review UDC 94(450.36 Trst)"1914/1919":314.7 ricevuto: 2002-05-25 LE METAMORFOSI ETNICHE DI TRIESTE NEL PERIODO 1914-1919 Piero PURINI IT-34126 Trieste, Via Crispi 85 e-mail: purini@katamail.com 5INTE5I Lo studio si occupa dei movimenti migratori che si verificarono nella Venezia Ciulia dal 1914 al 1919 e della funzione che questi movimenti ebbero nell'omogeneizzazione etnica del territorio. Il fenomeno e stato piuttosto tra­scurato dalla storiografia italiana; da parte slovena e croata, invece, l'attenzione e stata piuttosto concentrata sull'italianizzazione avvenuta durante il fascismo. Attraverso un'analisi comparata della letteratura italiana, slovena e croata, delle opere piu recenti, di alcuni materiali d'archivio e di fonti statistiche, questo articolo tenta di tracciare una panoramica degli avvenimenti e dei provvedimenti piu importanti che portarono alla metamorfosi etnica della Venezia Ciulia durante e dopo la prima guerra mondiale. Emerge il fatto che, seppur in modo ancora embrionale, la pianificazione della "bonifica etnica" in senso italiano della Venezia Ciulia inizio ben prima del fascismo, anzi, nei giorni stessi in cui l'Italia prese possesso dei nuovi territori. Parole chiave: movimenti migratori, emigrazione, immigrazione, Trieste, Venezia Giulia, prima guerra mondiale, 1919 ETHNIC METAMORPHOSIS OF TRIESTE FROM 1914 TO 1919 AB5TRACT This paper deals with the migratory flows that happened in the Venezia Ciulia region from 1914 to 1919 and it deals also with the function these flows had in the ethnic homogenisation of the territory. This phenomenon has been rather neglected by the Italian historiography, whereas the attention of 5lovenian and Croatian studies has concentrated on the Italianization carried over during the Fascism. By a comparative analysis of the most recent lite­rary works, of archive material and of statistical data of the Italian, 5lovenian and Croatian literature, this article at­tempts to trace an overview of the most important events and measures that brought to the ethnic metamorphosis of the Venezia Ciulia region during and after the First World War. It appears that, even if at an early stage, the planning of the "ethnic clearance" of the Venezia Ciulia region started long before the Fascism, or rather the very moment Italy took possession of the new territories. Key words: migrations, emigration, immigration, Trieste, Venezia Giulia, First World War, 1919 INTRODUZIONE Lo studio si occupa dei movimenti migratori che si verificarono nella Venezia Giulia e Trieste dal 1914 al 1919 e della funzione che questi movimenti ebbero nell'omogeneizzazione etnica del territorio. Gia durante la prima guerra mondiale e nel periodo immediatamente successivo alla fine del conflitto Trieste e il suo territorio subirono una metamorfosi nella propria fisionomia etni­co-nazionale e le sue componenti minoritarie risultaro­no, per diversi motivi, molto ridimensionate. I flussi im­migratori verso la citta e il Litorale mutarono sia per quanto riguarda i luoghi di provenienza, sia per consi­stenza numerica, sia per intensita. Si tratta di un fenomeno che, nonostante la sua com­plessita, per lunghi anni e per diverse ragioni e stato piuttosto trascurato dall'analisi storiografica o e stato piegato alla ragion politica. Durante il ventennio fascista, da parte degli studiosi italiani fu tenuto un quasi totale silenzio sulla questione, benche proprio in quegli anni venissero attuati i provve­dimenti atti ad allontanare i non italiani dalla Venezia Giulia o ad italianizzarli. Un'analisi scientifica dell'emi­grazione dei non italiani verso l'estero, del processo di italianizzazione degli sloveni e croati che erano rimasti e della massiccia immigrazione dal resto dell'Italia verso la Venezia Giulia avrebbe dimostrato, infatti, che le "terre redente" erano molto meno italiane di quanto la propa­ganda irredentista aveva voluto far credere. Fanno ecce­zione rari articoli di propaganda, in cui, comunque, tra­spare la contraddizione di un territorio e una citta uffi­cialmente "italianissimi" da cui sono state allontanate o "restituiti all'italianita" decine di migliaia di persone (Il Popolo di Trieste, 1933). Dopo la seconda guerra mondiale, fino a quando l'appartenenza territoriale della zona non venne definita, l'argomento fu affrontato generalmente con scarsa ob­biettivita: dare troppo peso ai movimenti migratori e alla campagna di italianizzazione voluta dal fascismo di­ventava un possibile boomerang sul piano dell'as­segnazione dei territori all'Italia. Risolta la "questione di Trieste" con la definitiva asse­gnazione della Zona B alla Jugoslavia, il problema dell'emigrazione di sloveni e croati dopo la prima guerra mondiale fu sempre piu frequentemente contrapposto in maniera sterile all'esodo dall'Istria del secondo dopo­guerra, in una sorta di "gara", priva di alcun senso scien­tifico, su quale delle due parti avesse subito maggiori so­prusi. Da parte slovena e croata, invece, ci si trova di fronte ad una storiografia in cui -specie fino agli anni '50 e '60 -l'attendibilita dei dati e parzialmente dubbia per il peso politico che la questione ebbe sia a livello di denuncia da parte della diaspora dei "Primorci", sia per la succes­siva legittimazione morale della Jugoslavia ad occupare i territori della Venezia Giulia. Inoltre tanto la storiografia slovena quanto quella croata hanno privilegiato l'analisi di cia che accadde durante il periodo fascista, quando la "bonifica etnica" del territorio fu palese, mettendo invece in secondo piano quanto accaduto nel periodo prece­dente. Sia nella storiografia italiana, sia in quella slovena e croata un approccio scientifico e meno dettato da inte­ressi di parte e comunque piuttosto recente. Questo articolo -attraverso un'analisi comparata della letteratura italiana, slovena e croata, lo studio delle opere piu recenti, di alcuni materiali d'archivio e di fonti statistiche -tenta di tracciare una panoramica degli av­venimenti che in qualsiasi modo possono essere colle­gati allo spostamento o alla modifica degli equilibri etni­ci d'anteguerra. Sono riportati gli eventi chiave (provvedimenti legi­slativi, sindromi di fuga, difficolta di vario genere nel continuare a vivere sul territorio, ecc.) che furono la cau­sa prima o collaterale della migrazione, le migrazioni di natura spontanea o quelle pianificate dalle autorita; le espulsioni velate o palesi, le partenze di intere categorie, l'italianizzazione forzata di fasce di popolazione allo­glotta o la loro adesione volontaria a queste campagne. Dove possibile sono segnalate le ipotesi numeriche dei singoli avvenimenti migratori. LA SITUAZIONE PRIMA DELLA GRANDE GUERRA Nel 1913 la citta di Trieste aveva una popolazione attorno ai 240.000 abitanti. Dal 1860 la crescita demo­grafica non aveva avuto significative flessioni e negli ul­timi anni precendenti alla grande guerra l'incremento demografico si era stabilizzato su una costante di cre­scita di circa 10.000 persone ogni due anni. L'ultimo censimento prima del conflitto mondiale, tenuto nel 1910 aveva registrato la presenza nel territorio del Co­mune di 226.412 persone, esclusi i militari del presidio che alla stessa data ammontavano a 3.052 unita, e gli equipaggi delle navi ormeggiate, che al 31 dicembre 1910, data del censimento, erano 1.240. Nell'anno successivo, sulla base dei rilievi anagrafici, il numero di abitanti di Trieste era gia salito a 232.822 persone, considerando come base i dati forniti dal cen­simento meno i morti e gli emigrati, piu i nuovi nati e gli immigrati. Con lo stesso criterio di calcolo, secondo i dati dell'anagrafe nel 1912 e nel 1913 la popolazione risulta­va rispettivamente di 236.896 e di 242.074 unita, con­fermando la costante di aumento di 10.000 unita al biennio (Comune di Trieste, 1955).1 Dati leggermente diversi, ma che nella sostanza confermano questo tipo di andamento demografico sono riportati da Pierpaolo Luz­zatto­Fegiz. Il grande statistico afferma che il numero di abitanti di Trieste era di 233.016 nel 1911, 239.912 nel 1912, 247.099 nel Le componenti di questa popolazione erano, etni­camente parlando, piuttosto variegate: italiani di cittadi­nanza austriaca, italiani cittadini del Regno d'Italia (i cosiddetti "regnicoli"), sloveni autoctoni, sloveni immi­grati dalla Carniola, popolazione di lingua tedesca, di lingua croata, una forte comunita ebraica, piccoli ma vivaci nuclei greci, serbi, armeni, svizzeri, albanesi, boemi, polacchi, turchi. Con il censimento del 1910 venne posta la domanda dell'appartenenza nazionale della popolazione: tuttavia la questione della nazionalita risulta piuttosto ambigua fin dall'inizio. Al Congresso Internazionale di Statistica tenutosi a Pietroburgo nel 1876, infatti, si era stabilito di adottare nei censimenti il quesito della "lingua d'uso". Ma la lingua d'uso poteva essere interpretata tanto come lingua d'uso nelle relazioni interpersonali e lavorative quanto come lingua d'uso in famiglia: due sistemi diver­si, addottati indifferentemente come base di rilevazione, che producevano un risultato complessivo disomoge­neo. A Trieste, si afferma, il quesito della lingua d'uso poteva essere manipolato in modo da avvantaggiare un'etnia anziche un'altra. Da parte italiana si ritenne che -in situazioni dove i censiti risultavano conoscere piu lingue - le rilevazioni avessero svantaggiato la com­ponente italiana, in maniera da farla apparire piu esigua e sopravvalutare invece le altre (in particolare quella slovena) nel tentativo di ridimensionare le tesi irredenti­stiche sull'italianita della citta. Il censimento del 1910, rilevato da ufficiali comuna­li, e dunque italiani, diede come risultato 170.000 abi­tanti che dichiararono come propria lingua d'uso quella italiana e 38.000 "slava" (slovena o croata), numeri rite­nuti troppo bassi dalle organizzazioni slovene e deci­samente scomodi per le autorita asburgiche. Il circolo politico sloveno "Edinost" nella figura del suo presidente Josip Vilfan protesta, affermando che erano stati modifi­cati i dati del personale dipendente da datori di lavoro italiani e delle domestiche slovene che prestavano ser­vizio presso famiglie italiane. Secondo il magistrato pre­posto al censimento queste persone dunque avevano come lingua d'uso quella italiana. Il governo austriaco promosse allora una revisione dei dati del censimento, basandosi pure sul luogo di nascita, sul cognome e ad­dirittura convocando i censiti. In seguito a queste corre­zioni i dati ufficiali del censimento riportarono, su tutto il territorio comunale, la presenza di 148.398 abitanti di lingua italiana, 56.916 di lingua slovena, 2.403 quelli di lingua serbo-croata e 11.856 di lingua tedesca. Secondo lo storico italiano Carlo Schiffrer (che, pera, non cono­sceva la lingua slovena, e dunque non ebbe mai acces­so alla storiografia slovena) la revisione del censimento, invece, fu voluta dal luogotenente Hohenlohe, sosteni­tore delle tesi trialistiche di Fracesco Ferdinando. Dal censimento risulta anche che degli italiani resi­denti a Trieste circa 30.000 erano cittadini italiani "re­gnicoli", dunque non "autoctoni". Il 58% degli abitanti di Trieste era nato altrove (Schiffrer, 1991, 21, 42-45; Novak, Zwitter, 1945, 123-127, 141-152; Vilfan, 1980, 178-180; Pirjevec, 1994, 225; Pelikan, 1997, 21). LA PRIMA GUERRA MONDIALE L'espulsione dei regnicoli Lo scoppio della prima guerra mondiale porta ad un arresto del vertiginoso trend demografico positivo di Tri­este, tanto che nel 1914 la popolazione aumenta solo di un migliaio di unita (243.415 presenze stimate). Nel 1915, invece, si verifica un crollo verticale: il numero di residenti a Trieste scese a 157.294 (cifra basata sul rilie­vo della Commissione centrale del pane; Luzzatto-Fegiz stima invece la popolazione in quell'anno in 180.000 unita). I motivi di questo impressionante calo furono molteplici e le diverse componenti della popolazione seguirono strade e destini diversi. Gran parte dei regni­coli residenti a Trieste venne rimpatriata o internata. Gia al momento dello scoppio della guerra tra Austria e Ser­bia alcuni di essi, paventando i disagi della permanenza in un paese in guerra, decisero di ritornare in Italia, allo­ra neutrale. Pur tuttavia, continua il normale afflusso di abitanti del Regno verso Trieste anche nel 1914 e nei primi mesi del 1915: gli arrivi in tutta l'Austria-Ungheria di persone provenienti dall'Italia furono rispettivamente 32.161 e 2.443. Nel marzo e nell'aprile del 1915, quando le manife­stazioni interventiste in Italia potevano gia far scorgere ai piu lungimiranti che il Regno sarebbe entrato in guer­ra contro l'Austria, le partenze dei regnicoli divennero via via piu numerose, fino a trasformarsi, in maggio, in un vero e proprio fenomeno di massa. Il 10 maggio dalla sola Fiume giunsero a Udine 800 persone di citta­dinanza italiana; il giorno dopo gli arrivi a Udine furono addirittura 2.500. La fuga continua fino alla vigilia della dichiarazione di guerra, il 23 maggio, quando le auto­rita austriache bloccarono le linee ferroviarie dirette in Italia. Al momento dello scoppio delle ostilita tra Italia e Austria, Trieste aveva perso la stragrande maggioranza dei cittadini italiani in essa residenti. Si calcola che qua­si 35.000 regnicoli abbiano abbandonato la citta (Bion­di, 2001, 49-69). 1913. Mi sembra possibile che la divergenza sia spiegabile ammettendo che Luzzatto­Fegiz abbia considerato come popolazione pre­sente anche i militari del presidio e gli equipaggi delle navi, che non appaiono nelle rilevazioni anagrafiche del Comune (Luzzatto­Fegiz, 1929). I pochi rimasti subirono comunque le misure previ­ste da tutti i paesi in guerra nei confronti di cittadini di paesi nemici: gli uomini in eta di leva furono internati, donne, bambini ed anziani mandati al confino o inol­trati nel Regno attraverso la Svizzera. Nella sola Trieste gli internati furono 2.987, i confinati 1.895 e i rimpa­triati in Italia 8.974 (9.866 secondo altre fonti). Gli unici regnicoli dei quali fu tollerata la presenza nel Litorale furono le donne austriache di nascita che avevano spo­sato un regnicolo acquisendo in questo modo la cittadi­nanza italiana ed i bambini nati da questi matrimoni, purche sotto i dodici anni (Biondi, 2001, 58-60). E' difficile dire quanto l'espulsione dei regnicoli ri­spondesse ad un disegno di "pulizia etnica" del territorio voluto dall'Austria per rendere meno preponderante la presenza italiana nel Litorale. Di certo nel corso degli ultimi decenni vi era stato il tentativo di ridimensionar­ne la presenza sia incrementando l'immigrazione di al­tre componenti etniche, sia cercando di limitare l'afflusso dei regnicoli. L'espulsione o l'internamento dei cittadini di stati nemici presenti sul territorio e tuttavia pratica comune di qualsiasi paese in stato di guerra, dunque e probabile che la misura presa dal governo au­striaco rappresentasse contemporaneamente una neces­sita bellica e un sistema per rendere piu "etnicamente" leale la zona. Se l'Austria-Ungheria avesse vinto la guer­ra, e comunque evidente che la componente italiana del Litorale sarebbe venuta ulteriormente a ridimensionarsi a favore della popolazione slava, seguendo quel proces­so secolare di metamorfosi etnica che gia era avvenuto a Ragusa-Dubovnik, Spalato, Sebenico e nel resto della Dalmazia. I fuoriusciti Un'altra categoria di persone che abbandona il Lito­rale in seguito allo scoppio del conflitto furono i fuoriu­sciti. Si trattava generalmente di giovani che decidevano di partire per evitare il servizio militare. A questi appar­tengono le 1.047 persone (di cui 182 caduti in battaglia) che secondo la tradizione storica irredentista passarono il confine per arruolarsi nell'esercito italiano, ma pure quelli - meno noti - che scelsero la fuga come modo di evitare la guerra. La diserzione dunque non fu, come la storiografia patriottica italiana ha sempre cercato di dimostrare, una scelta esclusiva degli irredentisti. Tra i fuoriusciti, oltre a coloro che semplicemente cercarono una via di salvez­za per evitare il fronte, vi furono anche diversi anarchici e socialisti internazionalisti e/o antimilitaristi, il cui rientro, in seguito, fu difficile e contrastato dalle autorita italiane. Nel campo del fuoriuscitismo irredentista vi fu pure un certo numero di non combattenti, che diedero il pro­prio contributo allo sforzo bellico italiano nelle associa­zioni di assistenza ai profughi, negli uffici amministrativi dei ministeri, nei comitati patriottici e nella propaganda (Cecotti, 2001b, 164-167). L'esilio dorato dell'alta borghesia Del tutto particolare nel panorama triestino fu l'emigrazione dei membri delle famiglie dell'alta e me­dia borghesia triestina la cui partenza (o permanenza a Trieste) fu funzionale alla tutela dei propri interessi eco­nomici. Per evitare i disagi e le possibili ripercussioni negati­ve degli eventi bellici, i componenti di questa "aristo­crazia" commerciale e imprenditoriale in molti casi scelsero di trasferirsi all'interno dell'Austria o all'estero. La Svizzera rappresenta la meta di un certo numero di maggiorenti triestini, sia per il fatto che la confederazio­ne elvetica, in quanto stato neutrale, permetteva di con­tinuare i propri affari tra i paesi in guerra, sia perche una parte dell'alta borghesia triestina possedeva la doppia cittadinanza. Altri, sempre a motivo della cittadinanza, preferirono la Grecia, neutrale fino al giugno del 1917. Un caso curioso fu quello dei rampolli di alcune fami­glie che acquisirono la cittadinanza ottomana per evita­re l'arruolamento, in quanto la legge turca esentava i cittadini ottomani non musulmani dal servizio militare. Questa scelta non si rivela particolarmente fortunata: alla fine della guerra le nuove autorita italiane concesse­ro con molta riluttanza e dopo controlli minuziosi il rientro a Trieste a sudditi di stati che avevano combat­tuto contro l'Italia. In alcuni casi i membri delle famiglie con interessi imprenditoriali internazionali emigrarono in piu paesi, anche appartenenti ai fronti contrapposti, dove erano presenti le loro filiali. Questa strategia permise di man­tenere le proprie attivita sia negli stati dell'Intesa che negli imperi centrali e di agire in maniera coordinata, nonostante il conflitto. Non fu raro il caso di compo­nenti della stessa famiglia che passarono il periodo bel­lico in Austria e in Italia (oltre che nelle proprie sedi di­staccate in altri paesi belligeranti o neutrali), gestendo le attivita dell'azienda all'estero secondo le direttive im­partite della casa madre. Pure le grandi imprese private che avevano la pro­pria sede centrale a Trieste spostarono le attivita in zone piu sicure: il Lloyd Austriaco trasferl la propria direzione a Vienna, e lo stesso fecero i Cantieri Navali Triestini e lo Stabilimento Tecnico Triestino, spostandosi rispetti­vamente a Budapest e a Linz. In quest'ultima citta tra­sloca pure la distilleria Camis & Stock. Estremamente interessante, infine, e la facilita con cui, a guerra finita, le imprese e la borghesia triestina si adattarono al nuovo status territoriale della zona. Fami­glie e aziende che erano nate, fiorite, avevano avuto ot­timi rapporti con l'Austria e proclamato sempre la pro­pria fedelta alla casa Asburgo, cambiarono bandiera con una velocita sconcertante. E' chiaro che si tratta di un dare-avere tra la ricca borghesia cittadina e la nuova autorita italiana. La pri­ma, preso atto dell'irreversibile fine dell'Impero e del crollo della monarchia, aveva tutto l'interesse a mante­nere rapporti piu che amichevoli con i nuovi padroni, tutelando in questo modo i propri interessi economici; la seconda, pur di evitare la fuga dei capitali apparte­nenti all'alta societa triestina, soprassedeva all'antica lealta verso l'Austria e concedeva alla borghesia cittadi­na una nuova verginita irredentista e filoitaliana (Cecot­ti, 2001b, 157, 161-164). Sfollati e profughi Se questo fu la sorte dell'alta e media borghesia, il destino delle classi sociali piu basse fu diverso. Gia prima dello scoppio del conflitto, fu chiaro che il Litorale sarebbe stato uno degli scenari in cui si sa­rebbe svolta la guerra tra Italia ed Austria. Lo stesso Mi­nistero degli interni di Vienna, dunque, aveva predispo­sto un piano di evacuazione dei luoghi piu vicini alle zone di operazione e dai possibili obbiettivi militari. Tra il 17 e il 22 maggio fu dato il via all'evacuazione della zona lungo l'Isonzo, del Carso, di parte del Collio, di parte del Tarvisiano, di Pola e dell'Istria meridionale (queste ultime localita vennero evacuate in quanto la citta istriana rappresentava la maggior piazzaforte na­vale e la sede della flotta da guerra austriaca), nonche di zone del Trentino. Interessante risulta il fatto che le autorita austriache non avessero predisposto l'evacuazione dell'area com­presa tra il confine italo-austriaco e la linea di difesa (approssimativamente quella dell'Isonzo), limitandosi a trasferire la popolazione residente nella futura zona di operazioni. Questo fece sl che, contemporaneamente alle evacuazioni, si verificasse un esodo spontaneo di popolazione del Friuli austriaco, del Collio e della zona del goriziano non evacuata, che sfuggiva alla imminente avanzata delle truppe italiane. Secondo le previsioni del Ministero degli interni lo sgombero avrebbe dovuto coinvolgere 40.000 persone. In realta l'afflusso di popolazione verso le retrovie fu molto piu consistente e si protrasse per tutta la durata del conflitto. Tolmino passa da 1.000 a 300 abitanti. A meta giu­gno a Gorizia, dei 28.000 abitanti di prima della guerra, ne rimanevano poco piu di 15.000 (di cui 3.000 profu­ghi), destinati a calare a 9.000 dopo la prima battaglia dell'Isonzo, scesi ulteriormente a 5.000 dopo la quarta battaglia dell'Isonzo. Quando nell'agosto del 1916 le truppe italiane entrarono in citta vi trovarono non piu di 3.500 persone, ed infine la citta venne sgombrata total­mente al momento della rotta di Caporetto. Dal solo ter­ritorio di Pola, invece, furono evacuate 36.000 persone. Gli sfollati furono inoltrati nell'interno della monar­chia, soprattutto in Austria Inferiore, Austria Superiore, Stiria e Ungheria. Vennero allestiti numerosi campi profughi che accolsero la popolazione proveniente dalle zone interessate alle operazioni militari, in alcuni casi procedendo ad alloggiare gli sfollati in campi profughi diversi a seconda della nazionalita: Bruck an der Leitha, Staeinklamm e Gmund -quest'ultimo solo per alcuni mesi - ospitarono i profughi sloveni e croati del Litorale. Il campo piu grande, quello di Wagna, ospita invece i profughi italiani. Oltre ai campi profughi vennero alle­stiti pure campi di internamento per elementi conside­rati politicamente inaffidabili, per regnicoli o irredentisti (Malni, 1998; Malni, 2001, 98-153; Svoljsak, 1991). Al numero degli evacuati si aggiunsero, in genere in condizioni ancora piu precarie in quanto non assistiti dallo stato, coloro che si erano allontanati volontaria­mente, che spesso dovettero arrangiarsi per conto pro­prio. Molti di questi fecero base da parenti e amici resi­denti in luoghi non direttamente coinvolti dalla guerra: non e un caso che molti dei profughi "volontari" si siano diretti verso Trieste o, come gia si e visto, a Gorizia quando questa non era ancora teatro di operazioni bel­liche (Cecotti, 2001b, 156-160, 169). In contemporanea all'inoltro di profughi e sfollati ver­so l'Austria, un flusso analogo (anche se numericamente piu ridotto) si verifica verso l'Italia. Le truppe italiane, nell'avanzata verso l'Isonzo, avevano conquistato nei primi giorni di guerra il Friuli austriaco, promuovendo in diversi casi lo sgombero dei centri occupati: Gradisca, Farra, i paesi del Collio e della zona di operazioni dell'Isonzo. In seguito fu sgomberata anche Monfalcone. Nel corso del conflitto a questi sfollati si aggiunsero altri: in particolare dopo la rotta di Caporetto la popolazione residua del goriziano dovette seguire le truppe italiane in ritirata. Nel Friuli orientale dopo Caporetto furono nume­rosi gli irredentisti che avevano accolto gli italiani come liberatori i quali inevitabilmente dovettero andarsene in­sieme all'esercito italiano. Come nel caso degli evacuati all'interno dell'Austria-Ungheria, anche l'Italia predispose campi profughi per accogliere gli sfollati, prediligendo, tuttavia delle struttu­re piu piccole di quelle allestite dall'Austria o addirittura la sistemazione dei profughi in "insediamenti sparsi" di qualche decina di persone, dispersi su buona parte del territorio nazionale. Si calcola che nella Contea di Gori­zia e Gradisca su una popolazione prebellica comples­siva di 260.000 persone, almeno 100.000 abbiano la­sciato la propria abitazione per rifugiarsi in Austria e 20.000 in Italia. I profughi sfollati nel territorio della Monarchia dall'Istria furono circa 40.000 i profughi, e 10-20.000 da Trieste, per un totale di 140.000-150.000 persone provenienti dal Litorale, di cui 70.000-80.000 assistiti dallo Stato. Le cifre ufficiali riportate dal Mini­stero dell'interno austriaco risultano di difficile inter­pretazione, in quanto anziche riferirsi alla zona di pro­venienza, i profughi sono segnalati in base alla nazio­nalita. Dunque, secondo queste stime, al 1 gennaio 1918 gli sfollati di nazionalita italiana erano 114.383 (compresi, pera, anche i trentini), 64.259 gli sloveni e 11.224 i croati. Quelli non assistiti dallo stato (nel feb­braio-marzo 1917) erano 17.086 italiani e 5.781 tra slo­veni e croati (Malni, 2001, 104-105). Parallelamente, nelle zone di operazione del basso Friuli e dell'Isontino occupate dalle truppe italiane, si procedette all'internamento in Italia di coloro che ave­vano deciso di rimanere nelle proprie case nonostante lo scoppio della guerra. Secondo la storiografia italiana l'entita degli internati in Italia oscillerebbe tra le 40.000­ 50.000 unita (inclusi i profughi trentini). Queste cifre sono confermate dal Censimento dei profughi di guerra, pubblicato nel 1919 sulla base della situazione nell'ot­tobre del 1918 dal Ministero per le terre liberate, che segnalava presenti in Italia 50.658 profughi dalla Vene­zia Giulia, di cui 23.390 dalla contea di Gorizia e Gra­disca, 18.839 da Trieste, 2.896 dall'Istria, 1.836 da Fiu­me, 3.521 dalla Dalmazia, 109 da Tarvisio e 67 da Po­stumia., Secondo la storiografia slovena, invece, il nu­mero di profughi dal Litorale in Italia ammonterebbe a circa 70.000 unita (Malni, 1998, 30; Malni, 2001, 105­106; Svoljsak, 1991, 11). Lo spopolamento di Trieste A Trieste non furono presi provvedimenti di evacua­zione, in quanto, esclusi episodi di bombardamenti aerei che provocarono una quarantina di vittime, la citta non fu mai seriamente minacciata, pur trovandosi nelle retro­vie del fronte. La sindrome di fuga, tuttavia, colpl anche in citta: molte famiglie immigrate che vivevano a Trieste preferirono ritornare al proprio luogo di origine, altri do­vettero allontanarsi perche venne trasferito il loro posto di lavoro, considerato piu sicuro perche piu lontano dal fronte. Una piccola parte dei profughi dalle zone di ope­razione e dall'Istria si stabill nel capoluogo del Litorale, ma non tampona l'emorragia di popolazione residente. Negli anni di guerra il numero di residenti in citta scese vertiginosamente: come gia si e detto dai 243.415 abitanti del 1914 si passa ai 157.294 del 1915, 154.000 nel 1916 e 152.740 nel 1917 (secondo i dati della Commissione centrale per il pane). Secondo lo statistico Luzzatto-Fegiz la popolazione si mantenne invece sulle 160.000 persone nel biennio 1916-1917 per poi risalire a 180.000 nel 1918. Non esi­ste alcun dato ufficiale per il 1918 (Comune di Trieste, 1955, 5-6; Luzzatto-Fegiz, 1929, 87). Lo spopolamento di Trieste, oltre che per l'allonta­namento dei regnicoli, la fuga dei fuoriusciti, l'esilio della borghesia commerciale ed imprenditoriale, fu do­vuto anche ad altri movimenti migratori connessi alla situazione bellica. Innanzitutto la chiamata alle armi: secondo i dati forniti a guerra finita dal Governatorato Militare della Venezia Giulia, i "richiamati, invalidi e militari morti" triestini sarebbero ammontati a 63.426. Nella sola leva dell'agosto 1914 vennero arruolati 32.000 coscritti di Trieste e 30.000 dal Friuli austriaco (Cecotti, 2001b, 176; Rossi, 1999, 409-410). Incise inoltre sullo spopolamento della citta il man­cato rientro di coloro che allo scoppio della guerra si trovavano altrove: quelli presenti in Italia o in paesi in guerra contro l'Austria, con misura analoga a quelle adottate nell'Impero, furono internati, ma l'impossibilita di ritornare a casa colpl anche coloro che si trovavano in altri luoghi dell'Austria-Ungheria: con ordinanza luo­gotenenziale il 9 luglio 1915 erano stati limitati i movi­menti dei civili verso la citta. Fu cosl che numerosi trie­stini (parecchie migliaia secondo Malni) passarono gli anni di guerra altrove. In particolare Vienna, Graz, Ma­ribor e Celje rappresentarono luoghi dove i gruppi di tri­estini furono piu corposi (Malni, 2001, 101, 145; Cecot­ti, 2001b, 160, 177). Altri mancati rientri furono quelli del personale ma­rittimo, le cui navi al momento dello scoppio delle osti­lita si trovavano in porti stranieri. In alcuni casi le navi furono prese in consegna da paesi nemici dell'Austria (perloppiu inglesi, considerato che diverse linee triestine avevano come meta i porti delle colonie britanniche) e gli equipaggi internati; in altri le navi si trovarono -o si diressero -verso porti di paesi neutrali, dove gli equi­paggi passarono il periodo bellico. Spesso questi mari­nai del Litorale, viste le ristrettezze economiche che questa condizione provocava, abbandonarono le navi e si imbarcarono su bastimenti di compagnie di naviga­zione neutrali. In altri casi ancora i piroscafi si diressero volontariamente verso i porti italiani, manifestando chiaramente la scelta irredentista degli ufficiali, dell'equipaggio o dell'armatore. Secondo il giornale tri­estino del movimento socialista "Il Lavoratore", agli inizi del 1918 erano 450 i marinai triestini in territorio stra­niero (Cecotti, 2001a, 27-47). La fame Un altro motivo di abbandono della citta da parte di chi poteva fu la fame. Nel corso del conflitto la situazione peggiora dram­maticamente per quanto riguardava gli approvvigiona­menti. Le derrate alimentari giungevano a stento in citta e per chi aveva contatti con zone rurali piu lontane dalla zona di operazione il trasferimento fuori citta rap­presenta una scelta decisamente piu allettante rispetto alla permanenza a Trieste. La composizione della po­polazione di Trieste, in parte emigrata in citta negli ul­timi decenni, fece sl che molti triestini che avevano an­cora contatti con i luoghi di origine delle proprie fami­glie, abbandonassero la citta nella speranza di trovare condizioni alimentari migliori in zone di campagna. Sfortunata fu la scelta di coloro che decisero di recarsi in Istria. Le condizioni della penisola, gravemente spo­polata nella parte meridionale e tagliata fuori dall'ap­provvigionamento ufficiale che prediligeva la grande citta di Trieste o la piazzaforte militare di Pola, erano decisamente peggiori che nel centro urbano. I triestini che si erano recati in Istria tentarono di spostarsi altrove o di rientrare a Trieste, dove almeno era possibile trova­re qualcosa attraverso il contrabbando. Gli ultimi anni di guerra, infatti, rappresentarono un periodo estrema­mente florido per il mercato nero e molti speculatori dovettero l'inizio della propria fortuna proprio a queste attivita. Questi anni vennero ricordati tanto da coloro che vissero questo periodo, quanto dalla memoria stori­ca delle generazioni successive come un periodo di fa­me, miseria e privazioni quali Trieste non aveva mai vissuto e mai piu si ritrova a dover subire. I trasferimenti delle attivita economiche e amministrative L'interruzione pressoche totale dell'attivita del porto e delle iniziative economico-commerciali, o il loro tra­sferimento altrove, furono un'altra delle cause della spaventosa flessione demografica di Trieste: come gia si e detto alcune delle piu importanti aziende avevano spostato la propria sede in luoghi piu sicuri, ma i trasfe­rimenti non riguardarono solo aziende private, bensl anche uffici statali pubblici e servizi pubblici. Il Tribu­nale fu spostato a Postumia per circa un mese; piu tra­vagliata fu la vicenda della Luogotenenza che prese se-de ad Abbazia per tornare a Trieste il 1" gennaio 1918 ed essere nuovamente spostata a Graz il 31 ottobre. Ad Abbazia trova rifugio pure il Tribunale Commerciale e Marittimo e la Procura. Anche le direzioni delle Poste, delle Dogane e della Finanza furono trasferite in altre localita. Il Governo Marittimo invece trasloca a Graz. In conseguenza a questi spostamenti, dovette trasferirsi an­che buona parte del personale impiegato in queste am­ministrazioni. Ma il caso che ebbe le maggiori conseguenze e che si profila come l'inizio (pur non pianificato) del ridimen­sionamento multietnico di Trieste e quello del personale impiegato nelle ferrovie. La Direzione compartimentale delle ferrovie, analo­gamente a quanto era gia accaduto ad altri servizi pub­blici, fu trasferita a Wels, nell'Austria Superiore. A Trie­ste venne mantenuto un distaccamento locale. In conseguenza a questo trasferimento (e pure all'interruzione del traffico ferroviario con l'Italia) buona parte dei ferrovieri di stanza a Trieste venne destinata altrove. Le mete furono Lubiana, Graz e Vienna, nonche le localita poste sulle direttrici delle linee ferroviarie della Sudbahn (la linea Trieste-Vienna) e di tratte ferro­viarie che partivano da Lubiana raggiungendo altre sta­zioni della Carniola e della Croazia. Il trasferimento dei ferrovieri fu -regnicoli a parte ­quello che interessa il maggior numero di persone. Si trattava perloppiu di sloveni, giunti a Trieste negli ultimi decenni ed in particolare con l'inaugurazione della Fer­rovia dei Tauri. La nuova linea Transalpina aveva por­tato a Trieste quasi esclusivamente ferrovieri sloveni: se-condo Tamaro quasi 4.000 persone tra ferrovieri e loro famigliari, in base ad un chiaro disegno del governo au­striaco teso a rafforzare l'elemento non italiano in citta (Tamaro, 1976, 497). Pur trattandosi di un nucleo di po­polazione di recente insediamento, i ferrovieri si erano presto integrati nel tessuto cittadino, stabilendosi nei rioni prossimi alla stazione (Roiano, Gretta), ed a San Giovanni, zona che permetteva un migliore ambienta­mento nella nuova citta, in quanto si trattava, allora, di un rione compattamente sloveno. Il trasferimento dei ferrovieri fu un provvedimento ri­gorosamente tecnico: rispondeva alla necessita di ren­dere piu agili le linee che collegavano l'interno con il fronte e a quella di non mantenere un gruppo cosl spro­porzionato di personale in un luogo che aveva visto in­terrompersi qualsiasi collegamento ferroviario con il vi­cino Friuli. Dopo Caporetto, la conquista austriaca del Friuli permise la riattivazione di alcune tratte ferroviarie verso ovest ed il ritorno di una parte dei ferrovieri alla sede di Trieste. Il rientro dei ferrovieri sloveni in citta non fu mai completato, e al momento dell'arrivo delle truppe ita­liane questo venne a bloccarsi: una parte di essi non de­siderava restare sotto l'Italia e dunque preferl rimanere nei luoghi della Carniola dove erano stati destinati op­pure ritorna ai propri luoghi d'origine, mentre ad un'altra le nuove autorita non permise il rientro in quanto non originaria del Litorale. Paradossalmente, dunque, il primo episodio di mo­difica etnica del territorio ai danni degli sloveni venne promosso dall'Austria. Lo spostamento dei ferrovieri slo­veni non rispose chiaramente ad un disegno di modifica dell'equilibrio etnico di Trieste: l'Austria, semmai, pote­va avere interesse ad incrementare la presenza slovena in citta, essendo questi ultimi sicuramente piu leali ver­so la corona asburgica di quanto non lo fosse la popola­zione italiana, in parte pericolosamente irredentista. Ma il trasferimento del periodo bellico fu utilizzato dall'Italia per iniziare quel piano di metamorfosi etnica che, nel giro di qualche decennio, avrebbe portato una citta multietnica e cosmopolita a fregiarsi del titolo di "italianissima". IL "COMITATO DI SALUTE PUBBLICA" La difficile situazione sociale di Trieste si fece anco­ra piu delicata nei giorni del trapasso dei poteri tra l'amministrazione austro-ungarica e quella italiana. Nei giorni dell'agonia dell'Impero le prospettive del futuro assetto di Trieste furono nebulose: da parte irredentista si dava per scontata l'unione all'Italia, ma si diffusero pure voci su una possibile associazione alla futura Jugo­slavia, mentre i socialisti auspicavano la nascita di una "Libera Repubblica Triestina,", una citta indipendente sotto il patronato della Lega delle Nazioni (anche se le opinioni personali degli esponenti socialisti a riguardo erano piuttosto divergenti). Nei giorni del trapasso dei poteri tra Austria e Italia, quelli tra il 30 ottobre e il 3 novembre, l'ordine pubbli­co in citta venne gestito da un autonominatosi "Comi­tato di salute pubblica", composto dai rappresentanti dei liberalnazionali e dei socialisti, a cui piu tardi vennero associati anche i delegati dei movimenti slavi: due per i "nazionali" e due per i socialisti. Nonostante la presenza dei rappresentanti sloveni all'interno del Comitato, tuttavia il "dopo Austria" inizia­va in maniera preoccupante per la popolazione non ita­liana di Trieste: gia il 30 ottobre la degenerazione di una manifestazione pro Italia aveva portato i manife­stanti a scagliarsi armati contro il Narodni Dom, l'edificio dove avevano sede numerose iniziative eco­nomiche e culturali degli sloveni di Trieste, che rappre­sentava, tanto per gli sloveni e croati quanto per gli ita­liani, il simbolo della presenza slovena nel Litorale. Gli incidenti provocarono nelle vicinanze la prima vittima della violenza etnica a Trieste: Anton Irgolic, un ferro­viere sloveno, colpito, forse solo di rimbalzo, da un proiettile (Comitato Trieste '68, 1968, vol. 1, 144). Anche la comunita tedesca di Trieste ebbe in quei giorni i primi sentori di quello che sarebbe stato di ll a poco il suo destino: il primo novembre il Comitato di salute pubblica rifiuta al "Deutscher Volksrat fur Triest und Kustenland", l'organizzazione dei triestini di lingua tedesca, di avere propri rappresentanti nel comitato stesso, motivandolo con il fatto che "i tedeschi abitanti a Trieste e nelle altre terre della Regione Ciulia formano un nucleo troppo esiguo" (Comitato Trieste '68, 1968, vol. 2, 117-118). Va notato che a Trieste il gruppo tede­sco contava prima della guerra piu di 10.000 compo­nenti e che comunita tedesche di una notevole consi­stenza erano presenti anche a Gorizia, Cormons, Luci­nicco, Pola, Abbazia, Portorose e Lovrana. IL GOVERNATORATO MILITARE Militari ed ex prigionieri. Il rientro di profughi, sfollati e soldati austro-ungarici Il 3 novembre, con lo sbarco delle truppe dalla mo­tonave Audace, l'Italia prese ufficialmente possesso di Trieste e della Venezia Giulia, contro il parere tanto del Narodni Svet di Trieste, quanto della diplomazia del futuro Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, che in sede in­ternazionale premevano affinche la citta venisse occu­pata sl dalle truppe italiane, ma in rappresentanza dell'Intesa e che fosse la conferenza di pace a stabilire la futura assegnazione territoriale del Litorale. Da parte italiana, invece, l'atto di annessione fu completo e irreversibile fin dal momento in cui il gover­natore militare Carlo Petitti di Roreto mise piede sul suolo triestino. Il primo problema che Petitti di Roreto si trova ad affrontare fu la gestione del rientro dei profughi che avevano trascorso il periodo bellico lontani dal Litorale e, soprattutto, la gestione delle decine di migliaia di sol­dati allo sbando che giungevano in citta. Gia prima dell'armistizio un certo numero di ex prigionieri di guer­ra italiani si aggirava per Trieste, creando, in una citta praticamente priva di forze dell'ordine e senza una reale autorita che la controllasse, gravi problemi di ordine pubblico. A questi si aggiungevano gli sbandati dell'esercito austro-ungarico in rotta che transitavano per la citta nel loro viaggio di ritorno alle proprie case. Il Comitato di salute pubblica aveva provveduto ad emanare degli ordini con cui si permetteva il rientro a Trieste dei militari con residenza in zona, mentre si ob­bligavano i militari non appartenenti alle province del Litorale ad abbandonare la citta, ma per far rispettare questi provvedimenti poteva contare solo su un esiguo numero di volontari della neonata guardia nazionale e sul reparto cecoslovacco di stanza a Trieste che si era messo a disposizione del Comitato; entrambi i corpi, tuttavia, erano gia impegnati nei compiti di manteni­mento dell'ordine pubblico. Il Comitato, inoltre, aveva inviato telegrammi ai campi di raccolta per profughi dal Litorale e ad alcuni maggiorenti che si erano rifugiati all'interno dell'Austria, segnalando la possibilita del rientro in citta. La situazione degenera con la fine ufficiale delle ostilita. Gia al momento dello sbarco di Petitti erano presenti a Trieste diverse migliaia di ex prigionieri di guerra italiani. Con il passare dei giorni gli arrivi si fece­ro sempre piu corposi: il 9 novembre giunsero in citta 5.000 militari, 16.000 il 10. Il 15 novembre i soldati presenti in citta erano 60.000, aumentati a 90.000 il 17 per toccare l'apice (150.000, ma il numero sembra cal­colato in eccesso) il 19 novembre (Visintin, 2000, 16). Secondo una stima fatta dal comandante dei campi di raccolta sulla base del numero di vagoni giunti a Trieste nel novembre del '18 e sulla media di soldati per vago­ne, a Trieste transitarono in quei giorni 160.000 soldati, con un numero massimo di 105.000 presenze in citta (Puissa, 2001, 191). Gli ex prigionieri vennero concentrati nelle strutture del porto vecchio e del porto nuovo, dove vennero or­ganizzati, in mezzo a problemi logistici ed igienici con­siderevoli, i rimpatri via mare e a mezzo ferrovia. In di­versi casi si verificarono casi di insubordinazione, fu­ghe, devastazioni delle strutture portuali, tentativi scomposti di raggiungere le navi in partenza. Alla fine del mese buona parte degli uomini era ormai stata inol­trata in Italia. Nel periodo di permanenza degli ex pri­gionieri e dei soldati a Trieste si registrarono 1.235 de­cessi per malattia, perloppiu per polmonite e per la co­siddetta "influenza spagnola" (Visintin, 2000, 17-18). Al termine di novembre erano stati rimpatriati 103.930 mi­litari, mentre ne restavano ancora 10.000, di cui circa la meta degenti in strutture ospedaliere (Puissa, 2001, 192). Petitti di Roreto lavora con grande sollecitudine allo sgombero del porto dai militari italiani anche perche era attesa una seconda ondata di affluenze di ex militari, questa volta ex soldati austro-ungarici originari del Lito­rale e di ritorno alle proprie case. L'emergenza prigionieri pote dirsi conclusa gia alla fine di novembre: il 28 novembre il punto di raccolta al porto vecchio venne smantellato, e tutti i soldati ancora in attesa di imbarco vennero concentrati presso il porto nuovo, a S. Andrea. Estremamente piu complesso e lungo fu il rientro in zona di coloro che prima della guerra erano residenti nel Litorale e che avevano passato il periodo bellico al-trove, fossero essi profughi, soldati dell'Impero prove­nienti dalle zone d'operazione, prigionieri austro­ungarici internati in Italia o negli altri paesi dell'Intesa. I profughi sfollati dalle zone d'operazione verso l'interno della duplice monarchia avevano cominciato a fare ritorno gia dopo la riconquista dell'intero Litorale conseguente a Caporetto, tuttavia alla fine delle ostilita erano ancora circa 30.000 gli ex residenti nel Litorale sparsi nel territorio dell'Austria-Ungheria (60.000 in di­cembre secondo il "Comitato per il rimpatrio dei profu­ghi italiani") (Malni, 1998, 170, 172; Malni, 2001, 144). Nei primi giorni del novembre 1918, come gia si e visto, i rimanenti profughi del Litorale cominciarono a rientrare. Il Comitato di salute pubblica favorl il rientro, annullando la necessita del lasciapassare per gli spo­stamenti verso la citta per i residenti a Trieste prima della guerra e sollecitando il Comando delle ferrovie ad inoltrare senza indugio coloro che appartenevano alle province del Litorale. Il ritorno dei profughi che avevano trascorso gli anni di guerra in localita dell'ex Impero fu un flusso continuo che perdura per un periodo piuttosto lungo. Nel caso degli sfollati che avevano passato la guerra nei campi profughi il rientro fu organizzato dalle nuove autorita italiane, quelli che invece erano riusciti a trovare una si­stemazione autonoma dovettero arrangiarsi da soli, ed il ritorno fu reso piu difficoltoso dalla sospensione del traffico ferroviario da e per l'Austria (ed anche dei servi­zi telegrafici e telefonici verso l'ex Impero) decretati dal Governatore il 5 novembre (Comitato Trieste '68, 1968, vol. 3, 42-43). Le autorita militari tentarono di esercitare un con­trollo sui rientri, sia nell'intento di limitare l'impatto su zone duramente provate dalla guerra, sia di impedire il reinsediamento in citta a persone indesiderate. Il controllo degli abitanti del Litorale che durante la guerra si erano rifugiati o erano stati sfollati in Italia ri­sulta molto piu efficace rispetto a quelli che avevano trovato rifugio all'interno dell'Austria-Ungheria. Ai pri­mi, infatti, potevano negare il permesso di rientro nella Venezia Giulia tanto le autorita di pubblica sicurezza del luogo dove avevano passato il periodo bellico, quanto il Governatorato insediato a Trieste. Coloro che invece provenivano dai territori dell'ormai defunta mo­narchia, visto il caos istituzionale seguente al crollo dell'Austria e l'incertezza politico-territoriale in cui si dibattevano gli ex territori asburgici, potevano muoversi all'interno dell'ex Impero con relativa facilita, fino a giungere alla linea di armistizio controllata dagli italiani, che, pera, poteva essere passata clandestinamente sen­za grossi problemi da chi conoscesse le zone. Le truppe italiane, inoltre, raggiunsero il limite territoriale stabilito dall'armistizio solo il 24 novembre, dunque fino a quel giorno molte zone del confine erano effettivamente pri­ve di controllo. Petitti di Roreto aveva emanato degli ordini secondo cui chi provenisse dal Litorale era autorizzato a rientrare nella Venezia Giulia, mentre coloro che non proveniva­no dalla zona conquistata dall'esercito italiano doveva­no essere respinti. Questi provvedimenti, com'e ovvio, crearono delle situazioni ambigue e di difficile soluzio­ne: in assenza di specificazione stava alla discrezione dei funzionari non permettere il rientro di coloro che fossero nati fuori dal Litorale, pur essendovi stati resi­denti (nel gergo burocratico dell'epoca pertinenti) per lungo tempo. La pertinenza veniva concessa dalle auto­rita austriache dopo dieci anni di residenza ininterrotta nel Litorale, ma il fatto che per i cinque anni di guerra fosse mancato un reale controllo e che molti dei perti­nenti avessero passato il periodo bellico fuori dalla Ve­nezia Giulia complicava notevolmente le cose e dava ai nuovi funzionari l'arbitrio di concedere o meno il rien­tro o la permanenza nella zona. La storiografia italiana e quelle di altri paesi si divi­dono sulla valutazione delle conseguenze di questi provvedimenti. Secondo buona parte degli storici italia­ni nel Litorale subito dopo la fine della guerra non si ve­rifica il fenomeno dell'espulsione di massa delle com­ponenti etniche minoritarie, come avvenne, ad esempio in Alsazia-Lorena, facendo sl che gli sfratti oltre la linea di armistizio si limitassero a pochi casi; secondo la sto­riografia straniera e slovena in particolare fu proprio l'escamotage della pertinenza il primo episodio della pulizia etnica ai danni delle minoranze slave della Ve­nezia Giulia. Secondo quest'interpretazione il provve­dimento costa l'espulsione immediata di 300 persone, anche se l'informazione gia all'epoca fu smentita come falsa da Petitti di Roreto (Apollonio, 2001, 96, 106). L'ambiguita dei provvedimenti italiani fu utilizzata con lo scopo di impedire il rientro a persone non gradite alle nuove autorita: a diversi sacerdoti sloveni venne impe­dito il ritorno nelle loro parrocchie per il fatto che essi erano originari di territori al di fuori della linea di occu­pazione (Visintin, 2000, 122). Il clero sloveno e croato era considerato dalle autorita italiane come il veicolo piu pericoloso del nazionalismo slavo, dunque fu molto alto il numero dei religiosi che gia nel 1919 subirono vessazioni di vario genere dalle nuove autorita d'oc­cupazione: 35 sacerdoti furono internati, altri 23 incar­cerati. Inoltre furono 93 i preti e 79 i frati e monaci in­viati coercitivamente oltre confine (Zerjavic, 1993, 634). Piuttosto complessa fu anche la vicenda degli ex mi­litari austroungarici che tentavano di rientrare nelle pro­prie case. I primi reduci dell'esercito imperiale giunsero a Trieste come sbandati dal fronte gia ai primi di no­vembre. Piu tardi cominciarono a rientrare dai luoghi di internamento in Italia gli ex prigionieri catturati dagli italiani nel corso del conflitto. Negli intenti della amministrazione militare italiana, essi avrebbero dovuto essere sottoposti a misure di rico­noscimento, di controllo, di quarantena e al congedo. Ma accadde spesso che questi militari, una volta giunti a Trieste, si eclissassero senza attendere le formalita previste. Semplicemente scendevano dai treni, fuggendo e ritornando alla propria casa con i propri mezzi. Le nuove autorita italiane si dimostrarono spesso incapaci di fronteggiare queste situazioni, e tanto meno di rin­tracciare questi uomini una volta scesi dai convogli: la conoscenza ed il controllo del nuovo territorio da parte delle truppe di occupazione italiane era superficiale e, soprattutto nell'Isontino, nell'Istria interna e nel circon­dario triestino la collaborazione da parte della popola­zione e delle amministrazioni locali era poco piu che formale, quando non si trattava di un sentimento di chiara ostilita. Ben presto le autorita italiane emanarono delle nor-me tese a controllare gli ex soldati austro-ungarici rien­trati ed eventualmente ad internarli quando si dimo­strassero potenziali portatori di idee rivoluzionarie o na­zionaliste slave. Gia il Comitato di salute pubblica ave­va ordinato al Comando delle ferrovie di fermare tutti i militari non appartenenti "a queste provincie" e di obbli­garli ad abbandonare la citta quanto prima (Comitato Trieste '68, 1968, vol. 2, 43). Anche in questo caso tut­tavia non era specificato come comportarsi con quelli che prima della guerra erano residenti a Trieste, ma che erano pera originari di altre localita dell'Impero. Con la costituzione del Governatorato la permanen­za dei militari divenne ancor piu difficile: il 7 novem­bre, per gestire i rimpatri, il Governatore emana un av­viso secondo cui tutti gli ex prigionieri austriaci doveva­no concentrarsi nei campi allestiti al Porto Vecchio e al Porto Nuovo; il giorno successivo un altro avviso auto­rizza i cittadini di altre nazionalita a lasciare Trieste per "far ritorno nei loro paesi d'origine, previo il rilascio di un lasciapassare da parte del Comando dei carabinieri" (Comitato Trieste '68, 1968, vol. 3, 73, 81). Il 17 no­vembre Petitti di Roreto in un altro decreto stabiliva che "Cli ex militari austriaci che tutt'ora trovansi entro la li­nea di confine segnata dall'armistizio, possono essere lasciati liberi se vengono trovati nel paese dove sono nati", e che "quelli di altra nazionalita, dovranno versare le armi e rientrare nei loro paesi d'origine per via ordi­naria o valendosi dei treni di ritorno. In caso di rifiuto saranno fatti prigionieri" (Comitato Trieste '68, 1968, vol. 3, 148). Con questo decreto veniva per la prima volta a pale­sarsi la distinzione tra chi era nato nel territorio della Venezia Giulia e chi vi era solo residente. La situazione dei soldati di nazionalita slovena, nati nella Carniola ma pertinenti al Litorale diventava cosl estremamente ambi­gua: stava all'arbitrio dell'autorita permettere a loro di rimanere nel Litorale o spedirli nei luoghi dove essi era-no nati. Ulteriori e piu gravi provvedimenti furono adottati dal 24 novembre in poi, quando, raggiunto il confine dell'armistizio, il Ministero degli interni si preoccupa di consolidare il controllo sul territorio. Il 25, il presidente del consiglio Vittorio Emanuele Orlando auspicava l'arresto come prigionieri o l'espulsione oltre il confine armistiziali di quegli ufficiali "che si dicono jugoslavi ma che hanno ugualmente la divisa austriaca"; il 26 il generale Badoglio del Comando Supremo ordinava "di considerare prigionieri di guerra tutti i cittadini gia ap­partenenti all'esercito austro­ungarico e rimasti entro la linea di armistizio dopo il limite di tempo previsto dall'armistizio" (Comitato Trieste '68, 1968, vol. 3, 223, 228). Il 28 novembre un ulteriore bando dava solamente 24 ore agli ex soldati austro-ungarici per consegnarsi come prigionieri di guerra o varcare definitivamente la linea di demarcazione (Necak, 1972, 159); un altro bando apparso il 5 dicembre invitava i soldati a pre­sentarsi al campo di raccolta di Cormons. La maggior parte di coloro che si presentarono venne interrogata e rilasciata dopo qualche giorno, ma alcuni, ritenuti peri­colosi, furono internati in Trentino o nell'Ascolano (Vi­sintin, 2000, 181-182). E' evidente che in queste condizioni un certo numero di militari decidesse di abbandonare la zona, visti i rischi di internamento che la permanenza in loco poteva com­portare. Si verifica dunque la fuoriuscita di un numero considerevole di ex soldati che varcarono la linea di confine. Giunti in Jugoslavia, pera, essi vennero imme­diatamente arruolati nell'esercito del nuovo Regno dei Serbi, Croati e Sloveni e inviati sul fronte carinziano, do­ve jugoslavi e austriaci si fronteggiavano in una guerra non dichiarata per il possesso della Carinzia del sud. L'arruolamento nelle file dell'esercito jugoslavo era gia un fenomeno esistente negli ultimi giorni della du­plice monarchia, ma le misure repressive delle autorita di occupazione italiane e l'automatico arruolamento degli ex soldati austroungarici nell'esercito del Regno dei serbi, Croati e Sloveni, fece sl che il numero di per­sone coinvolte fosse piuttosto alto. Alcuni elenchi reperito tra i documenti della Pisarna za zasedeno ozemlje, l'organizzazione dei profughi slo­veni e croati del Litorale rifugiatisi in territorio jugosla­vo, riportano un elenco di 167 soldati dell'esercito au­stro-ungarico originari del Litorale riparati oltre la linea di demarcazione che l'11 marzo 1919 vennero inviati a Dravograd, in Carinzia, per sostenere l'annessione della Carinzia meridionale alla Jugoslavia. Ne emerge come gli arruolamenti, relativamente pochi nel periodo in cui era ancora operativo l'esercito imperial-regio, si molti­plicarono con l'occupazione del Litorale da parte italia­na. In alcuni elenchi e riportato pure il motivo dell'arruolamento: in nessun caso i soldati scelsero di passare in Jugoslavia per caldeggiare l'annessione della Carinzia, mentre l'arruolamento e giustificato generica­mente con un "radi Italijani" -a causa degli italiani -; al­tre volte si parla chiaramente di una scelta fatta per evita­re l'internamento (ARS, PZO, f.1, S.; Purini, 2000b, 373). Ancora piu lunga e movimentata fu la vicenda del rientro dei soldati austroungarici fatti prigionieri in Rus­sia. Migliaia di soldati austroungarici provenienti dal Litorale erano stati catturati (o si erano arresi) ai russi du­rante le operazioni nei Carpazi. Durante la guerra solo una parte di essi aveva potuto rientrare in Europa grazie all'opera della Missione Miltare Italiana, la quale reclu­tava prigionieri austroungarici di nazionalita e senti­menti italiani con l'obiettivo di arruolarli nell'esercito italiano e inviarli al fronte contro l'Austria. Tra il 1916 e il 1917, 4.440 di essi raggiunsero Torino dopo un lungo viaggio via Arkangelsk e Glasgow, ma non vennero mai impiegati nella zona di operazioni e poterono rientrare a Trieste solo dopo l'armistizio. Altri ancora raggiunsero l'Italia dopo una vera e propria odissea via nave e treno che da Vladivostok li aveva portati a San Francisco, New York ed infine a Genova. I rientri degli ex militari austroungarici si protrassero per lungo tempo, addirittura fino al '20 per quanto ri­guarda i prigionieri in Russia, bloccati dalla Rivoluzione e dalla guerra civile. Il governo italiano se ne occupa solo nel 1919, ma il rientro della maggior parte dei mi­litari avvenne nel 1920 (con alcune eccezioni da parte di singoli che stabilirono di restare in Russia, ritornando, in alcuni casi, solo alla fine degli anni '20). Al loro rientro gli ex prigionieri in Russia si trovarono in una situazione piuttosto difficile: erano sospetti colo­ro che durante la guerra non avevano aderito alla pro­spettiva di rientro per combattere a fianco degli italiani, in piu il fatto di aver trascorso la prigionia in Russia du­rante la Rivoluzione e di essere rimasti "a lungo in con­tatto con gli elementi rivoluzionari russi", ne facevano, agli occhi delle autorita italiane, dei potenziali sovversi­vi, quando non venivano considerati tout court dei bol­scevichi. Il destino degli ex prigionieri fu dunque, spes­so, l'internamento in alcuni campi (a Trieste nel castello di San Giusto e a Prosecco, a Cormons, a Castelfranco Veneto, a Gardolo, a Gossolengo vicino Piacenza, ed in altre localita delle Marche, della Puglia e della Sarde­gna), dove venivano interrogati, dove erano valutate le loro opinioni politiche e si svolgeva un eventuale perio­do di rieducazione. Non pochi furono i casi di persone rimaste per mesi in queste strutture (Rossi, 1997; 1999). Periodicamente gli ex prigionieri e gli ex soldati au­stroungarici pertinenti al Litorale furono obbligati a ri­presentarsi alle autorita militari. Ben presto questa misu­ra divenne una vera e propria ossessione: nel corso di questi controlli veniva infatti valutata la condotta sociale ed "italiana" dei reduci e il solo sospetto che la persona avesse dimostrato atteggiamenti sovversivi o pericolosi era sufficiente all'internamento (Apollonio, 2001, 95). Nel campo di Cormons, secondo la Pisarna za zase­deno ozemlje, furono internati circa 3.000 ufficiali dell'ex esercito austro-ungarico, mentre in quello di Gardolo, secondo fonti italiane, erano presenti addirittu­ra 30.000 internati, rientrati dalla Russia, pertinenti alla Venezia Giulia, alla Dalmazia e al Trentino (Kacin-Wohinz, 1972, 108-109). Coloro che durante la guerra si erano rifugiati in Italia furono sottoposti ad ancora maggiori controlli. Nei loro confronti le autorita italiane, sia nel luogo di rifugio, sia nella Venezia Giulia, applicarono una serie di accerta­menti incrociati al fine di sondare la loro affidabilita po­litica ed i loro sentimenti patriottici. Non era raro, infatti, il caso di persone fuggite in Italia nel 1914 per evitare il servizio militare nell'esercito austriaco gia in guerra, che, rifiutatisi di prestare servizio in quello italiano dopo il 1915 erano state internate in campi di concentramento nell'Italia meridionale o in Sardegna. Furono questi i primi casi di confino, il sistema di isolamento di persone ritenute socialmente e politicamente pericolose, in se­guito ampiamente utilizzato dal regime fascista. Nei primi mesi di occupazione delle "terre redente" le autorita limitarono il rientro dall'Italia, organizzando il rimpatrio solo di quei rifugiati "eccellenti", noti per la loro militanza irredentista. Addirittura agli stessi volonta­ri nell'esercito italiano fu rinviata la partenza: quelli re­sidenti a Milano lamentarono il fatto che mentre a di­versi civili era stato permesso il ritorno a casa, a loro questo veniva ancora impedito (Comitato Trieste '68, 1968, vol. 3, 198). Con il 1919 il Governatorato permise il rientro nella Venezia Giulia a un numero via via crescente di fuoriu­sciti, subordinandolo pera ad un attento esame dell'orientamento politico-nazionale del richiedente. La possibilita di rientro venne concessa senza difficolta a coloro che dimostravano "sentimenti italiani", l'adesione alla causa italiana e, requisito indispensabile, la nazio­nalita italiana (Biondi, 2001, 60; Cecotti, 2001c, 89; Malni, 2001, 144; Cecotti, 2001b, 174). A questi con­trolli sottostarono tanto gli ex cittadini austriaci gia resi­denti nella Venezia Giulia, quanto gli ex "regnicoli". Per le autorita italiane non esisteva ormai piu alcuna diffe­renza tra coloro che avevano abitato nel Litorale pre­bellico essendo cittadini austriaci o cittadini italiani. Particolarmente severi furono invece i provvedimenti per coloro che mostravano opinioni politiche non in li­nea con i requisiti richiesti: socialisti, internazionalisti, anarchici, sfollati di nazionalita non italiana. A queste categorie il permesso di rientro fu negato a volte per anni. In alcuni casi anarchici, socialisti , slo­veni, croati, "austriacanti" o ex funzionari ancora fedeli al passato regime, viste le lungaggini frapposte al rientro dall'autorita militare optarono per l'emigrazione in altri paesi (Jugoslavia, Austria, Francia, Svizzera, Russia), in altri gli internati morirono senza poter rientrare. Sono documentati pure alcuni episodi in cui le autorita rifiuta­rono il rientro ad aderenti alla Democrazia Sociale Irre­denta, il gruppo irredentista che si rifaceva ad ideali mazziniani e repubblicani, in quanto essi non si ricono­scevano nel movimento liberalnazionale e nelle altre associazioni patriottiche che detenevano i contatti con il Governatorato e spesso rilasciavano gli attestati di "ita­lianita" dei profughi (Biondi, 2001, 65; Cecotti, 2001c, 85-88; 2001b, 182). A prescindere dai controlli e dagli ostacoli frapposti dalle nuove autorita, i rientri tuttavia continuarono. Dal 29 novembre al 13 gennaio si calcola che questi am­montavano a 12.000, di cui 4.000 nel solo Triestino (Cecotti, 2001b, 173). Secondo Luzzato Fegiz a fine an-no la popolazione della citta era risalita a 180.000 abi­tanti, per arrivare a 204.000 l'anno successivo. Secondo le statistiche del Comune, invece, nella prima meta del 1919 la popolazione ammontava a 203.993 unita ed a novembre gli abitanti erano 225.645. Con il passare del tempo il governo italiano dovette allentare la rigidita dei controlli per l'autorizzazione al rientro, in quanto l'ospitalita dei profughi nei luoghi d'Italia dove si erano rifugiati gravava sulle amministrazioni locali, che co­minciarono a dare segni d'insofferenza per la spesa assi­stenziale che la permanenza dei profughi comportava. Da parte loro alcuni uffici del Governatorato cercarono di impedire ulteriormente il rientro dei profughi, uffi­cialmente con il pretesto che -specie nella Bassa Friula­na e nelle ex zone d'operazione -la casa e il lavoro per gli ex sfollati mancavano, di fatto perche si temeva che essi costituissero un gruppo tra cui si annidavano sovver­sivi e persone di scarsi sentimenti italiani, le cui idee avrebbero potuto far presa sull'intera categoria degli ex profughi (Apollonio, 2001, 98). Nel corso del 1920, tuttavia, tranne nei casi gia se­gnalati di persone politicamente sgradite e degli ex mi­litari in Russia, il flusso di rientro si era fondamental­mente esaurito. Il rientro dei regnicoli, la partenza degli asburgici Nel 1919 rientra anche la stragrande maggioranza dei regnicoli, ormai parificati a tutti gli effetti ai residenti a Trieste di ex cittadinanza austriaca. Assieme a loro, tuttavia, immigrarono a Trieste anche molti italiani delle "vecchie province" attirati dalle prospettive che offriva la citta adriatica: nell'immaginario collettivo una citta ric­ca, in cui vi era la possibilita di fare fortuna. Durante l'anno il numero totale di persone proveniente dai vec­chi confini del Regno d'Italia fu di 39.483, ex regnicoli e nuovi immigrati (Biondi, 2001, 64). Questi ultimi, co­me si vedra piu estesamente in seguito, trovarono lavoro generalmente nel pubblico impiego, grazie ai posti la­sciati vacanti dalla componente non italiana della pub­blica amministrazione. Il cambio di sovranita su Trieste infatti aveva provo­cato la partenza da Trieste di numerose categorie legate al regime asburgico: come e stato gia segnalato molti funzionari dello stato austriaco erano stati trasferiti in­sieme alle direzioni dei loro uffici in zone piu sicure. In molti di questi casi non erano piu tornati. Molti degli alti funzionari dell'apparato burocratico asburgico e degli organi imperiali di pubblica sicurezza avevano gia provveduto a fare le valigie negli ultimi giorni di guerra, lasciando gli uffici nelle mani di perso­nale subordinato (Apollonio, 2001, 91). Buona parte de­gli addetti all'ordine pubblico non italiani fu trasferita nel corso del 1919 nel neonato Regno dei Serbi, Croati e Sloveni in base ad un accordo tra i due governi. Mi­gliaia di persone lasciarono la Venezia Giulia, portando, in alcune zone, ad un vero e proprio spopolamento: ad­dirittura dalla sola Pola vi fu un esodo che coinvolse da 20 a 25.000 individui, nella maggioranza persone la cui presenza in citta era legata alle attivita del porto militare (Apollonio, 2001, 97, 101; Kacin-Wohinz, 1972, 125). La pubblica amministrazione, come gia si e visto, contava una maggioranza di assunti non italiani, che ebbero a subire pesanti campagne di denigrazione, quando non aperte spinte ad andarsene. I funzionari non italiani erano preponderanti nelle poste, nei Ma­gazzini Generali, nelle societa di armamento, nelle offi­cine municipalizzate, nelle dogane, nella gendarmeria, nella finanza, nelle ferrovie. Secondo stime del 1910 dei 4.600 dipendenti statali presenti a Trieste 3.600 erano slavi e 700 erano tedeschi. Nel compartimento di Trie­ste delle Ferrovie dello stato austriache su 828 dipen­denti, gli slavi erano 726 (quasi tutti sloveni) e i tedeschi 30; nella Sudbahn (allora a gestione privata) su 1.098 addetti 968 erano slavi e 50 tedeschi. I primi licenzia­menti nel settore ferroviario riguardarono il personale tedesco (Apollonio, 2001, 107). La comunita tedesca E fu appunto la comunita tedesca di Trieste, che se-condo il censimento del 1910 ammontava a 11.856 persone, a pagare piu delle altre il prezzo dei trasferi­menti di guerra e dell'immediato dopoguerra: buona parte di essa lavorava nella burocrazia asburgica e segul le peregrinazioni dei pubblici apparati in zone piu sicu­re dell'Impero. Per coloro che rimasero a Trieste, la fine della guerra rappresenta un periodo di grave incertezza, oltre che la fine del sistema in cui essi si erano, gene­ralmente, identificati. Per tutta la componente tedesca dell'Austria-Ungheria la dissoluzione dell'Impero fu un avvenimento epocale, che sanciva la fine irrecuperabile di un sistema sociale e di un modus vivendi ormai radicato da secoli. Il "finis Austriae" divenne noto come "die Katastrophe", avvenimento che lasciava gli austrotedeschi privi di reali riferimenti. Il suo impatto psicologico fu devastan­te: in tutta l'ex Austria-Ungheria vi fu un'ondata di sui­cidi mai registrata prima, migliaia di austriaci di lingua tedesca vennero cacciati dalle proprie abitazioni e a Vienna si riversa un numero enorme di profughi privi ormai di radici. Il fenomeno si ripete anche a Trieste: gia le prime avvisaglie non furono fauste per i tedeschi rimasti nel Litorale. Le manifestazioni nazionaliste si accanirono con ferocia contro i simboli del passato regime e, anche se non vi furono vittime ma solo molestie e minacce contro i tedeschi di Trieste, la cosa non manca di im­pressionare chi era rimasto. Anche il gia citato rifiuto da parte del Comitato di salute pubblica di ammettere al proprio interno i rappre­sentanti dei triestini di lingua tedesca non prometteva nulla di buono. Con l'avvento del Governatorato -nonostante la personale integrita di Petitti di Roreto e il suo intervento dettato dal buon senso in numerosi casi personali -la politica delle nuove autorita fu quella di spingere quanto piu possibile i tedeschi che ancora si trovavano in zona alla partenza. Vennero adottati provvedimenti tesi a rendere agevole la partenza e contemporanea­mente a creare la sensazione in chi restava di essere un indesiderato. Vi furono diversi casi di denunce contro tedeschi che continuavano a parlare ai figli nella lingua materna e la proposta di sfrattarli oltre la linea di armi­stizio: a queste denunce, in verita, Petitti di Roreto, reagl con disgusto e mostrando disprezzo per i delatori (Apollonio, 2001, 103-104). La maggior parte delle istituzioni della comunita te­desca svanl: le scuole pubbliche di lingua tedesca ven­nero chiuse e una parte di esse fu trasformata in caser­me per le truppe italiane; nelle scuole italiane partl una crociata contro l'insegnamento della lingua tedesca e la sua sostituzione con l'inglese; lo Schillerverein, la so­cieta culturale tedesca operante fin dal 1860, venne chiuso e la sua sede fu occupata dal Comitato nazionale italiano; il quotidiano triestino in lingua tedesca Triester Zeitung sospese le pubblicazioni; i membri tedeschi del consiglio di amministrazione della Camera di Commer­cio (assieme a quelli greci e addirittura ad alcuni degli italiani locali) vennero sostituiti con membri italiani provenienti dal Regno; ai commercianti di lingua tede­sca venne proibito l'ingresso in Borsa (Tagespost, 1918; Comitato Trieste '68, 1968,vol. 3, 81, 147, 183). A questo si aggiunse una campagna per l'epurazione degli austriacanti, promossa dagli attivisti piu accesi del partito liberalnazionale, con delazioni - spesso fatte per antiche inimicizie o per il proprio interesse personale ­che generarono in citta un clima da caccia alle streghe. Nelle aziende piu grandi sorsero comitati di epurazione con lo scopo di raccogliere testimonianze al fine di so­spendere o allontanare dal servizio i colpevoli di com­portamento "non patriottico". Le liste di proscrizione fu­rono particolarmente nutrite nell'amministrazione doga­nale, nella finanza e al Comune. L'arbitrarieta e discrezionalita nei giudizi emessi da queste commissioni spinsero i socialisti a chiederne la sostituzione con tribunali legittimi. Petitti di Roreto sciolse le commissioni di epurazione nei primi mesi del '19 (Visintin, 2000, 29-30; Comitato Trieste '68, 1968, vol. 3, 209-210; Apollonio, 2001, 89-93). Il governatore si comporta in maniera piuttosto am­bigua rispetto alle minoranze presenti della Venezia Giulia. Personalmente Petitti di Roreto sembra agire guidato da un buon senso che lo spingeva ad evitare quanto piu possibile misure drastiche nei confronti dei non italiani presenti sul territorio e uno scontro nazio­nale aperto. A questo riguardo sembra esemplare il fatto che uno dei primi documenti di Petitti nel suo ruolo di governatore fosse il proclama del novembre 1918 di­retto alla popolazione slovena: "5loveni! L'Italia, 5tato di grandi liberta, vi dara gli stessi diritti che gli altri cittadi­ni! Vi dara le scuole nella Vostra lingua, piu numerose di quanto ve ne ha date l'Austria! 5ara rispettata la vo­stra religione, poiche la religione cattolica e la religione di tutta l'Italia. 5loveni, siate certi che l'Italia grande e vittoriosa avra cura di tutti i suoi cittadini senza distin­zione della loro nazionalita!" Tuttavia, nonostante il suo buon senso e le personali intercessioni con cui agiva nei casi individuali, il Go­vernatore dovette adeguarsi alle direttive del Comando supremo. Emana provvedimenti tesi all'italianizzazione della pubblica amministrazione: in alcuni rapporti di novembre egli lamentava il fatto che gli uffici pubblici di Trieste avessero tra il proprio personale una forte pre­valenza di non italiani. Per questo il 13 novembre di­spose che "i funzionari civili nella Venezia Ciulia che desiderino essere mantenuti in carica per le mansioni proprie del loro ufficio e per quello che potranno essere loro assegnate nell'interesse dell'amministrazione, de­vono presentare domanda individuale in via gerarchica a questo r. Covernatorato, indicando l'ufficio a cui il ri­chiedente era addetto, il grado, le percezioni (.) Del pari devono presentare domanda direttamente al r. Co­vernatorato, i pensionati dello 5tato per la concessione, fino a nuove disposizioni, di un assegno in luogo della pensione goduta (.) (Comitato Trieste '68, 1968, vol. 3, 126). E' chiaro come un provvedimento del genere, oltre a dare l'assoluta discrezionalita alle nuove autorita per il mantenimento del posto di lavoro, tagliasse automati­camente fuori coloro che, gia appartenenti alla pubblica amministrazione, non si trovassero in quel periodo in citta o ai quali ne fosse impedito il rientro. Sulla base delle istruzioni del Comando supremo, andavano evitate quanto piu possibile "rimozioni di funzionari dagli uffici sinora coperti", ma si specificava "sempre che favorevoli o presumibilmente convertibili alla nostra causa" (Visintin, 2000, 49-50). L'arbitrio delle nuove autorita sulle domande di ri­ammissione in servizio degli ex funzionari austroungarici fece sl che coloro che vennero "generosamente" riassunti nella pubblica amministrazione italiana si trovarono comunque declassati a precari (Apollonio, 2001, 106). Nelle intenzioni delle nuove autorita italiane l'indesiderabilita dei non italiani si univa e spesso si confondeva con quella verso chi professava idee politi­camente "sovversive". Vennero date disposizioni di fa­vorire il rientro in Austria dei sudditi non appartenenti ai territori occupati, "per i quali si dubiti di una immigra­zione recente ad arte disposta", e per "i sudditi politica­mente temibili". Per coloro che non potevano essere espulsi andava predisposto l'internamento (Visintin, 2000, 50). I tedeschi di Trieste, dunque, furono gravemente scossi dalla "katastrophe" : venne registrato un incre­mento abnorme dei suicidi, e nel 1920 in citta ve ne fu­rono addirittura 118, con un picco mai toccato prima di 57 suicidi femminili, rimasti celebri anche per essere stati immortalati nell'opera di Carolus Cergoly (Luzzat­to-Fegiz, 1929, 71-72). La comunita tedescofona, priva di istituzioni proprie, preclusa nella possibilita di tra­mandare la propria cultura (le scuole tedesche non ria­prirono e l'edificio del ginnasio femminile tedesco fu adibito a scuola italiana) (Comitato Trieste '68, 1968, vol.3, 242) scelse in buona parte la via dell'esilio verso l'Austria e Vienna in particolare. Secondo la vox populi cittadina fino ai primi mesi del 1919 partirono quasi 40.000 persone, ma risulta prati­camente impossibile valutare la veridicita di questa af­fermazione e quantificare quante di esse appartenessero alla comunita austriaca, quante si fossero dirette esclusi­vamente in Austria e quanti, invece, in questa ondata migratoria, fossero coloro che invece si dirigevano verso altre destinazioni. Sembra tuttavia esemplare della sin­drome di fuga che si impadronl della comunita tedesco­fona cittadina il fatto che, pochissimo tempo dopo la fine della guerra, su una classe del liceo femminile di qua­ranta studentesse, ne rimanesse a Trieste una sola. I tedeschi di Trieste, dopo le partenze avvenute du­rante la guerra e quelle che si verificarono subito dopo il crollo dell'Impero, continuarono ad andarsene alla spicciolata per anni. Ancora nel 1921 e nel 1922 (i pri­mi anni di cui esistono statistiche ufficiali italiane ri­guardanti i territori annessi) dalla Venezia Giulia emi­grarono verso l'Austria e i paesi del bacino danubiano (Cecoslovacchia e Ungheria) rispettivamente 1.737 e 1.210 persone. Le statistiche non riportano la naziona­lita dei partenti, ma vista l'anomalia della Venezia Giu­lia nel quadro statistico complessivo -l'area danubiana non era una delle favorite per l'emigrazione italiana -e presumibile che si trattasse in buona parte di tedeschi o di "austriacanti" (Purini, 2000a, 178). Esemplare in questo quadro e la vicenda del futuro gerarca nazista Lotario Odilo Globocnik, nato a Trieste nel 1904 da una famiglia sloveno-tedesca. Il padre di Globocnik, funzionario nelle poste, resistette fino a quando la permanenza a Trieste divenne intollerabile e il suo posto di lavoro non venne affidato a personale italiano immigrato. Globocnik figlio, che aveva fre­quentato il liceo tedesco di Trieste fino alla sua chiusu­ra, si trasferl a Klagenfurt con la famiglia nel 1923 (Fol­kel, 1979, 72-74). Negli anni '20 la comunita tedesca, la terza come consistenza numerica nella Trieste prebellica, si ridusse ad un gruppo che a stento raggiungeva la mille unita. L'esodo scolastico Un altro fenomeno che ridusse la popolazione non italiana dalla Venezia Giulia fu il forte esodo scolastico oltre confine da parte degli studenti sloveni e croati. Gia durante la guerra le scuole del Goriziano avevano do­vuto essere chiuse e gli studenti sloveni erano stati co­stretti a recarsi a Lubiana, quelli croati dell'Istria a Kar­lovac o Zagabria. La mancata riapertura a fine guerra di diverse scuole slovene nel Goriziano e in Istria costrinse gli studenti a iscriversi o continuare gli studi oltre confi­ne (Apollonio, 2001, 97). Anche la chiusura delle scuole tedesche provoca disagi per la comunita slovena: secondo il Narodni Svet quasi un terzo dei studenti slo­veni frequentava le scuole tedesche, in particolare il li­ceo, dal momento che l'Austria, per evitare attriti con gli irredentisti, non aveva mai concesso l'istituzione di scuole superiori slovene non tecniche a Trieste (Kacin-Wohinz, 1972, 92). La loro chiusura costrinse alla scelta tra gli istituti superiori italiani (dove, chiaramente, la presenza di studenti sloveni non era ben vista) e il tra­sferimento nelle scuole d'oltreconfine. E' chiaro che quella studentesca fu un'emigrazione sui generis: nel periodo non scolastico e durante le vacanze essi pote­vano tornare tranquillamente nella Venezia Giulia, e la aperta persecuzione degli studenti sloveni inizia solo con l'avvento del fascismo. Tuttavia e pure evidente come la frequentazione delle scuole altrove (specie a Lubiana) iniziasse a far orientare l'intero sistema di rela­zioni sociali ed umane di questi studenti oltre confine: alla fine del ciclo scolastico la maggior parte di essi fini­vano inevitabilmente con il cercare un impiego in Slo­venia, tanto piu che in Italia un titolo di studio ottenuto in Jugoslavia non rappresentava assolutamente una buona credenziale nel mondo del lavoro. Lo sciopero dei ferrovieri Ma l'avvenimento che forse rese piu palese, anche agli occhi dei contemporanei, la metamorfosi etnica che si stava consumando a Trieste e nella Venezia Giulia fu lo sciopero dei ferrovieri del febbraio 1919. Come gia si e visto la maggior parte dei ferrovieri tri­estini prima della guerra era di origine slovena, e conti­nua ad esserlo anche dopo, nonostante le defezioni del periodo bellico e degli ultimi mesi del '18 (si calcola che a meta gennaio 1919, 539 ferrovieri sloveni avesse­ro gia scelto di trasferirsi nel Regno dei Serbi, Croati e Sloveni). Il primo febbraio, in seguito ad una vertenza sinda­cale, i ferrovieri del compartimento di Trieste (in cui erano confluiti anche quelli della Sudbahn, ormai stata­lizzata), avevano proclamato a gran maggioranza lo sciopero ad oltranza, bloccando completamente tutti i treni da e per Trieste. Si trattava di una prova di forza estremamente grave e rischiosa: la legislazione italiana in materia di scioperi era molto dura, ed inoltre la Ve­nezia Giulia era sottoposta a regime d'occupazione. Le autorita ritennero che lo sciopero fosse manovrato dai nazionalisti jugoslavi di Lubiana con lo scopo di desta­bilizzare la situazione sociale dell'intera regione. La re­azione del Governatore fu durissima: i ferrovieri che avevano interrotto il servizio vennero arrestati e proces­sati per direttissima e condannati a pene da due a cin­que anni; agli altri scioperanti fu dato un ultimatum di 48 ore per ritornare al lavoro, pena il licenziamento. 1.500 ferrovieri non sottostarono all'intimazione di Pe­titti e vennero considerati dimissionari. Come gia si e segnalato sopra, il governatore non era personalmente un antislavo, tuttavia era un militare e uomo d'ordine: non esita quindi a prendere decisioni drastiche nei con­fronti di uno sciopero che minacciava l'ordine pubblico, anche se questi provvedimenti andavano a colpire in maniera pesantissima la minoranza slovena di Trieste. L'improvviso licenziamento in massa mise in gravi difficolta l'intero sistema ferroviario della zona, tanto che -su pressioni del ministero -Petitti di Roreto do­vette concedere la riammissione al lavoro di chi lo aves­se richiesto, ma solo dopo una approfondita indagine da parte dei carabinieri sui trascorsi e sulle modalita di partecipazione allo sciopero. In ogni caso la riassunzio­ne avveniva con la qualifica di precario. A maggio erano piu di novecento i ferrovieri che, in conseguenza al licenziamento collettivo, si erano trasfe­riti oltre la linea armistiziale e il mese successivo le pra­tiche di riassunzione giacevano ancora inevase per 200 lavoratori. Altri, riammessi al lavoro, non vi avevano fatto ritorno. I ferrovieri allontanatisi da Trieste fecero in maggioranza domanda per l'assunzione in servizio nelle ferrovie jugoslave. Ne danno testimonianza le numerose lettere di profughi dalla Venezia Giulia che segnalano alla Pisarna za zasedeno ozemlje il proprio trasferi­mento in localita poste sulle maggiori linee di traffico jugoslave quali Novo Mesto, Kocevje, Kranj, Brezice, Krsko, Radovljica, Zagabria e soprattutto sul percorso della Sudbahn: Rakek, Litija, Sveti Jurij e Lubiana (INV, PZO, f. 38, d. 425; ARS, PZO, F.1, b.). Grazie allo sciopero e ai conseguenti licenziamenti, il Governatorato -probabilmente al di la della volonta di Petitti, ma secondo quelli che erano gli obiettivi del governo - ottenne il ribaltamento etnico all'interno delle ferrovie e diede luogo al primo episodio pianificato di omogeinizzazione nazionale del territorio. L'espulsione dei ferrovieri pua essere considerata il primo momento della politica di "bonifica etnica" ai danni della popola­zione slava della Venezia Giulia, poi sistematizzata du­rante il fascismo. L'emigrazione dei ferrovieri porta allo spopolamento della zona attigua alla stazione: il censi­mento del 1921 documenta una vistosa diminuzione degli abitanti del rione di Gretta, dove, assieme a quello di Roiano, si concentrava la presenza degli addetti alle ferrovie. Secondo lo storico sloveno Dusan Necak, nel­l'agosto del '19 i ferrovieri sloveni erano quasi tutti emi­grati e l'ente risultava ormai italianizzato (Apollonio, 2001, 98-109; Necak, 1972, 159). La vicenda dei ferrovieri colpl in maniera pesante l'opinione pubblica cittadina, specialmente la comunita slovena: sembra piuttosto significativo che oltre due an­ni dopo questi avvenimenti, nell'agosto del 1921, la prima interrogazione parlamentare dell'onorevole Virgil Scek -deputato sloveno al parlamento di Roma per la XXVI legislatura -riguardasse proprio la carenza di per­sonale ferroviario nativo della Venezia Giulia e la sua sostituzione con personale italiano nato in altre provin­ce. All'interpellanza di Scek il sottosegretario Lombardi rispondeva affermando che: "Il numero degli avventizi assunti sulle linee della Venezia Ciulia dopo il 3 no­vembre 1918, ammonta a circa 5.100 di cui 2.920 per­tinenti alla Venezia Ciulia. Nel procedimento seguito per le assunzioni del personale, e stata e sara sempre data la precedenza alle domande di aspiranti della re­gione; pero parecchi degli aspiranti stessi, invitati a pre­sentarsi per essere assunti, o non si sono piu curati di ri­spondere all'invito o dopo poco tempo dalla loro assun­zione, si sono licenziati e talvolta hanno anche abban­donato il servizio senza alcun preavviso" (Tavcar, 1994, 49). La risposta di Lombardi all'interrogazione di Scek appare volutamente evasiva e poco precisa: pertinente non significa nativo, e dunque il personale avventizio poteva essere composto anche da personale immigrato nelle nuove provincie subito dopo la guerra. Il fatto, inoltre, che in soli tre anni ben 2.180 persone prove­nienti dal resto d'Italia fosse stato assunto nel comparti­mento ferroviario della Venezia Giulia rivela indubbia­mente un piano per l'italianizzazione di quell'ente. Gli internamenti Anche gli internamenti furono fondamentali nel ri­durre la presenza dei non italiani nella Venezia Giulia. Come gia si e visto misure di internamento erano state predisposte per gli ex militari austro-ungarici, per i reduci politicamente inaffidabili e al confino erano stati mantenuti pure quei fuoriusciti che, fuggiti dall'Austria per evitare la guerra, dopo il 1915 non avevano voluto indossare la divisa italiana. A molti di questi, come gia scritto precedentemente, fu impedito il rientro anche dopo la fine della guerra. A questi, tuttavia, si aggiunsero altri che vennero identificati dalle autorita come personalita pericolose per l'ordine pubblico nel territorio occupato. Ne fecero le spese militanti socialisti e presunti bol­scevichi, ma in maggioranza intellettuali e persone di spicco delle comunita slovena e croata. Tra gli internati dell'intellighenzia slovena e croata si contarono trentasei insegnanti, trentacinque sacerdoti (tra i quali il vescovo di Veglia, Anton Mahnic), qua­rantacinque impiegati statali, avvocati, giudici, medici, notai. Vi furono pure nove casi di internamento di mae­stre elementari. I luoghi di internamento furono villaggi della Sardegna, la fortezza di Verona, la gia nota Gar­dolo presso Trento e le carceri di San Marco a Venezia per le maestre elementari (Cermelj, 1974, 260-261). Piu tardi le autorita limitarono l'afflusso degli internati in Sardegna, in quanto coloro che osteggiavano le aspira­zione italiane non erano piu graditi nell'isola, iniziando invece l'internamento nell'isola di Ventotene, divenuta negli anni a seguire triste luogo di confino per molti an­tifascisti italiani. Dopo la meta del 1919, ad alcuni fu concessa la scelta del luogo dove trascorrere l'internamento (Kacin-Wohinz, 1972, 113). Le cifre sul numero degli internati sono estrema­mente controverse pure all'interno della stessa storio­grafia slovena e croata: Cermelj afferma che gli inter­namenti di appartenenti alle due comunita furono circa mille, cifra confermata anche da Novak e Zwitter (i quali, pera, potrebbero essersi basati sulle ipotesi fatte dallo stesso Cermelj). Un memoriale di Wilfan del 20 settembre 1919 riporta un elenco di 245 sloveni e croati internati, mentre Milica Kacin-Wohinz, massima esperta slovena delle vicende del Litorale nel periodo tra le due guerre, afferma che le liste di internati predisposte dal commissario civile per la Venezia Giulia testimoniano 160 persone che subirono questo provvedimento. Tali liste, tuttavia, non coprono il periodo dal novembre 1918 alla fine del 1919, per cui la storica slovena ipo­tizza un numero complessivo di 500 internati, prove­nienti dall'Istria e dalle province di Trieste e Gorizia (Kacin-Wohinz, 1972, 115; Apollonio, 2001, 195, 222­223; Cermelj, 1974, 269; Novak, Zwitter, 1945, 389). L'internamento come misura sistematica di controllo di coloro che non erano chiaramente schierati a favore dell'annessione all'Italia (ed in particolare nei confronti degli ex militari austro-ungarici) ebbe fine nel marzo del 1920, piu che altro per gli alti costi di gestione dell'in­ternamento a carico delle amministrazioni locali dove l'internato trascosseva il periodo di confino. La misura venne presa attraverso una sanatoria generale. Tuttavia al loro ritorno, ancora una volta, alcuni ex internati fu­rono nuovamente incarcerati nel castello di San Giusto (Kacin-Wohinz, 1972, 115-116; Apollonio, 2001, 195, 220). A prescindere da quale sia stato effettivamente il numero degli internati, la misura rappresenta certa­mente un incentivo alla partenza sia per coloro che si sentivano potenziali vittime di futuri procedimenti ana­loghi, sia per coloro che dopo aver passato questa trau­matica esperienza temevano di ripeterla in futuro. Nella societa giuliana, inoltre, l'ex internato era visto come un sovversivo o, quantomeno, una persona che si poneva al di fuori di quel nuovo ordine nazionale e sociale che le autorita italiane stavano instaurando, e questo sicu­ramente non rendeva facile la vita di coloro che aveva­no subito il confino. L'emigrazione slovena e croata In molti casi, dunque, gli ex internati scelsero l'emigrazione, unendosi a coloro che si erano gia rifu­giati oltre confine, aumentando il depauperamento dell'elites intellettuali slovena e croata rimaste in Italia. Molti degli appartenenti all'intellighenzia slovena e cro­ata, infatti, si erano trasferiti in Jugoslavia gia nei primi giorni dell'occupazione italiana, oppure, trascorso in Carniola o in Croazia il periodo bellico, vi erano rimasti anche dopo la fine del conflitto. Tra questi anche alcuni deputati al parlamento austriaco come Otokar Rybar (il quale, tuttavia, opera un'incessante spola tra Lubiana e Parigi dove si teneva la conferenza di pace) e Vjekoslav Spincic, il quale, divenuto poi deputato al parlamento di Belgrado, sostenne una strenua battaglia personale, poi vinta, affinche il territorio di Castua, la cui assegnazione non era ancora stata definita, passasse sotto la sovranita jugoslava. Nel marzo del 1919 gli emigrati dalla Venezia Giulia in Jugoslavia oscillavano gia dalle 30 alle 40.000 unita (Kacin-Wohinz, 1972, 217). In molti casi i rifugiati tro­varono asilo presso parenti e amici nelle maggiori citta slovene (nella sola Lubiana erano presenti quasi 5.000 profughi, segnalando solo coloro che avevano denun­ciato la propria presenza nella capitale slovena alle or­ganizzazioni di aiuto ai profughi), o piu spesso erano si­stemati provvisoriamente nei campi profughi della Slo­venia: un documento della Pisarna za zasedeno ozemlje testimonia la presenza di 15.071 persone provenienti dal Litorale nel periodo tra settembre e novembre 1919, di cui ben 3.200 nel campo di Strnisce presso Ptuj (ARS, PZO, F.1, b.). L'immigrazione dall'Italia Le ampie "falle" nella popolazione locale prodotte dalla partenza delle componenti non italiane furono presto riempite dalla nuova immigrazione italiana, composta sia dagli ex regnicoli che ritornavano al loro luogo di residenza d'anteguerra, sia da persone prove­nienti dal Regno. Fu in particolare il settore del pubblico impiego a rappresentare uno dei poli d'attrazione per l'immigrazi­one a Trieste. Come si e gia visto, nel periodo asburgico la pubblica amministrazione era stata prevalentemente appannaggio della popolazione non italiana. Dopo la guerra i posti pubblici lasciati vacanti da coloro che avevano abbandonato la Venezia Giulia o non erano stati confermati nell'incarico furono destinati a personale locale di sicura fede irredentista oppure a nuovi immigrati provenienti dalle "vecchie province". Novecentottanta ufficiali irredenti, spesso privi di alcuna competenza a riguardo, vennero assorbiti dal Governa­torato e da altri uffici sparsi nella Venezia Giulia. Molti di questi erano accesi nazionalisti ed erano animati da un profondo pregiudizio antislavo. La loro influenza finl con l'essere determinante nella conduzione degli uffici a loro affidati, determinando l'aggravamento in senso sciovinista e xenofobo della politica delle nuove auto­rita (Apollonio, 2001, 50). Con le truppe di occupazione giunsero in zona mi­gliaia di militari, poliziotti, carabinieri e finanzieri. Il presidio militare e gli appartenenti alla marina di stanza a Trieste raddoppiarono: laddove prima della guerra il personale militare austriaco presente in citta raramente aveva superato le 4.000 unita, nel 1921 (dati del censi­mento) erano presenti 9.784 militari, numero destinato ad aumentare nel corso degli anni. Secondo la storiografia jugoslava l'occupazione del Litorale e l'immissione di migliaia di militari nelle nuove province assunse, nei numeri e nella condotta dei co­mandi, un carattere semicoloniale. In tutta la Venezia Giulia furono inviati 47.000 persone tra militari, poli­ziotti e polizia penitenziaria. La militarizzazione del ter­ritorio e particolarmente evidente se confrontata con la situazione prebellica: prima del conflitto l'Austria man­teneva di stanza nel Litorale solamente 25.000 soldati, di cui 17.000 concentrati a Pola (Novak, Zwitter, 1945, 136-140). Il personale militare e delle forze dell'ordine era ap­positamente reclutato nel meridione italiano, in parte per la tradizionale via di fuga dalla miseria del sud ru­rale che l'arruolamento offriva, in parte perche era au­spicabile che la zona venisse normalizzata (e italianiz­zata) mediante personale quanto piu lontano dalle vi­cende storiche e alla mentalita dei territori appena con­quistati. Il dialetto triestino porta ancora evidente il ri­cordo di questa immissione di forze dell'ordine prove­nienti dal sud: il termine dialettale pulioto (poliziotto) ha una certa affinita sonora con la parola italiana, ma il si­gnificato etimologico sembra essere piuttosto "pugliese", "persona proveniente dalla Puglia". Nel 1921 il numero complessivo dei nuovi immigrati (escluso il personale militare) nella Venezia Giulia era di circa 40.000 persone, di cui 25.500 residenti in citta prima della guerra (regnicoli). Gli arrivi in citta conti­nuarono senza sosta dal 1918 al 1922. L'immigrazione aveva diverse motivazione: la fama di ricchezza di cui Trieste godeva nell'immaginario collettivo italiano, gli inviti che i nuovi immigrati inoltravano ai parenti affin­che si stabilissero nelle nuove province, l'effettiva mi­gliore qualita della vita che Trieste, pur nella grave si­tuazione in cui la citta si trovava, offriva rispetto al contesto rurale di molte zone dell'Italia. Il fenomeno immigratorio tuttavia si dimostra diffi­cile da gestire per le nuove autorita: l'immagine che della citta si aveva nel resto d'Italia non corrispondeva alla reale capacita economica di Trieste. La guerra ave­va gravemente provato la citta; l'inevitabile nuovo orientamento geoeconomico, la chiusura del mercato centroeuropeo ed in seguito l'imposizione di tariffe da­ziarie con quello che fino alla prima della guerra era stato il naturale sbocco dei traffici triestini limitarono la capacita di assorbimento di manodopera da parte del porto adriatico. La disoccupazione aumenta e fu evi­dente che Trieste non era in grado di offrire posti di la­voro a tutti coloro che vi arrivavano. Nel 1921 le autorita dovettero imporre misure di rientro alla crescente immi­grazione in citta, tanto che dall'inizio di quell'anno alla meta del 1922 furono respinte ai luoghi di partenza ben 10.651 persone (Kacin-Wohinz, 1972, 126-127). Secon­do Elio Apih, il quale si basa sulla lettura dei dati del censimento 1921 fatta da Claudio Schiffrer, i nuovi abi­tanti di Trieste provenienti dal Regno non superarono l'8% della popolazione complessiva. Lo storico triestino riconosce tuttavia che l'apporto dei nuovi immigrati se­gna un cambiamento notevole nella struttura sociale della citta (Apih, 1988, 107). L'italianizzazione di cognomi e toponimi L'italianizzazione della popolazione cittadina fu an­cor piu evidente per un altro fenomeno che comincia a verificarsi dal marzo del 1919, aumentando via via nel corso degli anni fino a diventare una vera e propria os­sessione durante il periodo fascista: la "riduzione" dei cognomi di origine straniera in forma italiana e il cam­biamento della toponomastica. Al momento dell'entrata delle truppe italiane in citta si calcola che i cognomi non italiani rappresentassero circa i due terzi della popolazione residente. I cognomi "allogeni" erano piuttosto eterogenei: cognomi slavi scritti in grafia slovena o croata (il caso piu diffuso e il suffisso rispettivamente in -ic o ­iC), cognomi di origine slava scritti con la grafia veneta (sempre per riportare lo stesso esempio: ­ich), o in grafia tedesca (­ig), cognomi tedeschi, cognomi ebraici, ungheresi, ladini (friulani), greci e di altre origini europee. Secondo la teoria italiana (che venne a definirsi sempre piu chiaramente nel corso degli anni fino agli anni del fascismo in cui il cambiamento dei cognomi fu sistematico), si trattava di cognomi di origine italiana che si erano imbastarditi nel corso dei secoli, soprattutto ad opera del clero slavo che ne aveva slavizzato la gra­fia nei registri parrocchiali. Il cambio dei cognomi, dun-que, non andava inteso come un provvedimento di creazione ex novo di un cognome italiano, bensl come restituzione del cognome alla sua forma italiana stori­camente corretta. La "restituzione", tuttavia, riguarda per buona parte anche persone che avevano origini assolu­tamente estranee all'Italia, nati, originari o provenienti dalla Carniola, dall'entroterra croato, dalla Serbia, dalla Boemia, dalla Moravia. La "restituzione dei cognomi alla forma italiana" fu dunque un termine scientifico e "pulito" dietro al quale si nascondeva tout court l'italianizzazione, spesso forzata, della popolazione. Il paradosso fu evidente per i numerosi casi di trascrizione in forme diverse dello stesso cognome, "ridotto" in tal modo per assonanza (Cociancich in Coceani, Coscianni, Cosciani, Canciani, Canziani, Cociani). In altri casi si procedette ad un italianizzazione del cognome tradu­cendo il significato letterale del cognome (Podgor­nik=Piemontese, Vodopivec=Bevilacqua). L'italianiz­zazione per traduzione fu estremamente frequente nei cognomi di origine tedesca: Honig=Miele, Melato; Schwarz=Neri). Spesso, dopo l'italianizzazione, membri della stessa famiglia si trovarono ad avere cognomi di­versi (un caso per tutti: quattro fratelli Covacich divenne­ro rispettivamente Covacci, Covelli, Fabbri e Fabbroni). Nel 1919, tuttavia, le richieste furono relativamente ancora poche: dal 1 febbraio alla fine dell'anno furono poco piu di 300 i richiedenti, perloppiu irredentisti che legittimavano cosl la propria italianita. E' paradossale che il primo triestino a richiedere la "riduzione" del co­gnome in forma italiana prefiguri l'assoluta arbitrarieta che la stessa avrebbe avuto nel corso degli anni a segui­re: si tratta di Menotti Oblak (in sloveno: nuvola), che italianizza il proprio cognome in Menotti Belgrano, co­gnome che con l'originario non aveva nulla a che vede­re. Nel 1920 e nel 1921 l'italianizzazione continua ad essere un fenomeno limitato (le richieste di riduzione fu­rono piu o meno lo stesso numero del 1919), ma via via la richiesta inizia ad essere dettata non piu da reale sentimento patriottico, bensl da convenienza: sempre piu (ed in particolare dall'avvento del fascismo in poi) chi aveva un cognome non italiano rischiava pressioni ed intimidazioni di vario genere: economiche, lavorati­ve e fisiche. Nel 1928 vennero addirittura minacciati di licenziamento i lavoratori statali che non avessero prov­veduto a rendere il proprio cognome italiano. Vennero fatte alcune eccezioni per alcuni maggio­renti della politica e dell'economia. Costoro, pur aven­do un cognome di origine chiaramente slava -quali i Suvich e i Cosulich -vennero esentati dal cambio di cognome in quanto (secondo una sentenza del Consi­glio di Stato) "le persone di chiari sentimenti italiani potevano portare ulteriormente i cognomi slavi ereditate dagli antenati" (Cermelj, 1974, 148-150). Secondo le stime di Paolo Parovel, l'italianizzazione riguarda, in tutta la Venezia Giulia dal 1919 al 1945, circa 500.000 persone. Nella sola Trieste furono "italia­nizzate" circa 100.000 persone. L'italianizzazione, tuttavia, non si ferma ai cognomi: le autorita italiane provvidero fin dal momento dell'annessione della Venezia Giulia a dare una forma italiana a tutti i toponimi dei nuovi territori, anche qui basandosi sull'assonanza con il nome sloveno o croato della localita. Opcine (che addirittura nel dialetto trie­stino era denominata alla slovena apcina) divenne Opi­clna, Basavica divenne Basovlzza, Boljunec fu trasfor­mato in Bagnoli. Altre italianizzazioni cozzarono contro l'abitudine linguistica: un primo tentativo di rinominare la slovena Sezana in Cesiano fu abbandonato: anche nell'uso italiano il paese manteneva lo stesso nome, per cui ci si limita a modificarne la grafia in Sesana. In altri casi l'italianizzazione fu attuata basandosi sul recupero di nomi della tradizione storica antica (Nabrezina di­venne Aurisina dal nome delle cave di marmo cono­sciute gia in eta classica). Il piu delle volte, tuttavia, per giustificare il cambio della denominazione di un paese vennero riciclate tradizioni oscure e semisconosciute: Dolina, segnalata in alcuni documenti tedeschi del '300 come Sankt Ulderich, divenne San Dorligo della Valle; per Ricmanje e Borst, sempre basandosi su assurde te­stimonianze risalenti a molti secoli prima, si invenarono i nuovi nomi di San Giuseppe della Chiusa e Sant'Anto­nio in Bosco. Altre volte ancora l'italianizzazione fu at­tuata traducendo letteralmente il toponimo slavo (il monte Sneznik divenne Nevoso). La traduzione italiana, pera, non era sempre corretta, in alcuni casi vennero fatti grossolani errori: il monte Krn divenne monte Nero, in quanto i traduttori confusero il termine sloveno krn­mozzo, tronco, con crn-nero; analogo errore venne fatto con il monte Pec, tradotto come monte Forno, laddove in sloveno pec significa pure roccia. In periodo fascista l'italianizzazione venne comple­tata con l'ultimo - e piu grave - provvedimento: la ridu­zione in forma italiana dei nomi di battesimo. Dal 1923, in seguito ad una campagna di stampa de "Il Piccolo", il giornale di Trieste, e del Comune di Trieste attraverso il proprio ufficio anagrafe, venne proibita l'imposizione di nomi non italiani ai neonati, e si procedette pure all'italianizzazione d'ufficio dei nomi "allogeni" gia regi­strati. Mentre l'italianizzazione dei cognomi, dunque, colpiva le origini di una famiglia nel tentativo di can­cellarne le radici storiche slave o tedesche per costruir­ne di nuove, italiane, l'italianizzazione dei nomi negava la cultura stessa dei non italiani, essendo evidente che solo chi era di madrelingua non italiana poteva dare dei nomi "stranieri" ai figli. Impedendo di imporre dei nomi non italiani ai figli veniva dunque negata l'esistenza stessa nella Venezia Giulia di famiglie e comunita non italiane (Parovel, 1985; Cermelj, 1974, 139-154). Il Commissariato civile e gli inizi delle violenze squadriste Nel luglio del 1919 il governo Nitti procedette alla sostituzione dell'amministrazione militare di Petitti, chia­ramente provvisoria, con organi civili, attraverso la crea­zione dell'Ufficio centrale per le nuove province alle cui dipendenze erano istituiti due commissariati generali ci­vili, uno per il Trentino ed uno per la Venezia Giulia. La partenza di una figura decisa ed autorevole come quella di Petitti di Roreto e la sua sostituzione con il Commissario generale Augusto Ciuffelli, parlamentare completamente preso dal gioco politico dei palazzi ro­mani e dunque poco interessato al suo nuovo incarico, nonche la poca chiarezza nelle reali prerogative del Commissariato e l'inevitabile confusione nel momento del passaggio tra le due forme istituzionali, diedero ai nazionalisti la possibilita di agire e di compiere la prima vera azione di forza contro quelle che erano identificate come le due forze antinazionali per eccellenza: i socia­listi e gli sloveni. Il 4 agosto, esattamente il giorno del passaggio dei poteri tra Petitti e Ciuffelli, una manifestazione di prote­sta socialista per un arresto operato dai carabinieri fu attaccata da militari e controdimostranti nazionalisti, degenerando in scontri che portarono all'uccisione di un militare e di un giovane nazionalista. La reazione dei manifestanti nazionalisti (frammisti a esponenti delle forze dell'ordine) fu diretta contro i simboli del movi­mento socialista e delle organizzazioni slovene: venne­ro assaltate e devastate la sede del partito socialista, del giornale "Edinost" e la scuola magistrale slovena, dove avevano sede le biblioteche del Krozek za druzbena vprasanja e del Ljudski Oder. I manifestanti riuscirono a penetrare anche nell'Hotel Balkan, l'edificio che era il cuore delle attivita delle minoranze slovena e croata, noto anche come Narodni Dom (Casa del popolo), ri­uscendo a raggiungere la biblioteca e distruggendo al­cuni libri e riviste, ma l'intervento dei militari della vici­na caserma riuscl a bloccare l'azione dei nazionalisti. Nel corso della giornata vennero operati piu di 400 arresti tra i socialisti che avevano partecipato alla ma­nifestazione iniziale, mentre i nazionalisti e i militari che avevano devastato gli edifici socialisti e sloveni go­dettero della piu assoluta impunita. Il commissario Ciuffelli, insediatosi nel suo nuovo incarico proprio il 4 agosto, dimostra apertamente di non essere in grado di gestire la situazione: accampan­do la scusa del suo recentissimo arrivo a Trieste, non seppe o non volle agire, limitandosi a condurre un'in­chiesta di pura facciata sull'accaduto (Apollonio, 2001, 158-166; Cermelj, 1974, 115, 228-229). Gli scontri del 4 agosto rappresentarono una novita nella gestione del territorio da parte delle autorita italia­ne. In precedenza, infatti, le violenze erano state limi­tate e la "normalizzazione" ed italianizzazione del ter­ritorio era passata prevalentemente attraverso metodi le­gali. Si e visto come il governatorato militare avesse im­pedito il ritorno di pertinenti al territorio non italiani o li avesse spinti a partire creando delle condizioni di diffi­colta per gli "alloglotti", specie in ambito lavorativo, e come avesse attuato iniezioni di nuova popolazione ita­liana nella Venezia Giulia. Tuttavia la legalita era stata di fatto mantenuta e in linea di massima era stata data ai non italiani la possibilita di rimanere, pur in mezzo a molte difficolta burocratico-amministrative. L'emigra­zione degli anni '18-'19 fu dettata da una sindrome di emulazione nei confronti di chi partiva piuttosto che dalla reale impossibilita fisica di restare: molti dei non italiani vedevano emigrare parenti e amici, e questo pro­vocava una reazione a catena di ulteriori emigrazioni. Con gli scontri di agosto, invece, la violenza divenne componente essenziale della normalizzazione del ter­ritorio: i non italiani presenti cominciarono a temere per la propria incolumita fisica e le squadre -inquadrate ben presto nel Fascio di combattimento -vennero be­nevolmente tollerate dalle autorita, godendo di una quasi totale impunita. Gli incidenti del 4 agosto misero in luce il fatto che l'italianizzazione del territorio iniziava ad essere piani­ficata attraverso l'attacco anche fisico ai simboli della cultura slovena e dell'opposizione politica e con un forte rischio individuale per chi si proclamasse o fosse bollato come "anti-italiano". Le violenze e gli attacchi contro le organizzazioni slovene e della sinistra si sus­seguirono a ritmo sempre piu serrato, fino a giungere al-l'incendio dell'Hotel Balkan il 13 luglio del 1920. Gli squadristi ebbero sempre piu la consapevolezza che le loro azioni incontravano non solo l'indulgenza delle autorita, ma erano strumentali ai fini di questa. Di fronte all'opinione pubblica italiana, inoltre, gli squadri­sti potevano presentarsi come i difensori dell'italianita dallo "slavo", come i guardiani dei "i sacri confini della patria" contro la "barbarie". E' chiaro come in un'atmosfera del genere, la spinta all'emigrazione per coloro che percepivano di essere indesiderati aumentasse. Significativi sono i dati del censimento del 1921, nel quale la popolazione slava della Venezia Giulia scese a 349.206 unita, contro le 466.730 di quello del 1911, mentre quella italiana sall da 354.908 a 467.308 (Novak, Zwitter, 1945, 152, 161). Si trattasse dell'emigrazione e immigrazione o del risul­tato delle intimidazioni che spinsero i censiti a dare un'altra appartenenza rispetto a quella del censimento austriaco, e evidente come l'intero territorio fosse gia oggetto di una pesante opera di snazionalizzazione. L'ascesa del fascismo porta ad una definitiva salda­tura tra potere politico e squadrismo: molti di coloro che avevano fornito la manodopera nel "lavoro sporco" delle squadre, assursero ad incarichi pubblici e divennero maggiorenti locali del partito. I provvedimenti delle au­torita tesi ad omogeneizzare in senso italiano il territorio non furono piu ipocriti e velati, ma si comincia ad ostentare con orgoglio i risulati di quella che, nel gergo del partito veniva definita la "bonifica etnica". Un termi­ne pressoche identico a quello usato in anni piu recenti: "pulizia etnica". CONCLUSIONE Gli anni presi in considerazione da questo studio si pongono, dunque, come un forte e decisivo momento di frattura nel trend demografico e migratorio di Trieste e della Venezia Giulia. La vertiginosa ascesa prebellica venne ad interrompersi negli anni del conflitto, segnan­do un crollo della popolazione residente, per poi ri­prendere ma con valori molto meno significativi. I movimenti della popolazione furono legati, durante la prima guerra mondiale, in parte allo spontaneo feno­meno di allontanamento da zone ritenute troppo vicino al fronte, in parte a provvedimenti di evacuazione e/o di trasferimento di persone e iniziative economiche volute dal governo austriaco. Anche le misure che penalizza­rono la popolazione italiana durante il conflitto furono dettate dalle esigenze belliche e dalla normale condotta di un paese in guerra contro i cittadini di un paese ne­mico piuttosto che dal tentativo di rendere minoritaria la componente italiana residente. Che vi fossero stati dei provvedimenti -anche di tipo immigratorio -tesi a con­trastare e indebolire l'irredentismo italiano e indubbio, tuttavia mai l'Austria adotta provvedimenti e misure che intendessero portare ad una "pulizia etnica" contro gli italiani del Litorale. Viceversa la politica di "bonifica etnica" nei con­fronti delle popolazioni slovene, croate e tedesche sem­bra essere stata presente da parte italiana fin dal mo­mento della caduta dell'Austria, seppur in maniera ve­lata e non ben pianificata. Gia i provvedimenti del Comitato di salute pubblica illustrano una scarsa tolleranza nei confronti delle mino­ranze, specialmente quella tedesca. La nuova ammini­strazione italiana, poi, sembra spingere fin da subito verso un'italianizzazione del territorio, sia attraverso provvedimenti di allontanamento degli alloglotti, sia at­traverso l'impedimento al ritorno di coloro che avevano trascorso altrove il periodo bellico, sia attraverso l'immissione di nuovi immigrati provenienti dall'interno del Regno, sia attraverso le misure di assimilazione degli sloveni e croati presenti sul territorio. Risulta pressoche impossibile cogliere quanto siano stati spontanei questi processi e quanto invece l'italianizzazione sia stata for­zata dalle autorita, ma e chiaro che il fenomeno era gia in corso ben prima della presa di potere del fascismo. Scriveva Carlo Schiffrer: "Nel 1921 la repressione fa­scista, soltanto incipiente, non aveva costretto all'emi­grazione la parte piu attiva degli intellettuali sloveni e croati, i loro maestri, ecc.." (Schiffrer, 1990, 20): si tratta di una posizione che a lungo e stata ritenuta inop­pugnabile da parte della storiografia italiana. Gli eventi raccolti in questo saggio, invece, dimostrano come, seppur in maniera decisamente piu disordinata e con una scarsa organicita nei provvedimenti, la nuova am­ministrazione italiana avesse puntato fin da subito ad assicurarsi il dominio sul nuovo territorio proprio attra­verso l'eliminazione di quelle componenti che -ai suoi occhi -potevano rappresentare un futuro pericolo per l'appartenenza italiana delle "terre redente". ETNICNE PREOBRAZBE TRSTA V OBDOBJU 1914-1919 Piero PURINI IT-34126 Trst, Ulica Crispi 85 e-mail: purini@katamail.com POVZETEK Studija obravnava migracijska gibanja, ki zadevajo }ulijsko krajino nasploh, predvsem pa Trst, s posebnim pou­darkom na obdobju 1914­1919. Po kratkem pregledu etnicno­demografske situacije na podlagi ljudskega stetja iz leta 1910 je v clanku razclenjen upad triaskega prebivalstva med prvo svetovno vojno zaradi vpoklica v vojsko, prostovoljnih ali prisilnih izselitev italijanskih driavljanov (t.i. 'regnicoli'), zaradi izgnancev, ki so zbeiali na tuje, da bi se izognili naboru, 'mehkega izgnanstva' visoke burioazije, selitve javnih usluibencev v druge dele avstrijske monarhije. V svojem delu avtor uposteva tudi usodo beguncev z obmocij vojaskih operacij ob 5oci, ki so jih izselili v notranjost Avstro­ogrske ali v Kraljevino Italijo. Studija se na kratko dotakne tudi dogodkov, ki so sledili razpadu dvojne monarhije: ustanovitve Komiteja za javno oskrbo, ki je upravljala mesto do prihoda italijanskih cet, in - novembra 1918 -zgrinjanje v mesto na deset ti­soce vojakov: pogresancev s fronte, osvobojenih italijanskih ujetnikov, dezerterjev, vojakov, ki so se skusali vrniti na svoje domove. Zatem razclenjuje italijanske ukrepe, s katerimi so oblasti zacele s postopno etnicno homogenizacijo obmocja v duhu italijanstva. To so uresnicile na razlicne nacine: z vracanjem driavljanov Kraljevine Italije na Triasko in z novimi priseljenci, prav tako iz kraljevine, ki so se povecini zaposlili v javni upravi in policiji; z ustvarjanjem najrazlicnejsih ovir za neitalijanske povratnike in brezdomce s tega obmocja, ki so se ieleli vrniti; z u­krepi proti "avstrijakantom", boljsevikom in filojugoslovanom, ki so jih v mnogih primerih celo zaprli. Zaradi strahu pred morebitnim filojugoslovanstvom slovenskega in hrvaskega prebivalstva v }ulijski krajini in v ielji, da bi utrdile vladavino na novih obmocjih, so italijanske oblasti sprejele vrsto ukrepov proti "tujerodnim" pre­bivalcem na tem obmocju: iz mesta je skoraj povsem izginila skupnost nemskega jezika, vecji del slovenske in hrvaske inteligence na tem obmocju (predvsem ucitelji in duhovniki) je koncal v internaciji, mnogi razumniki so se morali izseliti, predvsem v }ugoslavijo, prisotnost "tujejezicnih" prebivalcev na podrocjih, kjer so bili pred vojno v vecini (ieleznicarji, delavci v javnih sluibah), pa so nasilno predimenzionirali. Zaceli so tudi nacrtovati ukrepe, s katerimi naj bi vzpodbudili poitalijancenje vseh, ki so se ostali, vkljucno s spreminjanjem priimkov in toponimov. Kljucne besede: migracijska gibanja, izseljevanje, priseljevanje, Trst, Julijska krajina, prva svetovna vojna, 1919 FONTI E BIBLIOGRAFIA ARS, PZO, f.1, s. -Arhiv Republike Sloveniije ARS), Pi­sarna za zasedeno ozemlje (PZO), fasc.1, Seznami voja­kov iz okupiranih krajev. ARS, PZO, f.1, b. - ARS, PZO, fasc.1, Begunci in opcije. INV, PZO, F. 38, d. 425 -Arhiv Instituta za narodnostna vprasanja (INV), Pisarna za zasedeno ozemlje (PZO), Fasc. 38, documento n. 425. Apih, E. (1988): Trieste. Bari, Laterza. Apollonio, A. (2001): Dagli Asburgo a Mussolini. Gori­zia, Libreria Editrice Goriziana. Biondi, N. (2001): Regnicoli. Storie di sudditi italiani nel Litorale austriaco durante la prima guerra mondiale. In: Cecotti, F. (ed.): Un esilio che non ha pari. 1914-1918. Profughi, internati ed emigrati di Trieste, dell'Isontino e dell'Istria. Gorizia, Libreria Editrice Goriziana, 49-69. Cecotti, F. (2001a): Emigranti e marinai. I cittadini del Litorale trattenuti all'estero 1914-1919. 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