ACTA HISTRIAE VII. ricevuto: 1998-06-21 UDC 342.35(450.34 Benetke) 316.343.32(450.34 Benetke) I SAVI GRANDI - GLI OLIGARCHI DI VENEZIA? Volker HUNECKE Technische Universität Berlin, Institut für Geschichtswissenschaft, D-10587 Berlin, Ernst-Reuter-Platz 7 SINTESI Di solito le condanne dell'oligarchia culminarlo nella constatazione che in tale regime la ricchezza avrebbe più valore della nobiltà di nascita; pertanto l'oligarchia in fondo non sarebbe altro che una plutocrazia. Queste critiche vennero rivolte anche alla Repubblica di Venezia negli ultimi cento-cinquanta anni della sua storia e dopo la sua caduta. L'accusa di essere degenerata in oligarchia venne mossa apertamente nei confronti della Repubblica aristocratica alla fine della guerra di Candia. Parlare di una "degenerazione oligarchica" ha senso solamente se si parte dall'idea che la Repubblica aristocratica fosse stata in precedenza qualcosa di diverso da un'oligarchia. A provocare l'accusa di oligarchia nel Sei e Settecento fu il fatto che poche persone esattamente identificabili mono-polizzavano gli uffici più importanti, mentre l'"oligarchia di alcune famiglie" con-statata per il tardo Medioevo, si basa, almeno fino a un certo punto, su un'illusione ottica. Gli storici del nostro tempo usano largamente il termine "oligarchia", ma non lo definiscono quasi mai - a differenza di Aristotele che ne dette definizioni precise fino alla pedantería. Alcuni lo utilizzano in un significato neutro, privo di valutazioni critiche, denominando oligarchici i sistemi di governo nei quali il potere decisionale è monopolizzato da "ben poche persone", come ad esempio nella Gran Bretagna del Settecento (Holmes, Szechi, 1993). Secondo altri, invece, nel termine è già insita una connotazione negativa; a loro modo di vedere l'oligarchia è un governo (aristocratico o repubblicano) in fase di degenerazione e inoltre va equiparato ad un potere usur-pato e pertanto illegittimo. Di solito le condanne dell'oligarchia culminano nella constatazione che in tale regime la ricchezza avrebbe più valore della nobiltà di nascita; pertanto l'oligarchia in fondo non sarebbe altro che una plutocrazia. Queste critiche vennero rivolte anche alla Repubblica di Venezia negli ultimi centocinquanta anni della sua storia e dopo la sua caduta. L'accusa di essere degenerata in oligarchia venne mossa apertamente nei confronti della Repubblica aristocratica alla fine della guerra di Candia, nel contesto della pubblicistica del cosiddetto 141 ACTA HISTRIAE VII. VOLKER HUNECKE: I SAVI GRANDI - GLI OLIGARCHI DI VENEZIA?, 141-152 "antimito". In un primo tempo si parlo di una "mezza" oligarchia o di una oligarchia "mascherata", o si asserí che la Repubblica "pend[eva] assai all'oligarchia, ma in modo tanto segreto e latente che la maggior parte dei Senatori non se ne avveggono". Poco più tardi pero la si considerava già come una oligarchia "vera e propria" e al momento della sua caduta Giovanni Pindemonte asserí che la degenerazione del-l'aristocrazia veneziana in oligarchia, vale a dire nel "pessimo de' governi", era "on-ninamente" riconosciuta. A una diagnosi simile giunsero anche alcuni patrizi che non erano avversi a priori al loro governo come il Pindemonte, nobile nuovo, o come il dissidente Leopoldo Curti. La loro opinione trovo numerosi seguaci fra gli storiografi della Repubblica, tanto del passato quanto dei nostri giorni (Del Negro, 1984a, 407436; Del Negro, 1984b, 311 sq.; Hunecke, 1995, 16 sq.). Parlare di una "degenerazione oligarchica" ha senso solamente se si parte dal-l'idea che la Repubblica aristocratica fosse stata in precedenza qualcosa di diverso da un'oligarchia, e che il potere politico di "pochi" fosse in contraddizione con lo spirito e con la lettera del suo ordinamento. In realtà le cose non stavano cosí. Come ha dimostrato Gerhard Rösch, a Venezia l'"oligarchia di alcune famiglie che occupa-vano regolarmente tutte le cariche decisive dell'apparato statale" era già "pienamente sviluppata" nella seconda metà del Duecento (Rösch, 1989, 141). Tuttavia l'oli-garchia che si riscontra a quell'epoca non puo venir semplicemente equiparata a quella della tarda Repubblica. A provocare l'accusa di oligarchia nel Sei e Settecento fu il fatto che poche persone esattamente identificabili monopolizzavano gli uffici più importanti, mentre l'"oligarchia di alcune famiglie" constatata per il tardo Medioevo, si basa, almeno fino a un certo punto, su un'illusione ottica, come ha dimostrato Stanley Chojnacki. Infatti, se negli elenchi di coloro che rivestivano le principali cariche ci si imbatte sempre nei cognomi di poche famiglie patrizie, cio si deve ad un motivo assai banale: erano i cognomi dei casati col maggior numero di rami e di uomini (Chojnacki, 1973, 47-90). Se e in che misura questo dato di fatto celasse già nel Due e Trecento un predominio di poche persone (o di rami di famiglie) è una questione che per ora deve rimanere irrisolta. E' indubbio, invece, che l'oligarchia dei "grandi e potenti" dei secoli più tardi ebbe le sue radici nell'oligarchia dei casati più in vista del tardo Medioevo. Dal momento che la storiografia veneziana non ci è di aiuto per risolvere la questione delle origini dell'oligarchia, è opportuno considerare il resto dell'Italia e in modo particolare la Repubblica gemella sull'Arno, che viene tanto spesso menzionata insieme alla Repubblica lagunare in quanto entrambe nel tardo Medioevo resistettero alla generale tendenza a trasformarsi in signorie. Lauro Martines, autore di una delle migliori sintesi sulle Città-Stato italiane, non esita a definire tutte come oligarchie quelle poche che nell'età dei signori mantennero l'ordinamento repubblicano (Martines, 1992, IX). Per osservare in che misura queste repubbliche tardomedioevali (in tutto non più di sette) fossero effettivamente rette da un governo oligarchico, il caso 142 ACTA HISTRIAE VII. VOLKER HUNECKE: I SAVI GRANDI - GLI OLIGARCHI DI VENEZIA?, 141-152 di Firenze negli anni intorno al 1430 è quello su cui siamo meglio informati, grazie ad una minuziosa ricerca prosopografica condotta da Dale Kent. Il reggimento di Firenze comprendeva i cittadini che potevano venire eletti alle tre massime cariche (nove Priori, dodici Buonuomini e sedici Gonfalonieri) e a quell'epoca era costituito da più di 1700 membri delle Arti Maggiori. Fra questi tuttavia non compaiono due terzi dei cittadini elencati come i più ricchi nel catasto del 1427. Pertanto Firenze a quell'epoca, riguardo alla distribuzione delle massime cariche regolari, non era un'oligarchia né, tanto meno, una plutocrazia. Tuttavia ci si presenta un quadro molto diverso se si considerano invece i cittadini che venivano chiamati con maggior frequenza a partecipare alle Consulte e Pratiche, consigli informali le cui risoluzioni erano determinanti ai fini di tutte le più importanti decisioni politiche. Negli anni agitati tra il 1429 e il 1434 la Signoria indisse non meno di 245 riunioni di questo genere, invitando a prendervi parte in totale più di settecento cittadini (di solito fra quindici e quaranta persone a seduta). Fra questi cosiddetti "richiesti" emerge un gruppo composto di soli 64 cittadini, chiamati fra le trenta e le settanta volte a fungere da consiglieri della Signoria. In questi ultimi possiamo identificare i più influenti artefici della politica fiorentina, sebbene non pochi di essi non avessero mai, o solo assai raramente, rivestito una delle massime cariche ufficiali. La loro ap-partenenza alla élite politica effettiva, ma non ufficiale, si basava sull'antichità e sul prestigio delle loro famiglie, sulla loro competenza professionale, su una lunga esperienza di vita (solo un quarto di essi aveva meno di quarant'anni) e infine soprattutto sulla loro grande ricchezza: più di due terzi di questi 64 politici di primo piano erano fra i principali contribuenti della città e almeno quattordici di essi disponevano di enormi ricchezze. Se ne deduce che non tutti i cittadini molto ricchi appartenevano all'élite politica, ma che tuttavia una grande ricchezza "per quanto non indispensabile, era comunque un potente fattore di preminenza politica, accanto a fattori quanto l'antichità della famiglia e le doti personali" (Rubinstein, 1980, 30; Kent, 1975, 575-638). Ufficialmente, dal punto di vista del reggimento, Firenze poteva vantare un "governo largo", ma di fatto tendeva ad un "governo stretto". Giovanni Cavalcanti stimava che i cittadini eminenti "usi e anticati al civile reggimento", quelli che appartenevano al "cerchio del governo" o al "cerchio del bello reggimento", fossero all'incirca settanta, vale a dire la trentesima parte di coloro ai quali veniva ricono-sciuta la facoltà di accedere al priorato. Questa tensione fra "governo largo" e "governo stretto", inerente alla costituzione repubblicana, fu ridotta dal Cavalcanti alla formula: "molti erano eletti agli ufficii e pochi al governo". Gino Capponi, ancor più profondamente iniziato ai misteri della politica fiorentina, si espresse cosí: "li uffici sono in più numero fussono mai, e lo stato in meno" (Kent, 1975, 604; Kent, 1978, 19). Quindi anche nelle Repubbliche "lo stato", cioè, secondo la concezione dell'epoca, "i governanti e il loro seguito" (J. Burckhardt), tendeva all'oligarchia; 143 ACTA HISTRIAE VII. VOLKER HUNECKE: I SAVI GRANDI - GLI OLIGARCHI DI VENEZIA?, 141-152 questo dato di fatto veniva considerato, ad esempio da Machiavelli, come una caratteristica fondamentale delle Repubbliche: "in tutte le repubbliche, in qualunque modo ordinate, ai gradi del comandare non aggiungono mai quaranta o cinquanta cittadini" (Discorsi, I, 16). Pochi anni più tardi un altro "uomo assai esperto dei reggimenti repubblicani", il senese Claudio Tolomei, si espresse in modo altrettanto perentorio; per calmare il clima politico nella sua città egli propose l'elezione di una balia di cinquanta uomini distinti, motivando in tal modo la sua proposta: "perché in ogni repubblica, benché larga, in ogni stato, benché popolare, rare volte è che più di cinquanta cittadini sagliano a' gradi del comandare in un tempo medesimo. Né anticamente in Atene o in Roma, né al presente o in Venezia o in Lucca, sono molti cittadini che governino lo stato, benché si reggano queste terre sotto nome di repubblica" (Berengo, 1974, 235; Donati, 52). Con questa citazione concludiamo il nostro excursus su Firenze e sulle altre repubbliche della Toscana. Ne abbiamo appreso che nel Quattrocento e all'inizio del Cinquecento veniva considerato normale o addirittura auspicabile che nelle Repubbliche i "gradi del comandare" (Machiavelli e Tolomei usano l'identica espressione) fossero riservati a non più di cinquanta cittadini. Ai "quaranta o cinquanta cittadini" menzionati da Machiavelli si oriento anche quell'anonimo patrizio veneziano che, verso la fine della guerra di Candia, definí il "dominio veneto" come una "meza oligarchia": "Imperochè, quantunque il dominio consista nel Senato, che sopra monta a 280 persone, di queste non se ne contano quaranta, che possano chiamarsi direttori del governo." In un altro passo spiega: "De' nobili vecchi e bene stanti non si contano più di cento famiglie; e di questi non ci saranno cinquanta che siano partecipi vicendevolmente delle cariche principali del Collegio, il quale infine al giorno d'oggi, non vanta più di quatordici o quindici Senatori capaci d'esser Savi grandi. E questi fanno tutto quello che vogliono, perché fanno fare al Senato tutto quello che vogliono" (Molmenti, 1919, 370, 425). Possiamo solo supporre perché questo anonimo in un regime del genere vedesse solo una "mezza" oligarchia; probabilmente il termine ai suoi tempi era ancora poco comune e cosí diffamante che egli non osava parlare di una oligarchia "pienamente sviluppata". In ogni caso questo autore è uno dei primi, se non addirittura il primo, a citare cifre precise, tali da consentire l'uso del termine oligarchia. Le cifre da lui menzionate (da quaranta a cinquanta) si avvi-cinano moltissimo a quelle che circolavano da due secoli per indicare l'entità numerica dell'élite politica delle Repubbliche; eppure in precedenza evidentemente a nessuno era venuto in mente di denominare oligarchia la limitazione del potere a una cinquantina di persone (o di "famiglie"). Ma evidentemente ai Veneziani questa oligarchia di cinquanta uomini, tipica per tutte le Repubbliche, non bastava ancora, dal momento che essi erano riusciti a crearsi una oligarchia più ristretta all'interno dell'oligarchia: l'ufficio dei Savi grandi, i quali, secondo il nostro patrizio anonimo, dominavano il Senato ed erano prati- 144 ACTA HISTRIAE VII. VOLKER HUNECKE: I SAVI GRANDI - GLI OLIGARCHI DI VENEZIA?, 141-152 camente onnipotenti. Tutti i conoscitori dell'ambiente veneziano concordano in tale giudizio. Marin Sanudo riteneva che i Savi grandi fossero i "primi, e principali della Terra" e che avessero "il governo dil stado"; quasi trecento anni dopo Giovanni Pindemonte asseriva ancora che "i soli sei Savi grandi [...] sono i maneggiatori e gli arbitri di tutti gli affari. [...] essi tra di loro consigliano tutti gli affari, e fra di loro formano le proposizioni, le quali lette nel Pregadi [Senato] [...] e ballottate tutte in una volta diventano tanti decreti del Senato" (Grendler, 1990, 40; Cozzi, Knapton, 1986, 110; Pindemonte, 1883, 337). Anche tutti gli storici dei nostri giorni non esitano a considerarli come i capi effettivi dello Stato veneziano (Lane, 1973, 428; Maranini, 1974, 331-333; Grendler, 1990, 40; Domzalski, 1996, 70; Del Negro, 1984b, 312). All'onnipotenza di questa carica si accoppiava un carattere di estrema esclusività: secondo quanto si afferma nella relazione del 1664 solo quattordici o quindici senatori erano "capaci d'esser Savi grandi". Persino al momento della caduta della Repubblica, il Pindemonte continuava a stizzirsi sulle "famiglie di Collegio" che provvedevano a tener lontane da questa carica tutte le famiglie povere o "di mediocri fortune" e anche tutte le famiglie "nuove", cosa che lo indispettiva più d'ogni altra (Pindemonte, 1883, 338 sq.). Non c'è dubbio che i Savi grandi personificassero la componente oligarchica del governo veneziano. Percio considereremo ora da quali famiglie provenivano i nobili che rivestirono questa carica, quanti erano e quante volte la esercitarono. Dal momento che i sei Savi grandi (o Savi del Collegio) rimanevano in carica per soli sei mesi, al termine dei quali dovevano astenersene per un periodo almeno altrettanto lungo, il Senato si trovava a dover eleggere ogni anno (in quattro date diverse) dodici Savi grandi, senza tener conto delle riserve e delle sostituzioni di membri dimessi anzitempo dalla carica. Di norma i candidati dovevano aver superato i quarant'anni; inoltre, per evitare nepotismi, non era permesso a più membri di uno stesso casato di rivestire contemporaneamente questa carica. Quindi, da un punto di vista puramente teorico, molti patrizi avrebbero avuto la possibilità di essere eletti almeno una volta nel corso della loro vita, ma in realtà la stragrande maggioranza di essi rimase esclusa da tale onore. Per appurare se nelle elezioni dei Savi grandi siano intervenuti nel corso del tempo cambiamenti degni di nota, analizzeremo ora i patrizi eletti in due periodi, fra il 1540 e il 1610 e fra il 1697 e il 1797. Per il primo di tali periodi ci serviamo dei dati raccolti da Paul Grendler per la sua ricerca "The Leaders of the Venetian State" (Grendler, 1979, 302-340; 1990, 62-85).1 Fra l'inizio e la fine del primo arco di tempo, il Maggior Consiglio comprendeva fra i 2.500 e i 2.000 nobili di età superiore ai venticinque anni; in questi settanta anni dovrebbero esser stati più di 800 i patrizi che, avendo superato i quaranta anni, avrebbero potuto esser presi in considerazione per l'ufficio di Savio grande. Tuttavia, come dimostra la tabella 1, vi vennero elette solo 124 persone, con frequenze molto 1 Sui dati relativi al Settecento cf. Hunecke (di prossima pubblicazione). 145 ACTA HISTRIAE VII. VOLKER HUNECKE: I SAVI GRANDI - GLI OLIGARCHI DI VENEZIA?, 141-152 diverse. Quasi la metà di esse (59 persone, corrispondenti al 47,6%) vennero elette da una a cinque volte e pertanto su di loro confluirono solo un quinto abbondante di tutte le elezioni. I patrizi eletti dieci o più volte erano invece solo 35, ma ad essi tocco più della metà di tutte le elezioni (51,1%). Probabilmente, nel Cinquecento, il fatto che un patrizio fosse eletto poche o molte volte (una sola elezione è estre-mamente rara) dipendeva soprattutto dagli anni che gli restavano da vivere dopo la sua prima elezione. I Savi grandi la cui ultima elezione fu di poco anteriore alla data della loro morte sono stati senz'altro assai più numerosi di quelli che vissero ancora molti anni o addirittura un decennio o più dopo aver rivestito tale carica per l'ultima volta.2 In cio si riconosce l'intento da parte degli elettori di limitare il più possibile la fluttuazione in tale ufficio e di affidarlo preferibilmente a uomini che ne avessero già fatto un'esperienza più o meno lunga. Il nucleo centrale di questo consiglio era costituito dalla metà dei suoi membri, cioè dai patrizi che per un lungo arco di tempo vi venivano eletti ogni anno quasi senza interruzioni (a prescindere dalla regolare astensione) e che quindi, per cosí dire, potevano ammaestrare gli homines novi e iniziarli agli arcana imperii. Fra questi eterni Savi grandi vanno annoverati, ad esempio, i due futuri dogi Nicolo Da Ponte e Leonardo Donà, entrambi eletti 21 volte. Il Saviato grande costituiva un vivaio di futuri dogi: dodici dei 124 Savi grandi qui considerati conclusero la loro carriera con l'elezione a doge; fra il primo e l'ultimo di essi - Marc'Antonio Trevisan (1553-54) e Nicolo Contarini (1630-31) - vi furono solo sei dogi non provenienti da questa palestra politica. Pertanto l'asserzione avanzata alla fine della guerra di Candia dall'inventore della "mezza oligarchia", il Collegio "non vanta più di quatordici o quindici Senatori capaci d'esser Savi grandi", si è rivelata già esatta rispetto al Cinquecento, e tanto più lo è per il Settecento. Nel secondo arco di tempo considerato (1697-1797), ben più lungo del primo (1540-1610), i patrizi che rivestirono la carica di Savio grande furono solo 13 di più (cfr. tabella 2). La loro cerchia divenne ancora più esclusiva in quanto la media delle loro rielezioni aumento da 6,8 a 9,7. Il cambiamento più vistoso fra i due periodi - e al contempo l'unico motivo della crescente esclusività del Collegio dei Savi grandi -si deve al fatto che nel Settecento fece la sua comparsa un gruppo di persone elette più di 25 volte, fenomeno che nel Cinquecento non si era ancora verificato. Il gruppo di questi Savi grandi che furono in carica da 27 a 44 volte comprende solo quindici patrizi, i quali tuttavia coprono il 36% del periodo e, insieme ai loro colleghi eletti da 16 a 25 volte, più della metà del tempo (51,7%). Che in Collegio si vedessero sempre più spesso e sempre più a lungo le stesse facce dipende soprattutto dal fatto che nel 2 Una eccezione del genere è il caso di Girolamo di Francesco Soranzo, che venne eletto Savio grande per undici volte, ma poi cadde in disgrazia, avendo svelato un segreto, e visse ancora sedici anni dopo la sua ultima elezione (1583); cf. Grendler, 1990, 75 sq. 146 ACTA HISTRIAE VII. VOLKER HUNECKE: I SAVI GRANDI - GLI OLIGARCHI DI VENEZIA?, 141-152 I Capi del Configlio dey Died che fono trefimutano ogni meje,& s'elegono perfor-te>&é magi fir ato di gradiffima autor it a} Vefiono que[l' habito, tl quale anco gt altri Magi fir at i infer i or i