Received: 2017-01-04 Original scientific article ACTA HISTRIAE • 25 • 2017 • 2 DOI 10.19233/AH.2017.19 IL PARADIGMA VENDICATORIO NELL'IMMAGINARIO GIURIDICO Patrizia RESTA Università degli Studi di Foggia, DISTUM, Via Arpi 155, 71121 Foggia, Italia e-mail: patrizia.resta@unifg.it SINTESI II saggio interpreta la vendetta come códice semántico, manifestazione del paradigma ritorsivo capace di orientare I 'immaginario giuridico ancora nella modernité. I resoconti giudiziari del processo che si svolse a Berlino nel 1921 contro Tehlirian, reo confesso dell 'omicidio di Talaat Pasha, responsabile del genocidio armeno, sono i dati etnografici utilizzati per mostrare come il paradigma vendicatorio si è proposto, nel caso in questione, quale strumento interpretativo per comprendere il verdetto assolutorio cui si giunse, I'inversione dei ruoli fra vittima e accusato che si realizzd e la derubricazione di un 'intricata questione politica in un dramma familiare. Parole chiave: vendetta, paradigma ritorsivo, immaginario giuridico, genocidio armeno, TehIirian THE FEUDING PARADIGM IN THE JUDICIAL IMAGINATION ABSTRACT The paper interprets the revenge as a semantic code that is an expression of the retali-ative paradigm able to perform the judicial imagination yet in the modernity. We have used as ethnographic data some judicial reports of the trial that took place in Berlin in 1921 against Tehlirian, self-confessed murder of Talaat Pasha, responsible of the Armenian genocide. These show that the retaliative paradigm becomes an useful interpretive tool for understanding three elements: the reached acquittal verdict, the relationship of exchange between victim and murderer and the reduction of an intricate political issue in a family drama. Keywords: revenge, retaliative paradigm, Judicial imagination, Armenian genocide, Tehlirian 375 ACTA HISTRIAE • 25 • 2G17 • 2 Patrizia RESTA : IL PARADIGMA VENDICATORIO NELL'IMMAGINARIO GIURIDICO, 349-364 Vendetta è un termine polisemico che si piega a interpretazioni diverse. Nel corso della storia ha assunto caratteristiche differenti a seconda dei contesti in cui si sono date situazioni di conflitto, risolte attraverso la pratica ispirata dal registro ritorsivo che le è proprio. Ciononostante, da quando, con la nascita dei tribunali, lo Iudex ha assunto su di sé il compito di confinare nello spazio dell'anomia l'azione del Vindex, la vendetta è stata interpretata come un istituto arcaico, antefatto del diritto formalizzato, vigente in società in cui il potere era ancora diffuso (Sacco, 2007). Assunta cosi, attraverso una prospettiva evoluzionista, la vendetta è apparsa una forma primitiva di pena dalla quale sono derivati in successione i sistemi penali statalisti. In quest'ottica, la vendetta è stata considerata pratica sociale condivisa propria delle società acefale, o con un sistema politico instabile, mentre la pena è stata assunta quale istituto giuridico del diritto formalizzato, proprio delle società evolute. La staffetta fra la vendetta e la pena ha coinciso in gran parte con la storia stessa del campo del giuridico. Una storia all'origine della quale i due paradigmi, quello vendicatorio e quello penale, si sono fronteggiati e nel corso della quale continuano ancora a contrapporsi. In questo quadro, la teoria del bilanciamento, in cui Gluckman (1955) fa rientrare la sua interpretazione della vendetta, ha costituito una chiave interpretativa alternativa, in grado di allargare le maglie troppo strette nelle quali l'approccio giuridico l'aveva fin li confinata. Il gran numero di dati etnografici raccolti a testimonianza della varietà delle forme in cui la vendetta si manifesta nelle diverse culture ha potuto, per altro verso, rive-larne la forza paradigmatica e il potere giuridicizzante. Principio, quest'ultimo, introdotto da Rouland (1988), che enfatizza il convincimento in base al quale il diritto si afferma e si consolida per effetto di disposizioni che agiscono nella pratica piuttosto che nella forma astratta del pensiero giuridico. La definizione funzionalista, che ha prevalso dalla metà del secolo scorso in antropologia, ha lentamente lasciato il campo a una prospettiva tesa a considerare la vendetta manifestazione di un codice semantico (Resta, 2002), capace di orientare l'immaginario giuridico degli attori che si muovono sul suo palcoscenico. Di conseguenza, nelle pagine che seguono, cercheremo di dimostrare che la vendetta conserva ancora un suo spazio nella contemporaneità, epoca nella quale, più che essere considerata un sistema di risoluzione dei conflitti che porta a ristabilire l'ordine e la coesione sociale, sembra essere piuttosto espressione di un paradigma la cui efficacia si conserva a dispetto del divieto espresso dagli ordinamenti giuridici di diritto positivo. Una continuità occultata dal processo di decostruzione e ricostruzione delle pratiche attraverso le quali si è manifestata nella storia e che si è realizzata adeguando le strategie e gli immaginari che hanno orientato le scelte degli agenti sociali. Il miscelamento fra il mutamento cui sono state sottoposte le pratiche e la continuità dei principi che le ispira, spiega perché paia ancora congruente il ricorso a una procedura che rende possibile, oltre che pensabile, un atteggiamento ritorsivo che si colloca su un livello giuridico (Pospisil, 1971) diverso da quello del diritto statale. A quale tipo di ordinamento possano essere ascritte le norme che ne regolano le procedure, se la vendetta possa essere definita una "istituzione giuridica" o espressione di una delle disposizioni che si originano nel campo semi autonomo del diritto (Falk Moore, 1973), se sia residuato di una forma di pena o al contrario vada iscritta nella pluralità dei diritti che compongono la rete ordinamentale che 376 ACTA HISTRIAE • 25 • 2G17 • 2 Patrizia RESTA : IL PARADIGMA VENDICATORIO NELL'IMMAGINARIO GIURIDICO, 349-364 orienta le azioni individuali sulla base delle scelte che il soggetto compie (Vanderlinden, 1993), sono questioni che disegnano il puzzle ermeneutico che sta sullo sfondo di ogni analisi che ha come oggetto pratiche vendicatorie. L'AGIRE VENDICATORIO Per dimostrare l'efficacia che il paradigma vendicatorio conserva all'interno di ordi-namenti di diritto positivo, useremo come caso di etnografia giudiziaria il processo che si svolse a Berlino nel 1921 contro Soghomon Tehlirian1, reo confesso dell'omicidio volontario di Talaat Pasha, che si concluse con l'assoluzione dell'imputato. Le ragioni che spingono a focalizzare l'analisi su questo evento stanno nel fatto che da un lato Soghomon, pur dichiarandosi colpevole, non si ritenne mai tale, protestando di aver agito per vendicare l'onore della sua famiglia e del suo popolo e dall'altro che i giurati, chiamati a giudicare l'atto in un contesto di civil law, accettarono la tesi difensiva, tra-ducendola in un verdetto assolutorio. Guarderemo agli eventi considerandoli spia non di un presumibile pluralismo giuridico, come pure nel processo si sostenne, rilevando come l'idea di legalità cui si riferiva l'imputato si fondava su di un insieme di principi culturali (Alexander, 1991, 177) ma come spia della capacità della vendetta di essere codice semantico in grado di dare senso alle azioni che perimetrano il campo semiauto-nomo del diritto. La vicenda si incardina, infatti, nell'ordito di quella terribile sciagura che è stato il genocidio degli armeni del 1915, la cui responsabilità viene generalmente addebitata alla politica dei Giovani turchi (Chemal, 1915; Bloxham, 2003; Lewy, 2005; Flores, 2006; Akçam, 2012) e in particolare a Talaat. Sulla base dell'etnografia secon-daria che il caso offre, cercheremo di dimostrare che nel processo la memoria ebbe una funzione strategica, sostenuta dall'impianto narrativo scelto dal collegio di difesa nel riproporre gli eventi. A tal fine indagheremo la ricostruzione proposta dai difensori e promossa dalla testimonianza resa dallo stesso imputato, per verificare la ragione per la quale la maggior parte del dibattimento fu dedicato ad accertare i crimini di Talaat più che la colpa dell'omicida. Esamineremo la retorica cui ci si affidó per spiegare in quale misura essa rese intellegibile alla Corte, agli spettatori e alla stampa internazionale che seguiva il processo, il senso che l'omicidio assumeva in chiave restitutiva, collocan-dolo nella logica dello scambio vendicatorio. Proveremo che la difesa fu orchestrata seguendo un impianto narrativo che lasció spazio al fantasma della madre del giovane il quale, quasi fosse chiamato alla sbarra nel ruolo di testimone, reclamó il diritto della sua famiglia e delle altre vittime armene ad esigere il riscatto per il sangue versato. In estrema sintesi, dedicheremo le poche considerazioni che seguiranno a dimostrare che, nascosto nelle pieghe del dibattimento, il paradigma vendicatorio fu lo strumento interpretativo cui ricorse la Corte per emettere il verdetto assolutorio. 1 La prima trascrizione del processo venne pubblicata nel 1921 in tedesco (cfr. The Case of Soghomon Tehlirian. 1985, trans. Vartkes Yeghiayan. Los Angeles: ARF Varantian Gomideh, pag. XIV). I dati relativi al processo presenti in questo scritto sono tratti da The Trial of Soghomon Tehlirian, http://www.cilicia.com/ armo_tehlirian.html. Le pagine citate si riferiscono all'ordine di successione del testo on line. 377 ACTA HISTRIAE • 25 • 2G17 • 2 Patrizia RESTA : IL PARADIGMA VENDICATORIO NELL'IMMAGINARIO GIURIDICO, 349-364 Non è certo opportuno in questa sede avventurarsi nel dedalo delle definizioni che l'etnografia ha consentito di formulare sulla vendetta (Resta, 2015), è perô utile al discorso che stiamo per intraprendere estrapolare dal piano teoretico ad essa destinato alcuni assunti, che consideriamo assi interpretativi strategici per esaminare il processo. Il primo assunto riguarda il significato cui si associa la disposizione ritorsiva. Ragio-nando sulle idee morali, Westermarck agli inizi del Novecento, defini vendetta l'obbligo che nasce dall'onere di difendere l'onore del gruppo, onere che ricade sui parenti della vittima (1993, 9). Lettura, quest'ultima, che ha incontrato grande favore, da Radcliffe Brown (1933) a Pospisil (1968), secondo la quale la vendetta è un dovere più che un di-ritto. Un dovere che si traduce nell'obbligo di comminare una sanzione istituzionalmente regolata da parte del gruppo della vittima e avverso al gruppo dell'omicida, nelle società basate sulla solidarietà collettiva. Il secondo assunto riguarda la funzione che le è stata attribuita. La posizione di cui Evans Pritchard è stato il maggiore esponente negli anni Quaranta ha letto la vendetta come un "movimento strutturale tra segmenti politici con cui si mantiene la forma del sistema politico" (1975, 214). La necessità di spiegare la fissione e fusione dei gruppi Nuer indusse Evans Pritchard ad incardinare il paradigma vendicatorio nel modello lignatico. Un modello che era stato utile nel caso dei Nuer ma che, proprio in quanto modello, era rigido (Peters, 1967) e finiva per catalizzare l'attenzione sulla natura dei gruppi in vendetta, distraendola dalle procedure attraverso le quali la vendetta, usando il modello lignatico, si manifestava. Proseguendo sulla sua scia, Gluckman applicô la teoria del bilanciamento all'esame di quel tipo di conflitti attraverso i quali si esplicita il paradigma vendicatorio. In The Peace in the Feudpubblicato la prima volta nel 1955, ri-pubblicato nel 1956 in Custom and Conflict in Africa e infine tradotto in italiano nel 1976 con un titolo (Gluckman, 1976, 40-55) non del tutto fedele all'intenzione dell'autore di dimostrare la capacità ordinativa del conflitto "throught the working of the feud' (1955, 1), Gluckman rilesse il materiale pubblicato da Evans Pritchard sui Nuer, nell'intento di riflettere sul rapporto che si instaura fra il conflitto e la coesione sociale basata su regole consuetudinarie. Sta in questo la ragione per la quale, anche se la chiave di lettura che si deve a Evans Pritchard ha seguito le alterne fortune dell'approccio funzionalista ed è stata trascurata alla fine del secolo appena trascorso, l'approccio di Gluckman è stato invece accolto e valorizzato in chiave storica, nella misura in cui consente di considerare la vendetta "il portato naturale della lotta tra fazioni" (Broggio, 2015, 43), valutandola come "widespread among all social groups and regulated by custom and language of honor" (Povolo, 2015, 10). Il terzo assunto riguarda la dimensione nella quale la vendetta s'iscrive. Nella seconda metà del Novecento si è teso a privilegiare l'ambito sistemico nella quale essa si manifesta, interpretandola, nell'analisi che si deve a Verdier, come "un rapport ^'échange bilatéral résultant de la réversion de l'offense et de la permutation des rôles de l'offenseur et de l'offensé' (1980, 14). Scomponendo gli atteggiamenti ritorsivi agiti in funzione della vendetta, Verdier restaura l'opposizione fra pena e vendetta distinguendo fra il registro vendicativo, che include la vendetta privata e che implica la scelta di farsi giustizia da sé (1984, 149), e il registro vendicatorio, che l'autore considera "une étique mettant enjeu un ensemble de 378 ACTA HISTRIAE • 25 • 2G17 • 2 Patrizia RESTA : IL PARADIGMA VENDICATORIO NELL'IMMAGINARIO GIURIDICO, 349-364 représentations et de valeurs se rapportant à la vie et à la mort, au temps et à l'espace, à la personne et ses biens; il est ensuite un code social ayant ses règles et ses rites pour ouvrir, suspendre et clôturer la vengeance; il est enfin un instrument et lieu de pouvoir identifiant et opposant des unités sociales, les groupes vindicatoires'' (1980, 16). Nell'analisi del caso Tehlirian seguiremo queste linee guida nella convinzione che, nonostante il quadro normativo nel quale la vendetta si iscrive possa essere interpretato come espressione di quel pluralismo giuridico che Griffith vuole sia la condizione normale di ogni società (Griffiths, 1986), rimane il fatto che l'assoluzione di un omicida ottenuta nel contesto occidentale contemporaneo sulla base della rivalutazione del principio della vendetta di sangue, impone un supplemento di riflessione agli studi antropologico giuri-dici. L'auspicio è che si apra una stagione di analisi utile a sottrarre la vendetta moderna alla visione che la confina nello spazio dell'archeologia della giusta violenza, nella quale si ritiene essa agisca in virtù di un ordine imposto e che, al contrario, riconoscendone la forza paradigmatica, la si collochi nelle maglie di reti giuridiche nelle quali si esplicita all'interno di un ordine negoziato (Le Roy, 1999). Accogliere quest'ultima prospettiva consente di interpretare i casi di vendetta che emergono in contesti governati da norme di diritto positivo, orientando la ricerca dei significati ascrivibili al paradigma vendicatorio nell'ambito di una visione post moderna del diritto. NARRAZIONI Soghomon Tehlirian era un giovane armeno che apparteneva ad una famiglia di commercianti, sterminata durante la deportazione del 1915. Costui, il 15 marzo 1921 assassiné a Berlino, dove si era rifugiato, Talaat Pasha, il primo ministro turco che insieme a Cemal Pasha ed Enver Pasha aveva avuto un ruolo attivo nella questione armena ed era ritenuto il maggior responsabile dell'organizzazione del genocidio (Akçam, 2004). Tehlirian fu processato due mesi dopo aver commesso l'omicidio. Il processo si svolse fra il 2 ed il 3 giugno dello stesso anno. Il giovane, reo confesso, fu assolto e immediatamente scarcerato. La deportazione degli armeni attraverso il deserto di Der Es Zor fu lo scenario proiettato sullo sfondo del processo, durante il quale il collegio di difesa sostenne che l'omicidio nasceva come risposta all'obbligo, che Tehlirian sentiva, di vendicare la morte dei suoi familiari e che egli aveva agito "followed the only law he knew, not man-made but biblical law - the simple dictum that if a man kills another, he should himself be killed' (Alexander, 1991, 7). L'analisi dell'iter processuale rivela, infatti, che l'agire vendicatorio ebbe un ruolo determinante nel progettare l'omicidio, nel giustificarne l'esecuzione e nel sostenere la scelta della giuria che si pronunció per l'assoluzione del reo. Facendo leva sui valori dell'onore, della difesa della patria, della solidarietà familiare, incardinati nell'immaginario collettivo comune, la narrazione assunse la funzione strategica di met-tere in scena i sentimenti di odio che si alimentavano nella memoria non solo di Tehlirian e, suo tramite, incardinavano l'esigenza di vendetta in un ordine politico comprensibile ai coprotagonisti: i giudici, i funzionari e la giuria e persino gli spettatori, il popolo tedesco e la comunità internazionale che tramite la stampa dell'epoca segui il processo. La vendetta 379 ACTA HISTRIAE • 25 • 2G17 • 2 Patrizia RESTA : IL PARADIGMA VENDICATORIO NELL'IMMAGINARIO GIURIDICO, 349-364 mostró, quindi, di essere codice semantico in grado di orientare la creazione argomen-tativa che generó il discorso attraverso il quale i protagonisti della vicenda definirono le questioni giuridiche che li riguardarono (Merry, 1990, 110). L'episodio ebbe certo una sua specifica dimensione politica che qui è necessario trascurare2. Nella prospettiva attraverso la quale si sta proponendo la rilettura del processo è più rilevante, al contrario, sottolineare che il dibattimento non fu dedicato a verificare i fatti, chiari nella dinamica e accertati nelle responsabilità. La prova regina della colpevolezza di Tehlirian non era in discussione. Si tese piuttosto a mostrare come, su un piano giuridico diverso, Soghomon aveva il dovere di vendicare l'onore del popolo Armeno e che questo omicidio era parte di un processo di bilanciamento delle responsabilità fra le parti che, se riconosciuto, avrebbe potuto condurre, mediante l'equivalenza realizzata attraverso lo scambio, alla pacificazione. Una pacificazione che la pena prevista per l'omicidio dal codice penale tedesco escludeva, ma che era resa possibile dal fatto di attribuire peso alle disposizioni originatesi in un livello giuridico (Pospisil, 1971) diverso rispetto a quello dello Stato. S'insistette, infatti, sul genocidio, considerato la causa che aveva indotto il reo confesso all'omicidio, un atto che acquisiva senso all'interno di un paradigma vendicatorio cui il diritto allude nella sua forma sintagmatica ma che non contempla. Dalle carte processuali emerge il ruolo di protagonista che si riservó l'imputato. Soghomon, interrogate, ricostrui le vicende connesse all'esodo del popolo armeno ed in particolare della sua famiglia (The Trial of Soghomon Tehlirian, 5). Molti ed autorevoli testimoni avvalorarono la sua deposizione. Fra tutti, decisivo fu l'intervento del professor Lepsius che era considerato la maggiore autorità tedesca di storia turca, e del generale Otto von Sanders, che aveva avuto il compito di coadiuvare la riorganizzazione dell'esercito turco che si apprestava ad entrare nel conflitto bellico come alleato della Germania, entrambi inclusi nella lista dei testimoni come esperti (The Trial of Soghomon Tehlirian, 2). Tehlirian insistette su episodi di cui egli stesso dichiarava di essere stato testimone oculare. Raccontó della violenza subita dalle donne, soffermandosi sul trattamento riservato a una delle sue sorelle, dell'atteggiamento dei militari che scortavano il convoglio degli esuli e dell'uccisione di quanti componevano quella triste schiera. Del suo risvegliarsi, dopo essere rimasto incosciente per quasi due giorni, trovandosi, unico sopravvissuto, sotto il cumulo dei corpi dei compagni di sventura uccisi e l'orrore provato nell'aver costatato che, fra i corpi che gravavano sul suo, vi era anche quello del fratello maggiore. Raccontó della madre, caduta poco lontano, morta anch'essa come tutti gli altri. Narró ancora dei giorni successivi: il ritorno nella casa paterna, il ri-trovamento dei contanti che la famiglia aveva nascosto in una buca scavata nel giardino prima di essere costretta a mettersi in marcia, le crisi epilettiche che da quel momento avevano preso a tormentarlo, l'arrivo a Berlino e l'incontro casuale con l'uomo i cui ordini avevano causato, a suo giudizio, la strage. Il suo racconto se non era vero, come parte della letteratura ritiene (Baçak, 2015, 149), era peró verosimile. Non negó mai la responsabilità dell'omicidio. 2 Per una trattazione della vicenda più argomentata cfr. Resta (2016). 162 ACTA HISTRIAE • 25 • 2017 • 2 Patrizia RESTA : IL PARADIGMA VENDICATORIO NELL'IMMAGINARIO GIURIDICO, 349-364 Piu volte l'imputato, sin dal momento del suo arresto, aveva sostenuto che l'evento non riguardava la giustizia tedesca perché, benché l'omicidio fosse avvenuto in Germania, pure si riferiva a una questione rimasta in sospeso fra il popolo turco e i suoi capi e il popolo armeno e Soghomon che si era erto a suo difensore, costretto a svolgere questa funzione dall'obbligo morale cui lo chiamava il sangue. Nel processo aleggiava, infatti, un terzo soggetto che svolgeva il ruolo di coprotagonista: lo spirito della madre di Soghomon. Secondo la testimonianza dell'omicida, dopo aver incontrato Talaat, la donna gli era ripetutamente comparsa in sogno, ricordandogli l'obbligo della vendetta. " You have seen that Taalat is here and you are totally indifferent? You are no longer my son" (The Trial of Soghomon Tehlirian, 10; Alexander, 1991, 73). Lo spirito della madre rivolgendo al giovane un rimprovero cosi infamante, spalancava la porta agli spettri di tutti gli armeni scomparsi che entravano, suo tramite, nell'aula in cui si andava svolgendo il processo come prove "viventi" (Deridda, 1993) del massacro, decisi ad ottenere il risarcimento per il sangue versato attraverso l'assoluzione dell'omicida. L'adozione di una strategia narrativa volta a tradurre le esigenze di piani giuridici contrapposti in una narrazione inclusiva, nella quale questi si equivalevano quali maglie diverse della medesima rete giuridica, fu, quindi, determinante. Pur tenendo conto dei registri diversi cui corrispose, l'iter processuale fin qui velocemente tratteggiato lascia emergere alcune irritualitá. La presenza incombente del fantasma della madre di Soghomon fu certamente l'anomalia piu appariscente del processo, tuttavia non fu la piu inquietante. La velocitá con cui si giunse al verdetto fu, per esempio, eccessiva. Trascorsero appena due giorni fra dibattimento e decisione della giuria. Un tempo limitato per accertare la gravitá delle responsabilitá e optare per una sentenza che lasciava impunito un reo confesso, anche se della trascrizione degli atti non si evince, come giustamente ha osservato Flores, se la giuria si espresse solo contro la premeditazione (2006, 254) e non anche sulla sua colpevolezza. L'unico dato certo e che il portavoce dei giurati non motivo l'assoluzione (Hofmann, 1989, 47) e Soghomon fu immediatamente scarcerato. Il collegio di difesa, per altro, pur insistendo sulle orrende atrocitá che avevano caratterizzato il genocidio e sugli effetti che queste avevano prodotto sull'imputato, non ritenne poi di fare leva sulla condanna subita da Talaat Pasciá nel processo a cui era giá stato sottoposto ad Istanbul nel 1919, nel quale era stato condannato in contumacia per i crimini commessi in quanto funzionario del partito che era stato al governo in Turchia nel 1915 (The Trial of Soghomon Tehlirian, 96). Opportuna apparve, invece, la scelta dei difensori di invocare l'applicazione dell'art. 51 del codice penale tedesco. Articolo che consentiva di prosciogliere chi avesse compiuto un reato non nel pieno delle proprie facoltá mentali e che evitava, se l'ipotesi difensiva fosse stata accolta, di fare ricorso sia all'articolo 211 del codice del 1870, che prevedeva la pena capitale per l'omicidio premeditato, che all'art. 213, che puniva con non meno di cinque anni di reclusione l'omicidio preterintenzionale. Coerentemente con questa im-postazione, la declaratoria degli eventi si baso principalmente sul tentativo di dimostrare che le condizioni psichiche nelle quali si trovava l'imputato sin dal suo arrivo nella capitale tedesca, erano alterate a causa di una forma di epilessia psicologica causata dallo shock subito. Epilessia che procurava al giovane attacchi invalidanti, generati dal 381 ACTA HISTRIAE • 25 • 2017 • 2 Patrizia RESTA : IL PARADIGMA VENDICATORIO NELL'IMMAGINARIO GIURIDICO, 349-364 ricordo dell'odore dei corpi dei suoi cari in putrefazione, al momento del suo risveglio. Dei cinque medici che furono ascoltati in relazione a questo specifico aspetto, e che furono determinanti per il verdetto finale, ben tre su cinque considerarono l'imputato capace di intendere al momento dell'uccisione. Nonostante ció, la ricostruzione difensi-va risultó convincente al punto che fu trascurata la ricerca di eventuali complici. Le fasi della vita di Soghomon che furono minuziosamente indagate furono quelle legate alla deportazione ed all'omicidio, tutto quello che aveva fatto nel frattempo fu acquisito ma non valorizzato. I suoi viaggi e la permanenza negli Stati Uniti taciuta, mentre sarebbe stato legittimo supporre che gli uni e l'altra fossero finalizzati ad incontrare, o almeno a prendere contatti, con i vertici del progetto Nemesis, organizzazione di resistenza il cui centro direzionale si trovava negli Stati Uniti e che nel 1919 aveva giá stilato la lista delle personalitá turche da uccidere (Yeghiayan, 1985, XIII), come Tehlirian stesso ammette (Ba§ak, 2015, 147) nel diario che redasse molti anni dopo la celebrazione del processo. Neppure fu messo in dubbio il ruolo di testimone oculare delle stragi con il quale si propose alla corte. La forza narrativa del suo racconto occultava la necessitá di verificare la veridicitá della sua testimonianza. Se avesse vissuto in prima persona quegli eventi o li avesse a sua volta ascoltati da testimoni oculari e fatti propri. Se la sua convinzione era maturata in virtu della determinazione della comune volontá de-gli armeni di opporre resistenza alla politica del governo ottomano a loro contraria o dall'urlo del sangue provocato dal sogno della madre. Se sognó veramente la madre o scelse di portarne in giudizio lo spirito insieme a quelli di tutti gli altri armeni, il ricordo della cui tragica fine si agitava nella sua mente gridando vendetta. Sebbene vi siano molti e diversi modi per interpretare l'introduzione di un fantasma in funzione probatoria (Felman, Laub, 1992; Sarat, 2002) e sebbene l'eco del dolore inferto alle vittime di guerra e dei campi di sterminio siano stati e siano ancora protagonisti dei processi sui crimini efferati compiuti fra Otto e Novecento, come insegna Norimberga, pure nel processo del 1921 sembra che il tessuto narrativo fu ordito per dimostrare che Tehlirian aveva assunto il piano politico all'interno della relazione vendicatoria in base alla quale si era arrogato il compito di versare il sangue di chi aveva versato il sangue della sua famiglia e del suo popolo. L'efficacia del dispositivo semantico racchiuso nel paradigma vendicatorio provvedeva a liberare il dolore delle vittime, rendendolo condiviso. Il pathos dilagato nell'aula del tribunale berlinese attraverso le parole del giovane e la presenza dello spirito materno metteva sotto accusa Talaat e la politica dei Giovani Turchi e assolveva Soghomon. Nasceva da una narrazione di questo tipo la possibilitá, per la Corte, di posporre l'obbligo di punire il colpevole, cardine del processo penale, a quello di ristabilire la giustizia fra le parti, che e all'origine dello scambio vendicatorio. Il fatto che l'impulso ad uccidere nascesse, in Tehlirian, dal richiamo del sangue, non poteva certamente essere considerato una circostanza attenuante dal tribunale ma pure possedeva una sua forza ed efficacia. Si affermava all'interno di un principio che era quello dell'inviolabilitá della stirpe. Evocava il senso dell'onore, principio fondativo della vendetta espresso dal sangue. Un sangue che gorgoglia e rumoreggia, impone la sua legge, mormora, ricorda continuamente l'obbligo per i vivi di risarcire il gruppo del sangue versato. 382 ACTA HISTRIAE • 25 • 2G17 • 2 Patrizia RESTA : IL PARADIGMA VENDICATORIO NELL'IMMAGINARIO GIURIDICO, 349-364 LA VENDETTA Se il fascino del richiamo dell'onore sedusse la corte, non è detto che ció avvenne perché l'omicidio di Talaat da parte di Soghomon fu una vendetta. Considerando prevalentemente l'aspetto formale della vendetta, Pospisil (1968), per esempio, stabili che per poter riconoscere in un omicidio una vendetta occorreva che esso facesse parte di una sequenza composta da non meno di tre omicidi. Delitti che potevano susseguirsi anche a grande distanza l'uno dall'altro, ma erano sempre l'uno in risposta all'omicidio precedente. In questa ipotesi, anche quando si potesse dimostrare che la vendetta di Soghomon rientrava nel modello lignatico caro ad Evans Pritchard, in virtù dell'obbligo del sangue al quale lo richiamava costantemente l'ombra della madre, esso non potrebbe essere considerato come una vendetta dal momento che non ha dato vita ad una catena di omicidi fra il sibling di Tehlirian e il sibling di Talaat. Diversamente, se si considera l'omicidio uno degli episodi che hanno costellato il conflitto fra turchi ed armeni, il dato cambia, perché la violenza si è perpetuata fra i due gruppi ben oltre la morte dell'ex primo ministro ottomano. L'impasse creata da quest'ultima considerazione potrebbe essere fugata valutando il peso che la violenza e la solidarietà, altri due principi che governano l'agire vendicatorio, possono avere avuto nella vicenda. La violenza che agisce nella vendetta, come ha spiegato Girard (1972), si perpetua nel tempo perché è ispirata da una logica mimetica che le permette di autogenerarsi, riverberandosi nel vendicatore e nel suo doppio antagonista. Secondo questa prospettiva ogni omicidio ripete l'omicidio iniziale e rinnova incessantemente la catena della vendetta, nella quale ogni morte ha la qualità della prima morte (Lombardi Satriani, Meligrana, 1982, 349). Nel caso del delitto Tehlirian, tuttavia, la violenza perversa e distruttrice, testimoniata nel processo, rivela la sua forza mimetica se si considera l'atto compiuto da Soghomon come parte di un'azione politica vasta e dunque come funzionale al progetto Nemesis. Diversamente, se la spinta a perpetuare la violenza nasce e si incardina nel desiderio di Soghomon di risarcire la sua stirpe per il sangue versato a causa degli ordini impartiti da Talaat, l'analisi si riannoda in un vortice sterile dal momento che la forza mimetica della violenza si arresta con la morte del primo ministro. Seguire il filo della solidarietà cui ha risposto Soghomon non conduce ad un risultato diverso. La solidarietà è il principio fondativo che rivela l'esistenza di due gruppi antago-nisti i cui membri si scontrano per salvaguardare ciascuno l'onore e il sangue del proprio gruppo. Essa dunque ripartisce gli attori della vendetta fra amici e nemici (Verdier, 1980, 15). Il discorso torna sull'identità dei gruppi in conflitto. Se consideriamo la vendetta di Tehlirian come il risarcimento a cui lo chiama la madre, i due gruppi, la famiglia di Talaat e la famiglia di Soghomon, sono aggregazioni che si è già dimostrato essere rimaste inattive nel successivo percorso della vendetta. Diversamente, se si considera che i due gruppi sono costituiti l'uno dagli armeni e l'altro dagli ottomani, puó tornare utile appli-care al caso in analisi la teoria di Black-Michaud (1975) che pensa alla vendetta come ad una serie di transazioni nelle quali i vendicatori entrano avendo contratto un debito di sangue da onorare per essere rispettati e guadagnare prestigio sociale. La pratica della ri-torsione alla quale i due gruppi sono obbligati li costringe, secondo questa ipotesi, in uno 383 ACTA HISTRIAE • 25 • 2G17 • 2 Patrizia RESTA : IL PARADIGMA VENDICATORIO NELL'IMMAGINARIO GIURIDICO, 349-364 stato di debito permanente, iscritto in un ordine simbolico che abilita all'esercizio della violenza reciproca. Lo status di debito in cui vittime e carnefici vengono ripetutamente a trovarsi è sintomo delle relazioni di potere implicate nella vendetta. La vendetta viene interpretata, in sintesi, nell'ottica di Black Michaud, come uno strumento di lotta per la leadership. Riletti in questa chiave, gli eventi narrati in relazione all'episodio berlinese assumono un significato diverso. Talaat e Tehlirian paiono pedine di un gioco politico nel quale i due contendenti difendono ciascuno i propri obiettivi. Gli ottomani, che miravano a liberare il loro territorio dagli armeni, aspiravano alla condanna e contestano ancora il verdetto (Atun, Aya, 2014). La resistenza armena, che tendeva ad ottenere il riscatto del suo popolo, sperava nell'assoluzione. L'analisi sembra ruotare intorno ad assi circolari che spingono verso un'interpretazione dell'omicidio in termini di sabotaggio politico e non di vendetta di sangue. Le irritualità fin qui emerse inoculano il dubbio che la vendetta fu usata come espediente retorico dalla difesa, e come tale accettata dall'accusa, perché nelle sue pieghe si potevano celare gli interessi legati alla strategia politica tedesca dell'epoca, a cui il verdetto assolutorio poteva tornare utile. Esigenza sottolineata nella requisitoria finale da Niemeyer, avvocato e professore di diritto, componente del collegio di difesa di Soghomon, per il quale "if a German court were to find Soghomon Tehlirian not guilty, this would put an and to the misconception that the world has of us" (The Trial of Soghomon Tehlirian, 98). Recuperata in tal senso, la figura di Tehlirian potrebbe dunque essere derubricata da vendicatore a guerrigliero e l'immagine della madre e del sangue che mormora apparire come un mero pretesto narrativo. Nel processo, invece, si tese a considerare la decisione di Soghomon di uccidere Talaat come l'esito di una scelta personale. Assunto in questa dimensione, l'omicidio poteva rientrare in quello che Verdier ha definito il registro vendicativo. Un registro asistemico, privo di forza dispositiva, arcaico, la cui efficacia fu rafforzata dalla strategia narrativa proposta. Giocava, infatti, a favore della retorica della vendetta sposata dal collegio di difesa, il convincimento, diffuso nel diritto penale moderno, che la vendetta sia pratica regressiva e sovversiva. Prospettiva che fu sapientemente sfruttata dell'avvocato Niemeyer. Questi, viziando il suo discorso con un pregnante orientalismo (Said, 1991), ancoró il teorema di non colpevolezza cui riconduceva le azioni del giovane armeno, alla sua appartenenza ad una non meglio definita "cultura orientale", in cui costume, diritto e religione concorrevano in egual misura nel performare il campo del giuridico. Poté cosi legittimare l'agire violento dell'imputato, dimostrando che derivava dall'obbligo morale generato in lui dal dettato ritorsivo. La coerenza argomentativa che l'impianto difensivo ebbe rispetto alla successiva as-soluzione emerge, al contrario, solo prestando attenzione ad un piano che rimase in ombra fino alla fine del processo, custodito nel suo retroscena. Mentre gli sguardi dell'uditorio seguivano i volteggi del fantasma della madre di Soghomon, sullo sfondo si disegnava lo scenario che il collegio di difesa voleva fosse riconosciuto come il vero colpevole dell'intera vicenda, la politica criminale dei Giovani Turchi. Spostando l'attenzione sull'indegnità della vittima, l'omicidio compiuto da Tehlirian tornava all'interno del registro vendicatorio, assunto in una logica di scambio che giustificava gli eventi con la natura sistemica della vendetta e con il principio di reciprocità che la governa. Quest'ultimo è 384 ACTA HISTRIAE • 25 • 2G17 • 2 Patrizia RESTA : IL PARADIGMA VENDICATORIO NELL'IMMAGINARIO GIURIDICO, 349-364 un principio essenziale per il ragionamento che stiamo conducendo. Secondo Verdier (1980, 25) la reciprocità implica il dettato per il quale la vendetta prende corpo fra due gruppi complementari ed antagonisti che suo tramite si definiscono. Il fantasma della madre delimitava l'ambito della vendetta alle due famiglie, l'indegnità della vittima lo estendeva fino ad includere tutti gli ottomani e tutti gli armeni. Pur essendo rientrata per questa via nell'alveo del registro vendicatorio, ad una interpretazione della vendetta di Soghomon nei termini di una vendetta di sangue osta ancora, come dimostrato, la natura della violenza che vi è stata implicata, l'identità incerta dei due gruppi in conflitto e di conseguenza il principio di solidarietà che li governa. L'esito delle considerazioni che si vanno proponendo puô apparire deludente. Tutta-via, il fatto che in una corte di giustizia di civil law fu orchestrata una rappresentazione il cui fine fu quello di lasciare libero un assassino non soltanto appellandosi alla norma che, chiamando in causa l'insanità mentale, ne avrebbe comunque assicurato l'impunità, ma piuttosto scegliendo, come si è visto, di risuscitare il teorema della vendetta e con-sentendo che sulla scena comparisse il fantasma della madre, eterea incarnazione della memoria della stirpe, rivela che la figura del vendicatore, seppure rarefatta, non ha ancora lasciato spazio al giudice nel performare l'immaginario giuridico contemporaneo. Sta in questo la forza semantica espressa dal paradigma vendicatorio nel processo intenta-to contro Soghomon il vendicatore. Nel suo essersi mostrato paradigma condiviso ed efficace, capace di decodificare il processo performativo che si è determinate durante il dibattimento invertendo il ruolo fra vittima ed assassino. Riconoscere che fu la vio-lenza politica a provocare l'omicidio e che il giovane agi di conseguenza in una logica restitutiva, permise di annullare la violenza del gesto di Tehlirian e lo rese impunibile. Paradossalmente, proprio perché il gesto di Tehlirian fu un gesto politico, l'omicidio di Talaat puô essere considerato una vendetta. Quest'ultima, nella sua forma paradigmatica e in base al principio di reciprocità, implica il riconoscimento e l'equiparazione fra le due parti in conflitto. L'omicidio politico di Soghomon segnô il confine fra Turchi e Armeni, risarci l'onore di questi ultimi e ne protesse l'identità. CONCLUSIONI Il processo a Soghomon Tehlirian, discusso in queste pagine, è risultato, in conclusio-ne, essere vicenda rappresentativa di un confronto tra criteri di accertamento della realtà non strettamente giuridici, eppure capaci di ancorare l'evento giudiziale alla vicenda storica e all'immaginario giuridico che ne hanno fondato il quadro interpretativo. Seguendo il filo della memoria, accompagnati dal fantasma materno, condotti da Soghomon, affascinati dai racconti, ci siamo inoltrati nel processo in compagnia della vendetta e, pur essendo rimasti insoluti molti interrogativi, siamo stati indotti a credere alla verità verisimile ivi costruita. La domanda cui si è cercato di dare risposta, ovvero se l'omicidio compiuto dal giovane armeno il 15 marzo del 1921 a Berlino sia o no una vendetta, non ha trovato una risposta esaustiva, anche se l'agire dell'imputato è sembrato orientato da un'idea di legalità fondata su un habitus culturale più che su determinazioni legalmente connotate. Il senso delle disposizioni in virtù delle quali la ricostruzione 385 ACTA HISTRIAE • 25 • 2017 • 2 Patrizia RESTA : IL PARADIGMA VENDICATORIO NELL'IMMAGINARIO GIURIDICO, 349-364 della realtà da parte del reo confesso è risultata intellegibile alla giuria, invece, è apparsa chiaramente fondata sul paradigma vendicatorio. Come avevamo anticipato, la política narrativa messa in campo da tutti gli attori del processo ha avuto un ruolo determinante nel tracciare il percorso e giungere al verdetto. L'esame della fase dibattimentale del procedimento ha consentito di indagare non solo il piano giuridico, e le opportunità che questo offriva alla difesa, ma anche di verificare la funzione strategica che la narrazione ebbe nel riscrivere i termini del conflitto nella sua dimensione politica. La narrazione è risultata essere, dunque, al termine del percorso speculativo, la chiave strategica che, facendo leva sull'immaginario giuridico collettivo, ha evocato la vendetta, non per av-valorare il comportamento vendicativo ma per affermare il principio di giustizia che si poteva rintracciare nelle decisioni e nei discorsi che gli Armeni, per bocca di Tehlirian, proponevano alla Corte. L'obbligo verso la stirpe, l'onore, la solidarietà, la famiglia, cui la vendetta in generale chiama, non sono fattori che, presi singolarmente, possono giusti-ficare l'assoluzione di un omicida. Tuttavia il processo di Berlino mostra che essi, nell'or-dito del paradigma vendicatorio, trovano ancora spazio e possono essere esaltati, seppure per fini politici. La performatività è stata la protagonista del processo. Un processo in cui il fatto di riconoscere e dimostrare la violenza politica di Talaat Pasha rese impunibile la violenza del gesto dell'armeno, considerata espressione della logica mimetica che, orientando l'agire vendicatorio, ha commutato la vittima in aggressore. Per effetto della politica narrativa messa in campo, durante il processo si sono prodotte alcune anomalie. Dispiegandosi all'interno di un vasto arco di significati, l'agire di Tehlirian è parso rien-trare nel registro vendicativo mentre, al contrario, la decisione assolutoria della giuria è parsa rientrare nel registro vendicatorio. Avvolta in una nebulosa indefinita è rimasta la ragione per la quale i testimoni, gli esperti chiamati a deporre e la stessa giuria, abbiano creduto al teorema di Tehlirian invece che ai fatti accertati. La giuria ha condiviso con l'imputato i suoi fantasmi. Le vittime del genocidio, presenti nel processo attraverso le parole dell'imputato e dei testimoni, hanno imposto l'assoluzione quale esigenza irrinun-ciabile, intesa come atto risarcitorio che poteva, mutando l'ostilità in alleanza, portare alla composizione delle parti e dunque alla riconciliazione (Verdier, 1980, 28). Infine, considerato che l'intento principale del processo, com'è stato spiegato, rispose ad un'accorta strategia politica, pur garantita da un iter processuale che si mantenne aderente a istanze probatorie di tipo giuridico, l'antitesi sembra aver governato la dimensione performativa cui gli eventi hanno soggiaciuto durante il dibattimento attraverso la figura del fantasma della madre di Soghomon. Lo spettro materno, il cui compito era quello di riportare l'attenzione sulla vendetta che nasceva all'interno di una saga familiare, diventó invece il motore per liberare, nei ricordi di testimoni ed esperti, la schiera delle vittime del genocidio armeno. Fu cosi recuperato un piano politico dell'azione diverso, chiamato in causa dal credito di sangue che il popolo armeno vantava nei confronti del popolo turco e dei suoi capi e che consentiva perció di riscattare l'omicidio all'interno dell'agire vendicatorio. Bisogna purtroppo ammettere che lo sforzo attuato in quello che si puó ritenere il primo processo politico del Novecento non è stato utile considerando che, vent'anni dopo, si apri il processo di Norimberga dove sfilarono altri fantasmi, simili a quelli che ancora oggi agitano i processi politici che si svolgono nel continente africano che, dopo 386 ACTA HISTRIAE • 25 • 2G17 • 2 Patrizia RESTA : IL PARADIGMA VENDICATORIO NELL'IMMAGINARIO GIURIDICO, 349-364 la colonizzazione, ha dovuto affrontare la sanguinosa piaga dei conflitti etnici, scenario delle atrocità attuali. Considerazioni forse un po' amare, che portano a concludere che la crudeltà è cifra dell'agire politico e, se è vero, come ha sostenuto Derrida (1993), che i fantasmi che abitano i tribunali di guerra sono una novità che ritorna, o, meglio, gli spettri del passato sono anche quelli che si genereranno nel futuro, è tragicamente altrettanto vero che essi segnano un continuo ritornare di episodi che sperimentano l'atrocità della ragione politica. Una ragione distante dalla logica restitutiva che agisce nel paradigma vendicatorio che forse, proprio per questo, abbiamo visto agire come il fantasma di se stesso nel processo intentato a Soghomon Tehlirian. L'inattesa assoluzione cui si giunse racchiude il senso di un processo che, politicamente, celebró il trionfo della giustizia vendicatoria (Terradas Saborit, 2008), interpellando solo formalmente la razionalità giuridica e dando, in questo modo, pace agli spettri che avevano agito nel processo. 387 ACTA HISTRIAE • 25 • 2017 • 2 Patrizia RESTA : IL PARADIGMA VENDICATORIO NELL'IMMAGINARIO GIURIDICO, 349-364 PARADIGMA MAŠČEVANJA V SODNEM IMAGINARIJU Patrizia RESTA Univerza v Foggl, DISTUM, Via A. Gramsci 89/91, 71122 Foggla, Italija e-mail: patrizia.resta@unifg.it POVZETEK Prispevek maščevanja ne interpretira kot sistem reševanja konfliktov, temveč kot semantično kodo. Menimo namreč, da gre za ponavljajočo se paradigmo, ki je zmožna usmerjati sodno domišljijo tudi v sodobnosti. Kot etnografski podatki so bila uporabljena sodna poročila o procesu, ki je potekal v Berlinu leta 1921 proti Tehlirianu, ki je priznal umor Talaata Pashe, odgovornega za armenski genocid. Ta prikazujejo kako paradigma maščevanja lahko postane uporabno interpretativno orodje za razumevanje treh elementov: končne oprostilne sodbe, preobrata v odnosu do žrtve in storilca ter degradacija zapletenega političnega vprašanja v družinski drami. Struktura pripovedi, ki je bila izbrana med zaslišanjem, je namreč napeljevala k temu, da je bil morilec prisiljen v dejanje zaradi dolžnosti do svoje »krvi«. S sklicevanjem na skupne vrednote družine, časti in države se je ustvaril scenarij, ki je sodišču povsem pojasnil tragedijo armenskega ljudstva. Vpeljava duha matere storilca kot nevidne priče, je legitimirala povračilno dejanje z uveljavljanjem pravice armenskih žrtev, da zahtevajo povračilo za prelito kri. Sojenje danes lahko razumemo kot prvi proces za zločine proti človeštvu 20. stoletja. Ključne besede: maščevanje, povračilna paradigma, sodni imaginarij, armenski genocid, Tehlirian 388 ACTA HISTRIAE • 25 • 2017 • 2 Patrizia RESTA : IL PARADIGMA VENDICATORIO NELL'IMMAGINARIO GIURIDICO, 349-364 BIBLIOGRAFIA Alexander, E. (1991): A Crime of Vengeance. An Armenian Struggle for Justice. New York, Free Press. Akçam, T. (2004): From Empire to Republic. Turkish Nationalism and the Armenian Genocide. London, Zed Book. Akçam, T. (2012): The Young Turks' Crime Against Humanity. Princeton, Princeton University Press. Atun, A. & S. S. Aya (2014): Talaat Pasha's Murder (15.3.1921): A Parody in the Courts of Berlin Belying 'The Miller of Sansoucci Legend of Justice'. The International Journal of Social Sciences and Humanities Invention, 1, 5, 279-300. Ba§ak, E. (2015): Spectacles and Spectres: Political Trials, Performativity and Scenes of Sovereignty. PhD thesis, Birkbeck, University of London, Hptt://bbktheses.da.ulcc. ac.uk/110/. Black-Michaud, J. (1975): Cohesive Force. 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