ACTA HISTRIAE • 18 • 2010 • 4 received: 2QQ8-Q6-1Q UDC 94:316.485.6(497.571Labin)"17" original scientific article GIURISDIZIONE, CULTURA E CONFLITTI AD ALBONA INTORNO ALLA METÀ DEL SETTECENTO Lia DE LUCA IT-3QQ3Q Peseggia di Scorzè (Venezia), Via Mazzini 6 e-mail: delucalia@gmail.com SINTESI L'analísí delle dínamíche socíalí e polítíche della píccola comunítá ístríana dí Altona a metà Settecento. L attenzíone sí concentra ín partícolar modo sulla re-lazíone campagna-cíttá e sulle dífferenze línguístíche. Punto dí partenza per í ragío-namentí un processo per ínsurrezíone svoltosí nel comune nel 1757. Le numerose deposízíoní raccolte durante íl procedímento penale regalano uno spaccato vívído della víta altonese ed ín partícolare deglí avvenímentí che sfocíarono nell'ínsur-rezíone del 2ß apríle che víde píú dí duecento contadíní ríunítí ín píazza per ottenere la líterazíone deí loro rappresentantí. Parole chíave: Istría, Altona, relazíoní socíalí, ínterpretí, Settecento, cíttá, cam-pagna, processo penale, testímoníanza, língua JURISDICTION, CULTURE, AND CONFLICTS IN LABIN AROUND THE MID-18™ CENTURY ABSTRACT This article examines the social and political dynamics in the small Istrian community of Labin in the mid-18th century. Special attention is paid to the relations between the rural and the urban, and on linguistic differences between the two. The starting point for the discussion is represented by a trial for insurrection which was held in Labin in 1757. The abundant testimony collected during the investigation provides us with a vivid description of life in Labin and in particular of the events that resulted in the insurrection of 26 April, when more than two hundred peasants gathered in the town square requesting the liberation of their representatives. Key words: Istria, Labin, social relations, interpreters, 18th century, town, countryside, penal process, testimony, language 937 ACTA HISTRIAE • 18 • 2010 • 4 Lia DE LUCA: GIURISDIZIONE, CULTURA E CONFLITTI AD ALBONA INTORNO ..., 937-960 La città di Albona,1 oggi Labin in croato, fu fondata, raccontano le cronache, quasi due millenni prima di Cristo su un'altura di 315 metri a tredici chilometri dal mare. Situata sul versante orientale dell'Istria la penisola albonese è circondata su tre lati dall'acqua: quella del fiume Arsa e dell'omonimo canale a ovest, quella del golfo del Quarnaro a sud e a est; il nord invece è diviso dalla terra liburnica dal profondo fiordo di Fianona e proseguendo dalla depressione della val d'Arsa. Questi confini danno al territorio una forma semi rettangolare con una lunghezza di circa venti-cinque chilometri e una larghezza, nel punto più ampio, di tredici. L'altipiano è di tipo carsico, intramezzato da numerosi rilievi la cui altezza è mediamente di 200 metri sul livello del mare. I primi abitanti di questi territori furono i liburni dell'antica civiltà dei Castellieri, di origini illiriche o forse precedenti. Furono probabilmente questi remoti residenti ad attribuire il nome alla città.2 Nel '700 Albona era parte della Repubblica di Venezia.3 Sotto la Serenissima la città era cresciuta d'importanza e aveva aumentato il numero dei suoi abitanti. Le fa-miglie più in vista del comune: gli Scampicchio, i Lupetini, i Luciani, i Bertossa, i Bat-tiala e i Paciotti, già da secoli erano riunite nel Consiglio cittadino, dal quale gestivano 1 Saggio basato sulla tesi di laurea specialistica: Un centro urbano dell'Istria veneta. Conñitti e giurisdizione ad Albona nel Settecento, presentata dall'autrice, relatore Claudio Povolo, discussa il 31 marzo 2008 presso l'Università Ca'Foscari di Venezia. Nota dell'autrice. Questo mio lavoro ha avuto inizio con l'analisi dettagliata del processo per insurrezione svoltosi ad Albona nel 1757. Partendo dal procedimento penale ho approfondito la mia conoscenza della storia locale, in modo da inquadrare il più possibile gli avvenimenti. Durante le mie ricerche mi sono imbattuta in un ostacolo per me insormontabile, una parte della bibliografia sull'argomento è stata scritta in lingua croata o slovena. Non conoscendo nessuna di queste due lingue sono stata costretta, purtroppo, ad avvalermi per la stesura della mia tesi, unicamente di testi scritti o tradotti in italiano, inglese o tedesco. Di conseguenza la mia bibliografía risulta in parte incompleta. Mi scuso pertanto con gli autori croati e sloveni, che hanno scritto opere su questi argomenti, per aver trascurato i loro lavori nella stesura del mio elaborato. 2 Nelle lingue della famiglia illirica il suffisso »ona« era utilizzato per segnalare gli insediamenti. Mentre il prefisso »Alv« o »Alb« in lingua celtica indicava un monte o un'altura, potrebbe quindi essere un'aggiunta seguita alle invasioni. Un'ampia bibliografia su Albona e sull'Istria è allegata alla mia tesi di laurea. 3 Il territorio di Albona, unito a quello di Fianona, dopo la conquista veneziana del 1420, fu considerato nominalmente quale »marchesato di Albona e Fianona«. Per tutto il periodo veneziano, i confini del comune di Albona furono stabiliti a occidente con il fiume Arsa, a nord con la signoria di Chersano e Sumberg, a nord-est con il comune veneto di Fianona, a sud e a est con il mare. Albona ebbe numerosi privilegi dalla Serenissima, proprio a causa della sua posizione strategica a ridosso dei territori austriaci; sarebbe stato molto pericoloso per Venezia perdere, per l'insoddisfazione dei suoi abitanti, un punto cosi essenziale alla sua linea di confine. Con l'acquisizione del territorio albonese, infatti, la Repubblica di San Marco era riuscita a mettere fine alle mire espansionistiche degli Asburgo sulla parte meridionale dell'Istria e a garantirsi una certa tranquillità nell'area con l'accerchiamento del territorio di Pisino. Un'ampia bibliografia su Albona e sull'Istria è allegata alla mia tesi di laurea. 938 ACTA HISTRIAE • 18 • 2010 • 4 Lia DE LUCA: GIURISDIZIONE, CULTURA E CONFLITTI AD ALBONA INTORNO ..., 937-960 gli affari politici ed economici della piccola comunità.4 Con il tempo a questo primo nucleo di »primati cittadini« si erano aggiunte altre famiglie, come quella dei Manzini, dei Manzoni e dei Coppe. Dal 1341 la città si reggeva su propri Statuti,5 compilati al tempo dei patriarchi, ma riconosciuti anche da Venezia al momento della dedizione. Lo Statuto di Albona non fu mai né riveduto né corretto, rimase in vigore nella sua forma originaria fino alla caduta della Repubblica nel 1797. Nel XVII secolo fu tradot-to in lingua volgare veneziana, ci si attenne pero ad una strettissima trasposizione letterale.6 Non è possibile stabilire fino a quando furono applicate le leggi più barbare, sicuramente ad un certo punto della storia del comune esse caddero in disuso.7 I vene-ziani conservarono gli Statuti nella loro forma originale, mantenendo cosi la parola data al momento della dedizione della città alla Serenissima, anche se ovviarono perô al problema dell'arretratezza del sistema giuridico comunale con una notevole serie di addizioni.8 Dagli Statuti emergeva come organo principale del governo cittadino il Consiglio, il quale si occupava dell'amministrazione del comune e poteva intervenire 4 Sulle famiglie influenti di Albona vedi Radossi, 1992. 5 Bartolomeo Giorgini farmacista albonese, che ad inizio Settecento raccolse pazientemente nell'opera »Memorie istoriche antiche e moderne della Terra e territorio di Albona« la storia della sua città, informa i suoi lettori che »in tal guisa passata Albona all'obbedienza della chiesa Aquileiese, governa-vasi da un vicario (speditovi dal patriarca pro tempore), il quale co' giudici della comunità ammi-nistrava ragione a' popoli secondo le proprie leggi, le quali con parte del consiglio del di 17 agosto 1341 furon raccolte e registrate in un codice che forma lo statuto municipale di questa patria, essendo a quel tempo patriarca d'Aquileia Bertrando da San Genese della diocesi di Sciartres, francese, e suo vicario in Albona Stefano q.m Virgilio da Cividal del Friuli, e giudici della Comunità Sebastiano Vulco e Bratogna q.m Andrea.« (Giorgini, 1906, 60). Lo studioso Attilio Bidoli aggiunse, che »la commissione incaricata di compilare lo Statuto era composta da membri del Consiglio Comunale esperti in materia« (Bidoli, 1938, 302). Il risultato non fu un corpo completo di ordinamenti comunali, ma un insieme di leggi penali con alcune norme di procedura relativa, con qualche disposizione di diritto consuetudinario e di diritto civile. Proprio per la loro semplicità, e grazie agli scarsi interventi successivi, gli Statuti danno un'immagine efficace del diritto consuetudinario in vigore sotto il Marchesato d'Istria. Si conoscono due versioni degli Statuti di Albona, una copia in latino del XV secolo conservata prima nell'Archivio comunale e poi passata di proprietà alla famiglia Scampicchio, ed una versione in lingua veneta, sempre del XV secolo, studiata dal Kandler a Trieste (Cella, 1964). Gli Statuti furono pubblicati due volte. Carlo Buttazzoni diede alle stampe la versione veneta di fine Quattrocento, mentre Camillo De Franceschi divulgo il codice in latino di proprietà della famiglia Scampicchio. Per maggiori informazioni sugli Statuti di Albona, vedi Bidoli, 1938; Buttazzoni, 1870a e 1870b; De Franceschi, 1908; Giorgini, 1906; Luciani, 1879. 6 La traduzione fu cosi fedele da riportare persino in maniera immutata le formule d'assegnamento delle tangenti dei banni ai patriarchi d'Aquileia. 7 Ufficialmente solo il capitolo 33 del primo libro, quello in cui era spiegata l'applicazione della Lex caldariae, venne cassato con due tratti di penna. 8 In totale trentotto capitoli, scritti in continuazione al secondo libro degli Statuti, senza un ordine cronologico o una divisione tematica, rispettando solo il criterio del bisogno. Riguardavano principalmente deliberazioni del Consiglio in materia civile e amministrativa. Il De Franceschi nel suo lavoro di edizione degli Statuti cittadini, per renderne la lettura comprensibile li riordino a suo giudizio personale (De Franceschi, 1908). 939 ACTA HISTRIAE • 18 • 2010 • 4 Lia DE LUCA: GIURISDIZIONE, CULTURA E CONFLITTI AD ALBONA INTORNO ..., 937-960 direttamente in alcuni ambiti della giurisdizione criminale, come ad esempio la con-cessione della liberté provvisoria a certi inquisiti. Il Consiglio era composto da 24 membri, quasi sicuramente in origine eletti per un tempo limitato dai capi famiglia della città, già nel XIV secolo lo stesso si era peró evoluto in una congregazione chiusa. Le famiglie che facevano parte del Consiglio iniziarono a considerarsi nobili. Al popolo, o ad alcuni suoi rappresentanti, era concesso di partecipare a determinate sedute per esporvi i propri desideri, erano tuttavia privi del diritto di voto. Il Consiglio ogni sei mesi eleggeva fra i suoi membri: due giudici con il compito di reggere il co-mune in caso di assenza del podestà, un cameraro che conservava le chiavi della città e aveva l'incarico di riscuotere, custodire ed erogare il denaro pubblico, ed un »meriga maggiore (chiamato volgarmente pozupo, ed era senza dubbio l'antico zupano scaduto in dignità e titolo dopo che il vicario patriarcale divenne podestà comunale), che fun-geva in certi riguardi da organo esecutivo del Consiglio, ma sopra tutto doveva vigilare alla tranquillité e sicurezza pubblica tanto entro il castello che nel suo distretto, coa-diuvato da 24 giurati, detti saltarî ossia guardiani campestri, la cui scelta era riservata ai rettori.« (De Franceschi, 1908, 136). Le funzioni di controllo sull'igiene pubblica, sull'edilizia e sul corretto funzionamento di strade e ponti, erano affidate ai rappresen-tanti della comunità. La custodia militare della città era assegnata a turno agli abitanti della stessa. Sottoposte alle municipalità, le ville costellavano le campagne ed erano parte integrante del »sistema urbano«. Per ogni mansione necessaria alla vita civile veniva eletto un responsabile, sia tra i cittadini che nelle ville sotto la giurisdizione del comune. Con il passare dei secoli il municipio prosperó e le mansioni necessarie al suo funzionamento si moltiplicarono. La figura più importante del comune, con potere politico e giudiziario, era il podestà inviato regolarmente da Venezia, che si occupava di: convocare il Consiglio e presiederne le assemblee, amministrare la giustizia in tutti i casi civili e criminali più rilevanti, nei quali, coadiuvato dai due giudici,9 effettuava la ricognizione dei reati, istituiva gli eventuali processi ed infine pronunciava le relative sentenze. Nel XVIII secolo il podestà si trovava peró in una posizione difficile di fronte al grande potere del Consiglio cittadino. I patrizi mandati ad Albona, appartene-vano principalmente a quella nobiltà impoverita, che vedeva nelle cariche pubbliche una dignitosa forma di sostentamento,10 erano quindi figure per natura inclini al com-promesso. La carica durava di norma trentadue mesi. Il podestà doveva basare le sue decisioni sulle Commissioni11 ricevute a Venezia e sugli Statuti locali. Il rappresen- 9 I due giudici venivano eletti dal Consiglio comunale tra i notabili della citta, si trattava esclusivamente di nobili, di solito in carica per un anno. 10 Sui problemi del patriziato povero nel Settecento vedi il saggio di L. Megna (Megna, 1985, 253-300). 11 Le Commissioni contenevano le norme cui il podesta doveva attenersi durante la sua reggenza, lo spiri-to che le permeava era prettamente istituzionale; queste invitavano i rettori a valutare a fondo ogni ris-volto politico delle loro azioni, sollecitavano i podesta a ricorrere all'arbitrio tutte le volte che una deci-sione avrebbe potuto interferire con gl'interessi della Dominante, sempre pero in modo duttile e pragmatico. Di norma erano redatte secondo formule standard, che si ripetevano in ogni angolo del domi- 940 ACTA HISTRIAE • 18 • 2010 • 4 Lia DE LUCA: GIURISDIZIONE, CULTURA E CONFLITTI AD ALBONA INTORNO ..., 937-960 tante veneziano, con la sua piccola corte al seguito, »se era il primo volto dello Stato, era anche e comunque una goccia nel mare istriano: in nove casi su dieci per semplici motivi d'interesse economico doveva per forza adeguarsi a quelle che erano le regole informali della comunitá« (Ivetic, 1999, 60). Quando amministrava la giustizia civile e penale era obbligato a consultarsi con i giudici locali, anche se non era poi tenuto a seguire i loro consigli. I soprusi e le collusioni dei podestá istriani con i potenti del luogo non erano una novitá del Settecento, infatti, giá nel 1636 la Serenissima aveva ingiunto al podestá e capitano di Capodistria, la carica piu importante della penisola, di recarsi in visita per la provincia, coll'incarico di esaminare il comportamento dei podestá locali, almeno una volta durante i sedici mesi del suo mandato (Viggiano, 1994). Queste figure, forse spesso piu per bisogno che per carenza morale, alimentarono il mito del »podestá lovo«, della sanguisuga venuta da Venezia per spremere la gente istriana. Il popolo salutava il nuovo rettore col grido »Evviva il podestá novo, ch'el vecio gera un lovo« (Benussi, 1997, 362). I signori locali monopolizzavano le canche cittadine e con esse il potere all'interno del municipio, al rettore spesso non restava che adeguarsi. I popolani d'altronde sapevano, che se avessero risposto uniti alle angherie piu gravi, senza mettere mai in dubbio la supremazia di Venezia, una volta calato il polverone del processo, le pene si sarebbero rivelate ben poca cosa.12 A quel tempo le risorse degli albonesi si limitavano a prodotti agricoli, quali grano e vino, anche se sempre in scarsa quantitá, all'allevamento di ovini e bovini da latte e alla lavorazione dei formaggi; un'entrata extra era garantita dalla pesca del tonno, degli sgombri e delle sardelle, sempre abbondanti lungo la costa. Alla comunitá appartene-vano alcune peschiere concesse in affitto, che producevano una rendita discreta. La selvaggina era abbondante, ma il territorio impervio rendeva difficile la caccia. Durante tutto il Quattrocento e nel primo Cinquecento, furono edificate varie chiese e nu-merosi edifici religiosi nel territorio d'Albona, ma l'opera di maggior rilievo fu sicu-ramente la ricostruzione del Duomo, avvenuta intorno al 1450. Al Consiglio cittadino fu concesso di nominare un collegio di dieci notai. Nel 1539 fu fondato il Fondaco della cittá, che doveva fungere da deposito di grano e farine per i tempi di carestia. La scuola pubblica, finanziata dal comune, e le scuole religiose diffusero e rinforzarono la lingua e la cultura italiana nel territorio, perché v'insegnarono anche professori ed ora-tori di fama.13 Anche ad Albona l'ordinamento comunale scivolo presto verso l'oligar- nio. Le Commissioni dei centri istriani contenevano anche le norme da seguire per il commercio maritti-mo, rígidamente sotto il controllo della Serenissima (Cozzi, 1986, 214-215; vedi anche Benussi, 1887). 12 Il processo ad Albona nel 1757 conferma la correttezza di questo sentimento popolare. 13 Nel 1496, nella scuola pubblica di Albona, insegnava Bartolomeo, figlio di Giovanni Brisenzi, pro-fessore di grammatica; nel 1566 era affidata al maestro Lorenzo Otia, predicatore ed organista; nel 1567 la comunità assicurava a Francesco Cipriano Zubanich da Cherso uno stipendio annuo di 50 ducati, che diventarono 60 pur d'impedire al maestro di lasciare la città; nel 1569 Domenico Antonio de Petris fu maestro ed organista con uno stipendio annuo di 69 ducati; il suo successore padre Benedetto Neruccio da Fiume nel 1574 fu assunto con uno stipendio di 90 ducati annui (Cella, 1964, 79). 941 ACTA HISTRIAE • 18 • 2010 • 4 Lia DE LUCA: GIURISDIZIONE, CULTURA E CONFLITTI AD ALBONA INTORNO ..., 937-960 chia, concentrando nelle mani delle famiglie che sedevano in Consiglio comunale tutti i poteri. I popolani, benché esclusi dalle decisioni, potevano far sentire il loro peso attraverso dei rappresentanti, i quali erano in grado d'influire sulla vita comunale solo se avevano alle spalle una popolazione molto compatta.14 Nel 1632 per mettere fine alle continue risse, che nascevano nei giorni di festa tra i villici, il Senato invió in città il Nobil Uomo Antonio Civran, a quel tempo Provveditore Generale in Dalmazia ed Albania, con il compito di stabilire delle regole per »il buon governo de' sudditi territorial«. Il 2 settembre 1632 il Civran decretó, con una terminazione ufficiale, la sud-divisione del territorio in dodici comuni, detti zuppanie.15 Ogni zuppania doveva eleg-gere un rappresentante, un capo, chiamato zuppano o meriga, il quale agiva nell'in-teresse del suo territorio di competenza. Agli zuppani venivano indirizzati i mandati ed altri ordini pubblici. Lo stesso decreto prevedeva anche che i dodici zuppani si riunis-sero ogni anno in una chiesa fuori le mura il 25 aprile, giorno della festa di San Marco, per eleggere quattro procuratori16 che avrebbero rappresentato la comunità per un anno. Dalla terminazione in poi furono previste gravi pene per i contadini, che si fossero presentati numerosi dinanzi ai pubblici rappresentanti.17 Sempre il Civran, con la Terminazione del 1632, suddivise la cura delle anime del territorio albonese in quattro parrocchie filiali: la chiesa della Santissima Trinità di Dubrova detta comunemente di Santa Domenica, quella di San Lorenzo in Produbay, quella di San Martino in Vetua e quella di Santa Lucia di Schitazza. Il pievano e i canonici d'Albona si occupavano di inviarvi i parroci curati. Col passare degli anni peró, a causa dello scarso interesse del clero albonese, i contadini iniziarono a nominare da sé il proprio curato. In caso di posto vacante si riunivano in San Sergio, eleggevano una persona a loro gradita e poi chiedevano la dovuta conferma all'ordinario di Pola. Dall'arcidiaconato dipendevano anche le numerose confraternite presenti sia ad Albona che a Fianona.18 La maggior parte degli abitanti del comune, ma spesso anche dei contadini, faceva parte di una o più congregazioni; queste avevano il compito di sostenere gli iscritti nei momenti di bisogno ed organizzavano gran parte della vita sociale della città. 14 Sui rapporti tra nobiltà e popolo vedi Ventura, 1964. 15 La campagna di Albona era suddivisa in dodici ville o zuppanie: Cagne (scritta a volte Cugn a volte Cagn), Cere, Dubrocca, Montagna, Poglie, Portolongo, Produbay, Ripenda, Rogozzana, Santa Dome-nica, Schitazza e Vetua. 16 Uno per Pieve, il territorio delle Pievi corrispondeva a quello delle parrocchie create dallo stesso Civran nel 1632. 17 Proprio l'arresto di due zuppani il 25 aprile 1757, in seguito a tumulti per l'elezione dei quattro nuovi procuratori, diede il via al processo per insurrezione che ho analizzato per la stesura della mia tesi. Tra le carte del processo ho rinvenuto anche copia della Terminazione Civran del 2 settembre 1632. 18 Le Confraternite presenti in Albona erano quelle: della Madonna della Consolazione, di Sant'Antonio da Padova, del Santissimo Sacramento, della Madonna del Rosario, di San Giovanni, di Sant'Andrea, del Santissimo di San Martino, di San Marco di San Martino e del Santissimo di Produbas/Produbay. Quelle di Fianona invece erano quelle: di Santa Barbara, di San Giovanni Battista, di Santo Stefano, della Madonna e di San Giorgio (Cella, 1964, 117; Cigui, Visentin, 2001). 942 ACTA HISTRIAE • 18 • 2010 • 4 Lia DE LUCA: GIURISDIZIONE, CULTURA E CONFLITTI AD ALBONA INTORNO ..., 937-960 Nel Settecento Albona era un piccolo comune istriano della provincia veneta, ma la sua vita civile sembrava essere molto attiva e ben organizzata. La Legge Civran era ancora il punto di riferimento fondamentale per l'organizzazione amministrativa del comune. Il territorio soggetto alla città era suddiviso in quattro pievi, a loro volta ripartite in dodici ville o zuppanie. Ogni villa continuava ad eleggere il suo rap-presentante, lo zuppano, questo si avvaleva dell'aiuto di uno o più pozuppi, a seconda dell'estensione territoriale della stessa. I docici zuppani il 25 aprile, si riunivano in una chiesa subito fuori le mura cittadine (da tempo la scelta era caduta sulla chiesa di San Sergio) per eleggere quattro procuratori, uno per pieve. I procuratori rappre-sentavano per un anno gli interessi delle ville presso la comunità cittadina. Un sistema forse non efficientissimo, ma che garantiva a tutti un minimo di rappresentanza, giacché, se si considera l'esiguo numero di abitanti di ogni villa,19 questi dovevano per forza conoscersi tutti tra loro. Il grado di autonomia di ogni zuppania dipendeva dalla distanza dal comune di riferimento e dalla consistenza numerica della stessa. In Istria esistevano anche alcune comunità di contadini completamente indipendenti, soggette direttamente al Capitano e Podestà di Capodistria, come tutta la provincia, o al Capitano di Raspo,20 ma non nell'agro albonese. Come emerso dalle ricerche di Furio Bianco, la comunità di villaggio costituiva la struttura fondamentale della società contadina (Bianco, 1990, 16). Teoricamente i capi famiglia del villaggio si riunivano per scegliere il loro portavoce, in realtà i membri delle famiglie più influenti a livello micro locale occupavano a rotazione il ruolo di zuppano, con-trollando cosi gli affari della piccola comunità. Difficilmente uno zuppano restava in carica per più anni consecutivi, c'era sempre una certa rotazione, anche se magari solo di facciata. Lo zuppano, con l'autorizzazione del podestà, poteva imporre tasse, organizzare raduni e dare ordini (Ivetic, 2000); quando disponeva del mandato del podestà, la sua autorità non veniva messa in discussione. Ogni circoscrizione aveva la sua storia e il suo differente assetto sociale. Le ville che si affacciavano sul mare, come Porto Albona e Portolongo, erano abitate principalmente da pescatori e piccoli mercanti; il commercio marittimo, che era la principale risorsa del comune, permetteva di integrare le scarse rendite agricole. L'agricoltura era diffusa ovunque fosse possibile coltivare, ma il terreno carsico a macchia mediterranea non dava raccolti abbondanti. Un'idea delle difficoltà affron-tate dai contadini, non solo albonesi, emerge chiaramente dal detto popolare »chi getta via le briciole del pane, dopo morto, dovrà raccoglierle tutte«, sintomo della parsimonia con cui bisognava affrontare la vita (Gorlato, 1956, 16). I villici albonesi, per integrare le rendite agricole, si dedicavano anche alla pastorizia e alla colti- 19 Tutto l'albonese nel 1766 contava 4.643 abitanti (Ivetic, 2000, 399). 20 Al Capitanato di Raspo competevano principalmente la difesa della provincia e la giurisdizione sui nuovi immigrati. 943 ACTA HISTRIAE • 18 • 2010 • 4 Lia DE LUCA: GIURISDIZIONE, CULTURA E CONFLITTI AD ALBONA INTORNO ..., 937-960 vazione dell'ulivo e del vino. Ogni contadino produceva più prodotti, che poi ven-deva al mercato locale o ai mercanti provenienti da fuori.21 I contadini albonesi, come la maggior parte della popolazione istriana, non dovevano essere immuni dalla pratica del contrabbando.22 L'inesorabile tramonto della Dominante23 aveva lasciato il posto a nuovi mercati in ascesa. Da sempre la provincia istriana aveva subito l'attrazione del mercato austriaco, basti pensare che la moneta più diffusa tra il popolo era il fiorino di Vienna, non il ducato veneziano. Trieste e Fiume - oggi Rijeka - attiravano molti prodotti istriani ed il contrabbando facilitava l'esportazione. Bande organizzate gestivano i grossi traffici, ma anche i singoli contadini si adattavano come meglio potevano, trafugando olio, vino o pesce salato. Albona con il suo contado, a metà Settecento, subiva soprattutto l'influenza di Fiume e del suo porto in espansione. Stava anche prendendo lentamente piede un servizio navale per il trasporto delle persone tra le due coste, un traghetto che avvicinava ancora di più le due città. 21 »In tutte le zone marittime prive di particolari risorse accade che nei vari periodi dell'anno il me-desimo lavoratore pratichi due o tre attività diverse, tale tendenza trova il suo più completo sviluppo lungo tutta la fascia costiera dello Stato veneto: pesca in alto mare o in valle, agricoltura, piccolo cabotaggio e, dove si puo, lavoro nelle saline e contrabbando. Le variazioni stagionali, la sterilità della terra e la scarsa resistenza che gli oliveti, massimo prodotto dei littorali, possono opporre al gelo, fanno si che ben difficilmente una sola di queste attività basti ad assicurare il sostentamento d'un nucleo familiare.« (Berengo, 1956, 67). 22 Il contrabbando era punito con il sequestro sia del carico sia del naviglio, mentre il contrabbandiere rischiava da due a quattro anni di carcere più il bando. Evidentemente gli istriani non ritenevano particolarmente severe queste norme e i controlli potevano essere facilmente aggirati, perché il contrabbando fu sempre diffusissimo in tutta la provincia. Anzi, la popolazione istriana sembrava non percepire nemmeno come reato il commercio illecito, esso era visto come un modo di migliorare la propria vita, aggiungendo qualche soldo alle misere entrate agricole. In effetti, la stessa geografia istriana favoriva il contrabbando, le coste frastagliate e la fitta boscaglia erano difficili da controllare per le misere forza messe in campo dalla Serenissima (una nave sotto il podestà di Capodistria e spadaccini al soldo di privati, facilmente corruttibili o inclini alla violenza). Gli unici commerci severamente monitorati, non sempre con successo, erano il lucroso monopolio del sale e più tardi quello del tabacco, per il resto, tra podestà compiacenti ed omertà locale, si lasciava correre parecchio. (Sul contrabbando Ivetic, 2000, 214-222; Bianco, 1990 e 1994). Una disputa per un carico di vino, che nel 1765 coinvolse il podestà e capitano di Capodistria e due procuratori del contado albonese, dimostra che anche ad Albona era diffusa la tendenza ad eludere le regole, comune a tutta la società contadina istriana (ASV. CCD, Raspe dei Rettori, busta (b.) 12). 23 Mentre in tutta Europa fervevano i cambiamenti amministrativi, Venezia mantenne inalterato il suo sistema, l'Istria rimase divisa in 4 Città, 10 Terre, 11 Castelli e 145 Ville. Si conservarono i feudi dislocati sul territorio. Non cambio neanche il regime tributario. Venezia, paralizzata internamente, non apporto alcuna modifica al sistema amministrativo, anche se non mancarono le proposte. L'Istria fu lasciata sguarnita dal punto di vista militare, ma la vita civile continuo nella solita efficienza. I rettori gestivano la vita locale, scendendo a patti con i signori del posto, mentre il podestà e capitano di Capodistria supervisionava il loro operato. 944 ACTA HISTRIAE • 18 • 2010 • 4 Lia DE LUCA: GIURISDIZIONE, CULTURA E CONFLITTI AD ALBONA INTORNO ..., 937-960 Albona, come tutti i comuni, forniva l'artigianato, quei beni che il singolo non poteva auto produrre e momenti di svago. Sempre più spesso accanto agli oggetti di produzione locale nelle case dei pescatori e dei mercanti, ma anche in quelle dei contadini più agiati, si trovavano vari oggetti provenienti da ambienti non istriani, come le pentole del Friuli o i boccali della Romagna, acquistati alle fiere o nelle botteghe cittadine (Starec, 1996, 30). In città e in campagna il maggior collante sociale erano le confraternite laiche, le scuole, esse fornivano assistenza sia economica che spirituale. Di norma queste as-sociazioni non si basavano sul ceto sociale, ma sui beni materiali, era quindi possibile che un signore del consiglio facesse parte della stessa confraternita di un contadino arricchito o di un mercante facoltoso, erano un luogo d'incontro privilegiato. Ad Albona vi erano grosse scuole che agivano come vere e proprie banche. Ad esempio la Scuola della Beata Vergine della Consolazione era una vera istituzione creditizia le cui entrate annue, verso fine Settecento, si aggiravano intorno alle 3.500 lire, in parte derivate da livelli; la confraternita poteva tranquillamente competere in quanto a liquidità con il comune o con il Fondaco. Una scuola più piccola, ma comunque dalle entrate consistenti era quella di Santo Stefano.24 Spesso queste confraternite presta-vano ai soci denaro con il sistema del livello, un contadino talvolta preferiva im-pegnare i propri beni con una scuola, piuttosto che con un privato, in modo da garantirsene, in caso di rovesci finanziari, almeno l'usufrutto come socio. Il livello francabile fu il vero protagonista del settecento istriano.25 Espressione di un densis-simo sostrato di piccoli proprietari terrien era conseguenza e contemporaneamente causa dell'estrema parcellizzazione della campagna istriana. Molti contadini per superare periodi di carestia, fecero ricorso a prestiti in denaro da parte dei signori locali aprendo dei livelli sui loro terreni. Il processo per insurrezione, che è alla base delle analisi proposte nella mia tesi, ci offre un interessantissimo punto di vista sulla struttura sociale albonese, uno spaccato della società contadina istriana di metà Settecento e dei rapporti che lega-vano il contado al suo comune di riferimento. La sera del 26 aprile 1757, il podestà di 24 I libri di cassa di entrambe le scuole sono conservati al Državni Arhiv Pazin (Ivetic, 2000, 395). 25 Molto spesso nel settecento il livello assumeva, infatti, l'aspetto di un recupero, in più rate, di una proprietà in precedenza ceduta per coprire dei debiti, oppure per attingere a liquidi da investire su altri fondi. I contratti duravano cinque anni, allo scadere dei quali i signori richiedevano indietro l'intera somma investita, sulla quale gravavano pero cospicui interessi. Se i contadini non riuscivano a tenere fede all'impegno e restituire il denaro, erano costretti a cedere definitivamente la proprietà al signore, riducendosi quindi in miseria, o ad aprire un nuovo livello. Il contadino poteva impegnare campi o case, ma in caso di necessità anche singole vigne e piante di ulivo. Era una spirale di debiti da cui era difficile uscire; raramente il livellario arrivava ad affrancare il proprio podere, molto più di frequente, una stagione agricola infruttuosa o una gelata improvvisa, facevano si che il contadino fosse costretto ad abbandonare le sue terre. Chi concedeva una somma a livello francabile di norma era o un notabile/signore o un popolano arricchito, ma anche alcune confraternite laiche concedevano prestiti sotto forma di livello ai propri soci (Benedetto, 1957; Corazzol, 1979; Ivetic, 2000; Povolo, 1987). 945 ACTA HISTRIAE • 18 • 2010 • 4 Lia DE LUCA: GIURISDIZIONE, CULTURA E CONFLITTI AD ALBONA INTORNO ..., 937-960 Albona Zuanne Bragadin, chiuso nel suo studio, scrisse una lettera urgente indiriz-zata direttamente al Consiglio dei dieci,26 nella quale denunciava terribili tumulti tra la popolazione della sua città. Il podestà, ben cosciente di risvegliare cosi l'interesse dei consiglieri, descrisse con enfasi gli avvenimenti di quei giorni. La mattina del 25 aprile, come previsto dalla Terminazione Civran, gli zuppani si erano riuniti nella chiesa di San Sergio, nel borgo ai piedi delle mura di Albona, per eleggere i loro procuratori. In occasione di questo raduno il Bragadin accusó apertamente gli zuppani d'insubordinazione, anzi aggiunse addirittura, che avevano contestato il doge e la supremazia veneziana, rifiutandosi di cambiare i quattro vecchi procuratori ed infrangendo cosi la legge.27 Il podestà rimase sconvolto da tanta insolenza e decise di punire una cosi irrispettosa affermazione facendo arrestare i due »capi della rea facione«, Vicenzo Feraguna ed Iseppo Micuglian. Congedó invece gli altri nove zuppani. Costoro peró, la notte tra il 25 ed il 26 aprile, fecero circolare per le ville la notizia dell'arresto ed intimarono ai contadini, sotto la minaccia di una pena di venti-cinque lire, di radunarsi in piazza ad Albona la mattina seguente. Cosi il ventisei aprile, all'apertura delle porte della città, moltissimi contadini affollavano la piazza; più di duecento villici si riunirono per chiedere la liberazione dei due zuppani incarcerati. Il podestà, per mancanza di uomini e per »non cimentare maggiormente il pubblico decoro«, prese la decisione di scarcerare i due. Il rilascio placó il tumulto e i contadini cominciarono a defluire lentamente dalla piazza. Contemporaneamente alla lettera del Bragadin, il Consiglio dei dieci ricevette anche una supplica dell' Università del popolo28 di Albona nella quale i procuratori e gli zuppani, in rappresentanza dell'intera comunità, spiegavano le ragioni del loro comportamento all'Eccellentissimo Principe e agli illustri consiglieri. La popolazione era ridotta alla fame a causa degli esorbitanti interessi che i creditori richiedevano, in natura, sul denaro concesso ai contadini in forma di livello.29 I dodici zuppani, capi delle ville, e i quattro procuratori del popolo avevano presentato, in nome dei poveri 26 Il Consiglio dei dieci era la più influente magistratura veneziana (alcune indicazioni alla nota 33). La bibliografía sull'argomento è molto vasta, vedi in particolare Cozzi, 1982, 147-148; Cozzi, Knapton, 1986, 110-113; 1992, 175-179. Sul più ampio contesto dell'amministrazione della giustizia penale nella Serenissima si veda Povolo, 2006; Povolo, Chiodi, 2004. 27 Dalla lettera al Consiglio dei Dieci del podestà Bragadin: »[gli zuppani] tumultuariamente si solevarono tutti e con detestabile sprezzo, e con voci confuse ed altisonanti, in scandalosa pro-fanazione del Sacro Tempio, proruppero in terribili schiamazzi, dichiarando voler, in onta alle premesse fattegli [la legge Civran imponeva il rinnovo dei procuratori], confermar e stabilire perpetuamente i Procuratori vecchj, che sono appunto li sediziosi fomentatori della strana novità... scordatisi d'esser sudditi, s'innoltrarono con temerario orgoglio ad esprimersi, ch'essi il ius hanno d'eleggere i Procuratori, e che il Principe non ha in ció alcun diritto di comandarli« (ASV. CX, Processi criminali delegati a Capodistria, b. 6, cc. 1-3). 28 L'Università del popolo nel contesto contadino era l'insieme dei capifamiglia del luogo, che riuniti in un unico corpo, poteva contrattare anche duramente alcune istanze con i vertici del comune. 29 Per informazioni sui livelli vedi nota 25. 946 ACTA HISTRIAE • 18 • 2010 • 4 Lia DE LUCA: GIURISDIZIONE, CULTURA E CONFLITTI AD ALBONA INTORNO ..., 937-960 contadini, un ricorso per ottenere giustizia. La materia era finalmente arrivata di fronte al Consiglio di Quaranta30 e »non attendeva, che la sua definizione a conso-lazione degl'oppressi«. Avvicinandosi il 25 aprile, giorno dell'elezione annuale dei procuratori, come di consueto i dodici zuppani si erano recati dal podestà Bragadin per chiedere il permesso di riunirsi per nominare i quattro procuratori. Questi gli accordé il permesso a condizione peró che non fossero riconfermati quelli vecchi. Gli zuppani gli risposero sommessamente che era »cosa molto insolita praticarsi« e anzi, che avevano assoluto bisogno di mantenere i procuratori già in carica, perché informati della causa in corso per la quale erano già stati fatti molti viaggi a Venezia e spesi molti soldi. Il podestà fu irremovibile nel suo divieto: essi potevano riunirsi, ma solo a condizione di eleggere nuovi procuratori. Proibi la creazione di nuove tasse per sovvenzionare la causa. Minacció anche di farli arrestare se avessero disobbedito. Per non abbandonare la causa comune alcuni contadini si autotassarono. Il podestà intese la cosa come una provocazione ed accusó i procuratori »come violatori delle Leggi e sedduttori del popolo«. Decisero cosi, zuppani e procuratori, di recarsi a Capodistria per eludere il podestà locale ed ottenere le licenze necessarie »il che accordato, portarono a Sua Eccellenza Podestà di Albona il Decreto e le Requisitoriali, ma sua Eccellenza rispose, che eseguirà e rescriverà, quando piacerà a lui e che, se insisteranno, li farà marcire in una prigione, ed in fatto cosi fu, perché mai permise cosa alcuna, e ció per divertire la prosecuzione della Causa favoriado [favorendo] le premure dei Signori et opulenti.«31 La mattina del giorno della festa di San Marco, il 25 aprile, il podestà Bragadin mandó a chiamare i dodici zuppani e minacció di farli arrestare, li trattenne in città e solo verso sera li congedó a quattro per volta finché, restati Vicenzo Feraguna e Iseppo Micuglian, li fece portare in prigione dove passarono la notte. La notizia dell'arresto raggiunse tutto il popolo, che la mattina seguente si radunó in città per chiedere »umilmente«, per voce del Procuratore Belusich,32 la liberazione dei due prigionieri e il permesso di ultimare la causa per »non restar avviliti a fronte de potenti Signori con queste strane procedure.« Dopo molte preghiere il podestà, a 30 II Consiglio di Quaranta, o Quarantia, dotato agli inizi di grande autorita e prestigio si evolse fino ad occupare mansioni prettamente giudiziarie. Suddiviso in Quarantia criminal e Quarantia civil - a sua volta ripartita in civil nova e civil vecchia - si occupava delle cause penali e civili giudicate in prima istanza nei tribunali di tutto lo stato. Atti e sentenze vi giungevano in appello grazie all' intromissione condotta dall'Avogaria di comun e dagli Auditori (Povolo, 2003, 646). 31 Dalla supplica dell'Universita del popolo di Albona (ASV. CX, Processi criminali delegati a Capodistria, b. 6, c. 5). 32 Dagli interrogatori del processo emersero descrizioni contrastanti del comportamento tenuto quella mattina dal procuratore Belusich. Alcuni lo descrissero come un temerario fomentatore di popolo, altri come uomo mansueto disposto a supplicare la liberta per i due zuppani. Probabilmente era entrambe le cose, capo dei rivoltosi e accondiscendente con l'autorita pubblica. 947 ACTA HISTRIAE • 18 • 2010 • 4 Lia DE LUCA: GIURISDIZIONE, CULTURA E CONFLITTI AD ALBONA INTORNO ..., 937-960 voce, accordo la liberazione dei prigionieri e la conferma dei procuratori in carica sino al termine della causa. Aggiunse pero, la minaccia di far tremare zuppani e procuratori, oltre all'avvocato difensore della comunita. Ricevute e ponderate le missive, il Consiglio dei Dieci decise di approfondire, istitui allo scopo un processo con il Rito,33 che fu delegato al capitano e podesta di Capodistria Lorenzo Paruta, cui fu ordinato di recarsi rapidamente ad Albona per svolgere un indagine. Questa e una veloce sintesi dei fatti sui quali fu chiamato ad indagare il Paruta, il quale prese molto sul serio il suo compito, riempiendo 268 pagine di deposizioni calzanti e puntigliose (suddivise in tre tomi conservati presso l'Archivio di Stato di Venezia). Il quadro che emerge dalle numerose testimonianze mi ha permesso di delineare la rete di rapporti sociali, che legava gli abitanti di Albona e contado negli anni cinquanta del Settecento. 33 Nel Settecento il Consiglio dei Dieci era considerato l'autorità principale della giustizia penale veneta. Nel processo di Albona il podestà e capitano di Capodistria, Lorenzo Paruta, fu incaricato dal Consiglio stesso di portare avanti il processo. Oltre a delegare il caso, il Consiglio stabiliva anche con quale procedura si sarebbero svolte le indagini. Poteva consentire al processo di seguire la normale prassi locale, introdurre la procedura servatis servandis, che si distingueva dall'ordinaria solo per la possibilità di applicare pene più severe, oppure poteva decidere di concedere l'applicazione del Rito, la forma processuale che lo stesso Consiglio utilizzava nei processi a sé avocati. Il processo con il Rito segreto del Consiglio dei dieci era un tipo di procedimento giudiziario di matrice inquisitoria. Colui che dirigeva il processo svolgeva personalmente gli interrogatori in un clima di totale segretezza. L'imputato, ufficialmente, non poteva avvalersi dell'aiuto di un avvocato, era tenuto a difendersi autonomamente, non conosceva i nomi dei suoi accusatori e non disponeva di una copia del processo con cui aiutare la propria memoria. L'imputato poteva citare dei testimoni a suo favore ed introdurre carte pubbliche a sua discolpa, ma nessun documento privato era ammesso nel procedimento. Il processo veniva redatto dal cancelliere di fiducia del podestà. Tutti i testimoni erano tenuti a mantenere la segretezza, ma solo i testi ritenuti attendibili dovevano giurare de veritate, ossia di aver deposto il vero. I testimoni e gli accusatori non dovevano conoscersi tra loro, era assolutamente escluso il confronto. Il rettore incaricato di condurre il processo aveva l'obbligo di aggiornare co-stantemente il Consiglio sull'evoluzione dello stesso. La sentenza era emanata, solo dopo aver ottenuto l'approvazione, con l'autorità del Consiglio. Non era possibile fare ricorso contro di essa, ma solo supplicare la grazia. La suprema magistratura veneziana si riservava il diritto di avocare a se il processo e l'imputato, anche a procedimento già iniziato. Gli incartamenti processuali, sia di Venezia che del Dominio, venivano archiviati nella cancelleria del Consiglio. La teoria e la prassi non sempre coincidevano, soprattutto nel Settecento, la stretta maglia di segretezza si allentô notevolmente. La figura dell'avvocato fece lentamente breccia nel sistema, fino a trovare sul finire del secolo, imputati che fanno apertamente riferimento all'intenzione di consultare il proprio avvocato prima di rispondere alle accuse. La corruzione esisteva anche all'epoca e cancellieri compiacenti potevano integrare il pro-prio salario, fornendo, a chi aveva abbastanza soldi per pagare, copia delle accuse. Sulla magistratura veneziana del Consiglio dei dieci la bibliografia odierna è molto ampia, alla figura dell'avvocato e dell'imputato è dedicato in particolare il saggio Autodifesa o difesa? Imputati e avvocati davanti al Consiglio dei Dieci, in Cozzi, 2000. 948 ACTA HISTRIAE • 18 • 2010 • 4 Lia DE LUCA: GIURISDIZIONE, CULTURA E CONFLITTI AD ALBONA INTORNO ..937-960 La comunità messa in luce dal processo era spaccata in due, ma non parlerei di una netta divisione in città, ricca e fonte di privilegi, contro campagna, povera e oppressa. Sicuramente i signori di Albona, membri del Consiglio cittadino, tramavano per ottenere ottimi guadagni dai livelli, ma non erano i soli. Più volte i contadini avevano deposto che la causa, in corso in Quarantia a Venezia per la riduzione dei tassi d'interesse sui livelli, era contro i signori e »altri opulenti«. Il Consiglio cittadino, ormai cristallizzato da decenni, non comprendeva più tutte le famiglie abbienti di Albona; probabilmente i consiglieri riuscivano a mantenere un rigoroso controllo sulla politica del comune, ma negli affari economici subivano la con-correnza dei nuovi ricchi sia di città che di campagna. A mio avviso la comunità era divisa tra chi prestava denaro e chi era costretto ad indebitarsi, non importava se si trattasse di gente di città o di campagna. La contrapposizione città-campagna reggeva da un punto di vista culturale, nel senso che i contadini arricchiti, agli occhi dei loro compaesani diventavano subito altro, benestanti, non più vicini di casa ma Signori.34 L'Università del popolo di Albona chiedeva inoltre che i debiti potessero essere saldati in denaro e non più in frumento. Per chi prestava denaro, era conveniente richiedere pagamenti in natura, giacché non né adeguava il valore agli effettivi prezzi di mercato e se i livellari non riuscivano a far fronte al loro debito, il creditore o concedeva un nuovo prestito o diventava il proprietario del bene soggetto al livello. Non era un prestito rischioso, perché i signori ci guadagnavano in ogni caso. L'immagine che si distingue tra le carte del processo è quella di una collettività divisa in due con: da una parte gli abbienti che tenevano ben salde le redini dell'economia cittadina, con la connivenza del podestà locale,35 e dall'altra i contadini »normali«, che vedevano sgretolarsi le loro risorse a causa della forte crescita demografica. Il podere che aveva sostenuto il padre, non era sufficiente a garantire la sopravvivenza di due figli con le rispettive famiglie. I villici si trovavano cosi costretti a ricorrere ai prestiti. Oppure in un caso diverso, ma che portava comunque alla stessa situazione, un contadino poteva essersi arrischiato, in seguito ad alcuni raccolti andati bene, a compiere degli investimenti in proprietà o per migliorare i suoi campi, delle stagioni negative gli impedivano poi di saldare il debito contratto.36 34 É probabile che dei signori assumessero anche gli atteggiamenti, il modo di vestire e di parlare. Da sempre un individuo quando sale di un gradino sociale tende ad imitare il modo di porsi del nuovo ceto di riferimento, anche gli arrichiti di Albona si saranno adeguati a questa tendenza. D'altra parte la citta, per quanto piccola, offriva maggiori opportunita e garantiva, grazie alle sue mura, un livello superiore di sicurezza personale. 35 Il podesta di Albona, Zuanne Bragadin, e un chiaro esempio di rettore eccessivamente coinvolto negli affari economici locali. 36 Ivetic nei suoi saggi sull'economia istriana sottolinea ripetutamente come ad un periodo di crescita fossero seguiti da meta Settecento in poi alcuni decenni di recessione (Ivetic, 1999; 2000). 949 ACTA HISTRIAE • 18 • 2010 • 4 Lia DE LUCA: GIURISDIZIONE, CULTURA E CONFLITTI AD ALBONA INTORNO ..937-960 L' Universita del popolo di Albona,37 l'espressione di un centinaio di capifamiglia riuniti in un unico corpo pronto a contrattare anche duramente alcune istanze con i vertici del comune, decise di supplicare il Pien Collegio perché calmierasse gli in-teressi in modo da limitare i soprusi e l'arbitrio dei signori. Per farlo ricorsero all'aiuto di un avvocato preparato sull'argomento.38 I contadini albonesi si mossero molto bene tra le magistrature veneziane ottenendo l'attenzione delle piu alte canche dello Stato, questo voleva dire grosse spese e buone conoscenze. Il tono dello scritto ovviamente si addice ad una supplica, la situazione e descritta come disperata, se il Principe non interverrá i contadini moriranno di fame, o peggio, si daranno alla macchia. Inviare una supplica a Venezia aveva pero dei costi notevoli, per non parlare della causa che ne segui - che tuttavia fu avviata dai signori - i villici dovevano pur disporre di qualche risorsa, forse il benestante (ma non membro del Consiglio cittadino) Mattio Clapsich, accusato nel processo di aver fomentato l'insurrezione, forniva sostanziali appoggi nella Dominante e sostanziosi contributi economici ai villici, questo spiegherebbe l'accanimento per farlo incriminare.39 La popolazione di cittá resto sostanzialmente estranea alla causa e ai trambusti che ne seguirono. Era vero che, per evitare che si trovasse un aggiustamento dopo la supplica dell' Universita del popolo, la comunitá di Albona aveva deciso di fare causa, ma dalle deposizioni si capisce chiaramente - molti testi lo dicono senza giri di parole - che la comunitá aveva prestato solo il nome ai veri fautori del pro-cedimento, cioe i signori e gli opulenti. Riassumendo la deposizione del giudice 37 II contado albonese si presentó compatto al cospetto della giustizia veneziana, in processo non emersero screzi di matrice etnica. 38 L'avvocato Zammaria Spizza faceva parte della »media borghesia« di Albona, ma si schieró con i villici e li aiutó a destreggiarsi tra le magistrature veneziane. Scrisse la supplica consegnata in nome dell'Universita del popolo al Pien Collegio e per giustificarla ricorse all'espediente dell'abbandono della terra e ricordó per i consiglieri anche gli interventi presi, negli anni cinquanta del Cinquecento, dalla Serenissima in favore dei contadini della Terraferma veneta. Il podesta credeva che ci fosse lui dietro alle manovre dei contadini e non esitó a punirlo con il bando. Probabilmente aveva ragione. L'avvocato era una figura ambigua, nell'Antico Regime come oggi, da un lato lo si voleva paladino dei deboli, una sorta di pre-giudice che avrebbe dovuto difendere esclusivamente gli innocenti, dall'altra divenne il capro espiatorio di tutti i mali della giustizia, sua era (e?) la colpa se i processi andavano avanti all'infinito, lui con i suoi artifizi imbrogliava il giudice rendendo il colpevole innocente. Per una storia dell'avvocatura vedi La Torre, 2002, in particolare il secondo capitolo; Alpa, Dano vi, 2003; Bellabarba, 1994. 39 Il benestante Mattio Clapsich, probabilmente malvisto in citta, fu uno dei pochi contadini non zuppani contro cui la giustizia prese dei provvedimenti al termine del processo. Fu l'uomo di fiducia del podesta Bragadin, Zuanne Dragogna, a coinvolgere il Clapsich nei sommovimenti di quei giorni. Il Dragogna era un esperto degli affari della campagna, una sorta d'informatore dei Signori di citta, che tentó di mediare con i contadini radunati in piazza la mattina del 26 aprile. Il Dragogna non si limitó a coinvolgere il Clapsich, con la sua deposizione tentó di mettere in ottima luce il procuratore Lupetin a discapito del procuratore Bellussich, il motivo di tale comportamento rimase ignoto, forse il Lupetin favoriva i signori nonostante dovesse rappresentare i contadini. 950 ACTA HISTRIAE • 18 • 2010 • 4 Lia DE LUCA: GIURISDIZIONE, CULTURA E CONFLITTI AD ALBONA INTORNO ..., 937-960 Negri,40 il litigio era tra »li Signori d'Albona, col Popolo, ed anco dei Villici, che hanno dato soldo a Livello.« Prima fu all'Avogaria,41 dove i signori presentarono ricorso col nome della Comunità, per bloccare la supplica dei procuratori del popolo, che avevano implorato in Pien Collegio di ridurre i tassi d'interesse e permettere i pagamenti in denaro. Nel 1757 la causa giaceva in Quarantia, dove aspettava una risoluzione. Il litigio era fatto dalla comunità solo in apparenza. »La pendenza è tra privati creditori contro YUniversità del Popolo, che riceveva la minorazione delle corrisponsioni livellarie« era vero che »tutti gl'atti sono corsi col nome della Comunità« peró le spese erano a carico dei privati, »per detta causa dalla comunità non fu mai esborzato un soldo; ne ció sarebbe stato giusto.«42 Tutti nell'albonese sapevano, che la comunità poco aveva a che fare con la causa, erano stati i signori ad usarne il nome in tribunale per favorire i propri interessi. Gli abitanti di città, interrogati dalla giustizia, non mostrarono alcuna avversione verso i contadini; certi ammisero di aver provato un certo timore »della gran folla«,43 ma nessuno accusó apertamente qualche villico di minacce o comportamenti violenti, anzi il fabbro si compiacque per i buoni affari conclusi quel giorno ed anche i locandieri erano molto soddisfatti per aver avuto cosi tanti clienti. Nel complesso la città reagi in modo molto tranquillo all'avvenimento, forse anche molti popolani avevano contratto debiti con i signori ed erano quindi favorevoli all'azione degli zuppani. Un tema emerso dall'analisi delle carte del processo, particolarmente interessante e specifico delle zone di confine come l'Istria, è quello della lingua. La popolazione dell'albonese sia di città che di campagna, era suddivisa principalmente in due gruppi linguistici, quello veneziano e quello slavo. Di norma la città parlava istro-veneto, dialetto che aveva soppiantato lentamente l'antica lingua istro-romanza, mentre il contado, in seguito ad antichissime immigrazioni di popolazioni slave, parlava una variante del dialetto croato »ciacavo settentrionale«, che gli abitanti di Albona chiamavano illirico (Starec, 1998, 23). Durante il processo da me esaminato, molti contadini deposero alla presenza di un traduttore (sempre la stessa persona),44 questo 40 Ad Albona il Consiglio cittadino nominava annualmente due giudici che coadiuvavano il podestà nell'amministrazione della giustizia. Nel 1757 i due in carica erano Nicoló Negri e Giacomo Dragogna (non imparentato con il Zuanne Dragogna di cui ho parlato nella nota 39). 41 Gli Avogadori erano tre e la loro carica durava sedici mesi. Era una magistratura dalle competenze assai ampie, si occupava infatti sia di materie civili che criminali. Erano giudici in materia fiscale. All'Avogaria arrivavano gli appelli delle sentenze criminali di Terraferma, l'avogadore dopo attento esame, se lo riteneva giusto, portava l'appello in Quarantia. In Avogaria era conservato il Libro d'Oro con i nomi di tutti i membri del patriziato veneziano. 42 ASV. CX, Processi criminali delegati a Capodistria, b. 6, cc. 43-47. 43 La mattina del 26 aprile 1757 più di 200 contadini si riunirono nella piazza antistante il palazzo del podestà di Albona per richiedere la scarcerazione di due zuppani, detenuti con l'accusa di insub-ordinazione. 44 Le deposizioni dei contadini di madrelingua slava si tennero alla presenza di Padre Giupponi, cui spettava il compito di permettere alle due parti, testimone e inquisitore, di capirsi. Anche il religioso a 951 ACTA HISTRIAE • 18 • 2010 • 4 Lia DE LUCA: GIURISDIZIONE, CULTURA E CONFLITTI AD ALBONA INTORNO ..., 937-960 indicava come la loro conoscenza della lingua veneziana non fosse sufficiente per affrontare un interrogatorio della giustizia, ma non credo che basti per affermare che i contadini non sapessero l'istro-veneto. Probabilmente capivano qualche parola, l'es-senziale per destreggiarsi in cittá, non certo per deporre in tribunale. Dal processo si ricava che le uniche due persone completamente digiune di lingua slava ad Albona fossero il podestá, che veniva da Venezia per un periodo molto limitato, ed il cancelliere, il quale si giustifico dicendo di essere appena entrato in carica; giá il comandante era in grado di parlare entrambe le lingue, abbastanza bene da tradurre per gli zuppani. I signori del luogo non erano digiuni di lingua slava, giacché erano in grado di fare da interpreti per il podestá. Riguardo alla popolazione cittadina non ci sono riferimenti chiari, non ricorsero ad un interprete durante le loro deposizioni, ma non e possibile stabilire fino a che punto sia arrivata la fase di »ripulitura del dialetto« svolta dal cancelliere durante le trascrizioni. In ogni caso i cittadini devono pur aver »capito« i contadini in piazza quella mattina, visto che riportano di discorsi origliati e di sentito dire. Ne viene che o i villici parlavano il veneziano o i negozianti di Albona l'illirico, oppure - e io propendo per quest'ultima possibilitá - entrambi sapevano quel tanto di entrambe le lingue che bastava per intendersi.45 Il fatto che gli stessi testi non si premuniscano, nella maggior parte dei casi, d'informare la giustizia sulla lingua usata durante i discorsi, e a mio avviso una prova di come fosse naturale per la popolazione locale, almeno quella in uno strato intermedio, comunicare in entrambe le lingue, forse alternandole o forse utilizzando entrambi la propria madrelingua simultaneamente. Questa situazione mi fa pensare ad una sorta di »bilinguismo passivo«, riscontrabile ancora oggi in molte comunitá di confine: ogni individuo parla principalmente nella sua lingua madre, e pero in grado di capire la lingua dell'altro, la conversazione avviene cosi abbastanza fluentemente in due lingue diverse senza che nessuna delle due prevalga. *** La vera protagonista del processo e la testimonianza, nel senso che senza le numerose deposizioni rilasciate dagli abitanti del comune e del contado di Albona, non sarebbe stato possibile ricostruire gli avvenimenti di quei giorni. Sono i testi-moni a ricomporre, con parole loro, gli eventi per il podestá di Capodistra. Il Paruta proprio per accertare i fatti, ricorse all'interrogatorio di moltissimi testi: il cancelliere, il podestá, il comandante, alcuni nobili, i popolani ed i contadini, tutti sfilarono sua volta fu tenuto a giurare de referenda veritate, e de silentio, le sue traduzioni dovevano essere letterali ed era tenuto alla riservatezza. Non è possibile stabilire se lui poi abbia rispettato l'impegno preso. 45 »Quando in uno spazio geografico cosi ristretto funziona un repertorio linguistico cosi ricco, le influenze reciproche ed i passaggi di campo sono inevitabili.« (Milani Kruljac, 1998, 48). 952 ACTA HISTRIAE • 18 • 2010 • 4 Lia DE LUCA: GIURISDIZIONE, CULTURA E CONFLITTI AD ALBONA INTORNO ..., 937-96Q davanti alla giustizia per rendere al Paruta la loro versione degli avvenimenti. Il processo con il Rito del Consiglio dei dieci46 garantiva ai testimoni la segretezza, nessuno avrebbe saputo niente del contenuto delle loro deposizioni e non sarebbero mai stati costretti ad un confronto diretto. Questo in teoria, perché poi nella pratica, quanta segretezza si potesse realmente mantenere, in una piccola città, durante un processo che coinvolgeva gran parte della popolazione, è difficile da stabilire. È probabile che i contadini di una stessa zuppania - convocati tutti insieme lo stesso giorno! - sapessero ognuno della »chiamata« degli altri, magari percorsero anche la strada assieme, giacché alcune ville distavano vari chilometri da Albona. Di fatto le deposizioni si sorreggono a vicenda, anzi, si possono intravedere due orientamenti, quello a favore dei contadini e quello contrario. I Signori, anche se non tutti più che altro i padroni di livelli in forma attiva, con le loro parole vogliono supportare i timori del podestà Bragadin mettendo in luce l'aggressività dei villici, anche se non esagerano. Probabilmente il processo aveva scosso gli equilibri della città e i signori speravano in un ritorno allo status quo. La popolazione di Albona si tenne abbastanza neutrale, la folla li aveva spaventati, ma avevano visto di peggio. I contadini o non c'erano e non avevano sentito niente - una testimonianza »di comodo« molto diffusa per non essere coinvolti - oppure hanno semplicemente eseguito gli ordini degli zup-pani, per non incorrere nella pena. In effetti, le deposizioni dei villici fecero ricadere la colpa di tutto sugli zuppani. La comunità non si presentó compatta in difesa dei suoi rappresentanti, forse non erano molto graditi, perché a loro volta rappresenta-vano solo interessi particolari o forse la paura della comunità di essere coinvolta in un procedimento legale, l'aveva portata a fornire un colpevole mitigandone contemporaneamente la colpa. La fluidità con cui si accordano le varie deposizioni, mi fa pensare a numerose riunioni clandestine per stabilire una linea comune sia in una fazione che nell'altra. Bisogna ugualmente considerare come quello contadino fosse un mondo fatto di spazi comuni, al centro della vita c'erano la famiglia e la comunità, questo era uno dei motivi per cui le singole deposizioni tendevano a confondersi con la testimonianza collettiva. In fondo era ogni singola villa a riferire la »sua versione« dei fatti. Da questo flusso uniforme di dichiarazioni, infatti, si discostano alquanto i coloni o quei villici che vivevano particolarmente isolati. Le testimonianze sono l'unico elemento che permette alla giustizia di ricostruire la verità processuale, sono »il raccordo immediato con il contesto sociale entro cui si è verificato il fatto«47 non sono comunque la verità, ma una prospettiva di ció che è accaduto. Le testimonianze non avevano tutte lo stesso peso, quelle più importanti erano giurate, si dividevano poi in chi aveva visto, chi aveva sentito e chi aveva solo »sentito dire«. Più testimonianze confermavano lo stesso fatto, maggior peso questo assumeva agli occhi della giustizia. Chi testimoniava imprimeva (e lo fa tuttora) 46 Sul Consiglio dei Dieci e sul processo con rito vedi nota 33. 47 Citazione di un'affermazione del professor Povolo, che mi sembra particolarmente calzante. 953 ACTA HISTRIAE • 18 • 2010 • 4 Lia DE LUCA: GIURISDIZIONE, CULTURA E CONFLITTI AD ALBONA INTORNO 937-960 inevitabilmente parte della sua personalità alle sue dichiarazioni, selezionava cosa dire e cosa omettere, infondeva maggior enfasi ad un concetto rimarcandolo più volte o glissava su un'affermazione. Chi testimoniava poteva rifarsi a valori diversi rispetto a quelli di riferimento di chi poneva le domande, per esempio la piccola comunità dava grande importanza al sentito dire, al contrario della giustizia che non poteva basare le sue accuse sulle dicerie (Povolo, 2002, 6) anche se poteva venirne influ-enzata. Ci sono poi fatti che i testi nascondevano volontariamente perché li avrebbero messi in cattiva luce o peggio. Purtroppo il filtro della scrittura, con cui i processi sono arrivati fino a noi, ci impedisce di conoscere l'intonazione della voce, le pause, i tentennamenti o la postura del corpo, tutti quei segnali non verbali, che potevano aiutare molto l'inquisitore. La ripulitura del cancelliere eliminó anche tutti gli errori grammaticali, i termini dialettali e le imperfezioni, che tanto avrebbero potuto dirci sulla comunità albonese di metà Settecento. Le testimonianze vanno quindi esa-minate con occhio critico, confrontate, rilette, non possono ridarci la Verità, ma sono ció di cui disponiamo che più si avvicina agli eventi. Il processo per insurrezione aveva seguito l'iter classico dei processi col Rito del Consiglio dei dieci. Il podestà Bragadin aveva fatto ricorso al Consiglio per i gra-vissimi crimini commessi dalla popolazione di Albona; i contadini albonesi avevano implorato lo stesso Consiglio di affidare l'indagine ad una carica esterna al comune; il Consiglio aveva apparentemente, ma probabilmente era una prassi consolidata, accolto le suppliche del popolo delegando il processo al rettore di Capodistria. Il Paruta doveva far luce sugli avvenimenti verificatisi in città tra il 25 e il 26 aprile 1757. L'accusa da accertare era insurrezione con armi nascoste, un reato molto grave, per cui in casi estremi era prevista anche la pena di morte. I Consiglieri ordinarono inoltre al Paruta di far scrivere tutto al suo Cancelliere, gli concessero di promettere la segretezza ai testimoni e l'impunità ad eventuali complici disposti a collaborare, purché non si trattasse del mandante o dell'autore principale del tumulto. Terminate le deposizioni dei testimoni48 il Paruta raccolse in una dettagliata - e un po' prolissa, parole sue! - relazione le sue attente valutazioni. Il caso, affidatogli dal Consiglio dei dieci, era molto delicato ed aveva richiesto indagini scrupolose ed approfondite. Il capitano e podestà di Capodistria inizió la sua relazione riassumendo per i consiglieri gli avvenimenti che lo avevano portato ad Albona, passó quindi ad analizzare la lettera d'accusa inviata dal podestà albonese Bragadin al Consiglio dei dieci, demolendo le gravi insinuazioni in essa contenute. Per il Paruta, era vero che la mattina del 25 aprile gli zuppani si erano rifiutati di cambiare i procuratori, come stabiliva la legge Civran, ma solo fino al termine di una causa in corso a Venezia e 48 Il Podestà e Capitano di Capodistria Lorenzo Paruta interrogó più di novanta persone, coinvolgendo tutti i ceti della popolazione albonese: signori, mercanti, contadini, soldati. Le deposizioni rico-struiscono in modo chiaro da più punti di vista i fatti di quei giorni, che culminarono nell'insurrezione del 26 aprile. 954 ACTA HISTRIAE • 18 • 2010 • 4 Lia DE LUCA: GIURISDIZIONE, CULTURA E CONFLITTI AD ALBONA INTORNO ..., 937-960 non in perpetuo, come aveva sostenuto il Bragadin nella sua denuncia. Il rappre-sentante ricostrui per i consiglieri in modo accurato, i fatti principali riguardanti la causa civile in corso a Venezia »per mottivo dei Livelli«. Era quella causa, l'origine di tanta agitazione in città: lo scontro per l'elezione dei procuratori aveva lo scopo di ostacolare o favorire la causa stessa. La ricostruzione del podestà prosegui con gli avvenimenti che avevano portato all'arresto di due dei dodici zuppani. Non era chiaro se avessero effettivamente coinvolto anche il principe nelle loro affermazioni, ma sicuramente avevano accusato il podestà locale di interferire con un'elezione che spettava loro di diritto. Il podestà capodistriano ricostrui minuziosamente gli avveni-menti della mattina del 26, il giorno dell'insurrezione, chiamando in causa numerose testimonianze ed infine concluse che, in effetti, un gran numero di contadini si fosse riunito in piazza quel giorno, ma senza armi e senza moti di violenza. Lo scopo del raduno, secondo il Paruta, fu o ottenere la liberazione degli arrestati o raccogliere i soldi per inviare una supplica a Venezia o ottenere la conferma in carica dei vecchi procuratori. La popolazione non era intenzionata ad abbattere le prigioni. C'era stata qualche affermazione violenta, tra l'altro non confermata da più testi, ma era da imputare all'ardire personale di qualche scalmanato non ad un sentimento diffuso tra la folla. Non avendo rilevato quelle gravi mancanze formulate dal Bragadin nelle sue accuse, il podestà capodistriano decise di non procedere all'arresto degli indagati in attesa di ulteriori ordini da parte del Consiglio stesso.49 I Dieci si complimentarono col Paruta per la sua precisione e chiarezza, gli ordinarono di convocare i principali colpevoli per punirli in modo adeguato alle circostanze, tenendo conto perô, che dal processo non erano emerse prove a sostegno delle gravi accuse mosse dal podestà Bragadin. Il Paruta stilo una lista di dodici colpevoli, le persone maggiormente implicate nei fatti di quei giorni: un procuratore, tre zuppani, un pozuppo e sette contadini privi di mansioni ufficiali.50 Tra le carte del processo non è contenuto alcun documento che ci tramandi cosa ne fu di questi dodici, l'ultima annotazione è del Paruta e riporta la convocazione degli imputati. Si puo ipotizzare che il capitano e podestà di Capodistria risolse la faccenda con una bella predica agli inquisiti. Il comportamento del Bragadin aveva chiaramente irritato il governo veneziano, il podestà aveva gestito male tutta la questione, sin dall'arresto dei due zuppani si era dimostrato arrogante e presuntuoso, convinto di poter usare arbitrariamente il potere che gli era stato affidato in nome della Serenissima Signoria. Invece di rappresentare il »buon governo veneziano«, come avrebbe dovuto, il Bra-gadin aveva agito favorendo apertamente, non senza un tornaconto personale, le mire dei signori del Consiglio cittadino. Il Bragadin non fu sicuramente l'unico podestà ad abusare della sua posizione, ma fu particolarmente incauto, agi causando troppo clamore e surriscaldando fuor di misura gli animi. La Repubblica non poteva per- 49 ASV. CX, Processi criminali delegati a Capodistria, b. 6, cc. 236-261. 50 Tra i quali anche il benestante Mattio Clapsich. 955 ACTA HISTRIAE • 18 • 2010 • 4 Lia DE LUCA: GIURISDIZIONE, CULTURA E CONFLITTI AD ALBONA INTORNO ..., 937-960 mettersi di perdere il consenso dell'intero contado albonese, doveva tentare la riap-pacificazione. Se era escluso che il procedimento penale, richiesto dallo stesso Bragadin, terminasse con una punizione per il podestà, si risolse peró con un nulla di fatto, alla fase istruttoria non segui il processo vero e proprio e la giustizia non interrogó mai gli indagati, almeno in via ufficiale. Se i dodici colpevoli comparirono davanti al Paruta, non rimasero tracce dell'incontro all'interno del fascicolo. Il pro-cesso si svolse come un rito, con l'intento preciso di riequilibrare le forze in campo e ricomporre le tensioni, riportando la situazione locale allo status quo. I colpevoli furono ufficialmente richiamati all'ordine, in modo che non scordassero la loro posizione di sottoposti. Il procedimento penale non portó la »giustizia« ai contadini, nel senso che nulla cambió nei rapporti economici e politici della città, ma la figura del podestà Bragadin ne usci sminuita, anche agli occhi degli stessi signori di Albona. Il podestà albonese non poteva comportarsi arbitrariamente, perché la Sere-nissima non avrebbe appoggiato in modo incondizionato le sue decisioni. L'analisi del processo penale mi ha permesso di mettere in luce alcuni interessanti aspetti della vita, sia rurale che cittadina nell'Istria veneta del Settecento. Ai contrasti tipici tra signori e contadini alla base dell'insurrezione, si sommavano alcuni fattori propri della campagna istriana. A una città prevalentemente istro veneta, si contrap-poneva un contesto rurale sostanzialmente slavo; i due mondi comunicavano tra loro attraverso i canali istituzionali e tramite gli interpreti. Interpreti di tipo linguistico, come padre Giupponi, che tradusse per la giustizia le deposizioni di quei contadini che non erano in grado di spiegarsi in lingua veneta, ma anche di tipo politico culturale, come l'avvocato Spizza, che guidó abilmente le rivendicazioni dei contadini nei palazzi veneziani fino ad ottenere l'attenzione del Consiglio dei dieci. Un altro interprete, non specificatamente albonese, era il can-celliere incaricato di redigere il processo, costui trascrisse le dichiarazioni dei testi-moni depurandole di tutti quei termini dialettali, che sicuramente si accompagnavano alle deposizioni di persone di cultura medio bassa. Attraverso questi mediatori i due mondi entravano in comunicazione, non si trattava di universi chiusi e paralleli, ma di realtà fluide che si rapportavano l'una all'altra a seconda del bisogno. Dalle deposizioni si comprende come i villici si recassero spesso in città, per far aggiustare una zappa, per vendere e per comprare qualcosa o anche solo per bere in compagnia. La comunicazione doveva avvenire per forza in una delle due lingue, se non in entrambe. Dal processo non si evince quale fosse la conoscenza reale del veneziano dei contadini che richiesero un interprete, appare chiaro invece che la maggior parte dei »signori di città« conosceva bene anche la lingua slava, poiché spesso si oc-cupavano di tradurre le parole degli zuppani per il podestà (cosa che poteva favorire le manipolazioni). Il Bragadin ed il cancelliere Frielli non conoscevano l'illirico, ma i due sembrano essere stati gli unici, tra le persone direttamente coinvolte nei disordini di quell'aprile, completamente digiuni di lingua slava. 956 ACTA HISTRIAE • 18 • 2010 • 4 Lia DE LUCA: GIURISDIZIONE, CULTURA E CONFLITTI AD ALBONA INTORNO ..., 937-960 Il comportamento del podestà Bragadin, troppo apertamente a favore dei signori locali, aveva sbilanciato gli equilibri del comune. Il processo portato avanti dal podestà e capitano di Capodistria si assunse il compito di ristabilire la situazione iniziale. Né a favore dei signori né espressamente dalla parte dei contadini, il Paruta condusse con solerzia le sue indagini, raccogliendo un gran numero di deposizioni e redigendo infine un'accurata relazione, che di per sé portarono ad un nulla di fatto. Coloro che avevano partecipato più attivamente all'insurrezione non subirono alcuna vera punizione, non furono condannati alla galera né messi al bando; verosimilmente ascoltarono una bella ramanzina su quale fosse il loro posto nella società e sul rischio che avevano corso con una cosi aperta insubordinazione, con ogni probabilità accom-pagnata dalla minaccia di condanne ben più gravi se una cosa del genere si fosse ripetuta. Il podestà Bragadin occupé la sua carica fino al 1759, anno in cui fu normalmente sostituito al termine del suo mandato. La comunità albonese non era comunque nuova ai procedimenti penali, nemmeno a quelli tenuti con il Rito del Consiglio dei dieci, un altro processo, per un motivo totalmente diverso,51 si era svolto in città appena nel 1752 ed altri seguirono prima della caduta della Repubblica. Sicuramente altre fonti porteranno alla luce nuovi aspetti della vita del contado albonese o daranno una nuova prospettiva ad alcune tematiche da me affrontate, il mio è un tassello in un mosaico molto più grande, che perô permette di squarciare il velo del tempo, per farsi un'idea degli avvenimenti che coinvolsero la piccola comunità istriana di Albona nel lontano 1757. JURISDIKCIJA, KULTURA IN KONFLIKTI V LABINU SREDI 18. STOLETJA Lia DE LUCA IT-30030 Peseggia di Scorze (Benetke), Via Mazzini 6 e-mail: delucalia@gmail.com POVZETEK Istra je bila v XVIII. stoletju ozemlje tako kulturnih kot fizičnih meja med Beneško republiko in habsburškim cesarstvom. Običajno se je prebivalstvo venetskega območja delilo na beneška mesta in pretežno slovansko podeželje. Množično, bolj ali manj organizirano priseljevanje je skozi stoletja dodobra spremenilo družbeno strukturo podeželja. Novi priseljenci so Labinsko območje že v davni preteklosti izbirali za svoje pribežališče. Osrednji predmet tega prispevka je analiza družbene in politične dinamike odnosov med podeželani in meščani njihove občine s pomočjo 51 Un processo per deflorazione che vedeva coinvolti un ecclesiastico ed il fratello (ASV. CX, Processi criminali delegati a Capodistria, b. 2). 957 ACTA HISTRIAE • 18 • 2010 • 4 Lia DE LUCA: GIURISDIZIONE, CULTURA E CONFLITTI AD ALBONA INTORNO ..937-960 proučevanja dela javne uprave in stališč Labinčanov leta 1757. Politična oblast je bila v domeni skupine veljakov, ki so bili že stoletja zbrani v mestnem svetu. Benetke so tja odpošiljale podestata, najpomembnejšega občinskega funkcionarja, katerega dejansko moč pa sta zelo omejevali krajevna vodilna struktura in pomanjkljiva finančna sredstva Serenissime. Podestati, običajno iz vrst nižjega plemstva, ki so to funkcijo opravljali zato, da bi sploh preživeli, so se prilagajali krajevnim dinamikam in si poskušali zagotoviti kar največji dobiček. Kmetje so imeli zelo tesne stike z mestom, kamor so pogosto zahajali, bili pa so tudi močno zadolženi pri krajevnih upnikih. Ne glede na izrazite etnične razlike skupnost ni bila razdeljena na Benečane in Slovane, temveč na dolžnike in upnike. Denar so posojali tako meščani, člani sveta, kot premožni kmetje. Vsi spori so bili ekonomsko pogojeni. Kmečka skupnost je delovala strnjeno in je zastopala svoja stališča, pri čemer običajno ni naletela na nasprotovanje navadnih meščanov. Nasprotno, leta 1757, ko se je ob nekem uporu na trgu v Labinu zbralo preko dvesto kmetov, so krajevni trgovci izrazili svoje zadovoljstvo zaradi dobrega dnevnega zaslužka. Na osnovi analize številnih pričevanj - slovanskemu prebivalstvu je pomagal tolmač - ni mogoče zaznati trenj med mestom in podeželjem. Ljudje so se med seboj poznali, klicali so se po imenu, krajevna gospoda je govorila slovansko in kmetje so se kar dobro znašli z beneščino; nekateri so jo govorili, drugi so si pomagali z zanesljivimi prevajalci. Skratka, labinska družbena struktura je bila dobro organizirana, zastopanost, čeprav ni bila demokratična, je bila zagotovljena. Še tako oddaljena vas je imela na občini svojega glasnika, enake oblastne igrice, kot so se odvijale v mestnem svetu, so potekale tudi v podeželskem okolju, zapletena ravnotežja pa so določala odnose med skupnostmi, med njimi in občino ter med »kontekstom Labin« in »Dominanto«. Ključne besede: Istra, Opatija, družbeni odnosi, tolmači, 18. stoletje, mesto, podeželje, kazenski proces, pričevanje, jezik FONTI E BIBLIOGRAFIA ASV. CCD - Archivio di Stato di Venezia (ASV), Camerlengo del Consiglio dei Dieci (CCD). ASV. CX - ASV, Consiglio dei Dieci (CX). Alpa, G., Danovi, R. (2003): Un proggetto di ricerca sulla storia dell'avvocatura. 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