner eine unflektierte Form la für alle Personen und Zahlen im Singular und Plural, in Modalkonstruktionen mit da, z. B. ja la da pijevam, sam sam la da pijevam. P. Ivič, JF XVIII 319 weist auch auf die Formen laxa »hoče« in einem Brief aus dem 15. Jahrhundert hin, 29 Lingüistica XI doch gibt er den Zusammenhang leider nicht an, was eine nähere Untersuchung der Funktion möglich gemacht hätte. E. Petroviči, Graiul Carasovenilor, 1935,191 hat angenommen, dass das Präsens lam eine Weiterentwicklung des älteren *Vblam darstellt, das soll nach dem Übergang in die andere Konjugation ein Reflex des altkirchenslavischen dovbleti, dovhljq, dovblješi »sufficere, contentum esse« gewesen sein. Dieser Deutung pflichtete auch P. Skok, JF. XVIII 257 bei. Doch geben schon die Aoristformen Grund für die Vermutung, dass es sich um ein älteres athematisches Präsens *(v)lömi handelt, mit einem dem damb, vem-b, jemi, analogen Aorist. Das altgriechische len »velle« (dor.) mit dem Präsens lö (leö), leis, lei, lömes, lönsi, lema wird auf das idg. *le(i)-mi zurückgeführt (Schwyzer, Griech. Gramm. I 678; Pokomy, VWb. 665). Dieses ~le(i)-mi dürfte aus dem älteren *ule(i)-mi (Pokorny, VWb. 1137) auf das idg. "uel- zurückzuführen sein. Das inflexibile serbokr. la dürfte ein Überrest des alten Aorist- Imperfekt *lachb, *la, xla analogisch dem bechb sein; die 2. und 3 Person des Singulars be mit modaler Funktion ist in den Freisinger Denkmälern belegt und ist in inflexibiler Form als modale Partikel im slovenischen Nordosten überliefert, sie ist im gailtaler Dialekt verbreitet mit dem Präs. sem in besem in echter Konditionalfunktion. Wenn also ein Ablautsverhältnis -oi- gegen -ö- in slavischen Sprachen supponiert werden kann, wird es auch in anderen Fällen enthalten sein. Das allgemeinslavische snaga, es fehlt nur im sorbischen und weissrussischen, scheint auf dieselbe Weise zu erklären sein. Selbstverständlich können wegen der verschiedenen, schwer zu vereinigenden Bedeutungen bei snaga auch mehrere homonyme Stämme supponiert werden. Brugmann, VGr. I2 572 hat snaga »Reinlichkeit« mit dem griechischen Epitheton negdteos hitön, Tcre-demnon mit der vermutlichen Bedeutung »hübsch, sauber« (ebenso Boisacq, DEG 668; Walde—Pokorny, VWb. II 694) aus *snägo- verglichen. Doch operiert Pokorny, VWb. nicht mehr mit diesem Stamm. Mladenov, EBB 596 kehrte zur Ansicht von Miklošič, SEW 312, zurück und zieht das alti. snäyate »badet sich«, snäyeite »wäscht, reinigt durch Spülen«, griech. nehö »schwimme«, näö »fliesse« hinzu. Vasmer, REW II 679 ist skeptisch, doch gibt er keine andere Deutungsmöglichkeit an. Machek, ESC 461 und ESC2 564, geht für die Bedeutung snaga »Bemühen, Streben« vom lit. nogetis »Lust haben, gern wollen«, man nögis »ich bekomme Lust« aus. Fraenkel, LEW 506, deutet dagegen nogetis als junge Wortvertflechtung von noreti »wollen« und mageti »gefallen« (siehe auch Büga, Rinktiniai raštai II 47). In der slovenischen Schriftsprache gibt es heute snaga »Sauberkeit, Reinlichkeit«, snažen »sauber, rein, hübsch«, V. snažiti, snažim »säubern, reinigen, putzen«. In derselben Bedeutung gibt es das serbokr. snäga in den Kajkaver- und Cakaver- Mundarten der Inseln Cres und Krk (P. Skok, JA XXXIII 370) und in den Wörterbüchern von Habdelič, Belostenec, Jambrešic und Voltiggi. Es ist auch das čech. dial. osnažit' »reinigen«, p. osnazyc »reinigen«, kaschubisch snäzi, snažni »hübsch« belegt. Bei älteren slovenischen Autoren vom 16. bis zum 18. Jahrhundert (Trubar, Dalmatin, Megiser, Gutsmann) bedeutet snaga »ornamentum, omatus«. Nur in Prekmurje ist noch 30 France Beslaj die Bedeutung »Zierde, Schmuck« belegt, so wie auch noch bei Belostenec »nitor, nitiditas, elegantia«, doch ist die Bedeutung »lepor, lepos, conciimitas« im Slovenischen unbekannt. Auch polnisch bedeutet jedoch snaga »Zierde, Schmuck«. Nur bei Krelj im 16. Jahrhundert kommt snažen »eilend, weidlich« vor, vgl. kirchenslavisch snaga, snagota »celeritas«. Bulgarisch und Mazedonisch herrscht heute die Bedeutung snaga »corpus, Leib«, snažen »beleibt« vor, die ostserbokroatisch nur sporadisch auftritt. Die Bedeutungsnuancen »vis, robur, fortitudo, virtus« kommen im Serbokroatischen, Ukrainischen und Russischen vor. Die Bedeutungen »conatus, contentio« herrschen im Polnischen, Slovakischen und Tschechischen vor, sie sind jedoch auch im Russischen und Serbokroatischen belegt. In nordwestlichen russischen Mundarten (Pskov) bedeutet snäznyj »bequem«. Leider wäre es jedoch nur auf Grund von viel umfangreicherem historischem und dialektologischem Material, als es uns heute zur Verfügung steht, möglich, diese interessanten semantischen Areale näher zu präzisieren. Trotz allem zwingt sich der Vergleich mit der etymologisch ebensowenig geklärten und bedeutungsmassig ausserordentlich verzweigten lettischen Wortfamilie sniegt gleichermassen auf »reichen, geben, langen, hinreichen, langen wonach, sich strecken, streben« (Mühlenbach-Endzelin, LDW III 978), sniegties »reichen, langen« neben sniegt und snaigstit, snaigstities »hin und her reichen« (Büga, Rinktiniai raštai II 459) auch sneg t, snegties, snekt, sniekt, sniekties mit denselben Bedeutungen. Seinerzeit hat Fick, VWb. III 4, 522 dies mit dem altnord. snikja »trachten nach«, altengl. snican »schleichen«, irisch snighim »ich krieche« in Zusammenhang gebracht. Lettisch stimmt mit dieser Wortfamilie der Bedeutung nach naigät »verlangern, dürsten nach, unnütz treiben«, naigs »schnell, flink, hurtig, fix, schlank, fest, schön«, naigls »nett, sauber, schlank, rasch, bereit« überein, was Bezzenberger und Fick, BB VI 238 und Mühlenbach-Endzelin, LDW II 689 mit dem slavischen nega »voluptas«, V. nšgovati »desiderare« verbinden. Im Slovenischen sind nega »Pflege«, nežen »zart«, V. negovati »pflegen« slavische Lehnwörter. Volkstümlich kommen nur neza »ein verweichlicher Mensch« (Gorenjsko) und wahrscheinlich auch bodeča neža, nežje, neževje »Carlina acaulis« vor, im 18. Jahrhundert neshuvje »Wetterblume« — wegen deren Empfindlichkeit für Wetterveränderungen. Jarnik, Versuch 80, zählt dazu auch das dial. meševen »zärtlich« meševnost »Zärtlichkeit« mit der Ersetzung des Anfangs -n- mit -m-. Den slovenischen volkstümlichen Formen kommt das ukr. neha »Weichling« nahe. Interessant ist das rumänisch, dial. nege »contumax«. Das serbokroatische nega, njega »Pflege«, nješan »zart, delikat«, V. nje-govati »pflegen« ist nur im Osten und Süden verbreitet. Maz. nega »Pflege« ist eine schriftsprachliche Entlehnung aus dem Serbokroatischen, bulg. nega »Gefühl der Zufriedenheit« dagegen aus dem russ. nega »Wohlleben, Verzärtelung«, ukr. niha, wruss. neha. Tschechisch nšha, n6žny ist ein Lehnwort aus dem Russischen (Machek, ESC2 394), ebenso p. niega (Brückner, SEP 681); 31 Lingüistica XI dagegen sind die Anthroponyma des Typus Neg- und -nšg-b auch im Westslavischen und im gesamten südslavischen Gebiet verbreitet. Trotzdem dass die weitere Verbindung mit dem ai. snihyati »er liebt« (Miklošič, EW 215; Machek, ESC? 394) einigen Forschern zweifelhaft erscheint (Vasmer, REW II 207 mit Literaturangabe), lassen die lettischen Beispiele die Möglichkeit eines Anfangs- s- mobile vermuten; das Verhältnis *snöga : *(s)noiga und -snega : *(s)neiga ist semantisch begründet. Selbstverständlich entstehen Schwierigkeiten durch die Tatsache, dass für die slavischen Beispiele der Ablautalternierung -ö-: -oi-/-ei- keine baltischen Vergleichsmöglichkeiten bestehen, wie sie für diselben Stämme mit der Alternierung -ö-: -ou-/-eu- vorhanden sind. Es bleibt zu hoffen, dass die genaue Erforschung der gesamten slavischen Lexik genügend Material in wissenschaftliche Evidenz bringen wird um eine sicherere Beurteilung dieser bisher in der Slavistik nicht beachteten Erscheinungen zu ermöglichen. POVZETEK Prevojno razmerje -ö- : -eu-, ki je pogostno v baltskih jezikih, doslej še ni bilo opaženo v slovanskih. Vendar je tudi v slovanskih jezikih nekaj primerov, ki jih je težko pojasniti na drug način. Tako sin. dial sasiti »strašiti, bati se« in mak. sasica »vznemirjati« proti lit. suösti »vznemirjati, obteževati«, kar razlagajo kot prevoj k lit. sausas »suh«, slov. such-b. Morda spada zraven tudi rastlinsko ime sbh. sasa, č. sa-sanka »Anemone«. Tudi sin. rahel, rahliti, rahljati, rašiti v primerjavi z r. ruchlyj in rychlyj v istem pomenu ne moremo izvajati iz *r-bch-, ampak le iz *rökso-, prim. lit. ruosti »pripravljati, urejati, truditi se«. Pri sin. zdräsati, zdrdhati »razvezati, razgaliti« imamo opraviti z vrinjenim -d- in lahko izhajamo iz *rös- : *röks-. Sin. jašek »rov« z razvito besedno družino izvajajo iz stvn. ase, r. jaščik pa iz nord. askr. Oboje je fonetično in semantično mogoče uskladiti z lit. ilokšas »votlina, odprtina« poleg stprus. austo »usta«. Pri tem je zanimiva sematična zveza med sin. dial jačke »lakotnice« in lot. uoksts »votlina med kolki« in med sin. jaškica »cvetni vratič« in lit. uokstai »čebela nabiralka«. Manj jasno je sin. zasačiti »zalotiti, ujeti«, r. prosdk »naprava za sukanje vrvi«, popasth v prosdk »priti v škripce« in lit. suökti »prisiliti, primorati«, proti lit. saukti zateglo peti (= zavijati) in siikti »sukati«. Tudi rekonstruirano izhodno sin. *dabra »deber« se ujema z lit. duobe »jama, jarek«. Najdemo pa tudi nekaj slovanskih primerov prevoja -o- proti -ei-, ki pa nimajo baltskih pararel. Tako sin. pozad »ognjišče« iz *zöd- poleg zid »ognjišče«. Tudi sbh. lam »hočem« iz atem. Heimi, gr. leö »hočem« je mogoče razložiti na isti način. Mogoče je tudi misliti na isto izhodišče pri slov. snaga in nega, kjer lotiške dublete in in pomeni dovoljujejo rekonstrukcijo *snög- : *(s)noig-. 82 CDU 808-541.2 : 809.12-541.2 V ar ja Cvetko SLOVANSKO—ST. INDIJSKA IZOGLOSA ZA POJEM »CAS« F. Bezlaj v rokopisu svoje kritike Skokovega etimološkega slovarja sbh. jezika, ki bo izšla predvidoma v Etimologiji VII, Moskva, navaja sbh. dial. čelo »dan, dvanajst ur«, dan i noč su dva čela (Risanj, Boka Kotorska) in v črni gori kolje »Zeit, freie Zeit, Müsse«, dökolica »Müsse«, kar po njegovem mnenju »nekoliko dvomljivo izvajajo iz pronominalne osnove kolš, koli »quantum« (Berneker, I 674; Baric, Priloži XV 287; Popovič, Gesch. 540), ne da bi vzel kdo v pretres tudi čelo« in »je mogoče misliti na slovanski arha-izem iz ide. *qwel- »örtlich und zeitlich fern«. Ob tem se ponuja lepa primerjava s sti. kalá- m. »čas, določen čas, smrt, usoda«. Mayrhofer, Kurzgefasstes etymologisches Wörterbuch des Altindischen I 202 si., sti. kalá- izvaja iz ievr. *qwel- »obračati se« in primerja isti pomenski prehod pri stcsl. vrém§ »čas« k ievr. *wert- »obračati, vrteti se«, če v tej povezavi pri *qwel- izhajamo iz pomena »obračati se«, je bil prvotni pomen verjetno »(določen) čas«, čemur ustreza pomen sti. kalá-, deloma sbh. kolje in morda sbh. čelo, če bi imelo osnovni pomen »določen čas« (prim, dalje alb. dite »dan« k ievr. *di-t- »Zeitabschnitt«). Fonetično je sti. kalá- razložljivo < ievr. *qwolo- (sti. -S- < *-o- v odprtem zlogu kakor sti. jänu »koleno« : gr. góny; sti. däru »les« : gr. dóry idr.; prim. Brugmann, Grdr.2 I 139. Drugače Thumb-Hauschild, Handbuch des Sanskrit3 I, 1 220 si.). Tudi sbh. kolje in dökolica je verjetno z znanima su-fiksoma -je in -ica razširjeno iz debla *qwolo- in tako prvotno identično s sti. kalá-, medtem ko mora biti sbh. čelo staro deblo na -es- < *qweles-(prim. za d. -es- Brugmann, Grdr.2 II 1 524 in za vokalizem d. -o- ibid. 148 ss.). Slovansko-st. indijska izoglosa je zlasti zanimiva, ker so za pojem »čas« posamezni ievr. jeziki večinoma razvili posebne izraze: stcsl. čas-b »čas, ura«, s. prus. kisman »Zeit, Weile«, alb. kohe »čas, vreme« < ievr. *qe-sk'- (čop, Lingüistica IX./2, Ljubljana 1969, 188 ss.). lat. tempus »Zeitspanne« < ievr. Hempos- »Spanne« k Hemp- »raztezati, vleči, napenjati«, kar je razširjeno < Hen- »isto« (Pokorny, IEW 1064). sti. tan- »Ausbreitung, Fortdauer, Fortpflanzug, Nachkommenschaft«, s. ir. tan »čas« < *t'-nä »Fortdauer, zeitliche Ausdehnung« k ievr. Hen- »raztezati, vleči, napenjati« (Pokorny, IEW 1065 si.). got. peihs (< Hénkos), pi. peihsa n. »čas« < Hen-k- »vleči, raztezati, Zeitspanne« (Pokorny, IEW 1067). 3 Lingüistica 33 Lingüistica XI got aiws m. »doba, večnost«, stvn. ewa f., lat. aevus m., aevum n. »življenjska doba, večnost«, aetas f. < aevitas »doba«, alb. eshe »doba, razdobje« < *aiwesjä, gr. aiön m. »Leben(szedt), Zeit(dauer), lange Zeit, Ewigkeit« < *aiwön (Frisk, GEW 149), vse k ievr. *aju-, *aiw- »življenjska moč« (Pokorny, IEW 17). nem. Zeit, stvn. sit, ags. tid »čas, ura«, arm. ti, gen. tioy »starost, leta, dnevi, čas« < ievr. *di-t- »Zeitabschnitt« k *däi-, *di- »deliti, rezati« (Pokorny, IEW 176). Po Kluge-Mitzka, Etymologisches Wb. der deutschen Sprache 18 880, je s stvn. sit izvengermamsko najbliže sorodno alb. dite »dan«. Na germ. Hi- gre tudi s. angl. tima »čas, obdobje, življenjska doba«, angl. time (Klein, A Comprehensive Etymological Dictionary of the English Language II 1618). Nejasno je gr. khrönos m. »(bestimmte) Zeitdauer, Zeitverlaiuf, Zeit, Lebenszeit, Zeitgrenze« (Frisk, GEW II 1122) in prav tako gr. kairös m. »odločilni, primerni trenutek, letni čas, čas« (Frisk, GEW I 755). St. indijsko-slovansko izogloso sti. käla-, sbh. dial. kolje, dökolica, čelo lahko uvrstimo med redke arijsko-slovanske izoglose, ki jih navaja Porzig, Die Gliederung des idg. Sprachgebiets 168 : sti. küha, gav. kudä »kje«, stcsl. krbde, »kje, ker«; sti. savyä-, av. haoya-, stcsl. šujb »levi«; av. baya-, perz. baga-, stcsl. bogt, »bog«; oset. taxun »tkati, stcsl. tbkg »tkem«. ZUSAMMENFASSUNG EINE SLAWISCH — ALTINDISCHE ISOGLOSSE FÜR »ZEIT« In dem Manuskript seiner Besprechung des etymologischen Wörterbuches der serbokroatischen Sprache von P. Skok, die voraussichtlich in der Etimologija VII, Moskau, erscheinen wird, führt F. Bezlaj das sbkr. dial. čelo »Tag, zwölf Stunden«, dan i noč su dva čela (Risanj, Boka Kotorska) und in Montenegro kolje »Zeit, freie Zeit, Müsse«, dökolica »Müsse« an und vermutet den slawischen Archaismus aus dem idg. "q^el- »örtlich und zeitlich fern«. Mit diesen sbkr. Wörtern lässt sich das ai. käld- »Zeit, Zeitpunkt, Tod, Schicksal« in Zusammenhang bringen, was Mayrhofer in seinem Kurzgefassten etymologischen Wörterbuch des Altindischen von dem idg. *q*el- »sich drehen« ableitet und dabei denselben Bedeutungsübergang für das aksl. vrem$ »Zeit« zum idg. *wert- »sich wenden, sich drehen« anführt. Gehen wir bei *qwel- tatsächlich von der Bedeutung »sich drehen« aus, so musste die Bedeutung ähnlich wie noch im ai. käld- ursprünglich auch im sbkr. »(bestimmte) Zeit« sein. Das ai. käld- lässt sich aus *q^olo- erklären (ai. -ä- < *-o- in offener Silbe). Die sbkr. kolje und dökolica sind vermutlich mit bekannten Suffixen -je und -ica aus dem Stamm *q^olo- orweitert und demnach in der Grundlage mit dem ai. käld- identisch, während bei dem sbkr. čelo der ursprüngliche Stamm *gv~eles- vorliegen muss. Die slawisch-altindische Isoglosse sbkr. kolje, dökolica, čelo, ai. käld- ist besonders interessant, weil gemeinsame Ausdrücke für den Begriff »Zeit« selten sind und so einzelne Sprachen dafür grösstenteils besondere Ausdrücke entwickelt haben (vgl. aksl. čas-b »Zeit«, apreuss. Msman »Zeit, Weile«, alb. kohe »Zeit, Wetter« < idg. *qe-sk'-\ lat. tempus zum idg. Hen- usw.). Die erwähnte Isoglosse können wir zu den seltenen arisch-slawischen Isoglossen zählen, die von Porzig, Die Gliederung des idg. Sprachgebiets 168, angeführt werden (ai. küha, gav. kudä »wo«, aksl. kbde »wo, weil«; ai. savyä-, av. haoya-, aksl. šujb »links«; av. baya:, apers. baga-, aksl. öogt »Gott«; osset. taxun »weben«, aksl. ttJcn »webe«). 34 CDU 809.1-54 Bojan Cop ZU EIN PAAR GLOTTOGONISCHEN FÄLLEN Glottogonische Spekulationen gehören natürlicherweise zu denjenigen sprachwissenschaftlichen Betätigungen, die am wenigsten Aufsehen erregen, da ja hier die heisseste Phantasie ohne Zügel am Werke sein kann. Doch wie ein lateinisches Wort mit Hilfe eines anderen lateinischen Wortes etymologisch erklärt werden kann, wenn die Verhältnisse genügend günstig sind, so kann man auch auf dem Gebiet der indogermanischen Ursprache weiter in die Vergangenheit der Wörter vordringen, wenn sich passende Vergleiche bieten und auch sonst bekannte Typen in der Wortbildung und Wortderivation zu Rate gezogen werden. Mit aller Vorsicht versuche ich unten auch ein paar solche »glottogonische« Schritte zu tun. 1. Idg. *ejequ- »trinken« ist nur aus dem Hethitischen und Tocharischen belegt: heth. athematisches Präsens 1. Sg. eku-mi, 3. eku-zi, 1. PI. akueni = akfwj-weni 3. akuwanzi, Prät. 1. Sg. ekun, 3. PI. ekuer, Imper. 2. Sg. eku, Part, akuwant-; dazu akuw-atar »Trinken, Getränk«, aku-ttara- bzw. eku-ttara- »Tränker« usw.,1 immer (ausser vor -u-, -w- der Endung) einsilbig und mit Labiovelar, d. h. /ekw-f, /akw-/ zu lesen; dazu pal. ahu- »trinken« in 3. PL Präs ahuwanti, Inf. ahuna;2 vielleicht auch luw. akuwa- »trinken« in 3. Sg. Prät. akuwa-tta.3 Im Tocharischen entspricht yok- »trinken«,4 in A und B, das ein Präsens I bildet, d. h. alter athematischer Stamm ist, 1. Sg. Präs. und Konj. B yoku-c, 3. Sg. yok-d", Part, yoka-mane usw., Inf. yok-tsi (auch = Subst. »Trank«). In A nur Inf. yok-tsi. Dazu die Substantiva A yoke »Durst« (Adj. yokeyu, yokani »durstig«), B yokiye, yoko »Durst« (Adj. yokaitse »durstig«), B yokdnta »Trinker«. Die hethitischen (anatolischen) und tocharischen Wörter wurden schon vor geraumer Zeit miteinander verglichen, vgl. Pedersen, Groupement 40; 1 Vgl. zum Formensystem des Hethitischen Verbums Friedrich, Heth. Wb. 40. Weiteres a. O. 18. 2 S. Kammenhuber, RHA. XVII, fasc. 64, 1959, 37; 71. 3 Vgl. Laroche, Dict. louv. 24. 4 Das Material bei Schulze-Sieg-Siegling, Toch. Gr. 460f.; Krause, Westtoch. Gr. I 60; 276; Thomas-Krause, Toch. Elem. II 130; 228 usw. 35 Lingüistica XI van Windekens, Lex. etym. des dial. tokh. 170 (nach Sturtevant, A Comparative Grammar of the Hittite Language 91); Pedersen, Tocharisch 190, 222 (-o- unter dem Einfluss des labialen Elementes des Labiovelars entstanden) usw. Man rechnet dazu auch lat. aqua »Wasser« und die Sippe, s. Pokorny, Idg. EW. 23. Nach Pedersen, Hittitisch 128 wird man das hethitische Verbum auf ein *eqw-ti, PI. *dqw-me zurückführen; genau dasselbe gilt für das tocharische Verbum; auch hier yo- aus *e- vor Labiovelar. Konkurrierend tritt eine andere Verknüpfung auf: zu lat. ebrius »trunken« mit heth. eku- aus *eguh-, s. Walde-Hofmann, LEW.3 I 861f. (nach Juret). So steht man vor einem Dilemma, das nur durch eine weitere Verknüpfung gelöst werden kann. Diese ergibt sich, wenn man folgende Sippe heranzieht: idg. *qwem- »schlürfen, schlucken« in ai. cä'mati, camati »schlürft«, npers. camidan »trinken«, osset. cumun »schlürfen«, arm. khimkh »faux, guttur«, nisl. hvöma (< *hwäma < *qwemö) »verschlucken, verschlingen«, s. Pokorny, Idg. EW. 640f. Bedeutungsgeschichtlich5 ist die Gleichung vollkommen richtig, es bleibt nur die formelle Seite. Die ist leicht zu lösen; das Urindogermanische kannte ein Präsensformans *-e-m-, das an einsilbige Wurzeln trat, wobei gewöhnlich betont kursive Bedeutung heraustrat: vgl. vor allem das lateinische Paar Präs. premö = *pr-em-ö »drücke, presse« — Prät. pressi (= *pr-es-)!6 Auch der Schwund des langen Vokals von *equj wird sich in *qw-em- leicht erklären lassen. *qw-em- wird wohl ursprünglichere, konkretere Bedeutung erhalten haben.8 2. Idg. *eg'hs »aus«, belegt in gr. ex, lat. ex, osk.-umbr. e-, air. ess- usw., gall. ex- ds., apr. esse, assa ds., wird als *eg'hs rekonstruiert wegen gr. lokr. ekhthös »ausserhalb« aus *eg'hs-tös (epidaur. sekundär ekhthö, ekhthoi), vor allem aber wegen gr. eskhatos »der äusserste, letzte« von einem *eg'hz-gho- aus *eg'hs-qo-. Vgl. Pokorny, Idg. EW. 292. Schon diese Beweise allein genügen um *-g'h-zu vermuten. Doch gibt es noch eine weitere Möglichkeit, unserem *-g'h-auf die Spur zu kommen. 5 Vgl. vor allem npers. camidan »trinken«! Weiter arm. dmpem, Aor. arbi »trinken« aus *sumb- zu anord. süpa »schlürfen«, ahd. süfan »saufen, trinken« bzw. aus *srbh- zu gr. rhopheö »schlürfe«, sl. srSbati, lit. surbiü (Cop, Die Sprache III, 1956, 142). 6 S. Walde-Hofmann, LEWS II 360. Es gibt mehrere solche Beispiele, vgl. idg. Hr-em- (kursiv) in gr. tremö »zittere«, lat. tremö ds. usw. gegen Hr-es- in ai. träsati »zittert«, gr. treö, Aor. hom. tressai; von Her- »zappeln, zittern« in ai. taralds »zitternd, zuckend, unstet«; ferner *gu-em- »gehen, kommen« in ai. Aor. dgan usw., Präs. gämati, av. jamaiti, got. qiman von *gm (oder neben *gr«-ä-?) ds. 7 Man wird an *eHq«- > *Hquem- mit konsonantisch gebliebenem *H- denken können, übrigens ist ein *eq"- mit ursprünglich kurzem *<ä- und ohne »Laryngal« auch denkbar, dann im Präs. *eq"-ti spezielle Präsensverlängerung, Schwachstufe im Hethitischen dann mit Schwa secundum (*egw-; Vgl. asarni zu es- »sein« usw.). 8 Dann *eqw- »trinken« mit allgemeinerer Bedeutung, sekundär wie oben Fn. 5 verzeichnete Wörter. 36 Bojan čop Im Indogermanischen existiert ein Wort *eg'h- »Grenze, Rand« in arm. ezr, Gen. ezer »Rand, Grenze«, apr. asy, lit. eze, lett. e&a »Grenzstreifen«, sl. *j£z-b in serb.-ksl. jazb »Kanal«, acech. jez »Wasserwehr«, aruss. äz-h, russ. jaz »Fischzaun« usw. (z. T. bei Fokorny, a. O. 291).9 Wenn wir mit diesem *eg'h- unser *eg'hs verbinden, so wird *eg'hs ursprünglich etwa geheissen haben: »an der Grenze, am Rande«. Was am Rande steht, ist schon ausserhalb des Inneren, »aus« ist also hier gut denkbar.10 Es bleibt nur noch die Form. Sie kann auf verschiedene Weisen erklärt werden: a) in *eg'hs kann man endungslosen Lok. Sg. eines s-Stammes *eg'h-es-»Grenze, Rand« sehen, der zu *eg'h-er- in sehr üblichem formalem Verhältnis steht. Schwierig ist nun nur die Schwundstufe des Suffixes, denn man würde *eg'hes erwarten; doch ist jede Präposition oft proklitisch gebraucht, was zu stärkeren Reduktionen führt. b) man kann an viele Adverbia auf *-s erinnern, die ihrerseits schon wieder verschieden erklärt werden können; vgl.: 1. idg. *ap-s in gr. aps »zurück, fort«, lat. abs (vor q, t, als Präv. vor c, q, t) von *apo »ab, von, weg«;11 2. idg. *me-s in gr. mäste (arkad.), mesta (kret.-kyren.) und mäspha (homer., poet.) »bis«, weiter in thess. mespodi zu *me-ta, *me-ti »mit«;12 3. idg. *op-s in gr. opse, äol. opsi »spät« (urspr. »darnach«), ital. *ops-in lat. os-tendö, u. os-tendu »ostendito« usw., zu *ep(i) usw. »nahe hinzu, auf-darauf, auf-hin«, zeitlich »dazu, darauf« usw.13 4. idg. *up-s neben *üp-s in gr. hppsi »hoch« (hyps-elös »hoch«), lat. *subs- in sustineö usw., susque u. a., kelt. "oupsu in air. ös, üas »oben, über« = kymr. uch, bret. uc'h (air. Adj. üasal »hoch«, kymr. uchel, bret. uc'hel ds., gall. Ouxellon usw.), kelt. *ups- in air. Präverb uss-, oss- in os-nad »Seufzer« usw., sl. "-'Ups- in vysok-b »hoch«, zu *üpo usw. »unten an etwas heran«, »von unten hinauf« > »hinauf, über«; vgl. hier noch eine wahrscheinlich nominale es-Erweiterung in got. ubiz-wa »Vorhalle«, anord. ups, upsi »Vorhalle einer Kirche«, ags. efes, yfes »Dachtraufe«, ahd. obosa, obasa, oblsa »Vorhalle«;14 vgl. noch Nr. 3 (*mok's-u/ü)\ 5. idg. *ud-s, *üd-s in av. us-, uz- »empor, hinaus«, apers. us- ds., gr. hys-in hys-trix »Stachelschwein«, hys-plex »Startseil«, lat. üs-que »in einem fort, ununterbrochen von — her, bis — hin«, germ. *uz- »aus, aus — heraus, aus — vor, vor — weg« in got. us, uz- (ur- vor r-) »von, aus«, anord. 6r Präp. usw., ags. or-, ahd. ur, ar, ir Präp. »aus, von«, lit. uz- »auf-, hinauf-, zu-« s Die Vokalverhältnisse weisen eindeutig auf einen konsonantischen Stamm *eg'h- mit teilweiser Erweiterung *eg'h-er- (arm.). 10 Vgl. zur Bedeutung av. aiwitara- (Adj.) »aussen gelegen, fremd« aus urspr. »um das Land herum gelegen« bei Bartholomae, Altiran. Wb. 90. Weiter aksl. kromä »aussen, absque« von kroma »Rand« bei Brugmann, Grdr. IP2, 743. 11 Vgl. Brugmann a. O. 737; Walde-Hofmann, LEW.i I 2 usw. 12 Vgl. Schwyzer, Gr. Gr. I 629f. usw. 13 Z. B. Pokorny, Idg. EW. 323f.; Walde-Hofmann a. O. II 193; Boisacq, DEGr. 736 usw. 14 Pokorny 1107 usw. Vgl. auch unten Nr. 4, B d, e. 37 Lingüistica XI (Präfix), lett. uz, üz Präf. und Präp. »auf«, aksl. Vhz-, v-hs- Präf., v-bz(-b) Präp. »hinauf an etwas« von *ud, *üd »empor, hinauf, hinaus«;15 6. ital. *ad-s »ad« in osk. az- zu ad »zu, bei, an«;16 7. gr. amphi-s »zu beiden Seiten« zu amphi »um«;17 8. idg. *awes »herab« in ai. aväs ds., daneben *we-s in germ. *wes- in nhd. Wes-t, ahd. wes-tar »westwärts«, anord. vestr Ntr. »Westen«, ahd. wes-tana »von Westen« usw., von *au, *awe »herab, weg von«;18 9. idg. *ndhös »unten« in ai. adhäs »unten«, av. add ds., arm. 3nd »unter«, anord. und ds., toch. A anč »unten, nach unten« (*ndhes?) zu *n-dhero- »der untere« usw.;19 c) wahrscheinlich ablativlisch ist dagegen *-es, *ös, *-s in folgenden Adverbien und Präpositionen: 1. idg. *po-s »unmittelbar bei, hinter, nach« (zu *epi usw., s. oben) in gr. ark. kypr. usw. pös »prös«, lit. päs »an, bei«, aksl. po »hinter, nach« (poz-d-h »spät« usw.); vgl. lit. pästaras »der letzte, hinterste«, lat. posterus usw., *pos-ti in arm. 3st »nach«, lat. post »nach, hinter« usw. u. a.;20 2. idg. *peres, *perös, *pres- (1. Kompositionsglied) »vor« (zu *per- »vorwärts, im Hinausgehen, Hinübergehen über usw.«) in ai. pur äs »voran, vorn«, Präp. »vor«, av. parö Adv. »vorn, vor«, Präp. »vor«, gr. päros »früher; voran, vorn«, Präp. »vor«; gr. pres-bys »alt«, ahd. frist usw. »Frist« (<*pres-sti-), anord. frest Ntr. »Frist« (< *pres-sto-); vgl. auch *prs-, *pors- (wenn nicht selbständige Bildung) in arm. arr »bei, an, neben«, gr. pörrö, pörsö »vorwärts« = lat. porrö »vorwärts, fürder«;21 3. idg. *teres, *terös (Erweiterung von Her- »hindurch, über — weg«) in ai. tiräs Adv. »weg, abseits«, Präp. »durch — hin, über — weg«, av. tarö, tard Adv. »seitwärts, unvermerkt«, Präp. »durch — hin, über — hin, über — hinweg, hinaus; abgesehen von, ausser«, air. tar »über — hinaus«.22 d) vgl. noch *-i-s in folgenden Wörtern: 1. ai. bah-i-š »draussen, von aussen, ausserhalb von« von *bheg'h in aksl. bez, lett. bez »ohne« usw.;23 2. gr. khör-is »getrennt, ohne, mit Ausnahme von, ausser« zu Jchöros usw. »leerer, freier Raum, freies Land«;24 3. ai. niš, av. niš, apers. nidi- »hinaus«, »aus«, unklarer Herkunft.25 Im Griechischen wucherte dies *-s von allerlei Funktionen stark weiter, s. Schwyzer, Gr. Gr. I 620; 623f. (-ö-s); 631. e) Zahladverbien auf -s: is Pokorny 1104 usw. Vgl. auch unten Nr. 4, A c. 16 Pokorny 3; Brugmann 738 usw.; vgl. Nr. 4 unten. 17 Schwyzer 631, Pkt. 9; vgl. apers. abiš »dabei« und Brugmann 737. 18 Pokorny 73; Brugmann a. O. 19 Pokorny 771. m Pokorny 841. 21 Pokorny 812f. und 816. 22 Pokorny 1075. 23 Pokorny 112(f.). 24 Boisacq 1059 s. khetos; usw. 25 Mayrhofer, Altind. EW. II 171; Brugmann 737 und 862. 38 Bojan čop 1. *dwi-s »zweimal« in ai. dviš, av. bis, gr. dis, alat. duis, lat. bis, mhd. zwir »zweimal«, germ. PN Tuisto »Zwitter«, Erweiterungen: av. bižvat, anord. tysuar, tuisuar, ahd. zwiro(r) usw.; ahd. zwis-k »zweifach«, ags. twis-lian »zweiteilen«, ags. getwisa, as. gitwiso, mhd. zwiselinc »Zwilling«; dazu *dwis-»entzwei, auseinander« in got. twis-standan »sich trennen«, anord. tvistra »trennen«, mhd. swist »Zwist« u. a. (Pokorny 230—232); 2. Hri-s »dreimal« in ai. tris, av. dr is, gr. tris, lat. ter < terr < Hris, air. fo-thri »dreimal«; erweitert in av. -drižvat »dreimal«, anord. thrisvar, ahd. driror ds., lat. temí »je drei« Cirisno-), anord. thrennr »dreifach« usw. (Pokorny 1091); 3. *qwétru-s »viermal« in av. čadruš ds., lat. quater < *ouatrus, umgeformt in ai. catúr < *qweturs (Pokorny 642f.). Vgl. noch Brugmann, Grdr. II22, 64. f) eine spezielle Adverbialhildung stellt dar das schon ursprachliche "aw-i-s (mit langem oder kurzem a-) hei Pokorny, Idg. EW. 78: ai. ävis (Adv.) »offenbar, bemerkbar«, av. dviš (Adv.) »offenbar, vor Augen«, woraus (nach den vielen Adverbien auf -é) umgebildet zu sein scheint aksl. avé, javé (Adv.) »kund, offenbar«, mit kurzem a- *awiz-dh- in gr. aisthdnomai, Aor. aisthésthai »wahrnehmen« und lat. audio »höre« aus *awizdhiö, wie oboediö »gehorche« zeigt, das aus *6b-awizdhiö über *ob-uidiö entstanden ist; gr. aiö, Aor. ep-erissa »vernehme, höre« mit ep-aistos »gehört usw.«. g) vgl. schliesslich noch die unklare Bildung lat. ci-s (Präp. mit Akk.) »diesseits« zum demonstrativen Pronomen *k'i- »dieser«; kaum nach ex, abs gebildet, da dies -s erstens funktionell nicht gleich ist und zweitens von den Latinern kaum noch als Suffix empfunden wurde; wohl einfach Nom. Sing, »dieser« > »hiesig«, »diesseitig« (mit Akk. nach apud, ad, träns u. ähnl.). S. im übrigen Walde-Hofmann, LEW.3 I 222. Danach wohl lat. uls »jenseits« (Präp.), vgl. Walde-Hofmann, LEW.3 II 813. h) ferner muss ich an hethitische Adverbialbildungen auf -šš-an erinnern, die in folgenden Funktionen belegt sind: 1. in Zeitadverbien: anni-š-an »früher, einst; erst« zu anni- »jener«; ku-šš-an (Adverb und Konjunktion) »wann«, vom interrogativen Pronominalstamm idg. *q-*u- (bei Pokorny, Idg. EW. 647f. fehlt das heth. Wort; richtig zu *qvu- schon Hrozny, Spr. d. Heth. (1917) 146, jedoch mit falscher Analyse des Suffixes: = Partikel -šan, dagegen Kronasser, Etym. d. heth. Spr. II 357); : i 2. in den Adverbien der Art und Weise: ki-šš-an »in dieser Weise, so; folgendermassen«, zu ki- »dieser«; eni-šš-an, ene-šš-an »so, in der erwähnten Weise« von eni- »der (eben) erwähnte«; danach wohl: apeni-šš-an »so (wie erwähnt)« zu apä- »jener«; kini-šš-an = kiššan. Die ältesten sind kiššan zu lat. ci-s oben g) (čop, Lingüistica VI, 1964, 53; 39 Lingüistica XI Kronasser a. O. 357) und kussan (isoliert). Dass -an hethitische Zutat ist, lehren die Adjektiva kiss-uwant- »so beschaffen« und apeniss-uwant- »so beschaffen, ein solcher«. S. noch Kronasser a. O. 357f. i) vgl. noch ark. kypr. ka-s = att. ka-i »auch, sogar; und«, zur (unklaren) Etymologie vgl. Prisk, Gr. EW. I 753. 3. Idg. *mok's(u/u) »bald« ist nach Pokorny, Idg. EW. 747 in folgenden Sprachen belegt: ai. maksü/u' »rasch, bald, früh«, maksü'-maksu »recht bald«, Instr. PI. maksü'--bhih, Superl. maksü'-tama-; daneben auch eine nasalierte Form ai. marjksu »bald«; av. mosu »alsbald, sogleich«; lat. mox »bald« = mkymr. moch ds., air. mö ds., als Präverb mos-, mus-, z. B. mos-riccub-sa »bald werde ich kommen«. Das Wort ist weder etymologisch noch morphologisch erklärt worden. Die bisherigen morphologischen Deutungen entfaltet Waide-Hof mann, LEW.3 II 117; auch einige weitere Anknüpfungen, leider verfehlt, sind dort verbucht worden. Etymologisch wird das Wort erklärt, wenn wir an das tocharische B Verbum mdk- »laufen« anknüpfen, das ein Präs. II bildet: 2. PL Akt. mai-(c)e(r), s. Krause, Westtoch. Gr. I 64 f., Anm. 3. Dazu Ipf. und Opt. makoy-mar, mdkoy-trd usw., s. das Verzeichnis der Formen bei Krause, a. O. 265; vgl. auch Thomas-Krause, Toch. Elem. II 220. Das tocharische Verbum bildet also ein thematisches Präsens, das im Urindogermanischen etwa *mek'e-ti lautete. Die Wurzel war demnach wahrscheinlich e-haltig, wozu in obigem Adverb -o- gegenübersteht als regelrechte ablautende Vokalform. Die Bedeutung »laufen« ist zu unserem »bald, rasch« recht passend. Es verbleibt also nur noch die Form unseres Adverbs. In *mok's ein »adver-bielles« *-s, worüber wir oben Nr. 2 handelten, zu suchen, ist m. E. abwegig, andere Erklärungen des *-s, etwa Nominativ-Formans, sind aber noch schwieriger. Man wird mit einer erstarrten Form (Nom.-Akk. Sg. Ntr.) eines s--Stammes rechnen können, etwa *mok'-s- »laufend, schnell«; überraschend wirkt aber dabei die o-Stufe sowie die «-Erweiterung, die sogar Länge des Suffixes aufweist! Nach wie vor stehen wir also vor einigen schwer lösbaren Problemen, da ja wir gerade eine uralte, in der letzten Zeit des Urindogermanischen nicht mehr übliche Bildungsweise vor uns haben. Doch müssen wir unsere Aufmerksamkeit auf die interessante Wortbildung lenken, die unter Nr. 2, Pkt. b 4 vorgestellt wird: neben idg. *ups steht ein *oup-s-u (in air. ös, üas usw.), das ganz im selben Verhältnis zu *up-s steht wie hier *mok'-s-ü/u neben *mok'->s! Zudem ist auch *up-s, *oup-s-u vielleicht ein deverbales Adverbium, vgl. heth. up-zi »geht auf« (von der Sonne) aus *eup-ti, s. unten! 40 Bojan čop 4. idg. *ew- »oben«. In einigen idg. Wortsippen steckt ein gemeinsames uraltes Element, das als *ew- anzusetzen ist und etwa »oben, oberer« bedeutet hatte. Es können folgende Wortsippen hierher gezogen werden: A. idg. *ud »empor, hinauf«, auch »hinaus« (Pokorny 1103f.) in folgenden Wörtern: ai. M- »empor, hinaus« (Präverb); apers. ud-apatatä »er lehnte sich auf, fiel ab«; gr. hy- (vgl. auch unten) mit verlorenem auslautendem Dental26 in hlj-strix »Stachelschwein«, hy-splex »Startseil«, kypr. y-kheros »Aufgeld« = att. tä epikhelra, im Kypr. überhaupt zum Ersatz von epi geworden: mit Lok. y-tijkha: epi tykhel; dazu* ein vollstufiges *eud in kypr. eu-trös-sesthai: epistrephesthai. Pdphioi und in eü-khous: khöne (»Trichter«). Sala-minioi Hesych.; germ. *üd > *üt in got. *üt »hinaus, heraus«, ahd. üz, as. ags. üt ds., got. Uta usw. »aussen, draussen«, got. ütana »von aussen«, ahd. üzan(a) usw. »draussen«, anord. ütar usw., ahd. üzar »ausser, ahd. üzero, üsaro, ags. üterra »der äussere«; sl. *üd > vy-, Präv. »aus, heraus« usw.27 Davon abgeleitet a) Komparativ *üd-tero-s in ai. üttara- »der höhere, obere, spätere, hintere« = gr. hijsteros »der spätere« und Superlativ *ud--t^mo-s in ai. uttamä- »höchster, oberster, bester«, av. ustdma- »äusserster, letzter«, gr. htfstatos (für *hystamos) »letzter, spätester«; b) *ud-qo- steckt in ai. ucca- »hoch«, uccä' = av. usöa Adv. »oben, nach oben«. c) *ud-s, *üd-s steckt in av. us-, uz- »empor, hinaus«, apers. us- ds., auch in gr. hys-trix, hijs-plex (s. oben), in lat. üs-que »in einem fort, ununterbrochen von — her oder bis — hin«; dazu stellt man gewöhnlich auch das germanische *(us-), *uz- »aus, aus — heraus, aus — vor, vor — weg«28 in got. us (uz), vor r- ur-, Präv. und Präp. »von, aus«, anord. 6r Präp., (Präv.or-, 6r-, ör-), ags. or-, as. ur-, or- (Präv.), ahd. ur, ar, ir, Präp. »aus, von«, ur-, ir-, ar-, er- Präverb, obwohl auch eine einfachere Erklärung, aus *u-s- mit kürzerem Urstamm *u-, möglich ist.29 Dazu baltoslav. *uz- in lit. uz- »auf-, hinauf-, zu-« (Präverb), lett. uz, üz Präv. und Präp. »auf«, aiksl. vi,z- Präv., VbZ (-b) Fräp. »hinauf an etwas«; aus *ud-g'h- oder sogar *uds-g'h-, vielleicht aber auch auf *us-, wie das germanische *uz- zurückführbar. Man kann also auf ein idg. *eu-d-, *u-d- und vielleicht noch auf ein *ew-s-, *u-s- aus obigem schliessen, alles mit der Bedeutimg »nach oben, hinauf«. Im Unklaren bleibt aber das apreuss. unsai, unsei (immer mit gubons usw. als Präverb, unsaigubons usw. = aufgefahren«); Trautmann, Apr. Sprachdenkm. 454 stellt es zu lit. uz- usw. (s. oben), ohne über -n- etwas 26 Gr. hybris »Gewalttätigkeit, Frevel, übermütige Handlung« (gegen Pokorny 1103 und 477) gehört wohl nicht hierher, sondern zu einem *hy-b-rö- »schweinisch > unmoralisch«; 27 Vgl. z. B. Vasmer, REW. I 238; Sadnik-Aitzetmüller, Hdwb. z. d. aksl. Texten 335. Bei Pokorny fehlt die slavische Sippe. 28 Phonetisch ist jedoch diese Erklärung (*uts- > us-??) sehr schwierig; viel besser idg. *u-s, vgl. unten im Text! 29 Zu kürzerem *u- vgl. unten im Text. 41 Lingüistica XI auszusagen; das -n- wird also auf eine Nebenform *u-n-g'h- o. dgl. weisen, also schon eine dritte Urform.30 B. idg. *üpo usw. (Pokorny 1106f.) »unten an etwas heran«, »von unten hinauf«, woraus noch »hinauf, über«: ai. üpa, Präp. und Präv. »hin — zu, an, bei, zu; usw.«, av. upa, apers. upä, Präp. und Präv. »hin — zu, in, auf; bei, in«; gr. hypö, Präp. und Präv. »unten an etwas heran, unter etwas; unten an, unter; von unten weg, unten — hervor«; lat. sub (Präp. und Präv.) »unten an etwas heran, unter etwas« und »unten an, unter (wo?)«, osk. syp usw., daneben subs- in sus-tineö usw., susque deque ferö »aequo animö ferö«; air. fo, Präp. u. Präv. »unter«, akymr. guo- usw., nkymr. go-, gwa- usw., Präverb, gall. vo-, ve-; got. uf (ub-uhj, Präp. »unter«, Präv. »auf, unter«, ahd. oba, mhd. obe, ob »ob, über« (< *upö), dagegen anord. of »über, an, in«, ags. ufe-(< *üpo); mit *«-: ahd. üf füfan) »auf«, daneben mit -pp- as. uppa, up, ags. uppe, up, anord. upp »auf, aufwärts«, mit Hochstufe *eu- got. iupa »droben«, iup »nach oben, aufwärts«. Verbal *eup-ti in heth. up-zi »geht auf« (von Gestirnen). Davon abgeleitet: a) Superlativ *upemö- in ai. upamä- »der oberste, höchste, nächste«, av. updma- ds., ags. ufemest, yfemest »der höchste, oberste«, gr. hijpatos (für *-amos) »der höchste, erste«, lat. summus »der höchste« = umbr. somo »sum-mum« (*sup-mo-); b) *uper, *uperi »über, oberhalb«, Präp. und Präv., auch »über — hinaus« mit Komparativ *upero-s »der obere« (Pokorny 1105f.): 1. ai. upäri, av. upairi, apers. upariy »über, über — hin, über — hinaus«, arm. wahrscheinlich i ver »hinauf, oben« < *uper(i-), vgl. unten 2.; gr. hyper, Präp. »über — hin, oberhalb, über — hinaus; über; usw;« und Präv. »über, über — hinaus«; lat. umbr. super, Präp. »über, über — hin, über — hinaus; über« und Präv. »über, drüber«; air. for, Präp. »über, über — hin, über — hinaus; über auf« und Präv. »über, auf«, kymr. gor-, gwar- usw., gall. ver-; kelt. *vertamo- »der höchste« in gall. Vertamo-, ablautend Cvortamos) kymr. gwarthaf »Höhe«, keltiber. ueramos »summus« (*uperemos); got. ufar, anord. yfir (< *üperi), ahd. ubir (< *uperi), mit bewahrtem -i ahd. ubari, ubiri, Präp. »über, über — hin, über — hinaus; über«, Präv. »über«; 2. ai. üpara- »der untere, nähere« = av. upara- »der obere«, arm. i veroy »ob, oberhalb«, i veray »darüber, darauf«, »über, auf«; gr. hyperos »Mörserkeule« usw., lat. super(us) »der obere«, osk. supruis »superis« usw., got. ufarö (Adv.) »über, darüber«, ahd. obaro (Adj.) »der obere«, ags. yferra ds.; c) *upelo-s in got. ubils, ahd. ubil usw. »übel«, mir. fei »schlecht«; d) *upes- usw. in got. ubizwa »Vorhalle«, anord. ups, upsi »Vorhalle einer Kirche«, ags. yfes, efes »Dachtraufe«, ahd. obosa, obasa, obisa »Vorhalle«; 30 Mit diesem *u-n- könnte unmittelbar verwandt die slavische Sippe von aksl. vwi-h, Adv. und Präp. »heraus, hinaus, aus, draussen«, vtjiu, Adv. »aussen, ausserhalb«, v&ie und vi,ne, Adv. und Präp. »aussen, ausserhalb« usw. sein: *u-n-o- »draussen liegend«. Mehr anderswo. 42 e) "ups- usw. in lat. subs- s. c gr. tvyvsi »hoch« (Adv.); mit Hochstufe kelt. *oupsu in air. ös, ? ,-r«, kymr. uch, körn, ugh, bret. uc'h usw., air. üall »Übermut« ( Präv. uss-, oss- (*ups), gall. ON. Uxisama, keltiber. ON Uxam kb »hoch« < *üpso-. Zu den ^-Erweiterungen s. s Es scheint, dass d) *upes~ eigentlich deverbal ist, denn sonst inverständlich; so müssen wir dies *upes- bei *eup-ti oben im he' iipfen. Auch in kelt. *oupsu haben wir ;ine mögliche verbale Bildung erkannt. Hält man das alles zusar bekommt man ein verbales "eu-p- »sich erheben, sich nach obe , das eine spezielle Erweiterung *-p- enthält, deren ursprüngl: 'on vorläufig unbekannt ist. *upo ist dann ein aus Verbalstamm ■■, eis *-ó (ursprünglicher Akzent im Germanischen, s. oben ahd. o&a> ¿tetes Adverbium; *ups- usw. brauchen also nicht vom Adverbium. upó usw. abgeleitet zu sein, sondern sind am besten direkt aus dem iten Verbalstamm zu erklären. Auch *upélos Bc) bestätigt wohl unsere_¿ngen aus Verbalstamm.33 Hält man mit *eu-p- (Verbalstamm) noch A. *ud-, *eud-, *ud-s zusammen, so muss man noch eine weitere Erweiterung mit -d- konstatieren, die auch wohl ursprünglich verbal war: *eu-d- »(sich) erheben«. Nun stehen *eu-d- und *eu-p- in ganz gleichem Verhältnis zueinander, wie die Adverbien und Präpositionen (Präverbien) *ad- und *apo: a) *ad- »zu, bei, an« (Pokorny 3) in phryg. ad-daket »macht«, maked. ád-dai: rhymoí Hsch., lat. ad »zu, bei, an«, Präp. und Präv., umbr. af- Präv., -af Postpos., osk. ad-púd »quoad«, air. ad- (Präverb) = lat. ad-, kymr. add-, gall. ad- (Präfix); germ. "at, Präp. und Präv.: got. at »zu, bei«, anord. at »zu, bei, gegen, nach« usw., ahd. az »zu, bei, an«; schwundstufig ved. t-sárati »schleicht (heran)«, ahd. z-agen zu got. *agan »fürchten«, ahd. z-ougen„ as. t-ögian ~ got. at-augjan »zeigen«; daneben wohl verbales *ad- »festsetzen, ordnen«, *ado- »Ziel« (Pokorny ebda.) in umbr. arsie (*adio-) »sancte«, ars-mor (< *ad-mon-) »ritus«, armamu »ordinamini« Cad-mä-), air. ad Ntr. »Gesetz«, PI. ada »feierlicher Brauch« > Adj. »gesetzlich«, adas »geziemend«, kymr. addas »passend«, eddyl (< *adüo-) »Pflicht, Ziel«, *d-ilo- in germ. *tila-»passende Gelegenheit« in got. Iii Ntr. »Gelegenheit«, gatils »passend«, ags. til »passend, nützlich«, Ntr. »Güte, Tauglichkeit«, ahd. zil »Ziel«, Präp. ags. anord. til »bis«. Idg. "ad ist in betreff der Ableitungen mit *ud- ganz parallel, vgl. *ad-s in osk. az »ad« (Präp.); *ad-g'he steckt in kymr. ä, vor Vokal ag »mit«. b) *apo »ab, weg« (Pokorny 53) in ai. dpa »weg, fort, zurück«, Präp. »von — weg«, av. apers. apa »von — weg«; gr. dpo, apó »von — weg, ab«, maked. ap-, ab-, alb. pr-ape »wieder, zurück«, lat. ab »von« (ap-eriö), umbr. 31 Nr. 2 unseres Aufsatzes. 32 Auch gr. hypö kann — wie unten apö — alten Akzent besitzen. 33 Vgl. Brugmann, Grdr. IP 1, 365ff. (-e-lo- deverbal z. B. ahd. wibil, anord. vifill, lit. väbalas »Käfer« < *webh-elo-s; gr. deelös »sichtbar« zu gr. deatai; *aw-elo-»wehend« in kymr. awel »flatus, ventus«, korn. auhel »procella«, gr. äella »Wind-stoss«, zu *aw(e)- »wehen« usw.; auch zu unserem *upelos s. a. O. 367). 43 ap-ehtre »ab extra, extrinsec von — her«, anord. af usw., ru. untere Teil« (< *apo-tjü) us\ Auch hier eine s-Erweiteri Wenn wir *ad und *apo bekommen wir sofort den Es *ad- ist also in *a-d, *apo im» tung: während in *eu-d-, *<.:: gemeinsamen Bedeutung fe? uraltes gemeinsames Elemer. in *a-d augenscheinlich diame Da wir in *a-d, *eu-d ein? mit vorursprachlichen Gebilde sie selbst — in gegenseitiger *ad- auch verbal vorzukomm1 4p. und Präv. »von, von — weg, sön, von — weg«; lit. apa-ciä »der ;at. abs, gr. äps »zurück, wieder«. d-) und *upo {*eup-') vergleichen, iie Bildungen völlig parallel sind: 'sieren. Schwieriger ist die Bedeu-äinsames Element *ew- mit einer : ist in *a-d, *a-p- zwar auch ein :-en: *a-; doch seine Bedeutung ist .«gesetzt derjenigen in *a-p-(o). fa-p-(o), *eu-p-(o) andrerseits sicher iorphemen zu tun haben, können nur ¡ung — über sich etwas aussagen. Da int, und zwar in der Bedeutung etwa »ordnen, festsetzen«, kann mi^ 8tqy ein *a-d- »nähern, hinzufügen o. dgl.« vermuten, das auch in der Pr^^g ^ *ad steckt: wo es ursprünglich wohl partizipial war,34 etwa »(sich; ng !, (sich) fügend«.35 Das *-d- war also ein Formans, das verbale Stän^iagqB ^idverbialen u. dgl. zu bilden imstande war; *eu-d- also ursprünglich ^xui -cina*118*3611^- Eine ähnliche Funktion h^jpinj; aqofeheinlich auch das -p- in *a-p- und *eu-p-, nur ist der Verbalste»usSsAvaq ud wohl intransitiv gewesen: *eu-p-»sich erhebend, sich nach obe; mrep 'uatuu *a-p- wohl »sich dahin bewegend«. In *a-d hat man also ursprüy 9 g -jh uaqo ) hierher bewegend«, in *a-p- eine ähnliche deiktische Ursubstt -xspre tzdn -ti^die Geschichte in eine entgegengesetzte Richtung trieb: aus; >n -sa- uia ist nden »hierher« wurde »hierhin«, weiter »dahin«, was schon eii K-uaqo uotpandlage für »fort« bildet: *a-p- > »sich fortbewegend« > »weg«., osäa -is5[B !v~ eine uralte deiktische Urwurzel zu vermuten, die ich später nc -ire '.(visdno* nachweisen will. Hier genügt nur noch der Hinweis auf die der ¿qn 'uaqo« solchen Partikeln her und hin, die aus demselben Urstamm *fö ui ja^iaM. iusqcPokorny 609f.) hervorgegangen ütgegengesetzter Richtung ihre r Bewegung ist es leicht, eine is einem gemeinsamen Urkem sind, jedoch gerade wie *ad Bedeutung entwickelten; dur solche Bedeutungsentwicklur uvf°3 Es ist also klar, dass *t herzuleiten sind. C. Im Altpreussischen e:__ ■ t ucka-, das zur Bildung von Superlativen dient: ucka isarwiskai »aufs treulichste«, ucka kuslaisin (Akk. Sg.) »schwächste«, ucka längiwingiskai »aufs einfältigste«; s. Trautmann, Apr. Sprdenkm. 453; damit wurde got. aühurna »höher«, ags. Praest »höchst« verglichen, die auf ein urgermanisches *üxuma- zurückgehen; vgl. auch got. 34 Also wohl ursprünglich ein Nomen agentis; vgl. zu solchem Ursprung der Adverbien und Präpositionen etwa lat. apud »bei«, urspr. *ap-wot »erreicht habend«, lat. träns, urspr. »überschreitend«; usw. 35 Vgl. besonders oben im Text ags. anord. til »bis«! 44 Bojan Čop aühmists Superl. »Höchster« neben aühumists ds.; s. Trautmann, a. a. O., und Feist, Vgl. Wb. d. got. Spr? 66f. Bei Pokorny fehlt unsere Sippe ganz. Diese preussisch-germanische Sippe geht auf ein ursprachliches *u-qo-»hoch«, »oberer, obig« zurück, das von unserer Urbasis "ew- gebildet ist, wie soviele andere Adjektive, die von Adverbien bzw. Präpositionen ausgegangen sind, z. B. *pro-qo- »voran seiend« in gr. pröka »sofort«, lat. reciprocus »rückwärts und vorwärts gerichtet«, alat. procura »procerum« (Gen. PI.), aksl. prok-b »übrig« (Pokorny 815) von *pro- »vorwärts, vorn, voran« (Pokorny 813ff.).36 Die germanische Bildung ist auch sonst anzutreffen, sie spricht nicht gegen einen o-Stamm als Grundlage.37 D. Ein isolierter Fall ist arm. ger »über, mehr als«, das aber Adjarian, Hay. armatakan barraran II 141—144 schon mit den unten angeführten gr. aetrö und atrö und idg. "wers- verbindet. Es geht auf ein "wero- zurück, das augenscheinlich als *w-ero- »der obere« zu verstehen ist und das altbekannte Komparativsuffix *-eroJS enthält. Zur Schwundstufe im Wurzelteil ist idg. *(e)n-ero- »innerlich« in arm. ner-»intra, hinein«, ner-kcs »innen«, ner-kcoy »drinnen« (Pokorny 312) zu vergleichen; weiter in *ner- »unten«, *ner-tero- »unterer« (Pokorny 765f.) in gr. nerteros »unterer, tieferer, unterirdischer«, ner-the(n) »von unten«, neirös »der Unterste« < *nerjo-, osk. nertrak »a sinistra«, umbr. nertru »sinistro«, anord nordr Ntr. »Norden«, ags. norderra »mehr nördlich«, ahd. nordröni »nördlich«; vgl. zur Bedeutung *n-ei- »nieder« Pokorny 312f. von *en- »in«! Von demselben *en-er- > *n-er- stammt auch die verbale Wurzel *ner- »eindringen, untertauchen, Versteck, Höhle« in lit. neriü, nerti »(unter)tauchen, durchschwimmen; fliehen, einschlüpfen«, lett. nirt, nird&t »untertauchen«, aksl. nbrö, nreti »eindringen«, slvn. po-ndreti »untertauchen« usw. (Pokorny 766). Wie "ner- verbal wurde, so auch in unserem Fall *wer-: a) gr. aetrö < *awerjö »hebe hoch, erhebe«, zu trennen von aetrö »reihe an, verbinde« trotz Pokorny 1150 u. vielen anderen; b) idg. *wer-s- »erhöhte Stelle« (zu trennen *wer- usw. »Geschwür« usw.)39 bei Pokorny 1151f. in ai. varsmän- Mask. »Höhe, Oberstes«, värsman-Ntr. »Höhe, Oberstes, Spitze« = gr. herma Ntr. »Stütze; Riff. Hügel«, ai. vdrsiyas- »höher«, värsistha- »höchst«, lit. virsüs »das Obere, höchste Spitze«, aksl. vrhXb, russ. verx »Oberstes, Gipfel«, air. ferr »besser«, mir. farr Fem. »Pfosten« = kymr. gwar Fem. »Nacken < *wrsä; Zu solchen Bildungen s. besonders Brugmann, Grdr. 112 480ff. 37 vgl. z. B. Brugmann, a. O. 228, 659 usw. 38 Zu *-ero- Brugmann, a. O. 323f.; schwundstufig schon unser *uperos oben im Text, ebenso *ndheros in ai. ädhara- »der untere«, lat. inferus usw., vgl. auch *n-er(o)- im Text. 39 *wer- »Finne, Ausschlag, Eiter, Geschwür, Warze« hat mit *wers- »erhöhte Stelle« bedeutungsgeschichtlich und wohl auch etymologisch nichts zu tun; es bildet eine Gruppe für sich, über die ich noch sprechen werde. 45 Lingüistica XI c) idg. *werdh-, "wredh- »wachsen, steigen; hoch« (Pokorny 1167) in ai. värdhati, vdrdhate, vrdhäti »wächst, mehrt sich«, av. vardd- »wachsen machen«, ai. vrädhant- »emporsteigend«, gr. orthös »aufrecht, gerade, richtig, wahr«, alh. rit »wachse, mache gross«, aksl. rod-h »partus, generatio, gens, natura«, roditi »parere«, redt »Speise, Nahrung«, lett. raza »Gedeihen, reiche Ernte«, rasma, rasme »Gedeihen, Ergiebigkeit«, lit. rasme ds.; aksl. ranb »örthros«, cech. usw. rano »die Zeit frühmorgens, die Frühe« < *wrödhno- E. Schliesslich möchte ich hier noch ein idg. Verbum anschliessen, nämlich *ew- »anziehen« (Pokorny 346) in arm. aganim »ziehe mir etwas an«40, lat. ex-uö »ziehe aus«, ind-uö »ziehe an« (< *-ovö, idg. *ewö), umbr. an-ovihimu »induitor« (< *an-ow-iö), lit. aviü, aveti »Fussbekleidung tragen«, aunü, aüti »Fussbekleidung anziehen«, lett. äut ds., »anziehen«, russ.-ksl. iz-uju, iz-uti »Fussbekleidung ausziehen«, aksl. ob-ujö, ob-uti »Fussbekleidung anziehen«, die evident alle auf ein athematisches Wurzelpräsens *eu-mi, *ou-mi zurückführen; sonst vgl. noch av. aö-dra- Ntr. »Schuhwerk« u. a. Es ist fraglich, ob die Urbedeutung »Fussbekleidung anziehen« oder allgemeiner »anziehen« überhaupt war; für das erstere spricht die Übereinstimmung zwischen Avestisch und Baltoslawisch. Doch ist diese Frage ganz nebensächlich; die Hauptfrage ist, wie das uralte "ew- »oben, das Obere« dazu passt. Es ist logisch, dass das, was man »anzieht«, »oben«, »auf uns« sitzt. Vgl. d. anhaben (Kleider) = frz. avoir sur soi. So muss es auch im Vor-urindogermanischen gewesen sein: *eu-mi, *ou-mi also »auf sich ziehen, erheben« oder sogar »etwas ist auf« (urspr. intransitiv). Mit diesem Verbum verbindet man oft die Wurzel *wes- »kleiden« (Pokorny 1172f.) in ai. vdste »kleidet sich, zieht an«, av. vaste ds., arm. z-genum »ziehe mich an« = gr. hennymi, ion. heinymi, aor. hessai »kleiden«, Perf. (oder athemat. Präs.) heimai < *wesmai, 3. Sg. -estai »sich kleiden«, alb. vesh »ich kleide an«, vishem »kleide mich an«, got. usw. wasjan »kleiden«, heth. was-, wes- usw. »bekleiden, anziehen« usw. Man kann entweder an eine -es-Erweiterung *w-es- denken, die von *ew-ausging, als dies schon verbal war. Möglich ist aber auch, an ein *w-es-toi usw. »es ist auf, darauf, oben« zu denken, mit ~*w- als Präverb und *es- »sein«; später mit Subjektwechsel zu wes- »kleiden, sich kleiden« geworden. 5, Idg. *gwhder- »vernichten« steckt m. E. in der bekannten gr. Sippe ptheirö »zugrunde richten, verderben, vernichten, (be)schädigen, verschlechtern; zerstören, verwüsten; töten; verführen«, pthorä' »Verderben, Vernichtung, Untergang, Tod«, pthöros ds., usw.; das Verbum ist urgriechisch und allgemein griechisch,41 vgl. lesb. ptherrö, ark. pthe'rö, dor. pthairö aus der Schwachstufe (< *pthär--jö); Perf. epthora, eptharka, Aor. pass. epthären zeigen alten Ablautwechsel. 40 aganim wohl aus *ow-, was aber keinesfalls für ein Verbum mit nur o- Vokalismus zeugt. « Vgl. Liddell-Scott-Jones s. v. 46 Bojan čop Die bisherige Anknüpfung an idg. vermeintliches *gwhder- »rinnen, fliessen; zerrinnen, *verschwinden« (sollte im Griechischen im transitiven Verb über »rinnen lassen, zerrinnen lassen« zu »verschwinden lassen, vernichten« geworden sein!) (z. B. Pokorny 487f.) ist geschichtlich nicht zu halten; pthorä' in der Bedeutung »Vermischung oder Verreibung der Farben« und das ¡Kompositum sym-ptheirö »zugleich, gänzlich zugrunde richten« und »lasse Farben ineinanderfliessen« > »verschmelzen, vermischen«, symptheire-sthai »zusammenströmen« sind in ihrer Bezeugung42 zu spät, um bei der Etymologie etwas aussagen zu dürfen. So ist eine andere Anknüpfung nötig, wenn sie auch eine glottogonisch aussehende Analyse verlangt. Ich nehme an, dass das griechische pther- aus einem idg. *gwhder- (oder *gwäher-) »vernichten, zugrunde richten« entstanden ist, das mit allgemein bekanntem *gwhdei- (oder *gwdhei-) »hinschwinden, zugrunde gehen«, auch trans. »vernichten« bei Pokorny 487 etymologisch verwandt ist; vgl. z. B. von *gwhdei-: ai. ksin&'ti, ksinö'ti, ksäyati »vernichtet, lässt vergehen«, prakr. ajjhita = ai. aksita-, gr. dpthitos »unverwüstlich«, jhina- = ai. ksind- »erschöpft«, av. ayzönvamna- »sich nicht mindernd«, gr. pthi'nö (ep.) = pthinwö, att. pthinö »vernichte«, intr. »schwinde hin, gehe zugrunde«, pthirvy-thö »schwinde hin, mache verschwinden« usw. usw. Dies *gwhdei- (*gwähei-) ist nach bekannten Gesetzen über die Struktur der idg. Wurzeln in *gvJh&- + Erweiterung -ei- analysierbar; vgl. ähnliches -ei- in *k'lei- »neigen, lehnen« (Pokorny 600 ff.) in ai. äräyati »lehnt, legt an«, gr. kli'nö, lesb. klinnö < *klinjö »neige, lehne an«, lat. clinö »biegen, beugen, neigen« usw., das als *k'l-ei- zu kürzerem *k'el- ds. gehört, das in lit. salis »Seite, Gegend«, anord. hallr, ags. heald, ahd. hald »geneigt«, ahd. Haida »Bergabhang«, got. wilja-halthei »Neigung, Gunst«, got. hulths »geneigten Sinnes, gnädig«, ahd. hold ds. usw. (Pokorny 552) steckt. Wir bekommen somit ein *gwhd- (oder *gwdh-) als Urstück, woraus auch unser *gwhder- (*gwdher-) entstanden ist; im letzteren wird man ein Wurzelerweiterung mittels eines Determinativs -e-r- erblicken müssen, das ebenfalls auch sonst anzutreffen ist, so z. B. in *dhewer-, *dhwer-, *dheur- »wirbeln, stürmen, eilen; Wirbel = Schwindel, Torheit« (Pokorny 266f.) in ai. dhörana-Ntr. »Trab«, dhörati »trabt«, gr. a-th$rö (*dhurjö) »spiele, belustige mich« (urspr. »springen«), lit. padürmai Adv. »mit Ungestüm, stürmisch«, apreuss. dürai Nom. PI. »scheu«; russ. dur »Torheit, Albernheit, Eigensinn«, duret' »den Verstand verlieren«, durit' »Possen treiben«, duräk »Narr« usw., das von *dheu- »stieben, wirbeln, bes. von Staub, Rauch, Dampf; wehen, blasen, Hauch, Atem;... stürmen, in heftiger, wallender Bewegung sein, auch seelisch; in heftige, wirbelnde Bewegung versetzen, schütteln« mit vielen Erweiterungen (Pokorny 261ff.) ausgegangen ist. 6. idg. *qwene, Partikel der Verallgemeinerung und Unbestimmtheit, wird von Pokorny, Idg. EW. 641 wie oben angesetzt und in folgenden ranzelsprachlichen Wörtern « sym-ptheirö in dieser Bedeutung erst seit Dionys. Halik. und Plutarchü 47 Lingüistica XI nachgewiesen: ai. -cana, av. -cina »irgend«; weiter in germ. *-gin in anord. hver-gin »keineswegs«, ags. as. ahd. hwer-gin »irgendwo« ( - hwar »wo« + -gin), ahd. io wergin »irgendwo«; im Anord. noch -ge aus -gin in Wörtern für »keiner«: en-ge (Ntr. ekke, et-ke), hver-ge, hvär-ge, man-ge und Ntr. vet-ke (vgl. Krähe, Germ. Sprachwissß II 73); dazu noch got. -hun, in: ni ains-hun »niemand, kein«, ni manna-hun »niemand«, ni hwas-hun »niemand«, Adv. ni hwan-hun »niemals« (vgl. Krähe a. a. O.; Braune-Helm, Got. Gramm-11 91; dazu noch ni hweilö-hun »nicht eine Stunde lang«, this-hun »meist«, vgl. Feist, Vgl. Wb. d. got. Spr.3 275); die got. Form hat man seit Bopp hierher als ablautend zu stellen gepflegt, also etwa *qwene mit Schwa secundum; dagegen Schmidt, KZ. 32, 402: als *qwu-ne zum Pronominalstamm *qwu-, wie obige aus *qwe-ne zum Pronominalstamm *qwe-; zu "qvju- auch nach Pokorny 648. Die oben dargestellte Polemik ist unnötig, denn es ist viel besser,43 unsere Formen als Imperative eines einst bestehenden Verbs *qene-, mit schwachstufiger Wurzel *qene- »gern haben, begehren« aufzufassen; dass dies Verbum einst bestand, beweisen deverbale Bildungen auf -es- in ai. cänas- »Gefallen, Befriedigung«, av. canah-, cinah- »Verlangen, Heischen« (direkt aus *qene-) und verbale Formen wie ai. Perf. cäkana = av. cakana, Aor. ai. akänisam u. a. »befriedigt sein, Gefallen finden«, av. cinman- »Begehren, Trachten«; vgl. Pokorny, Idg. EW. 515, der für möglich hält, dass dies ar. can-\ kan-sekundär aus *qä- »gern haben, begehren« entstanden ist. Heute ist dies ganz unnötig: schon die Ursprache besass ein Paar *qene-: *qene- »gern haben« und dessen Imperativ 2. P. Sg. Akt. diente als verallgemeinernde Partikel. Zur Bedeutting und Funktion solcher Verba vgl. lat. -vis »du willst« in qui-vis, -übet in qul-libet »wer beliebt«, s. Sommer, Hb. d. lat. Laut- und For-menl.2~3 451. 7. idg. *g'hwer »wildes Tier« (Pokorny, Idg. EW. 493) in gr. the'r usw., lat. ferus »wild, wildwachsend, -lebend«, lit. sveris, let. zvers, apreuss. swirins, aksl. zv&rb »wildes Tier« gehört m. E. als Nomen agentis mit dem Suffix -er- (s. unten) zu idg. *g'heu- »verschwinden, umkommen« (Pokorny 448), das u. a. in lit. zü-ti »umkommen«, zu-dy-ti »töten«, ags. gietan »verletzen, töten« fortlebt. Die Wurzel hat urspr. wohl auch »töten« bedeutet, wie ja die transitive und intransitive Bedeutung Hand in Hand gehen. Unser *g'hw-er bedeutete also »Töter« bzw. »reissendes, tötendes Tier«. Zum Suffix vgl. gr. ae'r »Luft«, urspr. »Weher« (*aio-e'r), aith-e'r »Äther«, urspr. »Leuchter« und Brugmann, Grdr.2 II 1, 339. 43 Es sollte den Germanisten ja auffallen, dass nach Vernerschem Gesetz aus idg. ein germ. g (-gin) und nicht *gw > *w entstand. Idg. ist demnach ausgeschlossen. 48 Bojan Čop POVZETEK Nekaj glotogoničnih primerkov Kakor je mogoče latinske besede semtertja s čisto latinskimi sredstvi pojasniti z ozirom na njihov izvor, tako je dovoljeno tudi indoevropski pra-jezičnj besedni material razlagati s pr a jezičnimi ¡sredstvi, pod pogojem seveda, da so okoliščine izredno ugodne. 1. ievr. *eqw- »piti«, zabeleženo v het. eku- in toh. yok-, je bilo do danes glasovno dvoumno, ker je bilo možno nastaviti tudi *egwh-. Ievr. -qw- nedvoumno dokazuje pritegnitev korena *qw-em- »srkati, srebati«, kjer imamo opravka z redkim, a vendar jasnim ievr. obrazilom -em-, ki je ustvarjalo nedovršne prezentne osnove, prim. lat. pr-em-o: pr-es-sl. 2. ievr. *eg'hs »iz« spada k *eg'h- »meja, rob«, pomensko prim. scsl. kromš »zunaj, brez« od kroma »rob«; -s je adverbialno obrazilo, znano iz cele vrste primerkov različnih odtenkov: *ap-s, *me-s, *op-s, *up-s, *ud-s, *ad-s, *awe-s, *7idh6-s; ablativen pomen v *po-s, *pere/o-s in *pre-s, *terš/d-s; kombinacija -i-s v sti. bah-i-š, gr. khor-i-s, ar. *n-i-š; števni adverbi: *dwi-s, Hri-s, *qwetru-s; nadalje *a/aioi-s; lat. ci-s in ul-s; het. časovni anni-š-an in kvršš-an, načinovni ki-šš-an, eni-šš-an, apenišš-an, kini-šš-an; nazadnje ar k. kipr. ka-s »tudi, in«. Prim. 3! 3. ievr. *mok'-s-u/u »kmalu« spada k toh. glagolu mdk- »teči«; oblikovno gre tvorba k adverbom na -s-, naštetim pod 2. 4. ievr. *ew- »zgoraj« je osnova za celo vrsto adverbov: A. *u-d »gor, ven«, tudi *u-d in *eu-d, zraven še *u-s v germ. jezikih; B. *upo »od spodaj proti, navzgor«, tudi z *u-, got. iu-p, iu-pa, het. glagol up-zi »vzhaja«; formalno se da razmerje *eu-d: *eu-p primerjati z *a-d »k, pri, ob«, *a-p-o »od, proč«; prvotno so bila to glagolska debla, njihovi morfemi so seveda za današnjo primerjalno slovnico še uganka; C. sem stprus. ucka- = superlativna predpona z germ. *uhuma- »višji«, očitno od ievr. pridevnika na -qo- *u-qo-; D. arm. ger »čez, več kot« iz ievr. *w-ero-, k temu gr. aeiro »vzdignem« iz *auoerjd, ievr. *wer-s- »dvignjeno mesto« in :,wer-dh- »rasti«; event. še E. ievr. *ew-»obuti«, prv. »gor dati« z *w-es- »obleči«. 5. ievr. *gwhder- »uničiti« v gr. phtheiro nima nobenega opravka z ievr. *g(w>hder- »teči (o vodi i. p.)«, temveč gre h *gwhd-ei- »propadati«; -er- in -ei- sta korenska formanta. 6. ievr. pbsplošujoča členica sti. -cana, germ. -gin in -hun ne gre k vpra-šalnemu zaimku *qwe/o/u-, temveč je imper. 2. edn. glagola *qene- »rad imeti, želeti«. 7. ievr. *g'hw-er »zver« spada kot nomen agentis »ubijajoča žival« k ievr. glagolu *g'heu- »propasti, poginiti«. 4 Lingüistica 49 Janez Oresnik CDU 803.959-54 ON THE PHONOLOGICAL BOUNDARY BETWEEN CONSTITUENTS OF MODERN ICELANDIC COMPOUND WORDS Summary.1 If the word boundary is posited between constituents of Modera Icelandic compound words, a number of mutually unrelated phonological phenomena are accounted for without any extra machinery (say, in the structure of rules). However, I have not been able to prove that any Modern Icelandic phonological phenomena actually REQUIRE the word boundary between constituents of compound words. I could only demonstrate that certain phenomena require SOME boundary between constituents of compound words; if the boundary required in those cases is identified with the morpheme boundary, certain phonological rules of Modern Icelandic have to be complicated in ways which can be avoided when the said boundary is assumed to be a word boundary. § 1. The Modern Icelandic lexicon contains many compound words, such as bók-menntir 'literature', til-einkadur 'dedicated', gud-frasdi 'theology'. From the phonological point of view these words behave differently from simplex words in some respects, notably as regards the quantity of their stressed vowels, the permitted consonant clusters, and their stress pattern. The differences could presumably be captured in several ways, none of which have so far been applied to the Icelandic situation, to the best of my knowledge. The method used in comparable situations in other languages is to posit, between constituents of compound words, a boundary of a kind that does not occur in simplex words. Applying this to Modern Icelandic, it should first be noticed that the examination of Icelandic phonology has so far recognized the need for not more than two phonological boundaries, the morpheme boundary ( + ) and the word boundary (# #). Until this limitation of the kinds i My thanks are due to Miss Margaret G. Davis, who has improved the style of the paper. All errors are my own. The theoretical framework and the terminology of this paper are those of generative phonology as expounded by Chomsky and Halle 1968. Non-phonetic representations are bounded by the obliques, //, except in phonological derivations, where the obliques are omitted. Very often the reader will find italicized, i. e. orthographic representations within obliques. They are used to represent phonological units in those cases where I am unwilling to commit myself on the exact nature of the segments involved. 51 Lingüistica XI of Icelandic phonological boundaries is disproved, the boundary which can occur in simplex words is by definition the morpheme boundary, and the one never to be found in simplex words is the word boundary. Compound words can contain morpheme boundaries, and presumably contain at least one word boundary. To facilitate the exposition, the word boundary occurring between constituents of compound words will be designated with the ad hoc symbol §. For example, the compound word boka-safn 'library', literally "book collection', is phonologically (roughly) /bdkaisafn/. This kind of treatment, with which the initiated reader will be familiar from elsewhere (see, for instance, Chomsky and Halle 1968 for English) takes care of many mutually unrelated phonological phenomena which would otherwise have to be accounted for less generally. Here follows a sample of such phenomena. (I) The phonological component of Modem Icelandic grammar contains a VOWEL SYNCOPE RULE: (1) V — stress — »tense« + 'elidible' 0/- C + coronal — tense + V i. e. an unstressed non-»tense« 'elidible' vowel is deleted if followed by a coronal lax consonant, the morpheme boundary, and a vowel, in that order. The rule is discussed and formulated in Oresnik 1972. The feature »TENSE« (within quotation marks) is a common property of the segments which are in Icelandic phonetics usually referred to as breid serhljdd (Einarsson 1949:11), i. e. the diphthongs and the monophthongs i, u, [y] (the last one as in hugi). The feature 'ELIDIBLE' is an ad hoc feature associated with all the vowels that actually undergo the vowel syncope rule (1). Thus the unstressed vowel of mikill 'great, large' is 'elidible', and that of heimill 'at free disposal' is 'inelidible' because of contrasts such as dat. pi. miklum vs. heimilum. The fact that the ad hoc feature 'elidible' is mentioned in (1) shows that the present formulation of the rule is provisional. The feature CORONAL refers to I r n d p t d s. TENSE, this time without quotation marks, is used in its accepted meaning. Formulation (1) shows that the rule applies across a morpheme boundary (and in fact can apply only if a morpheme boundary immediately follows the vowel to be deleted). Example: jokull 'glacier' contains an 'elidible' u, cf. nom. pi. joklar from /jokul + ar/. On the other hand, the rule never applies if the vowel to be deleted is immediately followed by a i-boundary and another vowel. Cf. jokul-alda 'moraine', from /jokulialda/, not *jokl-alda, which would be the expected normal result if the phonological representation were ¡jokul + cdda/. (II) Benediktsson 1969:394 has formulated, for Old Icelandic, a VOWEL TRUNCATION RULE which deletes unstressed vowels immediately followed by the morpheme boundary and another vowel. This rule still operates in 52 Janez Orešnik Modem Icelandic, with the result that there are no segment clusters of unstressed lax vowel plus vowel in simplex words, on the phonetic level. The rule applies, e. g., in the lp. pi. pres. kollum from /kalla + um/, and in the 2p. pi. pres. kallid from /kalla + id/, of kalla 'call'. (That the stem of kalla is phono-logically bisyllabic, /kalla/, follows from the singular present indicative forms kalla(r), the imp. sg kalla, and from the dental stem kallad-.) On the other hand, the rule does not apply in compound words like sogu-eyja 'saga island', from /sogu%eyja/. If the phonological representation were /sogu( + )eyja/, we would expect *sogeyja on the phonetic level. (III) A d is usually inserted between an n and the immediately preceding r. Einarsson 1949:21. The insertion is performed by the D-INSERTION RULE. The rule can apply even if the r and the n are separated by a morpheme boundary. Cf. dat. pi. fornum of farinn 'gone', from //ar+in+um/, where the vowel syncope rule first applies to yield //ar+n+um/, whereupon the u-um-laut rule and the d-insertion rule produce fornum, pronounced with d before n. On the other hand, the d-insertion rule does not apply across a i-boundary. Cf. stor-netla '(plant) urtica dioeca', without d before n, from /st6r%netla/. If the phonological representation were /st6r( + )netla/, the expected phonetic representation would contain d before n? (IV) The consonantal segments which are realized as non-preaspirated stops in intervocalic position, are preaspirated if they immediately precede n within the word. Einarsson 1949:23. The sandhi rule which affects this change can apply even across a morpheme boundary. Cf. dat. pi. sopnum, with preaspirated p, from /sop+in+um/, of sopinn 'drunk'; dat. pi. getnum, with preaspirated t, from /grei+in+um/, of getinn 'begotten'; dat. pi. auknum, with preaspirated k, from /awfc+in+um/, of aukinn 'increased'. (In these examples, the vowel syncope rule (1) first brings the lax stop and the n into contact, whereupon the stop is preaspirated across the intervening morpheme boundary). On the other hand, the rule which preaspirates the stops in the above examples cannot operate across the §-boundary. Cf. djup-nokkvi '(seal) han- 2 In order to diminish the number of the unknowns, I have here and elsewhere in this paper avoided those phonological rules concerning which I cannot prove that the presence of the morpheme boundary does not block their operation. Thus there is a change of rl to rdl (with subsequent loss of r in a number of cases), very similar to the change of rn to rdn (and further to dn in a number of cases) described sub III. I know of no reliable examples proving that (r)dl ever comes from phonological /rl/ if /r/ and /1/ are separated by a morpheme boundary. Examples like the contracted cases /erf-, pronounced with rdl, of ferill 'trace, path', show that the d-insertion rule must operate in the context r—1, but are not reliable instances of the substring /r+1/; the morpheme boundary after fer- is uncertain, for we lack (a) any phonological evidence for such a boundary in ferill and similar words. In fact, I do not know of any phonological phenomena of Modern Icelandic that would REQUIRE the positing of morpheme boundaries whose decisive motivation would come from facts of word derivation. As will be seen below, the situation is different with regard to word composition. (b) a theory which would tell us whether ¡ara 'go, travel' and ferill (historically the latter is a derivative of the former) are sufficiently similar to each other seman-tically and phonologically for the word-formational relation between them to exist synchronically, and thus help motivate a morpheme boundary after fer- in ferill. 53 Lingüistica XI leyja abyssorum', with non-preaspirated p, from /djup§ndkkvi/; mat-nidingur 'one stingy with food', with non-preaspirated t, from /mat§nidingur/; bak-naga 'slander', with non-preaspirated k, from /bak%naga/. If the three examples were phonologically /djiip( + )ndkkvi/, /mat{ + )nidingur/, and /bafc( + ) naga/, respectively, their p, t, and k would be preaspirated on the phonetic level. See also footnote 2. (V) The phonological fricatives /v/ and /q/ (i. e. voiced velar fricative) become stops when immediately followed by n and a vowel. Einarsson 1949:13—14. The process is not blocked if a morpheme boundary intervenes between the sounds involved in the change. Cf. nom. pi. masc. sofnir, with b before n, from /so/+in+ir/, of the past part, sofinn 'slept'; nom. pi. fem. dregnar, with a velar stop before n, from /dregr+in+ar/, of the past part. dreginn 'drawn'. No such process applies across the §-boundary. Cf. of-memi 'allergy', with [vn], from /of%nsemi/; hag-nyta 'use', with [qn], from /hag§nyta/. If the phonological representation of the two compounds were /o/( + )memi/ and /hag( + )nytaf, respectively, we would expeot to find [bn] and [gn] in them on the phonetic level.3 See also footnote 2. (VI) Whenever any number of segments from the set {t, d, p, d} immediately follow each other in a simplex word on the phonological level, and such a consonantal group is not accompanied by additional consonants, a sandhi rule applies to coalesce such a consonantal cluster into a long preaspirated t if at least one of the original segments is t, and into a long d otherwise. The following examples show that the coalescing rule can apply even across a morpheme boundary (Einarsson 1949:54, 82—83): (2) (a) Preterite and past participle stem of regular weak verbs: root + dental suffix (4= /t/) hrseda 'frighten', pret. and past part, stem hrsedd-mseta 'meet' msett- brydda "border, edge' brydd- hitta "hit' hitt- (b) Nom./acc. sg. ntr. of strong adjectives: root + t gladur 'glad', nom./acc. sg. glatt latur 'lazy' latt saddur 'satisfied' satt brattur 'steep' bratt 3 Phonetic [qn] exists in Modern Icelandic, cf. the contracted cases brugdn-[brYqn-] of the past part, brugdinn 'moved quickly'. Pending an examination of the Modern Icelandic internal sandhi rules I assume for the time being that the rule which changes /q/ into a stop before /n/ precedes the loss of /d/ in the context q—n. The following derivation results, for the strong nominative plural feminine: brugd-i-in+ar vowel syncope rule brugd+n+ar q g / —n non-applicable d-*- 0 / q—n brug+n+ar [brYqnar] 54 Janez Orešnik On the other hand, the coalescing rule does not apply across the §-boundary. Cf. hvit-pinur '(plant) abies alba', from /hvit§pinur/, not from /hvit( +) pinur/, which would yield preaspirated tt instead of tp; rit-deila 'polemics (in the press, etc.)', from /ritMeila/, not from ¡rit( + )deila/, which would yield preaspirated tt instead of td; rdt-tsekur 'radical', from /r6t%tsekur/, not from /r6t( + )tsekur/, which would yield preaspirated tt; bldd-pyrstur "bloodthirsty', from /bl6d%pyrstur /, not from /blod( + ) pyrstur/, which would presumably yield dd instead of dp; stad-deyfing 'local anaesthesia', from /stadMeyfing/, not from /stad( + )deyfing/, which would yield dd instead of dd. Etc. (VII) The consonantal segments which are realized phonetically as the preaspirated labial stop (pp), as the non-preaspirated labial stop (.p), as the preaspirated velar stop (kk), and as the non-preaspirated velar stop (fc) become fricatives [f] and [x], respectively, in the context V—t in simplex words. Einarsson 1949:17, 20, 29. The process is not stopped by an intervening morpheme boundary, as the following examples show: (3) imperative singular with postposed personal pronoun: suptu 'sip', with [ft], from /sup+tu/4 taktu 'take', with [xt], from /tak+tu/ slepptu 'let go', with [ft], from /slepp+tu/ slokktu 'quench', with [xt], from /slokk+tu/ On the other hand, this sandhi rule does not operate across the §-bounda-ry. Cf. skip-tapi 'loss (of ship)', with [pt], from /skip§tapi/; upp-tekinn 'occupied', with [hpt], from /upp$tekinn/; bak-tala 'slander', with [kt], from /bakitala/; stekk-tid 'eleventh month in the Icelandic calender', with [hkt], from /stekk§tid/. These contrast, in pronunciation, with the examples listed in (3). See also footnote 2. (VIII) In Oresnik 1971 b I mentioned the Modem Icelandic PALATALIZATION RULE, which accounts for the fact that velar consonants are almost invariably palatalized if immediately followed by i, i, e, Be, or by diphthongs that begin with i or e. The palatalization rule is not blocked when it applies across a morpheme boundary, as shown by the weak nom. sg. masc. hagi, with palatalized /q/ and diphthongized root vowel, from /hag+i/, of hagur 'skilful; elaborate'. On the other hand, the palatalization rule cannot apply across the §-boundary. Cf. hag-yrdingur 'rimester', from /hag§yrdingur/, with non-fronted g before the §-boundary, and consequently without the diphthong-ization of the a. (IX) Stressed vowels are phonetically long if immediately followed by just one lax consonant within the simplex word (or by certain consonant clusters, see Einarsson 1949:4; such clusters will be disregarded in this discussion). Otherwise stressed vowels are short. When the stressed vowel is separated by a morpheme boundary from the consonant which determines, or from (apart of) the consonants which determine, its quantity, this circumstance has i The non-phonetic representations of (3) within the obliques are the not necessarily phonological representations to which the sandhi rule discussed sub VII applies. 55 Lingüistica XI no bearing upon the quantity of that vowel. Cf. cist 'love', with phonetically short a and no morpheme boundary anywhere in the word; the middle infinitive dst of d 'rest and graze horses', likewise with a phonetically short d, and with a morpheme boundary before st; strong nom./acc. sg. ntr. fiist. of jus 'willing', again with a phonetically short vowel, and with the morpheme boundary between s and t. On the other hand, if the stressed vowel and the immediately following st are separated by the §-boundary, the stressed vowel is phonetically long. Cf. a-stseda 'ground, reason', from /a§stseda/, with phonetically long a. If the phonological representation were /d( + )stseda/, the present rules, as formulated on the basis of the situation in simplex words, would produce, wrongly, phonetically short a. § 2. The discussion in I—IX has shown that the identification of the boundary between constituents of compound words with the word boundary takes care of many phonological phenomena — some of which have just been sketched — typical of compound words, without the need for any extra machinery. This of course speaks in favour of the said identification. However, it should be noted that the phenomena under discussion, in fact, as far as I know, Icelandic phonological phenomena in general, do not seem to REQUIRE this particular treatment. To see this, consider again the situations described in I—IX. It suffices to emend the rules discussed sub I—VII with the stipulation that the first vowel after the segments to be affected by the rules in question be unstressed, and the operation of the rules is blocked in the relevant environments in compound words without further complications, as far as can be seen. The alteration of course presupposes that the stress is allocated to vowels before the operation of the rules discussed sub I—VII. This is the case anyway. One of the rules discussed, the vowel syncope rule, happens to be one of the earliest rules in the Modern Icelandic phonological component, and all the remaining rules discussed here follow it in the ordering.5 5 The relative ordering of the vowel syncope rule and of the vowel truncation rule has not yet been determined, but both are certainly »early« rules, and even considered subparts of the same rule by one scholar (Benediktsson 1969:394). The sandhi rules discussed sub VI and VII follow the vowel syncope rule: the latter creates some of the segment clusters to which those sandhi rules apply. Cf. the derivations of the lp. sg. pret. subj. rmetti of mseta 'meet', and sleppti of sleppa 'let go': [D] is a cover symbol for a dental consonant from the set t, d, p, d. For the justification of the representations [msei+i+D+i] and [sZepp+i+D+i] being trisyllabic, see Oresnik 1971 a. For the arguments concerning the ordering of the remaining rules mentioned in the main text, with respect to the vowel syncope rule, see OreSnik 1972. msei+i+D+i sZepp+i+D+i sZepp+D+i sZe[ft]+i [sl£ftl] vowel syncope rule sandhi rules roaei+D+i 7Kse[ht]+i [malhtl] 56 Janez Orešnik It follows from formulation (1) that the stress must be determined — lexically and/or by a rule — by the time the vowel syncope rule applies, and consequently the distribution of the stresses can also be utilized when the remaining rules apply. The said alteration even abolishes the need for any kind of boundary between the constituents of compound words. On the other hand, the revision has two unpleasant consequences. First, the rules are now not only more complicated than they were before the reformulation, but also less general, because the adjustment, occasioned by the facts typical of compound words, does not have any positive effects outside compound words. Secondly, once the non-morpheme boundaries are barred from compound words, the stress can only be allotted lexically. To appreciate this point consider how the stress can be assumed to be placed if the constituents of compound words are allowed to be separated from each other by word boundaries.6 There must be an early rule (operating before the vowel syncope rule, as explained above), which assigns [ + stress] to the first vowel after a word boundary. Given the phonological representation /jokul§alda/ of jokul-alda 'moraine', the rule would stress /0/ and the constituent-initial /a/. Next there must be a rule which weakens certain stresses that are not word initial to different degrees, taking into consideration the syntactic structure of the compound in the process. For example, skola-bdka-safn, literally 'school book collection', has one stress pattern when the word means 'collection of school books', and another when it means 'school library'. Now, if the only boundaries permitted in compound words are morpheme boundaries, and the syntactic structure of the compound words is not indicated,7 this system of stress rules cannot produce the desired phonetic results. Consequently the stress must be allotted lexically in such a case. However, while the modification of the rules sub I—VII can thus be seen to be somewhat disadvantageous, it is not unrealistic in the sense of not obeying the established constraints on the form of phonological components. It is in this sense that it can be asserted that the rules described sub I—VII do not require that there be non-morpheme boundaries in compound words. Moreover, those rules do not require any boundaries at all between the constituents of compound words. A different situation obtains with the revision of the palatalization rule, discussed sub VIII. To prevent the fronting of g in hag-yrdingur 'rimester', it is not enough that the fronting vowel be stressed, for stressed vowels do front preceding velar consonants in simplex words. Cf. the singular present indicative forms geng-, skef-, kem-, etc., with fronted velars before the stressed e, as against their respective present stems gang-, skaf-, kom-, of the strong verbs 6 What follows builds on the analogy of the relevant aspects of the English stress rules as expounded by Chomsky and Halle 1968. i It is assumed here that strings such as ] + [, where the square brackets indicate the syntactic structure, are impossible on the phonological level. Since this assumption makes it more difficult, rather than easier, for me to prove the existence of the word boundary between constituents of compound words, I accept it for the sake of argument without further discussion. 57 Lingüistica XI ganga 'go', skafa 'scrape', and koma 'come'; cf. also the preterite subjunctive forms k&mi, sk&fi, kefdi, gysi, kynni, etc., with fronted velars before stressed vowels, as against the respective preterite indicative stems kom-/kom-, skdf-, kafd-, gus-, kunn-, of koma 'come', skafa 'scrape', kefja 'suffocate', gjdsa 'gush', kunna 'know how to'. It is therefore necessary to reformulate the palatalization rule so that a stressed vowel does not palatalize a preceding velar if the two are separated by any kind of boundary. Thus the palatalization rule offers precious positive evidence that there must be SOME boundary between the constituents of compound words in Icelandic. The same important result is achieved if the vowel quantity rule, discussed sub IX, is altered to accommodate the hypothesis that compound words do not contain any non-morpheme boundaries. Suppose that the vowel quantity rule lengthens vowels before a single lax consonant (the proviso, mentioned sub IX, about certain consonant clusters as allowing lengthening, is still to be kept in mind). In this case the vowel quantity rule would fail to lengthen the word-initial vowel of the compounds i-stad 'stirrup' .and Is-turn 'ice tower', for their phonological representation would be /i+stad/ and /is+turn/, respectively, the morpheme boundary would be disregarded (cf. ast, a+st, and fus+1, discussed sub IX above), and the rule blocked because of the cluster /st/ which follows the i to be lengthened. The desired phonetic output, with long i, would not be secured. And it does not help to stipulate that the vowel quantity rule is blocked if the next vowel in the compound word is stressed, for this stipulation would still fail to differentiate between, say, a-stseda 'reason, ground', with phonetically long a, and ast-ud 'lovable character, kindness', with phonetically short a. Obviously the rule must be formulated so that it counts the postvocalic consonants only as far as the first boundary, which is after a in a-stseda, and after t in ast-ud. This of course is tantamount to saying that the vowel quantity rule requires that there be a boundary between constituents of compound words, otherwise the correct, phonetic results cannot be obtained without calling in hopelessly ad hoc machinery. — The same conclusion would have been arrived at if the vowel quantity rule were formulated, not as lengthening certain vowels (as has just been done above), but as shortening certain other vowels.8 Thus, while I still have not been able to present positive evidence for the word boundary between constituents of compound words, I hope to have succeeded in demonstrating that at least two Modern Icelandic phonological rules, viz. the palatalization rule and the vowel quantity rule, require that there be SOME boundary between the constituents of compound words. If the boundary between the constituents of certain compound words which seems to be required by at least two phonological rules is to be more than an ad hoc device limited to just those compound words, some further motivation must be found for it. Such motivation could possibly be found in a theory 8The uninitiated reader should be warned that the facts presented here in the discussion of the vowel quantity rule by no means exhaust the problems connected with that rule. See, for instance, Bergsveinsson 1941:84—86, for the description of some additional relevant facts. 58 Janez Orešnik which would identify at least (re—1) of the n constituents of any compound word with some word/stem to be found in the same lexicon. Thus, if the jökul- of jökul-alda 'moraine' is identified with the stem jökul- of the simplex word jökull 'glacier', the boundary between jökul- and -alda is motivated. Furthermore, the theory I have in mind would automatically extend this type of motivation beyond the examples which have originally stimulated the search for such motivation, to all compound words the (re—1) of whose re constituents can be identified with other words/stems in the lexicon. It can be foreseen that semantics will play an important part in such a theory, seeing that the link between, say, jökull 'glacier' and jökul-alda 'moraine' is primarily semantic. Until that theory is constructed, we must try to establish the existence and the nature of the boundary between constituents of compound words on purely phonological grounds. While the present paper may have established the EXISTENCE of a boundary between the constituents of at least some Modern Icelandic compound words, the NATURE of that boundary remains a field for further research. REFERENCES Benediktsson, Hreinn: »On the inflection of the ia-stems in Icelandic« in Afmselis-rit Jöns Helgasonar 30. jüni 1969. Reykjavik, 1969. Bergsveinsson, Sveinn. Grundfragen der isländischen Satzphonetik. Phonometrische Forschungen Reihe A, Band 2. Copenhagen and Berlin, 1941. Chomsky, Noam, and Morris Halle. The Sound Pattern of English. New York, 1968. Einarsson, Stefan. Icelandic Grammar Texts Glossary. Baltimore, 1949. Orešnik, Janez. »On some weak preterite subjunctives of otherwise strong verbs in Modern Icelandic« in Arkiv for nordisk filologi 36:139—78. Lund, 1971. (Referred to as Orešnik 1971 a.) Orešnik, Janez. »Morphophonemic notes on the Modern Icelandic imperative singular.« Forthcoming. (Referred to as Orešnik 1971 b.) Orešnik, Janez. »On the epenthesis rule in Modern Icelandic.« Forthcoming. (Referred to as Orešnik 1972.) POVZETEK V duhu generativne fonologije se raziskuje vprašanje, ali je med sestavnimi deli novoislandskih sestavljenih besed kaka fonološka meja. Dveh pravil novoislandske slovnice — tistega o mehčanju zadnjenebnih soglasnikov in tistega o fonetični dolžini poudarjenih samoglasnikov — sploh ni mogoče pravilno izreči, če se na omenjenem mestu ne postulira obstoj kake meje, morfemske ali besedne ali katere druge. Odprto pa ostaja vprašanje o naravi te meje. 59 CDU 808-561.721.38 Alenka šivic MODALNA RABA SLOVANSKEGA BIMb, BYCHt, BeCHI, V cerkveni slovanščini so pogojnost izražali opisno s posebno pogojniško spregatvijo (1. edn. bimb, 2., 3. edn. bi, l.mn. bim-b, 2. mn. biste, 3. mm. bg; dvojina ni ohranjena) + deležnik na -Zt. Nanjo je že zelo zgodaj začel vplivati aorist (npr.: 2. mn. biste namesto *bite pod vplivom 2. mn. sigm. aorista byste, 1. mn. bichom-b, 3. mn. biš§ pod vplivom 1. mn. oz. 3. mm. aorista bychomi>, byš§J, kasneje pa jo je v spomenikih popolnoma zamenjal. Razlika med aori stom, rabljenim v časovni in pogojni funkciji je bila le v 2., 3. edn., saj se v časovni funkciji rabi bysti>, v pogojniški pa vedno by (van Wijk, Istor. staro-slavj. j., 1957, str. 308). Prav zaradi tega je Vaillant, Gramm. comp. III, 1966, str. 95 d., menil, da ima bychh itd. v pogojniški funkciji le aoristov vid, v resnici pa ni aorist. Stang, Das slav. und balt. Verbum, 1942, str. 238, pa domneva, da bi by utegnil biti le analogna tvorba po pogojniku bi, ne pa stari korenski aorist *bhiis, *bhut. Za oblikovno neenotno pogojniško spregatev, izpričano v cerkveni slovanščini, pravi Brugmann, Vergl. Gramm. II, 1897, str. 409, da je iz korena *bheu-»rasti, večati se, biti«, da pa o njej še ni izrečena zadnja beseda. Stang, z. c., str. 198, 238 d., jo povezuje z litavskimi dvojinskimi in množinskimi oblikami -biva, -bita, -bime, -bite. Dodaja, da baltski bi- lahko tvori preterit in optativ. Prvotna se mu zdi časovna funkcija, modalna pa kasnejša. To primerja s prehodom slovanskega aorista bychb v pogojnik. Baltoslovanski bi- je oblikovno lahko bil optativ korena *bhu- (*bh[u\-ye- : bft[w]t-) ali pa imperfekt z i-jev-sko podaljšavo istega korena (enak odnos med balt. H in sla. H najdemo tudi še pri ž-jevskih glagolih). Nasprotno pa naj bi se v lit. 1. edin. -biau in 2. edn. -bei skrival *be- iz *bhue-. Le-ta je ohranjen tudi v slovanskem, verjetno prvotnem, aoristu bšch-b, bš itd., ki je prešel v cerkvenoslovanski imperfekt (Otrgbski, Gram. j. lit. III, 1956, str. 231; Pofcomy, IEW, str. 150). Večina sodobnih slovanskih knjižnih jezikov pozna po dva pogojnika: za sedanji in za pretekli čas (ponekod jima pravijo tudi I. oz. II. kondicional). Oba se tvorita opisno: pogojna členica bi/by (sin., mak., rus., ukr., brus.) ali posebna pogojniška spregatev (polj., češ., sbh., bolg.) + deležnik -l za sedanji pogojnik, preteklemu se največkrat doda še deležnik glagola biti »sein« (sin. bi bil delal; ukr. ja buv by nosyv itd.). Pogojniško členico oz. pogojniško spregatev v severnoslovanskih jezikih s precejšnjo gotovostjo izpeljujejo iz aorista. Posamezne poskuse, da bi v 61 Lingüistica XII staroruskih tekstih redke oblike z bi- namesto by- v modalni funkciji razlagali kot ostanke psla. spregatve bimb itd. (Gabka, ZfSPh III, 1956, str. 244) so navadno zavračali, oblike pa razlagali kot balkanske slavizme (Kiparsky, Rus. hist. Gramm., 1967, str. 236). Poljski avtorji (Loš, Krčt. gram. hist. j. pol., 1927, str. 175 d., in dr.) pri razlagi pogojnika izhajajo iz aorista; nanj je pozneje močno vplival sedanjik. Gebauer, Hist. mluvn. III, 1909, str. 127 d., trdi, da češčina v funkciji sedanjega pogojnika uporablja nekdanji pluskvamper-fekt (bych nesl), v funkciji preteklega pogojnika pa novotvorbo z deležnikom glagola biti (byl bych nesl). Dodaja še, da je aorist postal pogojnik takrat, ko je pluskvamperfekt prešel v pogojnik. A Dostal, Hist. mluvn. č. j. II/2, 1967, str. 169d., obravnava Gebauerjevo trditev o prehodu pluskvamperfekta v pogojnik. Po njegovem pluskvamperfekt oblikovno še ni bil ustaljen, ker je lahko uporabljal aorist ali imperfekt glagola biti »sein«, pomenil pa je davno preteklost. Potem dodaja: »Shoda proto mezi pluskvamperfektem a kondicionalem je spiše nahodila a vyplyvajici ze situace ve vyvoji pluskvamperfekta a kondicionala. 2e mezi obema tvary neni vyznamoveho hlub-šiho vztahu, to ukazuje fakt, že se kondicional i pluskvamperfekt v dalšim vyvoji od sebe oddšlily«. Oblika za 2. in 3. edn. by se je tudi v češčini razširila na 3. mn.; k temu teže tudi ostale oblike, zato se novo razlikovanje med osebami znova dosega z sedanjikom pomožnika biti. Slovaščdna ima uzakonjene za sedanjost oblike: by som (+ bol za preteklost) + delež, glagola. Dobro ohranjeno aoristovo spregatev v funkciji sedanjega pogojnika ima gornja lužiščina (šewc, Gram. hornjoserb. ršče, 1968, str. 205). Knjižna slovenščina loči oblikovno in pomensko dva pogojnika: za sedanji (bi + delež. -1) in za pretekli čas (.bi bil + delež. -1). Slovnice od Bohoriča naprej obravnavajo to vprašanje, v jedru podobno. Kot pogojniško čle-nico navajajo nepregibni bi (ali reduciram bs). Danes je težavno ugotoviti, ali je bi naslednik praslovanskega pogojnika bimb ali aorista bychb ali morda obeh, ker sta refleksa za praslovanski i in y v slovenščini enaka. Pogojniški členici je že Kopitar, Gramm. d. slov. Sprache, 1808, str. 320, skušal najti celotno spregatev. Povezoval jo je s spregatvijo bim, še živo v dialektih, ki naj bi bila ohranjena tudi v sedanjiku kompozita dobim. Miklošič, Vergl. Gramm. III2, 1876, str. 177, jo izpeljuje iz aorista. Problema se je lotil tudi Ramovš (Morfologija, str. 116; ČJKZ VII, str. 119), vendar je knjižni bi razlagal na dva načina: a) v njem se skriva nekdanji aorist za 2. in 3. edn. (z njim se strinja tudi Nahtigal, Slovanski jeziki, 19522, str. 266, a dodaja »z izjemo nekih narečij«); b) splošnoslovensko bi je nastalo iz 2., 3 edn. praslovanskega pogojnika bimb, bi itd. Enako meni tudi Breznik, Slov. slovnica, 19212, str. 137. Toda Ramovš ima v Morfologiji, str. 145, celo kompromisno mnenje: sin. bi je nastal iz psla. pogojnika bi, ki se je križal z aoristom by. Problem s tako različnimi razlagami seveda ni rešen. Ne le zaradi pomanjkanja zgodovinskih virov, ampak tudi zaradi enakega refleksa za psla. i in y je veliko vprašanje, če se bo kdaj dalo dokazati, kolikšen je resničen delež enega in kolikšen drugega. Pri določanju, za katero obliko gre, se je treba opreti na tiste osebe, v katerih so se oblike za aorist bychb itd. ločile od oblik za pogojnik bimb itd. Aorist v časovni funkciji najdemo v Brižinskih spome- 62 Alenka šivic nikih (BS), prav tako tudi v Rateškem rokopisu (Krek, Kres I, 1881, str. 185—186), v Stiškem rokopisu ni več sledi o njem. Aorist bychh glagola byti je v BS najpogosteje povezan z deležnikom na -n za pretekli trpnik (biti criiken I 13). V modalni funkciji (pogojni, zlasti pa z da v namenilni) srečujemo tudi psla. pogojnik za 1. edn. bimi>. Ker je psla. y za labialni ponekod že pisan z i, bi bile oblike z bi npr.: ecce bi detd naf nezegrefil II 1, lahko bodisi nekdanji pogojnik bi za 3. edn. bodisi pogojniško rabljen aorist. Težko je ugotoviti, kolikšen je bil vpliv starocerkvenoslovanskih spomenikov na brižin-ske prav pri izražanju pogojnika. V nobenem narečju severovzhodne in severne Sovenije doslej ni bila zabeležena spregatev podobna psla. bimh, bi itd. Na drugem delu slovenskega jezikovnega ozemlja pa se je ohranil poseben pogojnik. Morda je že Kopitar vedel, da imajo nekatera slovenska narečja posebno pogojniško spregatev, saj v slovnici namiguje na to (čeprav členico bi napačno povezuje tudi še z drugotno nastalimi oblikami dobim, dobiš iitd.). Popolnoma jasno pa ima Vodnik, Pifmeno/t ali Gramatika sa Perve Shole, 1811, str. 72, poleg knjižne oblike tudi notranjske in primorske: 1. edn. bim, 2. edn. bij h, 3. edn. bi, 1. dv. biva (bive), 2. dv. bijta (bisti), 3. dv. bifta (bifti), 1. mn. bimo, 2. mn. bijte, 3. mn. bio (oblike v oklepaju so za ženski spol). Po podatkih M. Matičetova se v Bavcih pri Marezigah najde še naslednji sistem (navajam spregatev, ki jo je zapisal v pravljicah, le 1. in 3. mn. sta rekonstruirani po spominu): 1. edn. bin, 2. edn. biš, 3. edn. bi, 1. mn. *bimo, 2. mn. biste, 3. mn. *bijo. Sicer skopo število primerov, s katerimi razpolagam, kaže raznovrstne rabe, niti enkrat ne gre za pravi pogojnik. To pa seveda ne moti, saj je znano, da je pogojniški pomen le eden od modalnih, ki jih ista oblika lahko izraža. Spregatev se, kljub nekaterim razlikam, lepo ujema z oblikami, ki jih ima Vodnik v svoji slovnici, a tudi s čakavskimi. Na to spregatev je verjetno vplival sedanj ik (npr.: 2. edn. biš, 3. mn. bij o), saj tudi Finka domneva za del čakavskega ozemlja sedanjiški vpliv na stari pogojnik (čakav. narj., čak. rič I, 1971, str. 60). Domnevi, da je ta spregatev drugotna in je nastala iz členice bi pod vplivom sedanjika pomožnega glagola ali pa sedanjiških končnic, se upira 2. mn. biste, ki kaže še star aoristov vpliv (enako tudi v cerkveni slovanščini). Kljub tem stranskim vplivom je v jedru verjetno pogojnik bimh, bi itd. Čeprav ni nujno, da je Vodnik pod pojmom Primorska in Notranjska razumel to, kar razumemo danes, je ta pogojnik nekoč najverjetneje zajemal nekoliko širši prostor kot danes.1 Z nič manjšimi težavami se pri določanju izhodišč srbohrvaškega pogojnika ne srečujejo srbohrvaški jezikoslovci. Tudi v srbohrvaščini je refleks za psla. y enak tistemu za i; v pogojniški funkciji pa se danes rabita: na večjem delu današnjega srbohrvaškega ozemlja aorist, v čakavskem narečju pa je bolj ali manj ohranjena spregatev psla. pogojnika. Zaradi te dvojnosti (zlasti i Iz podatkov, ki jih navaja Iv. Grafenauer, SJ I (1938), str. 15—16, in F. Ilešič, IMS X, 1910, str. 122—124, ima Goriški rokopis pogojniške oblike tvorjene s členico bi. žal vemo le, da rokopis izvira z Goriškega Utegnilo pa bi se ujemati z Ramovšem; le-ta trdi, da je aorist by ohranjen v Brdih in na Banjški planoti. Na tem prostoru bi bilo že drugačno izhodišče, izvir pogojniške členice. Za vse ostalo slovensko jezikovno ozemlje pa ni popolnoma jasno iz česa moramo izhajati. 63 Lingüistica XII še, ker je v 3. mn. bi tudi tam, kjer je za pogojnik rabljen aorist) so posamezni jezikoslovci postavljali različna razmerja med njima. Mušič meni, da je štokavski pogojnik ves iz aorista, Belič, Istor. sh. j. II, str. 276, pravi, da so posamezne oblike psla. pogojnika vplivale na aoristovo spregatev, P. Skok, Etim. rječn., I, str. 159, pa tudi štokavske oblike izpeljuje iz psla. pogojnika. Belič svojo trditev utemeljuje s tem, da je 3. mn. pogojnika bi nastala iz 3. mn. psla. pogojnika bq (ohranjen je v kajkavskem bu), ko se je le-ta sčasoma prilagodil ostalim osebam z deblom bi-. Le v modernih zetskih govorih se v pogojniški funkciji čedalje bolj rabi aorist biše.2 V čakavščini je stari pogojnik ohranjen v različni meri (Finka, z. c.). Ponekod je bolj arhaičen: 1. edn. bim, 2., 3. edn. bi, 1. mn. bimo, 2. mn. bite, 3. mn. bi, drugod je močnejši sedanjiški vpliv: 1. edn. bim, 2. edn. biš, 3. edn. bi, 1. mn. bimo, 2. mn. bite, 3. mn. biju. Vplival je lahko tudi aorist: 1. edn. bih, 1. mn. bismo, 2. mn. biste, ali pa se je ustalil nepregibni bi (ja bi reka\l], mi bi rekli). Omembe vreden pa je podatek, da se na Hvaru za nepoudarjeni aorist uporabljajo po-gojniške oblike: 1. edn. bin (n je iz m), 2. edn. bis, 1. mn. bimo, 2. mn. bite (M. Hraste, JF, XIV, str. 47). Dalje izvajajo iz aorista tudi makedonski bi (Koneski, Istor. na mak. j., 1965, str. 169) in bolgarski pogojnik (Mirčev, Istor. gram. 19632, str. 207—208). V cerkvenoslovanskih spomenikih srečamo v časovni funkciji še spregatev: 1. edn. bšch-b, 2., 3. edn. be, 1. dv. bšhove, 2. dv. bšsta, 3. dv. bšste, 1 mn. bšhom-b, 2. mn. bšste, 3. mn. b蚧. To je stari sigmatski aorist (Vaillant, Gram. comp. III, 1966, str. 69; Stang, Vergl. Gramm, d. balt. Spr., str. 11; Pokorny, IEW, str. 5.49), a se v cerkveni slovanščLni rabi kot imperfekt (van Wijk, Istor.staroslavj. j., 1957, str. 319). Kasneje je nastal novi imperfekt beach-b, be[a]še itd. To bi utegnilo kazati, da se bšch-b itd. ni mogel ustaliti kot imperfekt. Dostal, Stud. o vid. syst, v starostov., 1954, str. 151, razloži razliko med njima tako: analogični bšach-b itd. je prvotno nastopal namesto bšch-b itd. le v pojasnjevalni funkciji, šele kasneje tudi v pripovedni. Ta cerkvenoslovanska oblika je nastala iz prevojne stopnje korena *bheu-+ sufiks -e-, znan tudi iz drugih indoevropskih jezikov. Stang, Vergl. Gramm, d. balt. Spr., str. 375, in Vaillant, Gramm, comp. III, 1966, str. 65, jo primerjata s stprus. 3. os. prete rita be, bei, bei od glagola boüt »biti«. V let. in lit. se je ta oblika križala z optativnim bi-, ki ga povezujejo s sla. pogojnikom bimb itd. Vaillant, z. c., ftteje sem še lit. členico be, ki pomeni trajanje. Nasprotno pa ima stara letščina tudi pogojniški pomen: 1. mn. -bem, 2. mn. -bet, kar ustreza lit. 1. mn. -bime, 2. mn. -bite. Glagolska spregatev bšch-b se je izgubila v tistih slovanskih jezikih, ki so izgubili aorist in imperfekt kot posebna časa, v drugih pa se je ohranila. Tako imajo spregatev bšch-b, be/bšše itd. gornja lužiška srbščina, makedonščina in bolgarščina v pomenu nekdanjega aorista in imperfekta. Aoristni pomen ima 2 Nasploh je značilno, da se je tudi v severnoslovanskih jezikih, ki imajo sicer precej spremenjeno (po sedanjiku) pogojniško spregatev iz aorista, prav v 3. mn. najprej utrdil by iz 2., 3. edn. Prav tako je v čakavščini v 3. mn. bi nadomestil stari bg, ta pa je tudi drugačnega izvira kot oblike za ostale osebe spregatve cerkvenoslo-vanskega bimb. 64 Alenka Sivic lahko tudi v srbohrvaščini. (Kosor, Jezik, XVII, str. 125 d). Oblike so znane tudi v staroruskih spomenikih. V BS je zapisano: efebeje priuuae zlouuezi Uliza tasie, II 30—31, kar je Vondrak, z. c., str. 129, razlagal kot 3. m aor. b蚧. V BS I 8 najdemo tudi deležnik beufi. Vsi avtorji doslej so ga tolmačili kot pisno pomoto za cksla. byvhsi. V BS nekdanji y nikoli ni bil zapisan z e, zlasti ne v bližini u. Zato smemo z vso upravičenostjo rekonstruirati deležnik *bčvbši, tvorjen iz aoristovega debla, ki je vsaj v delu slovanskih govorov moral obstajati. Kasneje najdemo pri Skalarju še: glihi uishi krail Saul sa uollo sourastua proke nadolshnirno Dauido be od hudiga duha obseden (195 a). Miklošič, Vergl. Gramm. III2, 1876, str. 160, in Oblak, Doneski k hist, slov. dial., LMS 1890, str. 227, vidita v njej imperfekt, Ramovš, Morf., str. 145 in dr., pa aorist. Slednji, CJKZ VII, str. 119 in Dialekti, str. 54, pravi še, da ima be v Teru aoristno funkcijo: ta ba na dobra ženica. Vsi ti primeri so brez jasnega vida, saj pomenijo preteklo dejanje, v katerem je prisotno tudi trajanje. V indoevropskih jezikih je bil aorist lahko rabljen tudi v modalnem pomenu (Otrgbski, Gram. j. lit. III, 1956, str. 231). Skoraj nujno je domnevati, zaradi zgodovinskih zapisov in zaradi primerov, ki nam jih ponujajo zelo arhaična narečja na slovenskem zahodu in severozahodu ter v gornji luži-ščini, da je že del praslovanskih govorov izražal pogojniški pomen s tem starim aoristom bčcht, bš itd. + deležnik. Spregatev je bila ob razhodu Slovanov morda še neokrnjena, povsem mogoče pa je, da se je že nagibala k ne-pregibnosti. V BS imamo pravi pogojnik le trikrat: ecce bi dedt naf nezegrefil, II 1—2 in dvakrat gemu be Siti, II 2—3, drugod so drugi modalni odtenki, zlasti na-menilni. V prvem primeru bi bil bi lahko iz psla. pogojnika bimb itd., ali pa iz aorista bychb itd. V drugem primeru gre po Kolariču, Freis. Denkm., 1968, str. 55, za brezosebni pogojnik, tj. konstrukcijo, v kateri je osebek izražen z dajalnikom, povedek pa z be + nedoločnik, pri čemer be daje frazi modalnost. Ta be obravnajo kot obliko za 2., 3. edn. starega aorista bšch-b, bš itd. Kolikor mi je znano, take rabe cerkvenoslcvanski spomeniki ne poznajo. Dejstvo, da v istem spomeniku najdemo več različnih pogojnikov, priča, da so imeli različno vrednost, da sistem ni bil ustaljen, ali pa, da se je mešalo več različnih sistemov za izražanje pogojnika. Ziljsko narečje, na slovenskem severozahodu, pozna poseben pogojnik. Prvič je omenjen pri Gutsmannu, Wind. Sprachlehre6,1829, str. 34: 1 edn. bejm, 2. edn. befi, 3. edn. be, 1. dv. be{va, 2., 3. dv. be/ta, 1. mn. bšfmi, 2. mn. be ¡te, 3. mn. &efo. Trdi, da ga rabijo zahodni Korošci. Potrjujejo ga tudi novejši zapisi pesmi. (To sicer ni potrdilo, da je še živ, saj se prav v pesmi zaradi ritma velikokrat zadržujejo arhaizmi, je pa dokaz, da je resnično obstajal). Te oblike je razložil Miklošič, Vergl. Gramm. III2, 1876, str. 177, kot aorist by + jesmb, nasprotno pa jo je Oblak, z. c. izpeljal iz pogojniške členice be + sedanjik pomožnika biti, kar je bolj verjetno. Ta be ima pogojniško funkcijo tudi v terskem narečju: be ja mou soute za ukupiti. Ramovš govori še o režij anskem aorist-imperfefetu be v pogojni funkciji: Ja ba bil že jtan (de Courtenay, Mat. I, 1106), Na ba tcela dnu 5 Lingüistica 65 Lingüistica XII nâ ba pd na tœla (ibid. 1 1, 207). Pogojnik se izraža z oblikami ba, baj, be, bej. Rabijo se za vse osebe in števila. Fonetika teh narečij kaže na normalne reflekse psla. ë (-j na koncu v nekaterih primerih razlaga Ramovš z akcentuira-nim položajem), kar pomeni, da se v teh oblikah skriva že okamenela oblika za 2., 3. edn. bë. S temi oblikami se lahko izražajo še drugi modalni pomeni npr. želelni: ba tœl bèt dober daš (ibid. I, 1295). Ramovš je menil, da je raba aorist-imperfekta bë v pogojni funkciji drugotna in da je nastala zaradi pogoj niško rabljenega imperfekta. Proti tej trditvi govori naslednje. V gradivu, izpisanem iz Materialov B. de Courtenaya, nisem našla primerov, kjer bi imel imperfekt (iz novega imperfekta glagola biti) pogojniško funkcijo, temveč ima le časovno (to se vidi zlasti v 2., 3. edn. bese): Peršal tau to drûho stanejo; na bceše, kâ na šiwaše, ma ni morceše šiioat jito ôro (ibid. I, 10). V pogojniški funkciji se sicer rabijo imperfekti nekaterih glagolov, toda to so najpogosteje tisti, ki že sami po sebi izražajo kako modalnost. Največkrat se tako rabi glagol hateti: béj to bilo tup tœdnœ ni tcešou rahèt mii-šo tâna Sïïbice (ibid. I, 984). Zato se mi zdi bolj verjetno, da je modalnost — tudi pogojna — povezana s členico ba(j), beij), že stara in v zvezi z ziljsko in brižinsko členico be.3 Muka, Hist. u vergl. Laut- u. Formenlehre, 1891, str. 609 d.; Vaillant, z. c., str. 98, navajata v funkciji preteklega pogojnika gornjelužiški bëch, bë itd. + deležnik na -t. šewc, Gram. hornjoserb. rèce, 1968, str. 166, navaja bëch kot imperfekt, a tudi za tvorbo pluskvamperfekta. Pozornost zbuja spre-gatev, ki ima v 2. in 3. edn. dve obliki: bë / bëse. Muka žal nima cele paradigme tega preteklega pogojnika v gornjelužiški srbščini, vendar ima dva primera: Hdy bë Hadam njezhrësil, njebë šmjerč do swëta pfišia. Hdy bë ty tudy byî, môj bratr njebudéeëe wumjerl. Po podatkih Michaika, Konj. typa..., Lët. Inst. za serb. ludosp., 1970, A-17/2, str. 129 d., rabijo v katoliškem narečju v pogojniški funkciji namesto pogojniškega bôch (iz bychb) + deležnik na -i, indikativ pluskvamperfekta (= bëch itd. + delež, na -i) za irealno dejanje v preteklosti. V delu narečij je za pretekli pogojnik ohranjena le členica bëso / bëse + deležnik na -i. Avtor meni, da je po nastanku to indikativ pluskvamperfekta (prim. Gebauerjevo trditev za češ. pogojnik). Poudarja še obratno sorazmerje med pluskvamper-fektovo modalno in časovno zaznamovanostjo. Zdi se mi, da dve obliki za isto osebo v isti spregatvi kažeta na njeno sestavljenost. Verjetno so se tudi v gornjelužiški spregatvi zlile oblike starega aorista bëch-b, bë itd. in novejšega imperfekta bëach-b, beaše itd., ki je bil morda kontrahiran v bëch-b bëse itd. Potemtakem bi pogojno modalno funkcijo v ta sistem prispeval stari aorist bëch-b, bë itd. To, da se je danes v delu narečij posplošila oblika bëse / bëso, ne nasprotuje naši domnevi, saj sta se v gornjelužiški srbščini aorist in imperfekt oblikovno popolnoma izenačila, ločita se le po glagolskem vidu (A. Dostâl, Aor. i impf. srb..., Acta 3 že Ramovš je trdil, da so Slovenci prišli v Rezijo nekako okrog 1.1000 s koroške strani. Rezija je bila do konca XI. st. upravno združena s Koroško, zveza pa je bila pretrgana nekako od XIV. st. naprej. 66 Alenka šivic Univers. Carol., Phil. Supplem. 1959, Slavica Prag. I, str. 113—121, in. F. Mareš, Praet. simplex y luž. srb., ibid., str. 123—131). Torej bi lahko skupaj z Dostâ-lom, z. c., domnevali, da je razmerje med pluskvamperfektom in pogojnikom prej navidezno kot resnično in je nastalo v določenem zgodovinskem obdobju iz prvin, ki so bile na razpolago, katerih starost pa sega daleč nazaj v pra-slovansko dobo, zlasti še, ker je tudi slovanski pluskvamperfekt nova tvorba. Torej bi lahko sodili, da so v psla. obstajale tri spregatve: bimt, itd., bychj, itd., bëcfcb itd. z modalno, pogojniško funkcijo. Vse tri so povezane s korenom *bheu- »biti«. Cerkvenoslovanski spomeniki pričajo, da je najmlajša mo-dalna funkcija slovanskega aorista bycht,; ohranjena je v večini slovanskih knjižnih jezikov in njihovih narečij. Starejša je spregatev bimh itd., ki jo je v cerkvenoslovanskih spomenikih izrinil aorist byehb. Danes je ohranjena le v čakavskem narečju in deloma v slovenskih narečjih. To spregatev poznajo Slovani le v modalni rabi,4 baltski bi- ima tudi časovno funkcijo. Tretja je tvorba s slovanskim bëctvh, bë itd. V cerkvenoslovanskih tekstih ima ta spregatev le časovno — preteritalno — funkcijo, na skrajnem zahodu slovanskega jezikovnega ozemlja in že v BS pa obstaja tudi modalna oz. pogojniška. Prav zaradi paralele v stari letščini smemo sklepati, da je modalna funkcija že zelo stâra in sega morda celo v psla. dobo, poznali pa so jo tisti psla. govori, iz katerih so se razvili rezijansko-ziljsko narečje in nekateri lužiški govori. Zelo zanimiva je nepregibna oblika la. Po podatkih romunskega slavista M. Tomicija se rabi v jeziku dveh srbskih otokov v Romuniji v posebnih konstrukcijah z da: ja la da pijevam; sam sam la da pijevam; nedoločnik je lat, deležnik lal, lala (za ž. sp.), sedanjik: edn. lam, laš, la, mn. lamo, late, laju, aor. lado, lade. E. Petroviči, Graiul..., 1955, str. 191, meni, da je ta glagol iz cksla. dov(b)lëti, dov(l)Ijf) »sufficere, contentum esse«. To razlago je sprejel Skok, JF XVIII, str. 257. Nasprotno pa trdi F. Bezlaj, Lingu. X/2, 1972, str. 29 d., da je to stara atematska osnova *(v)lomi z analognim aoristom po damb, vem t, jemt. Nepregibni la bi bil lahko ostanek starega aor.-impf. *lachh, *la, *la, Hachom-b, Haste, laš§ enakega itipa kot bëch-b, bë itd. (bë na slovenskem severozahodu je tudi nepregibna modalna členica in v zvezi z jesm-h— zilj. besem— tvori pogojnik). RÉSUMÉ Dans les plus anciens manuscrits du vieux slave ecclésiastique on exprimait le sens conditionnel avec la conjugaison particulière du conditionnel 1. sg. bimh, 2., 3. sg. bi, 1. pl. bim-h, 2. pl. biste, 3. pl. &ç>; les formes du duel ne sont pas attestées) + ptc. perf. act. II. Stang, D. slav. u. balt. Verbum, 1942, p. 198, 238 ss., met cette conjugaison en rapport avec les formes du duel et du pluriel -biva, -bita, -bime, -bite en lituanien; elles ont la fonction de préterite et d'optatif. A ce qu'il semble la fonction temporelle existait plus tôt, l'emploi modal est postérieur. Quant au thème baltoslave bi-, il pourrait être l'optatif de la racine *bhû- [*bh(u)yë- : *bh(u)ï-] ou l'imparfait prolongé par -ï- de la même racine (la relation entre balt. *i et sla. *ï se trouve aussi dans les cas des verbes en i). En ce qui concerne la forme de la conjugaison conditionelle, elle n'est pas unitaire. Avant que les premiers manuscrits soient écrits, il y avait 4 Raba v aoristovem pomenu, znana s Hvara, je verjetno drugotna, ker je značilna le za nepoudarjeni položaj. 67 Lingüistica XII l'influence de l'aoriste slave: 2. pl. biste au lieu du présumé *bite, peut-être à cause de 2. pl. aor. sigmatique byste. Plus tard cette influence devenait de plus en plus forte, et enfin l'aoriste remplaça complètement le conditionnel birm, etc. (van Wijk, Istor. slavj. jaz., 1957, p. 308). Quant à son contenu on trouve dans la majorité des langues slaves littéraires contemporaines deux conditionnels différents, mais la différence formelle entre eux n'est pas importante (sin. bi delal: bi bil delal). On explique l'origine de la particule conditionnelle ainsi que celle de la conjugaison conditionnelle à l'aide d'aoriste dans la plupart des langues slaves. Les cas isolés au thème bi- pour le conditionnel dans les textes du vieux russe sont considérés comme des balkanismes. Peu à peu le présent commmençait à exercer son influence sur cette conjugaison conditionelle, provenant de l'aoriste en pol., teh., slov., tandis qu'en haut sorabe, bulg., skr. (štok.) la conjugaison est bien conservée. Quant à la particule conditionnelle Slovène bi on l'explique de différentes façons. Miklošič, Vergl. Gramm. IIP, 1876, p. 177, pensait qu'elle provient de l'aoriste, mais Nahtigal, Slov. jez.2, 1952, p. 266, Ramovš, Morfol., p. 116, ČJKZ VII, p. 119 ne l'approuvent qu' en partie. Dans une partie des dialectes slovènes, elle provient sans aucun doute de l'aoriste slave bych-b, etc. Les données dialectales (oralement par M. Matiče-tov: bin, biš, bi, *bimo, biste, *bijo — Bavci; V. Vodnik, Pijmenoft ali Gramatika sa Perve Shcle, 1811, p. 72: sg: bïm, bîfh, bi, du bivà (bivè), biftà (biftï), biftà (bijtï), pl. bimà, biftè, bià (les formes entre parenthèses servent comme des féminins) — dans le Littoral et la Carniole Intérieure — nous parlent malgré l'influence primaire de l'aoriste et postérieure du présent qu'il s'agit du conditionnel birnj, etc., bien connu en vieux slave. Une conjugaison sembable pour exprimer le conditionnel se trouve aussi en čakavien. C'est dans l'île de Hvar que l'on emploie les formes du conditionnel pour l'aoriste atonique (M. Hraste, JF XIV, p. 47). Les dialectes de la Eesia, du Ter et de la Zila possèdent encore aujourd'hui une particule conditionnelle spéciale: ter. bê (ayant de même une fonction temporelle), rez. ba, baj, be, bej < aor.-impf. bë pour toutes les personnes et les nombres. Elle exprime aussi d'autres sens modaux, par ex. l'optatif. La fonction temporelle est évidente surtout dans la 3. sg. impf. bëse. Quant aux autres verbes c'est l'imparfait de »hoteti« qu'on trouve le plus souvent avec un emploi modal. Ramovš, ČJKZ VII, p. 199; Dialekti, p. 54 pensait, que la fonction conditionnelle de ba, be etc. est secondaire. Elle se serait développée sous l'influence de l'imparfait conditionnel. A notre avis, la particule conditionnelle *bë est primaire, la connexion avec l'imparfait secondaire est postérieure. Gutsmann, Windische Sprachlehre^, 1829, p. 34, a fait mention en dialecte zilien de la conjugaison conditionnelle suivante: sg. béfm, bëfi, bé, du. béjva, béfta, béfta, pl. béfmi, béfte, béjo. Ces formes sont constatées aussi dans des notes postérieures. Oblak, LMS 1891, p. 227 déjà a expliqué correctement les formes étant composées de la particule conditionnelle bë + présent du verbe auxiliaire biti »être«. On trouve la même composition dans les langues tchèque et slovaque. Cette particule est probablement assez vieille, puisqu'on lit dans les Monuments de Freising cette même fonction: gemu be ¡iti. Mucke, Hist. u. vergl. Laut- u. Formenlehre, 1891, p. 609 ss., Vondrâk, Vergl. Gramm. IIP, p. 155, Vaillant, Gramm. comp. III, p. 98, disent que le haut sorabe connaît bëch, bë etc. + ptc. -i en tant que les formes du conditionnel passé. Aujourd'hui cette construction n'est plus vivante dans la langue littéraire, mais on peut la trouver dans le dialecte catholique. Une partie de dialectes n'a conservé que bëse/bëso + ptc. -i (Michaïk, Lët. Inst. za serb. ludosp. 1970, A-17/2, p. 129 ss.) L'auteur est d'avis qu'il s'agit d'un emploi de l'indicatif du plusqupf. Les formes bë/bëée en 2., 3. sg. témoignent un caractère composé de la conjugaison. Comme il n'y a aucune différence formelle entre l'aoriste et l'imparfait en haut sorabe, l'explication de l'emploi de bëse/bëso en valeur du conditionnel ne fait pas de difficultés, notamment parce que l'aspect du verbe n'est pas pur. On peut dire avec Dostâl, Hist. mluvn. j. č., II/2, 1967, p. 196 ss. que les rapports entre le plus- que-parfait et le conditionnel sont plus apparents que vrais. Ils sont nés, à un moment historique determiné, à partir des éléments qui relèvent de l'époque pré- 68 Alenka šivic slave. Il faut souligner ici que le plus-que-parfait slave est également une formation nouvelle. Dans le vieux slave il n'y a aucune trace de l'emploi connditionnel du vieil aoriste bë-. Ce même thème ne se trouve qu'en fonction de l'imparfait à côté du nouvel imparfait bëach-b. On peut supposer, qu' une partie des parlers slaves avait un conditionnel composé du vieil aoriste bècht, etc. + ptc. -1La conjugaison pouvait survivre à la séparation des Slaves, mais il est possible de même qu'elle soit devenue inflexible. Ce bë- aurait pour origine l'alternance vocalique de la racine *bheu- + -ë-suffixe. Stang, Vergl. Gramm., p. 375, et Vaillant, ibid., p. 65, relient cette forme au vieux prussien 3. prêter, be, bëï, bei du verbe bout »être«. En letto-littuanien on trouve la contamination entre les thèmes be- et bi-. Au dire de Vaillant, ibid., on pourrait joindre à la question la particule lit. be, signifiant la durée, et les formes lett. 1. pl. -bem, 2. pl. -bet, correspondant au lit. -bïme, -bite, avec un sens conditionnel. Très intéressante est la construction: ja la da pijevam, sam sam la da pijevam dans deux parlers serbes en Roumanie. Selon E. Petrovici, Graiul..., 1935, p. 191 et P. Skok, JP XVIII, p. 257, ces formes ont leur origine dans le vieux slave dov(b)lëti, dov(b)ljç) »sufficere, contentum esse«. F. Bezlaj, Lingu. X/2, 1972, p. 29 d. les explique autrement; il suppose qu'il s'agit de la vieille base athématique *(v)lômi avec un aoriste analogue à darrih etc; la inflexible serait donc le reste du vieil aoriste-imparfait *lach-h, *la, *la, etc. du même type que bëch-b, bë etc. 69 CDÜ 805.0-559.34 Mitja Skubic CONTRIBUTI ALLA SINTASSI DEL VERBO NEI DIALETTI VENETI: IL CONGIUNTIVO Giacinto Gallina 1. A distanza di piü di cento anni dal Goldoni, il teatro veneziano trova un altro genio, Giacinto Gallina.1 La lingua delle sue commedie, certo meno brillanti di quelle goldoniane, e piü penetrate da un realismo, crudo, a volte amaro, sembra rispecchiare assai fedelmente il veneziano parlato nella seconda meta del seeolo scorso; il dialogo vi é spontaneo e vivo, le battute rieccheggiano spesso la parlata popolare. 2. II congiuntivo é forma frequemte e il suo uso che quii si vuole ana-lizzare appare coerente. Come per la lingua del Goldoni2, l'esistenza ci é assicurata di piü nell'imperfetto che non nel presente dove il numero delle forme del congiuntivo é, infatti, ridotto. Oltre alia coincidenza, conosciuta del resto anche nell'indicativo, delle 3. e pers. sg. e pl.: »Par che se gabia magna i fasioi nell'istessa squela«; »se posso goder mi, vogio che goda anca i altri«, La base de tuto, I, 8, notiamo anche l'inesistenza, per il congiuntivo, delle forme distinte per alcune persone; cosi, per la 3. a pers. dei verbi in -are: »Cara ela no la ghe bada«, ib., e per la 1. a e la 2. a pers. del pl.: »vogio che deventemo amighe«, ib.; »Me basta che ve mete d'acordo« ib., II, 6. Si riscontrano solo pochi relitti delle due pers. del pl.: »Perché no vogio che siemo nemighe«, La base de tuto, 11,4; »Mi me basta che no ve strussié tropo vualtri. Go paura che studié tropo. No so cossa che gabié ma me paré de mala vogia... col pato che anca voialtri sié de bon umor«, Un pare disgrazia', I, 6. E' poco usata la 2.a pers. sg.; nel congiuntivo, poi, la troviamo solo in qualche verbo: mbi ochio ala voltada«, El moroso de la nona, II, 2; »me piase che ti studii, che ti te fassi onor, che ti cerchi de andar avanti«, Un pare disgrazia', I, 6; »Peca che no ti sii disponibile«, Zente rejada, I, 13; »Sastu che credo che ti gabi rason«, ib., II, 8. 1 I passi saranno citati secondo il Teatro di Giacinto Gallina (Edizioni Treves, Milano). 2 Lingüistica, X/l, II congiuntivo nel Goldoni. 71 Lingüistica XII Tuttavia, che manchi la forma e non la nozione che la forma é chiamata ad esprimere, cioé la nozione del pensato e del voluto, del probabile, ci é pro-vato, come nella lingua goldoniana, anche nel presente, benché decisamente solo nella 1. a e nella 3.a pers. (che fónicamente coincidono) delle coniuga-zioni in -ere e in -iré e nei verbi detti irregolari: »Credeu che possa cassar vía de casa un...«, Un pare disgrazia', I, 6; »1 me dise che la gabia vina bona dote«, Zente refada, 1,15; »Vorla che ghe fassa el cafe? — La me daga piutosto un bicerin de rosolio«, La base, I, 8; »go sempre el desiderio che tuti se agiuta, se vogia ben come fradei, che no sia ingiustizia, che no trionfa l'egoismo«, ib., II, 12. 3. In qualche raro caso, l'uso del congiuntivo non pare giustificato o, per lo meno, non possiamo inquadrarlo nelle solite categorie. Nei passi »Eh! mi no digo ... e da resto ... se vedesse che ti facessi per el ben déla famegia... seraria un ocio« e »e el cuor me diseva che col savesse de esser pare, nol gavaria bada che fus se una povareta«, Serenissima, I, 1 e II, 9, l'uso del modo (e del tempo) non si spiega che con l'attrazione dovuta al congiuntivo e al condizionale del periodo ipotetico. 4. II congiuntivo appare nella sfera volitiva, cosi nelle indipendenti come in quelle subordínate: »Magari che tuti te somegiasse a ti«, Zente refada, II, 3; »Sior 'istoria, la vada a farse benedir«, La base, I, 8; »Adeso el vada che xe megio e el fassa quelo che el vol«, El moroso, 1,12; »vogio che ti chiapi bandiera e che ti fassi onor al nostro nome«, ib. I, 1; »vogio anca che lu me diga i so gusti«, La base, I, 8; »el ga fato testamento in favor de Alvise, spe-rando... che... el daga fondo a quelo che restava«, ib., I, 10; »Per mi, ch'el vada o ch'el staga, no me ne importa«, ib., II, 4. Va compresa nella sfera volitiva anche l'espressione della finalitá e della conseguenza desiderata: »go dito un avemaria sa, perché doman ti te fassi onom, El moroso, I, 2; »Apena che Toni torna da l'ultimo viagio, che so barba ga volesto che el fassa«, Mia fia, I, 3; »Go mandá Menego ... perché el conossa el mondo«, Zente refada, I, 3; »Tasi che no i senta«, ib., I, 11; »Ma tasi, sastu, che nisun sapiaa, ib., II, 8; »Me son pensada de darghe la ventola a Betina perché la la fassa vendara e »Bisognaria far in maniesra che to papá, no se incorzesse che la xe mia«, ib., II, 2; »vardé che no nassa precipizi... el mlxa contá tuto, perché no suceda malani«, Serenissima, I, 5. 5. Nella sfera dell'opinione personale, nella quale comprendiamo anche espressioni contenenti un giudizio o uno stato d'animo, nozioni, dunque in sé soggettive, il congiuntivo é la forma verbale che ci aspettiamo giacché azioni o stati non sono espressi come realmente accaduti, ma immaginati, vincolati a uno stato d'animo, al mondo interiore di chi parla. Nel Gallina il congiuntivo é forma rigorosamente usata: »go paura che andar fora cussi presto te fassa mal«, »Credo che el vogia andar a la Zueca«; »Xe megio che lo meta soto le nafcole«, El moroso, I, 2; »me basta che no i me vegna per casa e che la zente no sapia«, Zente refada, I, 4; »La se rabia che vada vestia megio de ela, che gabia divertimenti«, ib., II, 8; »E me ga dispiasso che tu sii andada via«, ib., 1,12; »gavarala po' caro che ghe tegna la putela«, La base, 1,8; »adesso bisogna che vada perché mió fio me aspeta«, ib., I, 11. 72 Mitja Skiibic Per lo più, troviamo il congiuntivo come portatore dell'opinione sogget-tiva dopo un superlativo o un'espressione superlativa: »mia mare — che xe stada Fuñico anzolo che mi gabia conossuo al mondo«, El moroso, II, 6; »Dir che xe la prima volta che nasse de sti trambusti«, Zente refada, III, 1; »E ciaparsela co una dona xe l'azion più bassa che se possa dar«., Serenissima, II, 8. 6. Troviamo ugualmente il congiuntivo quando delle subordínate dichiara-tive siano rette da una principale contenente un elemento di negazione o di interrogazione; siamo nella sfera délia potenzialità. Comprendiamo in questa sfera anche alcuni passi col verbo volere, ausiliare o semiausiliare, certo, quando questo non esprima un'azione volitiva che regga un oggetto (o una proposizione sintatticamente subordinata oggettiva), ma formi con la subor-dinata una sola frase, ad es.: »Cosa voleu che el creda?«, Mia fia, III, 4; »Cossa vorlo che diga?«, »Chi vustu che capissa ste parole colé zate?«, Zente refada, I, 16; »Ma valeva la pena che studiasse tanto, che façesse i esami da capitano«, ib., I, 10; »chi vorla che a me conossa«, Serenissima, I, 7; »Non so cossa che abiè«, Un pare disgrazia', I, 6; »E no basta no aver un can che me diga una bona parola«, Serenissima, I, 3. Vanno incluse nella sfera délia potenzialità le modali; il commediografo veneziano ricorre rigorosamente al congiuntivo, ad es.: »stà quieta che farô come no ti esistessi«, Zente refada, III, 2; »senza che nesun sapia gnente«, »come se gnente fusse«, Serenissima, I, 7. Alia sfera délia potenzialità appartengono anche le subordínate in cui troviamo un elemento generalizzante; il congiuntivo è di rigore: »Ghe assicuro che qualunque cossa nascesse, mi no cambiaré mai«, Zente refada, I, 9; »A ris'cio che qualchidun lo veda«, ib., I, 12; »vu savè che per quanti torti possa aver una dona«, Serenissima, II, 9; »Chi ne sentisse pararía che ela fusse so muger«, La base, II, 4. Non sempre si trova, invece, il congiuntivo, quando la subordinata esprime una pura relazione temporale per il futuro; cioè, Gallina considera evidentemente le proposizioni introdotte con fin che esprimenti una situazione reale e ricorre all'indicativo: »ma finché no me son informa, ... gnente«, El moroso, I, 10; »Fin chè la bambina no sta proprio ben, magnemo...«, Un pare disgrazia', I, 13; »Fin che vien st'altri signori se podaría far«, Zente refada, I, 16; »no vegnirme davanti fin che no ti lo ga trova«, ib., III, 4; »Fin che vien al mondo sto povaro inocente«, Serenissima, II, 9. Sembra che si abbracci tutto l'arco del tempo, includendo il momento in cui si parla; il congiuntivo, invece, è d'obbligo quando la subordinata si rife-risce a un'azione progettata nel futuro e perciô di non sicura realizzazione: »prima che vada benedissime«, El moroso, II, 4; »Aspeto che mora mió barba«, Zente refada, III, 4; »scampo a Buran prima che i vegna«, Serenissima, I, 7; »prima che ti andassi via«, La base, I, 3. 7. Nella sfera délia condizionalità in cui va compresa anche la nozione délia concessività, il congiuntivo appare quasi regolarmente nelle subordínate concessive. Nei rari casi dove troviamo l'indicativo sarà prevalso il concetto dell'ipotesi reale che moite volte non si puô scindere da quello di concessività, 73 Lingüistica XII ad es.: »anca se xe sparii lori... e se no i n'a lassá. campi e case, eredite-remo...«, La base, II, 2.1 passi col congiuntivo come »e anca se gavesse avuo altre idee, te gavaria sacrifica tuto«, Mía fia, II, 4; »Anca se ti fussi stada una putela come tutte le altre, credistu che no te gavaressimo volesto ben«, ib., III, 8; »No saria possibile... gnanca se la lo volesse«, Serenissima, II, 8; »no acetaressimo gnente gnanca se i gavesse tesori«, La base, II, 13, rientrano piuttosto nel periodo ipotetico. II congiuntivo é usato, del resto, coerente-mente: »siben che la sia un poco piü zovene de mi«, Un pare disgrazia', I, 6. Vengano incluse qui anche le subordínate con un elemento generalizzante dove pero l'idea della concessivitá é palese, ad es.: »Perché qualunque dispiager se possa aver, se scorda tuto vicin ala cuna déla so cratura«, La base, II, 2. 8. Per esprimere una condizione nel quadro ipotetico, il Gallina si serve, per l'ipotesi reale, nella protasi e nell'apodosi, del presente o del futuro. Tro-viamo nella prima scena del Moroso de la nona: »Se ghe capita la parada de un foresto — lu ghe core drio«; »Se vinso, la trovaro anca mi una casada«; »Se ti chiapará bandiera, no ti fará che el to dover«. Per il periodo ipotetico potenziale e irreale, invece, il Gallina ricorre ai segueñti tipi: -ssi/-ia ma se la parona savesse, la gavaria de criar, El moroso, I, 5 se lo gavesse trova, saria corso a portarghelo, El moroso, I, 11 Se el me dasse la dote, andaría tuto ben, Zente rejada, I, 7 se sta storia fusse vera, la saria la fortuna de tuta la famegia, Serenissima, I, 12 e se stasse in mi, saria ancora al Municipio, La base de tuto, I, 10 -ssi/-ave se el diavolo gavesse una ciesa, scometo ch'el ghe donarave, La famegia del santolo, IX, 8 Se quachidun ne vedesse, i creparave da rider, Serenissima, I, 7 -essif-eressi se ti fussi anda, coi amici a fragiar, doman ti andaressi a cassarte in rio, El moroso, I, 1 Se ti stassi piü dura, piü freda, se ti te facessi desiderar, ti veda-ressi ch'el se scaldaria, Zente refada, II, 8 Una volta se gavaressimo licá i dei, ... se ne la gavesse domandada... un impiegato, Zente refada, I, 3 se gavesse messo da banda tuti i soldi... a sta ora no se trova-ressimo a sti passi, Un pare disgrazia', IV, 3 se gavessi un fia de auel... dovaressi invecje capir, Serenissima, II, 1 Se ti te imaginessi la confusion de idee, ... no ti ridaressi de certo, La base, II, 12 Tra questi tre tipi, quello primo é il piü frequente; se ne trovano 8 esempi nel Moroso de la nona, 14 in Zente refada, 21 in Serenissima, 12 nella Base di tuto. II condizionale in -ave, dal perfetto, cioé, é rarissimo; piü frequente, invece, quello in -eressi: il tipo -essif-eressi si trova una sola volta nel Moroso de la nona, quattro volte in Zente refada, due in Serenissima e tre nella Base 74 Mitja Skiibic de tuto. Il più spesso, questo tipo viene usato nel periodo ipotetico irreale. Da notare che la forma in -eressi si riscontra anche all'infuori del periodo ipotetico, come un vero condizionale: »Podaressi far i esami«, Zente refada, II, 13; »E si che ti dovaressi saverlo«, Serenissima, I, 1, e come il futuro nel passato: »No gerimo restai intesi che no ti saressi vegnua più qua«, Zente refada, II, 9. Un quarto tipo, infine, è quello in cui troviamo l'indicativo dell'imperfetto nella protasi o in tutte e due le parti, mentre nell'apodosi soltanto l'imperfetto non appare mai. Troviamo passi quali: se no la trovava Toni, chi sa come la saria finia Un pare disgrazia', I, 13 se geri no vegniva la Perina, ... mi saria vissuo Un pare disgrazia', III, 4 Se el me diseva prima de cossa se tratava, gavaria fato sparagnar el fià, Zente refada, II, 6 Se saveva cussi no te la portava gnanca, Un pare disgrazia', III, 5 se spetevimo ancora un ano, o poco più, chi sa che partia che podeva capitarghe, Zente refada, I, 3 E se no ghe davo quela grignada, taco al paleto, i se lo becava de securo, Serenissima, I, 4 Il tipo coll'indicativo impf. non è per niente frequente, tuttavia, se ne trova almeno un esempio in ciascuna delle commedie esaminate. Poi, il periodo ipotetico è qualchevolta solo indicato con la protasi, ad es.: »Ma se saveva cussi...«, Zente refada, III, 3; inoltre, l'indicativo dell'impf. col valore di una condizione non realizzabile appare anche all'infuori del periodo ipotetico, benché formalmente inquadrato nella paratassi: »Podeveli andar in pezo man, sti soldi?«, Zente refada, I, 5; »Ti dovevi aspetar un altro anno e ti saressi deventada contessa«, ib., I, 7; »El doveva vegnir de mi; e per una volta tanto, lo gavaria contentà«, La base de tuto, I, 6; »Géra proprio megio che restessimo desparai«, ib., II, 13. Se si tiene conto che, ovviamente, l'indicativo dell'imperfetto non puô esprimere che una condizione nel passato, irrealizzabile, cioè, possiamo constatare che tra le tre forme del condizionale non c'è differenziazione semántica, anche se la forma in -eressi sia leggermente più usata nel periodo ipotetico irreale. Il commediografo veneziano, è vero, dà una netta preferenza al condizionale in -ia, tuttavia, un passo quale »se el me gavesse dito de si, gavaria confidà a ela el mió amor per la Nina: gavaressimo manda a spasso el cavalier; gavaressimo unito i nostri interessi; e... se anca no go un titolo, nè un stema, gavaria fato feliçe so fia«, Zente refada, III, 7, prova che le forme, per il loro valore, possono esser scambiate tra di loro. 9. Paragonando l'uso del congiuntivo nel Gallina con quello constatato nel Goldoni, differenze sensibili non se ne awertono. Il caso più intéressante ci è offerto dall'uso nel periodo ipotetico; anche qui, i due commediiografi con-cordano nel non ricorrere al tipo -ssi/-ssi, ereditato dal latino, e nel non oo-noscere il tipo toscano -ssi/-ei; i due oommediografi concordarlo, inoltre, nel 75 Lingüistica XII servirsi del tipo -ssi/-ia, -ssi/-eressi e -ssi/-ave e conoscono, per l'irrealtá, anche l'uso dell'ind. impf. Tuttavia, nelle commedie goldoniane il tipo piü frequente risulta quello -ssi/-ave, mentre nel Gallina predomina, e di molto, quello -ssi/-ia: inoltre, il tipo -ssi/-eressi, scarsamente usato nel Goldoni, appare piü volte nel Gallina. Soprattutto, poi, l'indicativo dell'impf., per rendere la no-zione dell'irrealtá, é limitato a ben rari casi nel Goldoni, mentre nel Gallina appare di piü, benché non frequentemente, nel periodo ipotetico irreale e anche all'infuori di esso. Supposto che i due commediografi ricorrano all'uso genuino della lingua parlata, Goldoni non meno del Gallina, il fatto starebbe a dimostrare che nel giro di cent'anni l'uso dell'ind. impf. nella lingua popo-lare, sempre col valore di una condizione irrealizzabile, perché nel passato, si era allargato. La parlata nel piranese 1. E' opinione generalmente accolta che il congiuntivo, nella lingua par-lata, sia forma verbale in forte regresso, se non addirittura in via di estin-zione.3 Non sorprenderá dunque che nella parlata piranese il congiuntivo appaia pooo usato; tanto piü, se si tengono presentí le osservazioni fatte per l'uso del congiuntivo nel Goldoni e nel Gallina. Anche nella lingua parlata le forme delle 3. e pers. sg. e pl. coincidono, sia nell'indicativo sia nel congiuntivo, mentre certe altre nel presente non appaiono; cosi, la 3.a sg. della coniu-gazione in -are. Rari sono poi i verbi che conosoono una forma speciale del cong. per la 1. a e per la 2. a pers. sg. Nella CDI che invita a comporre un paradigma della coniugazione si ottiene come risposta: »bisonja ke ebia/gabia...; ke ti ti ebi...; ke lu ébia pasiensa«. Istruttive, su questo punto, sono le differenze tra la forma nella 1. a e nella 3. a pers.: »me pare vol ke venjo a kasa« contro »... vol ke lu el venja«; »mi vojo ke la zente me veda«. L'AIS per il congiuntivo non dá nessun paradigma, solo qualche forma sporadica. Nell'ALI si tro-vano esempi come questo: »(Me pare) desidera ke mi diverto, anái saria kon-tento ke mi diverto«. Dalla lingua parlata potrei citare alouni passi in cui ci aspetteremmo il congiuntivo, e troviamo, invece, sempre per la 1.a pers., l'indicativo: »(il consolato italiano di Capodistria mi ha assicurato d'esser io nel mió diritto nel chiedere e percepire il premio dal governo italiano) e ke torno a far domanda; e vjen la letera ke fazo de novo...«; »lu voleva ke lo vedo anka mi«; »jera prima ke naso mi«; »me ga camá ke vado a Buje«. Anche qui, le forme dei verbi detti irregolari e quelli delle coniugazioni in -ere e in -iré, soprattutto, poi, il paradigma completo nell'impf., ci testimo-niano dell'esistenza della nozione del pensato, del voluto, del supposto, dell'eventuale. Inoltre, dato che il congiuntivo é una forma verbale usata soprattutto nelle subordínate, va tenuta presente, per la lingua parlata, la ten-denza ad alleggerire il periodo: la paratassi predomina. In un'inchiesta fatta sulla base di un questionario si constata che la costruzione paratattica delle 3 Ricordiamo discussioni e proteste che, anni or sono, suscitó la frase »Credo che basta«, pronunciata alia fine di un dibattito alia televisione. 76 Mitja Skiibic proposizioni soppianta, nelle risposte, il periodo costruito ipotatticamente offerto in traduzione dal questionario. Il materiale raccolto4 vuole mostrare che il congiuntivo, nel piranese, non è forma verbale sconosciuta e precisare le nozioni che con essa vengono espresse. Come si vedrà, il dialetto non sempre concorda con la norma valida nella lingua. 2. L'esistenza del congiuntivo ci è confermata molto chiaramente nella sfera volitiva, cosi nelle indipendenti come nelle subordínate; troviamo infatti frasi quali: dio tenja luntan!; e dopo ke i fasa kwel ke ge piase!; la me daga un litro de ojo!; almeno finiéi de pjovi!; almeno de noti fusi un poko de fresko!; forse fara pjova ma ke dio la mandasi ke va masa per le longe; se venjisi ankora un poko de pjova!; la mama no vol ke vada; su mama no ga volesto ke la vadi a nudar; disiplina ke voj ke sia; el nono volesi ke Mirela studi ben; ge voleva ke el savon sia neustro; lo stato lo lasava ke se aranéi; magari vesi podudo komprar duto; se ti savesi kwanto ke me dol(ALI); ke i vada via! (CDI); me pare vol ke lu el verija a kasa; mi vojo ke la ¿ente me veda; dige kel faša kwel kel vol (ALI). L'impiego del congiuntivo è saldo anche quando è espressa la finalità: ma la bizonja sai kampanja perke la lavori i koloni; nela ñera (beretta del marinaio) ze fer dentro aço ke stagi ben tonda; guarda ke no resti grani soto le skorše; magari ke faria kaldo ke vinjisi madura la ua; (sotto l'Austria non c'èra usanza di fumare nel cinema a Pirano; i primi a fumarvi furono gli ufficiali italiani) ki podeva impore a lori ke no staga a fumar. Ho notato, tuttavia, un esempio con Vindicativo: »dokumenti bilingwi ke serve anka ali slavi«. Cosi, anche se talvolta non troviamo forme distinte, ad es. »(bisogna mettere i pesci nell'acqua salata) aço ke no i krepa, ke no i mori«, non pos- 4 II materiale è stato raccolto a Pirano e nei dintorni (Sezza, Vignole, Sicciole) in questi ultimi anni presso la gente originaria del luogo, non trasferitasi dunque nella regione dopo la seconda guerra mondiale, di età piuttosto avanzata, tra i settanta e i novant'anni. Ritengo dawero genuino solo il materiale coito al volo, cioè quello offertoci dal caso, ascoltando le conversazioni tra i veri piranesi, possibilmente non intervenendovi. Mi sono servito, pero, anche delle domande contenute nei questionari delle inchieste (Carta dei Dialetti Italiani, l'AIS, l'ALI, Parabola del figliuol prodigo); le risposte a tali domande, o addirittura traduzioni dalla lingua, tuttavia, saranno scrupolosamente contrassegnate, appunto perché risalti con maggior chiarezza la situazione nella lingua spontanea. Non bisogna poi dimenticare cha le mié conclusioni posino sull'uso constatato in bocca ai piranesi; questi, certo, non sono immuni alFinflusso lingüístico di un grande centro, come lo è Trieste che, durante l'età giovanile degli informatori, atti-rava la gente costiera offrendo maggiori possibilità di lavoro; né sono esenti dall'in-flusso della lingua italiana, infiltrantesi, in tempi recenti, tramite un mezzo di comu-nicazione massiccia quale la televisione, e da sempre anche tramite il linguaggio can-celleresco, burocrático. Perciô è lecito considerare le incertezze nell'uso non come oscillazioni nella parlata locale, ma come contributi inevitabili della crescente influenza della lingua nazionale o della koinè veneta. 77 Lingüistica XII siamo condividere l'opinione del Rohlfs5 sulla frequenza del cong., nella sfera volivita, almeno per quanto riguarda il piranese. 3. La parlata di Pirano non usa il congiuntivo nella sfera dell'opinione personale; e neanche quando si esprime non tanto uin giudizio quanitp uno stato d'animo. Nei pochi esempi in cui pure troviamo il congiuntivo, l'uso sará da mettere in connessione con la sfumatura della nozione volitiva; cosi, forse, sono da giustificare i passi col verbo impersonale bisogna. Come si vedrá dagli esempi citati, il congiuntivo appare in prevalenza, benché non sempre, nelle risposte ottenute in base ai questionari ed é quasi assente nelle conversazioni sciolte il che ci conferma nella convinzione che la parlata ge-nuina, in questa sfera nozionale, non lo conosce. no pol kreder ke l'Italia ge daga un premio; mi no kredo kel gariva a vinji stasera; no kredo ke jerano duti soi; mi kredevo ke tona; li (in Romanía) se kredeva ke la gwera Icontinua; ma me par ke no zé njente dentro; me par ke se čamava tominc; poko vantažo me par ke ze; me par ke ze una konferenša; me par ke faševa kaleger; ge pareva ke 5 % ze tropo, i ga fato 2 %; pararía ke si metoncfi d'akordo sule pensjoni; no so se ze vero; no so ke kosa vol dir; no so ke zé; no so neanke ke kosa ze dentro; no savemo mai kosa ke zé; mi no so se li ga ankora; no so kosa jera de konjome; no so kosa ke jera; o domandado se sa se suoj vedi jera vinjudi; nesun de Piran no saveva perke el se čama »kavaj«; sensa saver ki ke semo; baste ke zé negro, anka se duti dubita ke zé pu.ro; mi kredo ke María zé malada; mi no kredo ke Maria zé malada; mi no kredo ke la sia malada; duti kredi ke sia stado un furto; duti kredi ke keko sia onesto, ma a mi no me par tanto; mi kredo ke nesun sapja la verita (ALI); kredevo ke fuši me žio; kredevo ke fuše sta' me barba (CDI); me pare ke no se sumija tanto; a mi no me par ke la se sumija tanto (ALI); la žente diže ke keko la ga ingravidada (ALI); pensava ke una banda avesi asasinado (ALI); (se uno ha pescato del pešce) bižonja ke ge daga a lori (= alia cooperativa); bižonja ke sia skura; bižonja ke venja kol passaporto; bižonja ke te jasi un po de pratika; ki vol un bel meso bižonja ke vada se steso (prov.); é bastata una parola ke diga; basta ke zé negro; basta ke no le jasi mal; bižonja ke stago atento; bižonja ke Zovani ebja pašjenša (CDI). Non appare il congiuntivo nelle subordínate che dipendono da un' espres-sione affettiva, di stato d'animo, cioé: 5 Rohlfs, Grammatica storica, par. 688: »Nel Settentrione il congiuntivo coi verbi del volere e meno diffuso che in Toscana«. 6 Da notare l'uso insólito del plurale per la 3. a pers E' evidente l'influenza della lingua; ciononostante, la scelta del modo non subisce l'attrazione della norma, valida nella lingua. 78 Mitja Skiibic no zé perikolo ke i ga tanta smanja (per studiare)?; meno male ke no se ga roto; fortuna ke jera venjuáa (la grandine) ko la pjova; zé kon-tento ke sé jermado prima lu (l'orologio) ke no el; i se meravilja ke noj no savevimo; zé peka' ke ti te son un maskalšon (CDI); no son pju denjo ke ti me konosi per to fio (parab.). Sempre nella sfera deH'opinione personale, constatiamo che il dialetto non ricorre al congiuntivo quando la nota soggettiva é inerente a un superlativo o a una espressione superlativa: forsi sono solo a Piran ke so; (la signora Rudica) zé l'unika dona ke porta kwel nomi; la prima volta ke go intezo la radio; kwesti ze el meio vin ke go in kanova; kwesto zé el pju bon vin ke go in kanova (ALI). Gli esempi sono ben pochi e inoltre le forme della 1.a pers. non convin-cono del tutto. Tale maniera di formulare i pensieri non sembra essere molto popolare. In qualche singolo esempio (»piü presto ke sia posibile«) sará da vedera l'influsso della lingua. 4. Nella sfera della potenzialitá, il dialetto non conosce il congiuntivo per un'azione la cui realizzazione é proiettata come potenziale nel futuro: avanti ke una mori (gia accende un'altra sigaretta); mi son sempre kwa (nel circolo) fino a ke no moro; prima ke termina karbon, ven jará un altra invensjon; speto fino a ke skansa de pjovi; (non saró rimpatriato dalla Romanía) fino ke no vjen l'anesjone de l'Istria; no podemo fer-marsi fina ke zé jora duto peše; (bisogna prender ü pesce) fina ke zé zorno; i destuda la luče fina a ke el peše v jene. Ho notato, tuttavia, un solo passo col congiuntivo: »Pjovi? — Prima ke pjova sentiremo el tono«. Troviamo espresso col congiuntivo il »contenuto generalizzato« (del tipo »Chiunque chieda di me...«) in tutte le risposte ottenute sulla base delle frasi dei questionari. Neanche tale costruzione del periodo é da ritenersi popolare; ho notato in tutto, nella conversazione sciolta, due soli esempi, ambedue con l'indicativo: in kampanja kwalunkwe lavoro ke ja, ke se le disi; podeva andar dove kel vol, el pan kompanjo kome kwel de Piran no jera; kwalunkwe ke venja zé ben rivado; kwalunkwe kosa ke verija mi son a posto (CDI); a kwalunkwe ke ti ge digi, ma nol te dara razón; kwalunkwe ke ti ge digi te da torto (ALI). Nella sfera della potenzialitá includerei anche alcune subordínate ogget-tive, specie quelle che di fatto sono interrogazioni indirette; la potenzialitá, l'incertezza della realizzazione sta nella subordinata, e non nella forma este-riore del periodo; in qualche rarissimo caso, poi, si potrebbe vedere espressa 7 Da mettere a confronto col passo goldoniano: »Mo za, co no fazzo mi, no gh'é pericolo che nissun fazza«, La buona madre, I, 3. 79 Lingüistica XII o ammessa la finalitá, il che da parte sua giustificherebbe l'impiego del congiuntivo: go domanda' se podesi óorme al bordo. 5. Nella sfera della condizionalitá, il congiuntivo non é usato nelle subordínate concessive. Da notare che nella lingua parlata il concetto di concessione, contrariamente a quello di condizione, non sembra essere molto popolare. Tro-viamo l'indicativo: anka se no skrivi; per poko ke i capava (i pescatori), duti portava kwal-kosa; el se ga sportá la man si ben kel jera legado; i se ga aniegado duti, perke el mar jera bruto siben ke i saveva duti nudar tuto co ke saveva nudar kome pesi (ALI). Appare invece il congiuntivo in una subordinata che esprima una condizione: (a causa della pioggia sará possibile raccogliere il sale solo tra cinque o sei giorni) e ke vada ben; (la vecchia Austria comprava sale, chiamato »sal de ecedensa«, quando avanzava per crearsi delle riserve per gli anni seguenti) nel kazo ke sia poko sal. 6. Richiedono qualche osservazione a parte i periodi ipotetici. Tra i tipi che ricorrono per esprimere il periodo ipotetico potenziale o irreale, quello toscano e della norma nell'italiano »se avessi tempo, ti scriverei« é ignoto al piranese. Molto frequente é il tipo -ssi/-ssi, cioé col congiuntivo nelle due parti.8 Non essendo visibile il presunto influsso ladino, cioé friulano, in altri fenomeni sin-tattici, nella consecutio temporum, ad es.,9 non pare indispensabile cercarne la spiegazione nell'influsso friulano, in un adstrato, insomma. E' il tipo ere-ditato dal latino: ke se volessi vedi kwel, ze anko kwel (la scelta tra i due programmi della TV); se no ébaljasi, vinéesi sempre; se fuse pju, fuse pju mejo; se no avesi vudo lenje, me avesi komprado karbon; se gavesi íame, manjasi un toLo; se mi vedese Bepi, ge diéese duto (CDI); se fusimo andadi vizin ku la fjaka, el kane le vesi levade (ALI). II condizionale, nel piranese, non é affatto forma sconosciuta; lo troviamo nel periodo ipotetico ed anche isolato, come mostrano bene passi quali: saria la foce de la Dragonja; podaría, altro ke!; adeso no andaría d'akordo nisun; el varia bramado g'empirse el stomego kon le g'ande (parabola); te dovaria manjar de pju (CDI). 8 Rohlfs, par. 744, nota degli esempi nell'antico italiano, precisando per lo stato attuale: »Quest'espressione dell'irreale si é mantenuta soltanto in alcune zone margi-nali dellTtalia settentrionale ove possono risentirsi influssi ladini« e aggiunge esempi dal Comasco, dalla Val Bregaglia, dall'istriano, dal triestino. 5 Tratto della concordanza dei tempi in frasi quali mi kredevo ke tona; o nel Gallina, la base di tuto, I, 10: El ga foto testamento in favor de Alvise, sperando.. che... el daga fondo... in Slavistična revija, XX/1, Ljubljana, 1972. 80 Mitja Skubic Molte volte pero, il dialetto ricorre al congiuntivo e non al condizionale laddove la lingua userebbe senz'altro il condizionale, ad es.: la Jugoslavia podesi komprar sale anka in Italia; kwa ge volesi (le saline) anka per la salute; el nono volesi ke Mirela studi ben; per kwela roba (fabbricazione del vetro nella Salvetti) gavesi volesto impjanti novi; dovesi rakontar ankora ma no go tempo; no dovesi esi; (il mantenimento delle saline per l'Italia risultava troppo costoso) gavesi tornado konto de portar sale dala Sicilia; mi jero tanto strako ke avesi dormido duto el zorno; ankuo avevo ¿ornada bona, avesi kaminado magari duto el zorno (ALI). La Carta dei Dialetti Italiani ha nel suo questionario anche la conáugazione di alcuni verbi. Perché il paradigma non risultasse cosi scarno, d'abitudine proponevo aH'informatore il verbo inserito in una proposizione; anche cosí l'uso puó risultare tirato per i capelli. E' preziosa, tuttavia, la constatazione che il paradigma per il condizionale risulta il seguente: se mi (ti ti, lu el, lori i) gavesi ¡gavaria fame, manjaria; se nualtri gavesimo fame, manjasimo; se vuáltri gavesi fame, manjasi. Per la 1.a e la 2.a pers. pl. la forma del condizionale dunque non esiste. Nel paradigma, inoltre, non esiste il condizionale in -ave, dal perfectum latino. II secondo tipo del periodo ipotetico é quello -ssi/-ia. Benché la statistica nella lingua viva non possa insegnarci gran che, si ha impressione che questo tipo sia piü frequente di quello precedente: se no fuse disiplina kosa saria alora; se el kan no gavesi abajado (il gatto aveva tirato giü dalla tavola un pezzo di pollo), mi no gavaria visto njente; se gavesi fame, manjaria un toko (CDI); se kwel kan no me konosesi, mi no podría andar vanti; podaría perdonarte, se ti vesi voja de lavorar (ALI). II modello puó essere anche rovesciato; troviamo il condizionale nella protasi, e il congiuntivo nell'apodosi: se la temperatura del mar saria kome kwela de la tera, no se pódese andar a peskar. Una terza possibilitá consiste nell'uso del condizionale in tutte e due le parti; non ho notato nessuna construzione di tale tipo fuorché nelle risposte ai questionari. se gavaria jame, manjaria kwalke roba; se gavaria vudo soldi, varia komprado la kaza (CDI); podaría perdonarte, se ti varia voja de lavorar; se kwel kan no me konosaria, mi no podría andar vanti, dovaria tornar indrio (ALI). A questi modelli, cioé, a quello col congiuntivo nelle due parti, a quello col congiuntivo nella protasi e col condizionale nell'apodosi, o viceversa, e a quello col condizionalle nelle due parti, si associa infine il tipo coll'indicativo impf. nella protasi o nell'apodosi o, ed é il caso piü frequente, nelle due parti. 6 Lingüistica 81 Lingüistica XII In altri casi, oltre che nel periodo ipotetico, l'indicativo impf. apparé come mezzo per esprimere la nozione di possibilité irrealizzata: No son anda' a far la partitá; (con questa pioggia) ki andava! ti dovevi dir la verità (CDD; magari podevo komprar duto (ALI). E nel periodo ipotetico: gavemo banjato el orto, ke se savevimo ke pjovi podevimo sparanjar la fatiga; se savevimo ke ga de venji' (la pioggia), no okoreva ke la femó; se venjivo via (dalla Romanía), me tolcava restare là (a Budapest); se stavo li (a Vienna), parlaría tedesko; se inkontrava Zovanin, ge diéeva duto; mi se gavevo soldi, komprevo la kaza (CDI); se no i lo legava, el gavesi maša' ki sa kwanti; se gavese vu (ALI) soldi, komprevo una kaza (CDI). L'imperfetto appare talvolta persino nella sola apodosi; l'uso più fréquente, tuttavia, lo vuole in ambedue le parti del periodo. Vistane la fre-quenza, possiamo dichiarare tale uso di schietto carattere popolare. 7. Tale è il quadro che offrono le mié inchieste personali degli ultimi anni presso la gente, ripeto, di età piuttosto avanzata. Mi è parso utile, non essendo ancora noti i risultati delle inchieste per la CDI, mettere a confronto almeno i materiali raccolti nei due atlanti linguistici. L'Atlante Lingüístico Italiano, ovvero il materiale raccolto e consultabile a Torino, purtroppo non offre molto, appena quello che si trova notato nel paragrafo precedente. Più prezioso risulta l'AIS, perché numeróse appaiono le carte contenenti un periodo ipotetico potenziale o irreale; inoltre, l'inchiesta fu eseguita con scrupolo esemplare nei due punti che più da vicino ci interes-sano, Pirano e Venezia; solo la situazione a Trieste è stata esplorata meno bene. Dai materiali raccolti nell'AIS, il condizionale nel periodo ipotetico, potenziale o irreale, risulta molto meno usato a Pirano che a Venezia. II materiale per l'AIS essendo stato raccolto negli anni venti, possiamo dedurne che l'attuale (relativa) frequenza del condizionale a Pirano è da attribuire al crescente influsso délia koinè veneta, infiltratasi forse soprattutto attraverso Trieste. La formula abituale per Pirano è il congiuntivo nelle due parti, per Venezia congiuntivo / condizionale; a Trieste, il condizionale prende il soprav-vento. Cito, per i tre punti, dall'VIII volume deU'AIS tutte le carte col periodo ipotetico: ti manjasi ti se ti vesi famé PIR te manjaria se te gavesi famé TS ti manjaresi/manjaria se ti gavesi famé VE carta 1016-7 se fosi koto manjasi ankora se saria ben kuziñá mi manjaria volentyeri sel fuse ben koto manjaria volentyeri c. 1018-9 bevesi se fosi akwa mi bevaria se ge fusi akwa bevaria se ge fuse akwa c. 1034-5 82 Mitja Skiibic se i podaría i la komprasi kwela vaka se i pódese i kompraria kwea vaka c. 1043-5 se mi ve lo dago kosa fasesi se veo daria c. 1112-3 nualtri lavorasimo de pyu se fosimo pagadi kome ke va se avoraria de pyu se fosimo pagay meg'o c. 1613-4 ge parlasi mi se lo írovasi ge parlaría mi se lo katase c. 1627-8 se ti ti lo trovasi no 1 saria kontento se ti ti trovasi no saria kontento c. 1829-30 voy lo trovasi se lo serkasi voyaltri lo trovaresi s endes in serka c. 1633-4 Le divergenze nelle paríate delle due città sono palesi: Pirano, oltre a non conoscere per niente il condizionale in -eressi, mostra una preferenza spiccata per il tipo ereditato dal latino -ssi/-ssi, mentre la parlata veneziana prefe-risce di gran lunga il tipo -ssi/-ia10. E'vero che l'uniformità, o quasi, di tutti i passi desti un certo sospetto, soprattutto per l'inchiesta piranese; sarà do-vuta probabilmente, il rigore scientifico deH'esploratore non potendo esser messo in dubbio, alla comprensibile tendenza dell'informatore a sistemare le strutture della sua lingua, perché conscio di esser ascoltato con uno scopo preciso. 8. Tenendo presente che per alcune persone forme speciali del congiuntivo non esistono, constatiamo pure che nella parlata di Pirano l'impiego del congiuntivo è vivo e popolare, anche se l'uso non concorda sempre con quello della lingua, né con quello riscontrato nei due commediografi veneziani le cui commedie abbiamo analizzato. Il dialetto conosce il congiuntivo nella sfera volitiva, quando cioè la forma verbale serve a esprimere volontà o fina- io Che il tipo cong./cond. sia popolare nella parlata veneziana, anche se il condizionale non sia sempre formato da inf. + ia, lo testimoniano passi presi della tradi-zione popolare; cfr. Esercisi di traduzione dai dialetti delle Venezie. Veneziano a cura di Bruno Migliorini, Torino, 1925: »In paese i diseva che chi che gavesse possüo andarghe drento el gavaria 'buo tuto quelo che '1 voleva«, (p. 10); »Se me vegnisse un fio, e che sto fio i ghe metesse nome Bastianelo, e che sto Bastianelo me morise, oh che dolor sarave el mío« (p. 15); »Perché se 1 ... fusse vivo ancora, ghe n'avaria a sta ora çento e trenta« (p. 26); »Se ti inveçe de cantar... ti gavesi lavorà, no ti te trovaressi in ste condizion«, (p. 21). 83 Lingüistica XII .liti. Per contro, discordando con l'uso constatato nel Goldoni e nel Gallina, il dialetto non ricorre al congiuntivo quando un fatto e presentato sotto l'an-golo visuale soggettivo, quando cioe viene espresso un giudizio, un'opinione personale oppure uno stato d'animo. Inoltre, il piranese non conosce l'uso del congiuntivo nelle subordinate concessive, concorda, invece, con la lingua delle commedie in veneziano, nelFusare il congiuntivo per esprimere la nozione della realta condizionata. Nel periodo ipotetico potenziale e irreale, poi, il congiuntivo appare predomihante nella protasi, cosi nel dialetto odierno come nel Goldoni o nel Gallina, pero, solo nella parlata di Pirano constatiamo come si sia conservato il tipo -ssi/-ssi, ereditato dal latino, sconosciuto alle fonti letterarie e non trovabile nel materiale raccolto per i due atlanti linguistici fuorche per Pirano. E' comune, nel periodo ipotetico irreale o per una condi-zione irrealizzabile isolata nel passato, alle opere letterarie esaminate e alla parlata piranese l'uso delFindicativo imperfetto; tuttavia, dagli scarsi časi riscontrabili nel Goldoni si passa alFuso un po' piii frequente di tale forma nel Gallina e addirittura predominante nella parlata del piranese. POVZETEK V prejšnjem snopiču revije je avtor skušal ugotoviti rabo konjunktivnih oblik v Goldonijevih dialektalnih komedijah; to pot si zastavlja isto vprašanje ob delih Giacinta Galline, beneškega komediografa iz druge polovice preteklega stoletja, nadaljuje pa z raziskavo rabe konjunktiva v današnjem piranskem govoru. Analiza Gallinovih komedij kaže le delno drugačno rabo, kot je bila ugotovljena za Goldonija; drugače so grajene predvsem hipotetične periode: Gallina daje prednost tipu -ssij-ia (se fusse / saria), uporablja torej kondicional tvorjen iz imperfekta, medtem ko je pri Goldoniju nekoliko pogostnejši kondicional tvorjen iz perfekta, na -ave. Za govorjeni jezik pa ugotavlja avtor, in sicer predvsem na podlagi primerov iz pogovorov domačinov, torej iz popolnoma sproščenega govora, ne iz odgovorov na vprašalnik, da dialekt sicer res ne pozna uporabe konjunktiva v vseh tistih vrednostih kot oba beneška pisca in tudi italijanščina, da pa ga v nekaterih vrednostih dosledno uporablja. Raba je trdna predvsem v želelni in finalni sferi, enako pa tudi v kondi-cionalni sferi, in sicer v potencialnih in irealnih pogojnih stavkih. Posebej je omeniti, da pozna piranščina dokaj pogostno rabo stare latinske strukture si habuissem, de-dissem; gre za arhaično ostalino, ki je ne najdemo pri nobenem od beneških piscev in seveda ravno tako ne v italijanskih literarnih delih in ne v toskanščini. 84 CDU 805.0-541.2 Mitja Skubic SOPRANNQMI NELLA PARLATA VENETA DI PIRANO 1. Mettere tm soprannomme a una persona è un costume generale: come se nome e cognome non bastassero per individuarla. A Pirano, poi, questa usanza è costante sia che il soprannome continui ad esistere accanto al cognome sia che esso si sositituisca al cognome assumendone la funzione.1 Quest'uso risulta, del resto, comprensibile se teniamo presente che moite famiglie piranesi portavano lo stesso cognome e il soprannome era quindi il mezzo per distinguerle tra di loro; i Viezzoli, ad es., erano Viezzoli-Baldini, -Dardi, -Lepo, -Mordadel, -Napoli, -Scagaso, -Inîaponta, ecc., e i Fonda erano Fonda-Barboto, -Bebo, -Ciupa, -Gazeta, -Masuco, -Petito, -Sbrisa, ecc. Posto cosí il problema, cioè délia funzione del soprannome, esso risulta distintivo, giacché rende possibile individuare una persona, il che, vista la scarsità dei nomi di famiglia e la scelta limitata dei nomi propri, non sarebbe cosa troppo agevole. I soprannomi, tuttavia, benché servano a distinguere i vari individui tra loro, non sono stati creati per tale funzione; alla loro nascita non presiede un'aiùda lógica, bensi l'affetto: nel soprannome constatiamo soprattutto l'ironia, qualche volta un benevolo sorriso, moite volte la derisione, raramente l'ammirazione per un nobile tratto del carattere; constatiamo sempre il dono di un'acuta capacità di osservazione e una certa fantasia; le due qualità che permettono di isolare un tratto caratteristico dell'individuo, físico o psichico che sia, e di metterlo in caricatura. Sono dunque nati, i soprannomi, nella sfera affettiva e non in quella razionale. Solo nei soprannomi, sorti da nomi locali quali Venesian, Rovignes, Fur-laneta, Gravisan oppure quando l'origine è indicata dal nome di uno dei genitori, ad es., Checogiulio, D'Argia, e forse nei soprannomi sorti dai nomi di vari mestieri potremmo vedere una pretta funzione distintiva. Anche in tali casi l'affettività non puô esere trascurata a priori: ben sappiamo quante volte i nomi locali e i nomi dei mestieri possano mettere in ridicolo un individuo. La sfera affettiva non va dunque in nessun caso scartata e tanto meno quando si tratta di procedimenti semantici che fauno di un nome comune un nome proprio. Implícitamente, evocando l'affetto, abbiamo già detto che la denominazione di un individuo con un soprannome è un processo essen- i Si veda per lo stesso fenomeno nello sloveno Bunc, Pogled v slovensko ono-mastiko, Slavistična revija, IV, Ljubljana, 1951, pp. 77 ss. 85 Lingüistica XII zialmente individúale, anche se tale soprannome si estenda poi a tutt'una famiglia e sia addirittura ereditato. XJn'esplicita conferma deH'origine individúale dei soprannomi si trova anche nelle saporite scene delle Baruffe Chioz-zotte di Goldoni, dove Isidoro, coadiutore del Cancelliere Crimínale, durante l'interrogatorio ufficiale, benché non troppo rigido né fórmale, cerca di farsi diré dalle fanciulle interrógate il loro soprannome, pur sapendolo egli stesso benissimo. Questo é decisamente personale e le fanciulle chioggiotte lo riten-gorno disonorante, infame.2 Da notare che i soprannomi non appaiono nelle commedie dialettali goldoniane, sitúate a Venezia. 2. I soprannomi che cerco di analizzare qui sono stati raccolti per lo piú da Antonio Viezzoli, un vecchio piranese, nato negli anni novanta del secolo scorso. Si tratta di soprannomi noti nei suoi anni giovanili, o addirittura creati in quegli anni. Per alcuni il Viezzoli da anche la sua spiegazione che puó gettar luce sulla nascita di tale soprannome, ricordando egli stesso la situazione per cui il soprannome fu appiccicato a un tale, o conoscendolo per sentito diré; nella magior parte dei casi, tuttavia, si stringe nelle spalle: ki podría saver perké se camava kusi! Nel materiale raccolto non c'é un limite netto tra un soprannome che é rimasto personale e quello che ormai fa parte dei nomi di famiglia. Questo limite non é tracciato nettamente neanche nel Vocabolario giuliano di Rosamani.3 II vocabolario non dá quasi mai spiegazioni dei nomi, li fornisce, peró, di una formula tipizzata, ad es., »Barboio, (Pir.) soprannome di una delle famiglie Fonda«. II soprannome cosí precisato risulta dunque giá nome di famiglia. Quei pochissimi soprannomi accamto ai quali troviamo esplicita-mente menzionato trattarsi di un nome personale sembrano indirettamente affermare che le cose stiano cosí, ed es.: »Mora-dei-siori« (Pir.) soprann. pers.«, oppure »Padrevecio« (Pir.) soprann. di un Benedetti«. In ambedue i casi, il mío informatore risulta piú esauriente: »Moradeisiori: trattava con dei signori«; »Padrevecio: uno che sapeva a memoria la Gerusalemme libe-rata«. 2 Si vedano le scene dodicesima e tredicesima delle Baruffe Chïozzotte, atto II: (Isidoro e Checca): — Cosa gh'aveu nome? — Gh'ho nome Checca. — El cog- nome? — Schiantina. — Gh'aveu nissun soranome? — Oh giusto, soranome? — No i ve dise Puinetta ? (Isidoro e Orsetta): — Cossa gh'aveu nome? — Orsetta Schiantina. — Detta? — Coss'è sto detta? — Gh'aveu soranome? — Che soranome vorlo che gh'abbia? — No ve diseli de soranome Meggiotto? — In veritàe, lustrissimo, che se no fusse dove che son, ghe vorave pettenare quella perucca. — Oe, parlé con rispetto. — Cossa xe sto Megiotto? I meggiotti a Chiozza xe fatti coi semolei e colla farina zala; e mi no son né zala, né del color dei meggiotti. 3 E. Rosamani, Vocabolario giuliano, Bologna, 1958. (II vecchio lavoro dello stesso autore non offre quasi nulla in mérito, v. E. Rosman, Vocabolarietto veneto giuliano, Roma, 1922.) Rosamani menziona quasi tutti i soprannomi della raccolta che mi è stato posi-bile consultare, e in tal caso il soprannome sarà accompagnato da una R, il che significa che nel vocabolario troviamo solo l'informazione che un determinato soprannome, a Pirano, esiste quale nome di famiglia. Si farà precedere la spiegazione del Viezzoli, se ce n'è una, e qualche volta in dialetto, perché non perda sapore e immediatezza. 86 Mitja Skiibic 3. Vanno elencati tra i soprannomi che abbiamo classificato come distin-tivi, vale a dire aggiunte medítate e ponderate al nome, quelli che specificano l'individuo indicandone il luogo d'origine o la provenienza o. anche il nome di uno dei genitori; troviamo cosí Boste, 'uno venuto da »Borst« sopra Trieste, sposato a una piranese', R; Cranéo, 'uno da Carniola', R; Ciozota, 'sposata a uno di Chioggia'; Furlaneta, R; Faéanoto; Gravitan, R; Veniéian, R; Checo-giulio, 'Cheoo di Giulio'; Pierodecheca. Un traslato mefeonimico sarà da vedere in soprannomi quali Delbatador, Delafigara, Delalanterna, -Inlaponta: o si fondano su relazioni spaziali o su una caratteristica dello spazio (della casa). Forse anche dello stemma, reale o irónicamente immagimato: Delaseno, R; Delgato, R; Delcan. Fiù frequenti sono i soprannomi, sorti da norná di mestieri, o da nomi delle cose o dei concetti oontigui a un dato mestiere. Troviamo infatti, Bor-dura, 'un pittore che faceva bordure'; Botér, R; Campanaro; Criolador 'salinero' (crióla = setaccio), R; Cerandini, 'i soi veci faéeva le kaaidele'; Fornaro, R; Gorna, 'faceva le grondaie', R; Magnastopa, 'uno che faceva barehe', R; Molinaro, R; Pilisaro, R; Sealin, 'un barbiere che lasciava onde a scalini', R (solo per Isola); Sanguetera, "uno che abitava a Strugnan, allevava in una vasca sanguisughe' R (solo per I); Tábachina. 4. Fauno decisamente parte della sfera affettiva i soprannomi che cercano di presentare l'individuo con un tratto caratteristico della sua imimagine esteriore oppure delle sue abitudini, dell'indole, temperamento, intel-letto. La metonimia che sta alla base del traslato nella sfera distintiva, cede il posto, nel soprannome della sfera affettiva, al procedimento che richiede un maggior grado di fantasia, vale a dire alla metafora, cioè alla somiglianza dei significati. Sorprende lo scarso numero di animali che prestano il loro nome per esprimere un tratto saliente della persona «mana; oltre al generico Bestión, si trovano solo Manso, Orsopicio e Orsogrando (due fratelli), Vacca. II carat-tere della volpe è stato attribuito a varie persone con delle varianti nella composizione Volpe, R; Volpin; Volpina, R; Volpinela. Forse la ragione è nel fatto che il materiale veniva racoolto da un cottadino piranese, il quale sostiene, del resto, che i piranesi erano o cittadini o contadini, anche se in buona parte erano cittadini e salinari nello stesso tempo.4 Possiamo supporre che le metafore dal mondo degli animali risulterebbero piú numeróse se il materiale fosse stato raccolto soltanto in campagna. Per contro, sono convinto che cosí si raccoglierebbe, complessivamente, ben poco: come si vedrà, la maggior parte dei soprannomi risultano sorti in una cerchia piú o meno ristretta, tal-volta in una comitiva, in un gruppo fisso o casuale in un bar, in un'osteria; non possono esser sorti in famáglia, in cui il rispetto per la personalità, cosí spesso assente nei soprannomi, rimane tuttora vivo. La metafora puô aver come uno degli elementi un'immagine dal mondo reale: Balota, 'come una palla'; Butasel, 'era un uomo di 103 anni (buitaéo = piccolo recipiente)'; Balini, R (solo per I.); Ciodo, R; Toniluna. Qualche volta 4 E se erano salinari, coltivavano sempre un po' di terra, sentai su do sedie, v. Pahor-Poberaj, Stare piranske soline, Ljubljana, 1965, p. 90. 87 Lingüistica XII anche parte del corpo umano Sucalonga, ma soprattutto quella parte che piú attraente risultava per un gruppo di beoni: Culata, R; Culón, R; Saturnia, 'vendeva el vin una ragaáa groáa, de drio groáo: el kul komo la Saturnia", R, senza questa succosa spiegazione, tuttavia menziona l'origine della metafora; soprann. di una delle famiglie Zanon / Dalla nave grossa e formosa'; Tre-culi, 'la parona de un bar, la dona de serviáio, el oste steso; poi, el soranome anka a la osteria'. Molto frequenti risultano anche le metonimie; la contiguità dei sensi permette di creare soprannomi quali Biancon; Negratenera, 'donna non troppo negra', R; Moralesa; Bave, 'la bava gli colava dalla bocca'; Brufoleti, 'aveva brufoli (»foruncoli«) per le guanee'; Barba de cavera, 'soprannome di un maestro elementare, per la forma della barba che portava'; Mocoloti, 'il naso pieno di moccio', R (Mocolo). Alie volte, la spinta per la scelta del soprannome fu data da un'abitudine singolare, anche da un comportamento che suscitava curiosità: Batilame, 'una ragazza che, camminando, batteva lame, pozzanghere'; Galupi, 'cammi-nando galoppava', R; probabilmente anche Panflon, R spiega con la »meta-tesi di planfon da plancus, dai piedi piatti, poi soprann.«; Scoresa, 'sofiata col deretano; Rusamuri; Slanco, 'camminava slancando (= come tino sciancato)'. Le abitudini legate al mangiare suscitavano piú interesse che le abitudini nel comportarsi, nel camminare. Perciô, numeróse risultano le oomposizioni con i verbi mangiare, paciare: Magnafasoi, R Magnafasoli; Magnagui 'guio' (pesce), R; Magnariü, R; Pacioto, R; Paciabacalà, R; Paciagaline, R; Padaovi e inoltre Rizibiéi; Pansaliéa, 'la gaveva sempre voda', R; Petito, 'gaveva sem-pre famé', R. Molti soprannomi riguardano il modo di parlare e la pronuncia: Brodaci, 'a uno che par lava svelto, che saltava di palo in frasca', R, è caratterizzato dall'immagine complessiva della sua parola, altri soprannomi, invece, rnet-tono in ridicolo, caricandolo, un difetto di pronuncia: Barboio, balbuziente', R; Beghe, R; Cinche, R; Ceceri; Gnegne, »gnegneo = modo affettato« (Boe-rio)5; Moa, Pecece, Umbi. L'informatore spiega 'parlava molto ce, ce, ce; par-lava mal; capava fjado: umbi, umbi'. Tratti essenzialmente di carattere appaiono in tutt'una serie di soprannomi; possono essere nomi comuni o nomi propri; Banco, 'stupido', R; Duri, (= di comprendonio); Falische, 'vanagloria', R; Gnifa, "bate gnifa (svogliato nel lavorare'); Lolo, "mezo áempio'; Scarpagrosa (dal proverbio), R; Streto, 'no di manica larga'. Da nomi propri: Babilonia, 'se camava Sandro de Babilonia ke no fazeva mai niente'; Germánico, 'uno che sempre parlava della Germania'; Muéolin, 'come il brigante Musolin'; Savoia, 'soranome de un peskador éozoto ke gaveva la mania de parlar gramatikal, in lingua'; Tedesco, 'gaveva una barka; un modo de parlar e de komandar!'; Bosnia; Scarpaci.6 Data la posizione litoranea della città sono comprensibiü soprannomi quali Levantera; Dalevante, R; Delrefolo; cosí forse anche uno 'che era marit-timo': Inglese. s V. Boerio, Dizionario del dialetto veneziano, 3. a ed., Venezia, 1876. 88 Mitja Skubic Meno comprensibili risultano le composizioni col verbo ammazzare. In Maéagati, Maéacani (R usa la grafie maza) si tratta probabilmente della derisione di un'abitudine, nell'ultimo nome magari anche di un mestiere; un tratto di carattere sará invece colpito in Maéaturchi, R (cfr. lo spagnolo matamoros). In Maéamamole la individuazione di un dongiovanni pare owia, malgrado la precisa indicazione dell'origine del soprannome nel Rosamani.7 Una parte cospicua dei soprannomi e formata da vezzeggiativi; oltre a quelli abituali Benvenuta Ñuta, Bonifacio Ciado, ecc., ipocoristici, cioé, se ne trovano degli altri dove l'affetto non é sempre quello del vezzeggiare. Forse ha ragione Rosamani nel diré nBeluzi (Pir.) soprann. di una delle fa-miglie Bellucci« o meglio, per lui il soprannome piranese non é che la forma toscana adattata alia fonética dialettale. Tuttavia, i diminutivi in -usi sono cosí frequenti (e non solo nei soprannomi, ad es., semo pokusi, ma belusi!) che non é lecito metter in dubbio la popolaritá di un diminutivo con il suf-fisso -usio, -usi. Accanto a Belusi troviamo ancora Mistruso, 'mistro = capo d'arte', R; »dal dim. spreg. maestruzo, mistruzo«; Paiaruáo, Pomuái, Uéo, 'da braguso: uso (braguso da barca barga braga-bragozo)'; Vidaluso. 5. Siamo partiti dal fatto che solo una piccola percentuale dei soprannomi nasce da vina precisa necessitá di distinguere un individuo da altri dallo stesso cognome; la stragrande maggioranza sorge da un impulso affet-tivo e una buona parte, a sua volta, nasce dal desiderio, innato o acquisito nell'uomo, di deridere il suo prossimo. Se tale caricatura (giacché si tratta generalmente di esagerare tratto caratteristico, realmente constatato nell'al-trui. figura o carattere) puo risultare benevola, di un sorriso comprensivo, poniamo il paragone con l'orso goffo, maldestro, ironia e sarcasmo vengono in piena luce quando si cerca di mettere in rilievo un difetto físico o una debolezza del carattere. Non hanno bisogno di particolari spiegazioni soprannomi quali Sporcacase, 'cambiava casa ogni anno'; Anzolasporca; Checálu-stra (ironico, certo); Cagamuro, R; Cagaéene; Cagamacie; Pisacaldo. . Un'aspra derisione é visibile anche nei casi in cui una parola, un'aspres-sione o tutt'una frase é rimasta appicoicata a uno per averia questi detta una volta o per averia detta altri sul suo conto. La situazione deve esser stata propizia perché una cerchia (sempre molto ristretta) di amici o cono-scenti abbia accolto una trovata individúale. Quei due che portavano sopran- « Uno ha preso parte alia Grande guerra nei Carpazi, l'altro, o i suoi vecchl, alia guerra di Bosnia. Svolgendo le inchieste, uno si rende conto che la gente di etá avanzata spesso non ricorda i fatti degli ultimi decenni; dimostra, invece, una memoria di ferro per i fatti della sua gioventü dipingendoli il piü spesso di color rosa; cosí, vecchi combattenti preferiscono i ricordi della vita nel reggimento e ne parlano volentieri e molto, troppo per chi quella vita non llia vissuta. i Rosamani, p. 610, v. Mazamámole (Pir.) soprann. (non di qualche vagheggino rubacuori) ma di un merciaio che da bambino aveva involontariamente ucciso una sorellina, (L. = spiegazione data dal suo informatore, aw. Nicoló Linder da Pirano d'Istria, d' anni 70.) Un dubbio potrebbe sollevarlo il sostantivo nel plurale, ma non é di peso decisivo; ci spinge a dubitare dell'esattezza della spiegazione la convinzione che un fatto cosí trágico non potrebbe esser sfruttato per una derisione, piú ancora per frustrazione e condanna perpetua. 89 Lingüistica XII nomi rispettivamente Pistóle e Peténe non avevano peccato in altro che nell'aver accentuato erróneamente la parola; l'oste Pastasciuta alia domanda giornaliera su che cosa avesse da servire cosí elencava precisamente tutta la lista dei cibi; Perdoni veniva chiamata una donna che costantemente chie-deva scusa: »la perdoni!«; Lasala (R solo Lássala) era il sopraninome di un tale che non voleva cambiare l'insegna, in italiano, del suo negozio, con una bilingüe, e perció gli gridavano »Checo, lasala!«; Tiragigi era un awocato, fascista, al quale, quando lo vide assalito, la sorella gridó: »Tira, Gigi!«; Checomio diventó appellativo di un piranese la cui moglie spesso lo chiamava in tal modo, mentre un altro marito ne acquistó uno piú pauroso, Nanimes-smaco, per aver la moglie l'abitudine di minacciare che si sarebbe buttata a mare (smacarsi 'buttarsi'). Probabilmente non era proprio un onore per un ma-schio essere chiamato col nome della moglie, come accadde a Catineta, R; né poteva esserlo per colui al quale il soprannome faceva costantemente ri-cordare la presenza della moglie: Tinavara 'Tina guarda'. 6. Nella lingüistica, i soprannomi interessano soprattutto la semantica, perché é ovvia la nostra curiositá sul come é avvenuto il cambiamento semántico. Alcuni, tuttavia, toccano anche altri settori della lingüistica. Troviamo alcuni elementi stranieri, dallo sloveno o dal croato, quasi niente dal tedesco. Tra i prestiti da una delle due lingue slave abbiamo pre-stiti piü o meno adattati dei nomi o cognomi, ad es. Trabucovici, R o Busici, R ha la forma Busicia. Inoltre, dei nomi comuni come Brate, R ('fratello!'); cosí forse anche Ciüite, R., probabilmente dallo sloveno o croato ču j te! 'ascol-tate!', frequente nella lingua viva e perció semánticamente assai svuotato, vale a diré non piü un imperativo pieno, ma un semplice mezzo sbrigativo per riprendere la parola; cosi forse Necio, probabilmente dallo sloveno nič 'niente'. Un bell' esempio del prestito adattato oi é offerto dal soprannome Pe-teánai. Viezzoli ricorda ancora bene la storia: Durante la Grande guerra, un tale di Pirano, trovandosi nei panni di soldato austríaco a Ljubljana, andó a comprarsi un coltello. Ritornato in caserma, i concittadini gliene doma¡n-darono il prezzo. Pétesnai, disse, e lo sloveno petnajst (= krajcarjev) gli rimase, quale prestito adattato, appiccicato come soprannome. Per quello che riguarda la composizione vediamo che i giustapposti soar-seggiano: Toniluna, Cogomuša, R. Piü frequentemente si trovano sintagmi, o addirittura vere proposizioni: Anemalonga, Moradeisiori, Tinavara, Maša-porchi, Cagasene, Fabotoni. Le composizioni coritenenti un elemento verbale sono parecchie, tuttavia, materiale cosí soarso non permette di pronunciiarsi sulla forma verbale usata; cioé, salvo nei casi per i quali si conosce la situ-azione che ha determinato la nascita della composizione, non é possibile deci-dersi tra rimperativo e la 3. a pers. sg.8 E' da notare tuttavia che di regola 8 Le opinioni dei linguisti sono quanto mai disparate: Tollemache, Le parole composte nella lingua italiana, Roma, 1945, p. 170 ss, vede nella forma verbale l'indi-cativo; altri, e cosí gia Meyer-Lübke, l'imperativo, altri ancora un puro tema verbale. Cfr. Rohlfs, Gramm. stor., III, p. 344. Per la composizione nello sloveno, v. Breznik, Zloženke v slovenščini, in Razprave II, AZU, Ljubljana, 1944, p. 59 (compositi quali stepihleb, pecigos ecc.) 90 Mitja Skiibic il verbo precede il sostantivo. Tinavara e Mamasiga son le sole eccezioni. In quest'ultimo esempio l'indicativo è fuori di dubbio (forse la fanciulla che sfcava parlando con un giovajnotto si scusava cosi di non poter trabtenersi di piú); in Tinavara, invece, dobbiamo vedere l'imperativo perché la forma vara è iindicata come tale sia nel Rosamani che nel Boerio.9 Cosí cade la pur seducente tentazione di attribuire alia collocazione del verbo la possibilità di pronunciarsi sul valore della forma verbale^ Il verbo, di regola, occupa il primo posto: Batüame, Fábotoni, Maéaporchi, Magnastopa, Paciaovi, Cagacene, Rusamuri, ecc. Anche se la forma verbale non dá nessun appoggio per attribuire alla medesima il valore dell'imperativo, quesito valore, tuttavia, giacché si tratta di creazione affettiva del sopram-nome, ci pare piú naturale di quello dell'indicativo, vale a dire di una secca constatazione dello stato di fatto. Ci interessa, certamente, anche nelle parole dialettali l'immagine fónica; non c'è dubbio che i soprannomi appartengono alla parlata locale, cioè alla lingua viva (cfr. la spiegazione per Savoia) e in questa sede della veste dialettale di un nome non ci occuppiamo. Ci pare tuttavia degno di rilievo il fatto che un soprannome, Furlaneta, indica una donna friulana o sposata con un friulano; altri, invece, mostrano un elemento della fonética friulana e non veneta: Barcia, Ciala, forse anche Ciupa10 (tutti e tre menzionati anche dal Rosamani). II fatto di denominare un individuo cosí, oioè da un tratto carat-teristico della sua pronuncia, starebbe a dimostrare che tale forma fónica, vale a dire la palatalizzaziane della velare davanti a una vocale oscura a, (u), típico del friulano e sconosciuto al veneziano, costituiva una sorpresa per l'orecchio piranese. Almeno per il periodo in cui sono sorti questi soprannomi, dunque, pos-siamo supporre che la parlata piranese non conosceva questo fenomeno che rappresenta un tratto cosí distintivo per la fonética friulana.* * Non sorprende che in campagna, in piccoli paesi ci sia una maggior nécessita di ricorrere a un soprannome, con funzione distintiva. Cfr. un passo nel Silone, Una mandata di more. »Anche a conoscere il suo cognome sarebbe stato inutile. Era il soprannome che in quel paese faceva distinguere la maggior parte delle famiglie. II soprannome di Caterina e Cosimo era Spaccapietre, fin dalla nascita, dal mestiere una volta esercitato dai nonni.« Un altro acuto osservatore della vita di campagna, Leonardo Sciascia, ci offre, nel Giorno della civetta, una brillante pagina sul fenomeno: Disse un nome che non ricordo, o forse un soprannome: pensadoci bene, poteva essere un soprannome. Lei disse ingiuria, e per la prima volta il capitano ebbe bisogno dei lumi inter-pretativi del maresciallo. — Soprannome — disse il maresciallo — qui quasi tutti hanno soprannomi: e alcuni cosí offensivi che sono propriamente ingiurie... Sorvolando il panorama letterario siciliano, da Verga al Gattopardo, il capitano era andato a posarsi su quella specie di genere letterario, diceva, che erano soprannomi, le ingiurie: che spesso, acutamente, esprimevano in una parola un carattere ... — Ci sono ingiurie che colgono i caratteri o i difetti fisici di un individuo — diceva il capitano — e altre che invece colgono i caratteri morali; o episodio. E ci sono poi le ingiurie ereditate, estese a tutta una famiglia; e si trovano anche sulle mappe del catasta...« 9 »Vara: Vocabolo che si sente frequentemente nel basso popolo, ed è l'imperativo singolare di VEDER, cioè idiotismo per varda o guarda«, Boerio, p. 778. 91 Lingüistica XII POVZETEK VZDEVKI V PIRANSKI BENEŠCINI Zdi se, da v Piranu poimenovanje posameznika z imenom in priimkom ni zadostno razločevalno sredstvo, tako pogosten je vzdevek; morda izvira ta navada iz potrebe, saj mnogo družin nosi isti priimek. Tako poimenovanje bi bilo torej razločevalno. Avtor pa vendar meni, da je osnovni nagib za vzdevek afekt, ne pa logična težnja k jasnosti. Samo vzdevki po kraju, po pokrajini, po imenu staršev, morda še po poklicih pričajo o suhi, razločevalni funkciji takega tretjega imena, povsod drugod pa gre, in marsikdaj tudi pri vzdevkih po krajih in po poklicih, za afektivno poimenovanje; po sredi je ironija, zasmeh, včasih, čeprav redko, občudovanje kake fizične ali karakterne poteze. Ostro opazovanje združeno z veliko mero fantazije, predvsem zaznavne v metaforah, kaže sočloveka le z eno od lastnosti. Naj bo že fizična ali psihična. Vzdevek je torej individualen po svojem nastanku, tudi če se je potem razširil na družino in pravo rodbinsko ime izpodrinil ali pa ob njem obstal, kar je v Piranu največkrat. Ker so bili vzdevki nabrani v Piranu, v mestu, je le malo metafor iz živalskega sveta, največkrat je tista črta, ki je zbodla, kako nenavadno obnašanje, kretnje, slabo govorjenje, celo napačen naglas ali tuj, nebeneški jezikovni pojav (na pr. Barcia iz furlanščine); in seveda karakterne lastnosti. Študij vzdevkov gre predvsem v semantiko, posamezni primeri pa vendar zanimajo tudi druge veje jezikoslovja, predvsem tvorbo in sintakso: iz nabranega blaga se zdi verjetneje, da je podlaga za glagolske tvorbe imperativ in ne 3. os. indikativa. Nekaj vzdevkov nadalje kaže glasovno bolj ali manj prilagojene tujke; navedimo samo eno iz slovenščine: Petesnai je bil tisti, ki si je za petnajst (krajcarjev) kupil v Ljubljani nožič, pa je bil slovenski števnik njegovim rojakom tako všeč, da mu je ostal prilepljen kot vzdevek. 10 Cfr. škerlj, Alcuni termini pescherecci di origine friulana in un dialetto slo-veno dei dintorni di Trieste in Bollettino deli'ALM, 10—12, Firenze, 1970. 92 CDU 80(048.1) Manlio Cortelazzo, AVVIAMENTO CRITICO ALLO STUDIO DELLA DIALETTOLOGIA ITALIANA. I. PROBLEMI E METODI, Pacini Editore, Pisa 1969, 1—370 La dialettologia, come del resto quasi tutta la lingüistica ottocentesca, era di prevalenza storica, si interessava cioé alio sviluppo dei vari idiomi, seguendo i loro cambiamenti, uno a uno, lungo l'asse del tempo. II criterio orizzontale o sincrónico é stato impiegato poi con gran successo dallo strut-turalismo »classico« il quale, in un secondo tempo, perfezionó anche i metodi della ricerca diacronica confrontando tra di loro due o piü livelli sincro-nici appartenenti a epoche diverse. Mancava pero a tale indirizzo la dimen-sione sociale, ossia il sistema lingüístico delle paríate, dei dialetti e dei gruppi dialettali veniva considerato come se fosse omogeneo e venivano lasciate in disiparte le differenze dovute all'origine sociale dei parlanti. Questa terza di-mensione, il cosiddetto spessore sociale, é ora valorizzata in pieno dalla dialettologia piü recente che non si limita soltanto alio studio dei dialetti della campagna ma anche affronta con ooraggio lo situdio dei cosiddeti dialetti urbani. Fra questi ultimi, specie se parlati in ambienti vicini alia malavita, e il gergo di questa esiste un'osmosi chi ci pone spesso dinanzi all'interro-gativo fin dove arrivi il gergo e dove cominci invece il dominio del dialetto. Tutti questi e molti altri problemi vengono studiati a fondo, con dovizia bibliográfica, perizia pedagógica e molto materiale illustrativo dal Nostro sia nella Introduzione (pp. 9—41), sia nei sette capitoli, che pur tenendo conto della storia della dialettologia italiana, dei suoi successi e del suoi desiderati, si aprono verso una collaborazione interdisciplinaria con l'efcno-logia, la sociolinguistica e la standardologia. Particolarmente riusciti e ori-ginalissimi sono gli ultimi tre capitoli: Dialettologia sociologica (pp. 138—162), Dialetto e societá in Italia (pp. 163—228) e Dialettologia culturale (pp. 229 per 275). II resto spetta agli indici: analitico (pp. 277—364) e sommario. II Nostro, competentissimo sia in dialettologia sia nella storia della lingua standard italiana, ha in corso di stampa anche una monografía sull'Italiano popolare che rappresenta il terzo volume dell'opera sotto esame e che uscirá prima del secondo volume, contenente una descrizione aggiornatissima del-l'Italia Dialettale e delle oasi italiane all'estero. Qualche osservazione che non menoma il valore complessivo del volume: il Nostro menziona, a p. 133, in nota, un articolo importantissimo di E. Pulgram che, sulla scia del germanista W. G. Moulton, vuole perfezionare il primo modello del diasistema di U. Weinredch il quale teneva conto soltanto 93 Lingüistica XII deH'dnventario dei fonemi e non della loro incidenza, importantissima per la intercomprensione dialettale. Tale articolo (Proto-Languages as Proto-Diasy-stems: Proto-Romance, »Word« XX, 1964, pp. 373—383), uscito infatti, mal-grado la data, nel 1967, andava analizzato e disousso a fondo e avrebbe po-tuto sostituire gli esempi tratti dai dialetti tedeschi della Svizzera, citati a pp. 129—130. Una svista: a pp. 320 e 325 Lahn, nome del fiume su cui si trova la città tedesca occidentale di Marburgo, viene erróneamente considerato come nome di città. Žarko Muljačič NOTE DE LA RÉDACTION Par suite d'une erreur d'impression le volume précédent de la revue porte le numéro X/l. Lire Lingüistica, X, Ljubljana, 1970. OPOMBA UREDNIŠTVA Zaradi tiskarske pomote je bil prejšnji, deseti letnik revije označen kot X/1; pravilno je Lingüistica, X, Ljubljana, 1970. 94 VSEBINA SOMMAIRE Staoko ŠKERLJ, Alle origini della la pl. dell'indicativo presente in -iamo — Izvir 1. os. mn. indikativa prezenta na -iamo........3 France BEZLAJ, Einige Fälle des -o- : -eu- Ablauts im Slavischen — Nekaj primerov prevoja -o- : -eu- v slovanskih jezikih.........23 Varja CVETKO, Slovansko-st. indijska izoglosa za pojem »čas« — Eine slawisch-altindische Isoglosse für »Zeit«............33 Bojan ČOP, Zu ein paar glottogonischen Fällen — Nekaj glotogoničnih primerkov ..................... , . 35 Janez OREŠNIK, On the phonological boundary between constituents of modem Icelandic Compound words — O fonološki meji med sestavnimi členi sestavljenk v moderni islandščini..........51 Alenka ŠIVIC, Modalna raba slovanskega bimt, bycfrb, bšchi> — Emploi modal du conditionel slave bdmi>, bycht, bšcht.........61 Mitja SKUBIC,» Contributi alla sintassi del verbo nei dialetti veneti — Prispevki k sintaksi glagola v beneških dialektih.........71 Mitja SKUBIC, Soprannomi nella parlata veneta di Pirano — Vzdevki v piranski beneščini................... , , 85 Poročila, ocene in zapisi — Comptes rendus, récensions, notes Manlio CORTELAZZO, Avviamento critico allo studio della dialettologia italiana, I. Problemi e metodi, Pacini Editore, Pisa, 1969 (žarko Muljačič) 93