Blasoni popolari triestini e istriani (Continuazione e fine; vedi numero precedente) Gli Isolani del Quarnero son detti bodo/i. E dei Sansegoti si narra, che volendo partire da Sansego, montarono in barca, sciolsero le vele, e per far meglio, vogarono tutta la notte. Al mattino si accorsero d'essere ancora a Sansego, perche s'erano dimenticati di sciogliere la corda che teneva la barca attaccata alla riva. La stessa cosa si narra degli abitanti di Laurana, di Ica, di Icici, di S. Marina sulla costa deliziosa della Liburnia.i3) Per significare poi ad uno ch' e goffo e poco svelto di corpo e di mente, si dice: Cid, Sansegoto! E conchiudiamo questo capitolo con i blasoni fabbricati in Istria a vilipendio dei non tonterranei. I Friulani son tacciati d'a- varizia giusta il motteggio Furlan magna merda e lassa pan, e giusta il dialogo rimato: — Furlan, magnetno el tu pan 9 — — No go fam. — — Magnemo del mio. — — Magnemolo con Dio. — E di Grado si suol dire: Grao, bel de /ora, e de drento smer- dao. E ai Greci il Triestino lancia il saluto: Calimera, calispera — tu ti i Greghi in caponera. IV. Ma non e che soltanto la costa istriana-faccia le spese del- 1' ilarita motteggiatrice e delle insolenze satiriche, perche ne sono coinvolte anche le borgate dell'interno. !i) La stessa cosa narrasi di Cuneo, e a Verona di Azzago. I Montonesi son detti magnarane, perche nelle paludi san trovarle belle e grasse, o magnagati-, i Vallesi bifulchi-, i Pin- guentini fraioni-, i Buiesi cazzamussi, perche a Buie di somarelli c'e abbondanza; quei di Tribano scalogneri, mangiatori di scalo- gno; quei di Bibali patateri; quei di Castellier senza fede\ quei di Visinada, perche son mangioni e perche san fare faccia franca, e talora tosta, a cattivo giuoco, stomeghi de Visinada, o anche magnagati come quelli di Montona, o magnamule, cioe mangiatori di sanguinacci; e perche la terra di Visinada politicamente e ri- tenuta irrequieta, fin da quando i Grimani di Venezia la compe- rarono dalla Serenissima, servendosene della popolazione per ven- dette politiche e private, si dice con sprezzo Visinada colonia grimania. Pisino e Pisin pien de vin. E giacche ho nominato Pisino, ricordero che il famigerato barone Federico de Grimschitz, capo del Capitanato Circolare di Pisino, forse per vendicarsi delle frecciate lanciategli dai patriotti pisinesi, soleve ripetere con teutonica burbanza di voce: Pisino- ten-Otentoten. E per lui furono davvero terribili quei cittadini.2") Ci fu poi un certo poeta estemporaneo Bindocci, il quale circa il 1850 non trovo buone accoglienze a Pisino, sicche improvviso su Pisino il detto : Pisin, pissa e passa. Questo fatto mi aiuta a ritenere che la paternita di molti insolenti blasoni popolari an- tichi, noti ab immemorabili, derivino pure dalla maldicenza di menestrelli, di cantastorie e di giullari, che si vendicarono del- l'accoglienza cattiva avuta in certi paesi con detti e con proverbi satirici rimasti eredita del popolo. E le morsicature continuano. Dicono a Pedena: Pedenesi gran signori, Gallignanesi gran dotori, Lindaresi prepotenti, Pisinoti boca e denti. Sottostando il comune di Pedena a quello di Pisino, vogliono i Pedenesi, che tutti i loro tributi comunali sieno mangiati da Pisino. 24) Cfr. Camillo De Franceschi, L'irredentismo di Trieste e dell'Istria agli albori del Quarantotto, in « L'Era Nuova», Trieste, 20 maržo 1921, a. III, n. 605, p. 3. I primi due versi di questa strofetta pedenese possono es- sere stati imitati dai versi somiglianti d'una strofetta veneziana.'') Se cio avvenne, si fu certamente almeno nel secolo XVII, du- rante il quale per quei di Pedena e quei di Gallignana correvano gia i predetti nomignoli. lnfatti il parroco di Pas, scrivendo il 28 dicembre 1712 ad Antonio Braissa, « che la citta di Pedena havra questa prossima quaresima un bravo predicatore cappuccino« no- tava che quei di Gallignana ne avrebbero provato gelosia. E per indicare i Gallignanesi diceva: «i havera pizza i signori Dot- tori».2(i) Del resto c'e il detto zape de Pedena, per significare che a Pedena non si trova altro che zappe, benche i fabbri di la sieno realmente fainosi nel confezionarle. E nelle proposizioni — Va a Pedena a cior zape. — Son anda a Pedena a crom- par zape. — Dove ti vaghi9 A Pedena per zape — c'e sempre il sottinteso satirico. I motteggi della Valle del Quieto si condensano in questa strofe: Montonesi magnagati, Visinadesi magnamule, Grisignanesi quei del do', Castagnesi piu che ciuchi, a Piemonte mati duti, Portole leterati setantadč. Del motteggio contro i Visinadesi vedemmo gia. Ai Monto- nesi si affibbia quel titolo, perche si pretende, che sieno caccia- tori di gatti e scacciatori di lepri. Di Grisignana si burla il do' usato, come dai Triestini, per dove. Quei di Castagna son detti ciuchi, specialmente da quei di Piemonte, che a la lor volta si piglian su del matto, come i Parenzani. E si punzecchia Portole ricordando a titolo di beffa, che nel 1807 il suo maire, alla cir- colare del prefetto francese di Capodistria se mai nei piccoli co- muni vivessero letterati, prendendo questa parola nel senso di 25) Cfr. Giusti, Raccolta cit., p. 216: Veneziarti, gran signori ; Padovani, gran dottori. 20) In «La Provincia deli'Istria», Capodistria, 16 maggio 1879, a. XIII n 10, p. 78. chi sa leggere e scrivere, rispondeva che a Portole di letterati ce n'erano 72.'") £ storica poi la satira, brutta ma sanguinosa, scritta contro Portole da Alessandro Bon, suo podesta veneto fra il 1786 e il 1789, in 164 strofe 28), una delle quali assomma cosi le qualita dei Portolani, secondo lui: Che i xe tutti i Portolani, vechi, zovini, villani: imbriagoni, discortesi, perniciosi alli paesi. Cosi il Bon aveva fatto per Portole, cio che mezzo secolo dopo doveva fare il Grimschitz per Pisino. I Buiesi infine, benche bravissimi in tutto, son detti maca- chi\ donde il rimprovero scherzoso : Cio, macaco de Buie! Son detti anche magnafighi. Siccome poi i Buiesi son ottimi calzolai per stivali da strapazzo, s'e trovato Toffesa scarpa de Buie. L/origine di tali satire nella Valle del Quieto ha radici molto antiche, e risale alle gravi diuturne liti, che sostennero quei paesi fra loro confinanti per questioni di confini, di particelle pro- miscue e di proprieta comunali e private, sempre contestate e quasi mai risolte, fra il secolo XIV e il secolo XVIII.29) E passiamo nel Montonese. Quei di Visignano son detti Cargnei, perche molte di quelle famiglie sono dalla Cfcrnia; quei di S. Marco presso Visignano ranconeri, perche s'aggirano sem- pre intorno alle siepi, che raccomodano col «rancon»; quei di S. Domenica (presso Visinada) falzeteri, perche portan sempre seco la falcetta; quei di Villanova son detti alla slava palizzeri, perche andavano alla processione della celebre Madonna dei Campi col bastone (palizza)\ quei di Sovignacco, Zumesco, Caldier, Novacco son datti besiachi, alla friulana; e quelli che stanno al di la di Caroiba sono imperiali, cioe fuori delTantico territorio della Se- !1) Cfr. Vesnaver, Usi ecc., pp. 15-16. 28) S'intitola «Canzone sopra 1'aria della Biondina in gondoleta, Breve descrizione del Castello di Portole e de' suoi abitanti. Di Nason Lebardo N. e V.o»; vedi G. Vesnaver, Una satira del costume al tempo della Serenissima (Pola, tip. Sambo, 1902). 29) Delle controversie fra Grisignana, Piemonte e Buie, vedi G. Vesnaver, Notizie storiche di Grisignana nell'Istria, Capodistria, 1906, pp. 108-114. renissima ed entro il territorio che appartenne agli arciduchi au- striaci. Intorno a Parenzo, da Varvari a Mompaderno, quelli abi- tanti son detti Morlacchi. Della gente di Torre, di Abrega e di Fratta, ch'e laboriosa, ma vuol anche godere la vita, si dice: Toresan, el cul mala e 7 beco san. Oppure: Ti ga el ma/ del Toresan — el dadrio mala e 7 beco san.™) E per il loro sangue caldo che fa spesso nascere, specialmente per le loro sagre del Carmine in Iuglio e per S. Martino in novembre baruffe, e peggio, si aggiunge : Tore, Abrega e Frata, e la busera xe fata. V. Atroci sono le offese, che tra paese e paese son lanciate a vituperio delle donne de' singoli luoghi. Questa maldicenza scortese e da se un capitolo e un epilogo di quella tradizionale giullaresca satira italiana, che dal secolo XIII ando mordendo le donne delle singole citta italiane, e di cui e tipo originalissimo la «Chansone... della condizione delle donne dalchuna cipta» ri- portata nel codice magliabechiano Vil, 10, 1078.31) Anche la pro- vano feroci morsicature le donne fiorentine, senesi, romagnole, bolognesi, ferraresi, padovane, veronesi, e via via fino alle tren- tine.3') . Son frizzi ingiusti — si sa — che spesso non hanno ra- gione che nella rima tirata per i capelli. P. e. di Castagna e di S. Domenica di Visinada si dice: Le donne de Castagna le xe dute una magagna. Santa Domeniga, belle campane, i omeni bechi, le donne p... 30) Babudri, Ancora rime ecc., «Miscel!anea Hortis», II, 952, n. 485. 31) Vedi Tomaso Casini, Un repertorio giullaresco del secolo XIV, An- cona, Sarzani, 1881; Casini, Rime inedite dei secoli XIII e XIV, in «Propu- gnatore», a. XV, p. II, p. 346; Casini, Le donne trentine in una poesia popo- lare del secolo XIV, in «Archivio storico per Trieste, 1'Istria e il Trentino«, II, 1883, pp. 240-242. 32) Nel codice Laurenziano della SS. Annunziata, n 122, c. 134a, man- cano le strofe delle donne trentine: Cfr. Casini, in «Archivio» cit., p. 241, nota. E per Torre, Castellier e Visignano si son trovate le stro- f ette: — E le mule Toresane le se čredi de esser bele, le se frega le massele co la carta de color. — E le mule Castelierese 'ssai ghe piasi laquavita ogni di le se la slica per tre volte nel cafe. — E le mule Visignanese le se porta el c... in /ora, se ghe pol ziogar la mora, el tresete e 7 trentaun. E contro quelle di Torre, cui piace il vino, si canta anche E le pute Toresane le se čredi de esser bele: le destuda piu candele, che no 7 prete su l' alt ar. Contro le fanciulle di Parenzo, ritenute superbe e aristocra tiche, si cantava circa fra il 1870 e 1880: — Le ragazze parenzane no le vol sposar vilani, an]cora meno i artisani, e in carossa le vol andar. — Le carosse le xe poche, le ragazze le xe trope: xe da vero un bruto a far, tante pute a maridar. — Se /a dote le 'varia, tute se maridaria: ma la dote no le ga, e] tute quante le sta la. VI. Ma ci sono anche i blasoni antoelogistici. I Momianesi si vantano, e a ragione, delle loro pure e ottime sorgenti: L'aqua de Momian la val per un sovran. E questa magniloquente esaltazione e segnata molto bene nella bellissima canzonetta popolare di Giovanni Barsan «Da Pola a Capodistria«, musicata dal maestro Giorgieri. E Dignano in un impeto di soddisfazione esclama : A zi majo Dignan cu 'i so grumassi, che Pola e Galisan cu 'i so palassi. Ma due citta spiccano per il panegirico di se stesse nelle canzoni popolari: Muggia e Rovigno, forse le due piu bersagliate dalla maldicenza. Muggia vanta il suo castello, i quattro angoli delle sue mura, la sua chiesa, il suo leone e l'acqua del Plai sulla co- stiera tra il Castello e Muggia Vecchia. O Muja bela, Muja reale, de nove robe la se pol lodare: el bel castel che fa la guardia al mare, e le saline che faQeva sale; al porto bel ghe xe un bel spedale, che in tuta Muja no ghe xe iuguale; e po vifin ghe xe la portissa che se potria ciamar Muja novissa. A la porta granda xe una bela insegna, che xe san Marco e D'o ne lo mantegna; a san FranQesco ghe xe una fontana, che se potria ciamar Muja sovrana; in piassa granda ghe xe un bel stendardo, che de bellessa el porta el pomo d oro; e po la ciesa de san Zuane e Polo, che de bellessa la val un tesoro. "') 33) Vedine il testo muglisano in Cavalli, op. cit., p. 164, nota. Alle quali lodi si aggiungano queste in vecchio muglisano: O Mugla biela di cuairo ciantons, quatro bighi di pan no mancia mai; e l'aga del P/aj con quela del Risan la se confai. L'aga del Plaj cun quela del Risan non se confai; e quela de la Puorta Granda la ga onour assai.:tl) O Mugla biela di quattro ciantons una biga di pan no mancia mai: e l'aqua del Plaj nu la bevons, o Mugla biela dei quatro ciantons. Da cui fu tratta la quartina giuliana: O Muja bela dei quatro cantoni, una biga de pan no manca mai: in piassa granda xe una bela insegna, ghe xe San Marco, e Dio ne lo mantegna. Rovigno poi vanta il suo campanile, il suo cielo, le sue chiese e le sue contrade: Andare i me ne vuoi — chi vol vineire ? — andare i me ne vuoi, Ruveigno bielo. Staro tri, quatro misi, al meio piagire, e se me piaseruo, staro in etierno. Ruveigno bielo, ti te puoi guantare, ti ga oun biel campaneil in jetrna al Monto; ti ga ouna biela reiva da lustrare, ti ga oun biel Sant'Antuonio fora el Ponto. Ti ga San Ninculub, che guarda el mare, l'apuostolo San Pijro in Ceima oun monto; in miezo reiva dui culuone in alto e al nostro prutetuor, veiva San Marco. M) Cavalli, ivi. Veiva San Marco e veiva i Viniziani, veiva Santa'Maria de la Saloute; e San Frangisco in reima otin muntisielo e la Saloute zi Dreio Castielo.") Interessante si e, che queste quartine laudatorie rovignesi con la fine acclamatoria sono ripetute anche fuori di Rovigno in traduzione esatta veneto-giuliana 36), sicche si vede, che benche Rovigno fosse saettata dalla maldicenza paesana, finiva per es- sere anche lodata a bocca piena. VII. Paolo Tedeschi nel suo articolo Citta e regioni che fanno le spese dellilarita scrive : «E in Istria ? L'abbondanza dei motti e dei nomi di scherno e tale e tanta, da non far dubitare nep- pure per un momento che la nostra e terra italiana, e che coi fratelli abbiamo comuni le virtu ed i difetti pur troppo. Tra Ca- podistria Trieste Pirano ed Isola c'era a' passati tempi uno scam- bio di complimenti, conseguenza delle antiche discordie e divi- sioni politiche. Pare che tolte le cause dovessero cessare anche gli effetti; ma signori no, c'e quel benedetto uso, tiranno della lingua, che fa perpetuare i motti senza malizia spesso, e tanto per eccitare T ilarita. E non si avra mai a finirla? — Col tempo puo essere, risponde il Bortolo dei Promessi Sposi; i ragazzi che vengono su; ma gli uomini fatti, non c' e rimedio: hanno preso quel vizio; non lo smettono piu. — Chi avesse la pazienza di raccogliere tutti questi motti di scherno, condannandoli, s' in- tende, farebbe opera utilissima».a7) Ed io con questo saggio, sia pure con ritardo di mezzo se- colo, čredo d'aver seguito il nobile incitamento del compianto Tedeschi. Ma ho composto siffatto saggio folkloristica non solo dopo di aver condannato a priori il malvezzo di tale maldicenza paesana, ma dopo di aver stabilito d'aggiungere a questa dove- rosa condanna quanto scrivo adesso, basandomi anche sul fatto 35) Ive, Saggio di dialetto Rovignese, pp. 17-18, n. 18. 36) Babudri, Terza serie di rime e ritmi del popolo istriarto, n. 636 e 637; il Timeus, op. cit., p. 18, lo pone anzi fra i canti istriani in genere. 37) Paolo Tedeschi, in «La Provincia dell'Istria», a. XXVII, cit., p. 72> col. 2\ che 1' Istriano stesso in pratica rinnega e scansa ogni conseguenza di queste satire. Se infatti i diversi luoghi son legati tra loro da anelli di ferro, che odio e maldicenza irrugginiscono, son pure legati da anelli d'oro, che 1'affetto vicendevole rende ognor piu brillanti. Triestini e Istriani in realta fra loro si amano, in onta ai satirici blasoni popolari, ove le spine pungono acute. Ne e prova la bellissima tradizione delle famose gite che fra il 1870 3S) e il 1913, riprese un po' per volta dopo il novem- bre del 1918, usarono scambiarsi in segno d'affetto e di stima Trieste e le citta istriane nelle domeniche estive, su piroscafi a bella posta noleggiati, con sventolio di bandiere, sonar di bande musicali, e cortesie ufficiose di comuni, di societa operaie, spor- tive e di cultura. Al commiato, a sera inoltrata, tra il fiammeg- giar del bengala, lo scintillio delle fiaccole e 1'avvicendar degli inni di S. Giusto e deli' Istria, in una fantasmagoria di luci, di forme e di colori, in terra e sul mare, si inneggiava alla patria, e non potendo gridare «Viva l'Italia!», si gridava «Viva 1'angu- ria!», perche /'anguria e tricolore: bianca nella buccia interiore, rossa nella polpa, verde alTesterno. E in queste che furono tra le piu belle feste popolari de!l'Adriatico irredento, non c'eran piu frizzi, non c'eran piu maldicenze, non c'eran piu rime a saetta, ma solo allegro sentimento di civica coscienza. Nelle guerre delTindipendenza italiana fra il 1848 e il 1870, nei campi dolorosi di deportazione e d'internamento fra i! 1915 e il 1918, nelle pianure galiziane e sui Carpazi, ove gli Adriatici irredenti si trovarono sbalestrati, si sentirono orribilmente soli: ma ben presto, ancorche prima non si fossero mai conosciuti, si palesarono alla parlata. E allora a gran voce uscirono dalle loro bocche queste grida: — Ma no ti son Istrian ti? — Mi si: son de 1'Istria! — Ma anca mi! — E mi son Triestin! — E mi anca! — conchiuse da un trionfale : — Patria, basemose! — E si abbracciavano, e si baciavano, rinnovando la scena commo- vente (Purg. VI, 70-75), dalla quale Dante fa precedere 1'epifo- nema contro le discordie d'Italia. 38) Vedansi le relazioni di molte di siffatte commoventissime feste popo- lari fra il 1873 e il 1894, disseminate nelle annate della Provincia dell'Istria di Capodistria, e si legga in proposito L'Isiria di Marco Tamaro. 88 PAGINE ISTRIANE L'anima lombarda soletta, altera e disdegnosa di Sordello — narra il Divin Poeta —: ... di nostro paese e della vita Cinchiese. E il dolce duca incominciava «Mantova...*. E 1'ombra, tutta in se romita, Surse ver lui del loco, ove pria stava, Dicendo: «0 Mantovano, io son Sordello Della tua terra». E lun l'altro abbracciava. Cosi, proprio cosi, i nostri si palesavano, e rinnovando ap- punto la commozione di questo divino episodio conchiudevano il concitato dialogo del loro riconoscimento con un trionfale «Patria, basemose/», tutto effusione di nostalgica tenerezza. «E lun l'al- tro abbracciava...*. FRANCESCO BABUDRI