received: 2012-04-15 review article UDC 930:327(450+497.4)'T9/20: L'ALTO ADRIATICO TRA OTTOCENTO E NOVECENTO. PARAMETRI STORIOGRAFICI Rolf WÖRSDÖRFER Technische Universität Darmstadt, Institut für Geschichte, Residenzschloss, 64283 Darmstadt, Deutschland e-mail: woersdoerfer@ifs.tu-darmstadt.de SINTESI Il contributo propone alcune considerazioni di carattere storiografico sulla storia della regione nord-adriatica. Considerando l'attivitá svolta dalla commissione storico-culturale italo-slovena si sofferma sulle critiche avanzate verso quella che viene definita la storiografia nazionale. Sulla base della principale produzione storiografica sulla regione nord-adriatica analizzata scientificamente dall'autore, si avanzano inoltre alcune riflessioni sui problemi della storiografia sociale e culturale e sul suo utilizzo nella regio-ne frontaliera italo-slovena. Parole chiave: regione nord-adriatica, commissione mista storico-culturale italo-slove-na, storia sociale, oral history, rapporti italo-sloveni, storiografia (post)nazionale THE AREA AROUND THE NORTHERN ADRIATIC BETWEEN THE NINETEENTH AND TWENTIETH CENTURY. HISTORIOGRAPHICAL PARAMETERS ABSTRACT The paper proposes some historiographie considerations on the history of the North-Adriatic area. Considering the work done by the historical and cultural Italian-Slovenian Committee, it focuses on the criticism voiced against what is called "national historiography". Based on the main historiographicalproduction on the North-Adriatic region scientifically explored by the author, some reflections are also advanced regarding the problems of social and cultural historiography and its use in the border region between Italy and Slovenia. Key words: North-Adriatic region, historical and cultural Italian-Slovenian Committee, social history, oral history, Italian-Slovenian relations, (post)national historiography Rolf WÔRSDÔRFER: L'ALTÔ ADRIATICÔ TRA ÔTTÔCENTÔ E NÔVECENTÔ. PARAMETRI STÔRIÔGRAFICI LA CGMMISSIGNE STGRICG-CULTURALE ITALG-SLGVENA - AL DI LÀ DELLA STGRIA NAZIGNALE? Da alcuni anni il testo italiano della relazione finale elaborata da parte della commis-sione storico-culturale italo-slovena è stato pubblicato in varie sedi.1 Il lavoro di ricerca e di dibattito della commissione si è svolto in un arco cronologico, che corrisponde assai precisamente agli anni da me passati negli archivi adriatici e più in generale in quegli italiani, sloveni e croati. Ho sempre ritenuto che tutta l'elaborazione storiografica della commissione costituisse, per un verso, un punto d'arrivo. Essa assomigliava un po' ad una specie di "politica della distensione" sul piano storiografico; ció significa che poteva dare l'avvio ad un nuovo ciclo di ricerche sulla storia comune. Dall'altro verso mi era parso ovvio, che vi fosse rimasto qualche problema ancora del tutto aperto e non facilmente risolvibile con i metodi tradizionali della scienza storica. I lavori di Marta Verginella mi hanno fatto capire, che ció non riguarda soltanto la serie di questioni definite controverse già da parte della stessa commissione. In un saggio pubblicato qualche anno fa, Verginella osservava che lo stesso testo finale della commissione contiene alcuni elementi problematici. Tale appare, innanzitutto, la sistemazione della presenza storica della nazione italiana e di quella slovena "in una dimensione quasi metastorica" (Verginella, 2009, 17). Citando il noto team storiografico Hobsbawm/Ranger (1987), Verginella osservava con toni critici come proprio una commissione bilaterale - nata da un dibattito incrociato tra storici provenienti da due paesi e destinata a sviluppare ulteriormente tale dibattito - non avesse fatto uso delle più recenti conquiste teoriche e pratiche della storiografia dei nazionalismi. Gvvero, come la commissione non fosse riuscita a storicizzare deter-minati fenomeni legati al discorso del nazionalismo, dei movimenti nazionali e dello stato nazione; anzi spesso accontentandosi di proiettare nel passato certi problemi attuali. Si tratta di una critica molto acuta e per tanti versi condivisibile, quella di Marta Verginella. Il tentativo di abbinare i due percorsi storici, quello italiano e quello sloveno, a volte porta a delle affermazioni bizzarre. Tuttavia, va rilevato che Verginella chiede forse un po' troppa professionalità storiografica ad una commissione bilaterale dalla compo-sizione piuttosto eterogenea. Ci sarebbe da aprire un dibattito sul rapporto tra politica e storiografia, dove bisogna distinguere tra un testo a volte forzatamente diplomatico e ció che gli anglosassoni chiamano the state of the art delle scienze storiografiche e sociali. In Germania conosciamo situazioni analoghe in cui sono coinvolti i membri tede-schi, cechi e slovacchi della commissione trilaterale tedesca, ceca e slovacca. Bisogna tener presente che i membri di tali commissioni sono obbligati a lavorare all'interno di un determinato quadro politico, di cui non sono responsabili in nessun modo. Questa condizione, se per un verso allarga il loro spazio di ricerca, dall'altro puó restringere lo 1 Continua a mancare l'edizione ufficiale italiana analoga a quella trilingue curata da due colleghe slovene (Kacin Wohinz, Troha, 2000). La prima pubblicazione non-ufficiale del testo è stata quella del quotidiano «Il Piccolo», seguita poi da quelle delle riviste «Qualestoria» (2000, 2, 145-167) e «Storia contemporanea in Friuli» (2000, 31, 9-35). A nove e più anni di distanza il testo italiano è stato riprodotto in appendice a varie opere, tra cui, Bucarelli, Monzali (2009) e Pallante (2010). Rolf WÖRSDÖRFER: L'ALTO ADRIATICO TRA OTTOCENTO E NOVECENTO. PARAMETRI STORIOGRAFICI spessore dell'elaborazione comune, poiché il lavoro di sintesi è legato fin troppo alle attese della politica.2 Indipendentemente dal fatto, se tale politica ci piaccia o meno, essa porta inevitabil-mente alcune storture sul piano storiografico, che molti degli addetti ai lavori in altre occasioni cercherebbero di evitare. Va osservato che la storiografia non diventa neanche obsoleta già a partire dal momento in cui i suoi risultati alla politica non servono più. Vale a dire che sul piano storiografico è indubbio che siamo arrivati ben oltre la relazione finale della stessa commissione, anche se resta ancora molto da fare. Ció vale anche per il panorama emerso dai lavori della commissione italo-slovena, un panorama che qualcuno ritiene ormai troppo stretto. Una decina d'anni fa in un volume dedicato alla storia della regione nord-adriatica scrissi - cito la versione italiana nella traduzione di Marco Cupellaro - che "Dal 1SSG in poi, sull'Adriatico, il rapporto di vicinato fu difficile, sotto il segno di un 'conflitto di nazionalità' di cui altrove inizialmente si sapeva poco. Di solito la storia dei conflitti di questo tipo è scritta da persone schierate o simpatizzanti con una delle parti in causa." (Wörsdörfer, 2GG9, S). Attraverso tale affermazione non era mia intenzione liquidare tutta la storiografia italiana, slovena e croata come storiografia di parte, con essa volevo bensi ricercare le ragioni profonde che giustificassero il tentativo di confrontarmi con un argomento collocato in un'area assai lontana dal Land tedesco dell'Assia, dove vivo e lavoro. Sono poi ben conscio di non essere l'unico storico non proveniente dall'area Adriatica che continua ad occuparsene. Branko Marušič ricorda nel suo contributo, pubblicato in questa rassegna, l'enorme ricchezza delle opere che fanno riferimento al confine italo-sloveno. Attraverso quel passaggio, in cui sostenevo che quasi automaticamente gli storici adriatici si schieravano a fianco di una delle parti in causa, volevo sottolineare che della storia di frontiera si era occupata soprattutto la storiografia nazionale, la quale - con uno spessore teorico ed una documentazione certo variabili da uno studioso all'altro - spesso aveva assunto un atteggiamento giustificazionistico, dando in ogni caso una versione nazionale di quello che era accaduto. Vi era riuscita espellendo interi tronchi intellettuali dalla tradizione del confine, com'è ricordato sempre in questa rassegna da Marta Verginella, che accenna ai conservatori e cattolici lealisti, agli austro marxisti, agli autonomisti ed altri. Credo, quindi, che anche la storiografia abbia contribuito a perpetuare alcuni miti duri a morire, pertinenti allo stesso problema del confine, ai vari esodi delle popolazioni adriatiche, a fatti di repressione spietata ad Ovest e ad Est della linea di demarcazione (Crainz, Pupo, Salvatici, 2GGS; Wörsdörfer, 2G11). Sempre più spesso, come nel caso degli storici Marta Verginella e Raoul Pupo, la tendenza è quella di sostenere che l'ottica della storia nazionale non serve più a spiegare ció che è successo nella Venezia Giulia oppure nella Slovenska Primorska a partire dagli anni 1SSG. Ció significa che la storiografia di confine ormai da qualche tempo ha 2 Un discorso molto simile vale per le due ricerche piu importanti circa le minoranze germanofone in Slovenia pubblicate negli anni Novanta, e cioe per Karner (1998) e Necak (1998). Rolf WÖRSDÖRFER: L'ALTO ADRIATICO TRA OTTOCENTO E NOVECENTO. PARAMETRI STORIOGRAFICI cominciato a prendere atto della fine di una frontiera tra le più calde d'Europa, la quale, in ogni caso, nel giro dei decenni si è già raffreddata di non poco. DALLA STORIA POLITICA ALLA STORIA SOCIALE Un problema degno di nota è quello del rapporto tra storia politica e storia sociale rispetto ai problemi del confine. Sulla scia di Giampaolo Valdevit (Valdevit, 1997), Raoul Pupo propone di "spostare il baricentro degli studi dalle istituzioni alla società" allo scopo di "riequilibrare in tal modo le deformazioni suscitate dalla prevalenza della dimensione politica". Ció significa anche indagare sul contenuto sociale e culturale di una realtà, che nelle varie lingue è denominata con la parola confine/frontier/meja/granica/Grenze. Il ragionamento ha un suo fascino poiché, in una regione ideologizzata e politicizzata al massimo, togliere lo sguardo dallo stato e dai partiti per rivolgerlo verso la società civile puó sembrare un progetto nuovo ed apprezzabile. Il riferimento a Valdevit peró, il cui volume è del 1997, non tiene conto del fatto, che dopo quella data sono uscite alcune opere di storia sociale ed economica degne di nota. Valdevit accennava all'einaudiana Storia d'Italia. Le regioni. Friuli-Venezia Giulia, allora ancora in fase di pubblicazione, poi concretizzatasi appena nel 2002, tra l'altro con un testo di Raoul Pupo sugli esodi (Pupo, 2002).3 Per quanto riguarda il versante sloveno, bisogna costatare che di storia sociale si è cominciato a parlare assai tardi e che, anzi, pure la storia economica fa fatica a superare i limiti stretti dettati dall'eredità socialista. Particolarmente indicative appa-iono alcune riflessioni di Žarko Lazarevic (2009) sulla storia economica, dove l'autore tra l'altro fa riferimento ai rispettivi paragrafi della «Storia moderna (contemporanea) della Slovenia dal 1848 al 1992» (Neven, Fischer, 2005). Inoltre, va constatato che la realtà adriatica è talmente multipla e variegata da ren-dere difficile l'individuazione di un terreno d'osservazione suficientemente indicativo per una ricerca di storia sociale, a meno che non si voglia parlare semplicemente della città di Trieste. Va precisato che per ora appare molto arduo poter contrapporre alle storie politiche esistenti una nuova sintesi di storia sociale, a meno che non si parta da determinate realtà a volte anche microscopiche.4 Ormai sono emersi dei casi esemplari come per Grisignana (Grožnjan) studiata da Gloria Nemec (Nemec, 1998) oppure la Pisino (Pazin) di Vanni D'Alessio (D'Alessio, 2003); vi è poi tutta una tradizione legata all'oral history, di cui più avanti presenteró uno dei risultati recenti. Per quanto riguarda le ricerche d'archivio, l'attenzione si è spostata anche verso le città portuali, tra le quali - giacché si parla del periodo tra le due guerre mondiali - ancora stenta ad emergere quella di Koper (Cerasi, Petri, Petrungaro, 2008; Petri, 2010a). 3 Per una valutazione generale della "Storia d'Italia" einaudiana cfr. Raphael (2003). 4 Come ha osservato Sabine Rutar, nell'Europa sudorientale "'storia sociale'significava e significa per lo più storia politica, delle istituzioni e nazionale" (Rutar, 2010, 118). Come tale all'epoca del socialismo di stato essa fu sfruttata in termini marxisti o piuttosto pseudo-marxisti, mentre oggi essa è soggetta "a modelli di pensiero nazionali, centrati sullo Stato-nazione." Sull'uso della storia da parte della cultura letteraria in Jugoslavia e Bulgaria cfr. Richter, Beyer (2006). Rolf WÖRSDÖRFER: L'ALTO ADRIATICO TRA OTTOCENTO E NOVECENTO. PARAMETRI STORIOGRAFICI Nella storiografia slovena vi è una particolare attenzione rivolta verso il Capodi-striano, come rileva nel suo contributo Marta Verginella, che elenca pure alcune regioni dell'odierna Slovenia ovviamente finora sottorappresentate dal discorso storiografico. Di Postumia (Postojna) e di Villa del Nevoso (Ilirska Bistrica) pare che non se ne sia più parlato da quando Carlo Schiffrer (Schffrer, 1990) portó quelle città come esempi per dimostrare l'impatto dell'amministrazione italiana sulla società locale in epoca fascista. In ogni modo, anche dal punto di vista italiano si potrebbero trovare delle zone non ancora esaminate con il rigore necessario. Fa bene Raoul Pupo a rilevare l'importanza del rapporto tra città e campagne per tutto il problema nazionale. Un nodo fondamentale è quello della dinamica demografica, delle migrazioni e del fenomeno pendolare. Il rapporto tra città e campagna nel caso triestino è complicatissimo, si sviluppa lungo varie assi portanti ed include una serie di rapporti particolari tra centro e periferia. È vero in ogni modo ció che afferma Marta Verginella circa l'atteggiamento assunto dai due gruppi nazionali nei confronti dell'altro: mentre lo sloveno immigrato accetta determinati elementi della cultura italiana a partire dalla stessa lingua, né il triestino italiano autoctono né il friulano immigrato sentono il bisogno di confrontarsi con la cultura slovena e di imparare l'idioma sloveno. Va tenuto presente che il livello della mobilitazione nazionale raggiunto a Trieste fu altissimo; la corrente liberalnazionale italiana usci fuori dalla logica di un partito di notabili ed assunse carattere di massa. Lo stesso vale per la presenza slovena, dove è di mezzo la forza trainante della chiesa cattolica. Vi era, un po' da tutte le parti, la paura dei delatori, che facendo parte di forze esterne penetravano nei contesti più intimi delle rispettive comunità nazionali. C'è forse il rischio di cadere nella trappola delle banalità, ma Trieste è un intreccio di tutte queste reti di rapporti. Non finisce di esserlo nemmeno nel momento in cui il fascismo tenta di sradicare tutta una serie di tronchi tradizionali della società triestina esaltando la Trieste degli italianissimi. Va inoltre evidenziato che il fascismo non è fascismo e che vi sono dei campi di forte contrasto all'interno dello stesso partito fascista nazionale, definito "di confine" non tanto per una sua elaborazione ideologica particolare, quanto per la costituzione di un coperchio che a malapena riesce a coprire il groviglio delle correnti e sottocorrenti (Vinci, 2011). Parlando di storia sociale, bisogna innanzi tutto prendere le distanze dalle date ma-giche della storiografia politica, vale a dire le guerre, le conferenze di pace, i trattati internazionali e cosi via, tutto sommato un campo, sul quale ormai vi è poco da guada-gnare. Potrebbero essere utili anche gli studi comparativi: con l'eccezione di un volume dedicato agli esodi e pubblicato in occasione del cinquantesimo anniversario del Trattato di pace pare che non vi siano tentativi di inquadrare i vari problemi in una prospettiva comparativa (Cattaruzza, Dogo, Pupo, 2000). Bisogna risalire al libro del Gatterer (Gatterer, 1994) per trovare una sintesi dei problemi delle minoranze e delle autonomie in Italia che abbracci anche la situazione al confine con la Jugoslavia. Rolf WÖRSDÖRFER: L'ALTO ADRIATICO TRA OTTOCENTO E NOVECENTO. PARAMETRI STORIOGRAFICI IL CASO DELLE MINORANZE DI CONFINE Ho menzionato l'opera di Gatterer non a caso, poiché mi pare urgente qualche osservazione sul discorso dello "stato debole" sviluppato nel suo contributo da Raoul Pupo. Tornando ad alcuni esempi trattati già in occasione di un convegno che ha avuto luogo a Trieste nel I997, e in pratica parlando della Galizia, dei Sudeti e del Kosovo, il relatore sostiene che nel periodo tra le due guerre nessuno degli stati usciti dalla Grande guerra riesce ad assimilare le proprie minoranze. Come unica eccezione ammette il caso "terribile" del cosiddetto scambio di popolazioni tra la Grecia e la Turchia avvenuto nel I920. In realtà, la costruzione proposta da Pupo presenta dei tratti un po' imbarazzanti, forse già in occasione del convegno del I997 sarebbe stato utile allargare il dibattito al caso altoatesino. Per quanto è certo che nemmeno i sudtirolesi si assimilarono alla popolazione italiana, tuttavia nel caso della città di Bolzano il regime fascista riusci a cambiare la composizione della popolazione in modo da farne un centro a maggioranza italiana.5 A Sud del Brennero si arrivé alla contrapposizione tra una città italianizzata e le campagne in cui continuava ad avere il sopravvento lo spirito di resistenza sudtirolese. Segui poi nel I939 lo spartiacque dell'opzione che divise la minoranza germanofona tra quelli che dichiararono di essere disposti a trasferirsi nel "Großdeutsches Reich" e quelli che preferirono restare al Sud del Brennero accettando nello stesso momento l'italianizzazione imposta da Mussolini (Steininger, I997). Ammesso che ci sono degli stati forti e degli stati deboli, allora conviene adoperare una simile terminologia anche nel caso delle minoranze. Non sarebbe tanto fuorviante caratterizzare come minoranza "morbida" quella slovena dell'attuale Venezia Giulia, al contrario di quella sudtirolese che a buona ragione puô essere considerata una minoranza "dura".6 Queste definizioni non mirano ad esprimere tuttavia un giudizio morale: innanzi tutto ogni minoranza ha il diritto di gestirsi i rapporti con lo Stato nazione della mag-gioranza come crede. Nel caso concreto i processi di nazionalizzazione dei tirolesi si distinguono nettamente da quelli degli sloveni della Primorska, anche se in entrambi i casi si presentano alla storiografia come minoranze di confine (Border minorities) nate da uno o più spostamenti dei confini.7 Confrontando la Venezia Giulia con il Sudtirolo in epoca fascista, bisogna costatare che la politica snazionalizzatrice del regime nelle due regioni agisce con dei risultati 5 Sia detto tra parentesi che nel secondo dopoguerra è questa la grande paura del "partito italiano" rispetto al futuro di Trieste: che la Jugoslavia fosse in grado di cambiare il carattere culturale e linguistico di Trieste come il fascismo era riuscito a cambiare quello di Bolzano. 6 La "durezza" sudtirolese deriva anche dal fatto, che già nella Monarchia Asburgica i tirolesi si autoconcepivano come "tedeschi" e dunque come parte della nazione quasi-dominante, un atteggiamento messo in risalto anche rispetto all'Italia, che fin dal I870 nel Tirolo era considerata nazione debole ed 'effeminata'. Inoltre, fin dal I920 l'appoggio morale e finanziario derivante dall'opinione pubblica tedesca della Repubblica di Weimar rafforzô da una parte il gruppo sudtirolese, dall'altra tale sostegno indusse il governo italiano nonché i fascisti ad una politica ben più "leggera" rispetto al trattamento riservato alle minoranze slovena e croata. Cfr. Di Michele (2003). 7 Cfr. la tipologia delle minoranze etniche e nazionali proposta da Hroch (I999). Rolf WÖRSDÖRFER: L'ALTO ADRIATICO TRA OTTOCENTO E NOVECENTO. PARAMETRI STORIOGRAFICI ben diversi. Ció tuttavia non implica che la "morbidezza" della minoranza slovena sia soltanto il risultato della politica fascista: vi rientrano anche la lotta partigiana, lo scontro tra l'Osvobodilna fronta ed i Domobranci, le vicende del Territorio libero di Trieste, il conflitto del Cominform e gli anni della guerra fredda. Pare peró ovvio che vi sono vari modi di assimilazione ed anche vari modi di resistere alla snazionalizzazione integrale. Anche se tale giudizio puó sembrare schematico, ritengo che nella Venezia Giulia si possa osservare una via di mezzo tra l'assimilazione completa e l'opposizione fiera ad ogni tipo di politica snazionalizzatrice. Il fascismo non riusci ad italianizzare né i cosiddetti Primorci (sloveni del Litorale) né gli Istrani (croati dell'Istria), ma dopo la Seconda guerra mondiale la minoranza slovena rimasta sotto il dominio italiano difficilmente si sarebbe ripresa da certi colpi subiti durante il ventennio.8 Un'ultima considerazione va fatta sui sudtirolesi: è infatti molto importante se una minoranza etnica o nazionale è maggioritaria nella propria provincia o regione (come i germanofoni nel caso dell'Alto Adige), avendo a propria disposizione uno statuto d'autonomia, oppure se essa tende a scomparire tra la popolazione maggioritaria non soltanto sul piano nazionale, ma anche su quello regionale e provinciale, come potreb-be sembrare nel caso degli sloveni ad Ovest del confine italo-sloveno, che sono stati chiamati in passato - per citare il libro di Pavelj Stranj - una "comunità sommersa".9 La storia non si scrive con i "se" e non possiamo sapere, che cosa sarebbe successo, se la Jugoslavia avesse lasciato all'Italia una minoranza sloveno-croata più consistente, accettando ad esempio come confine la linea Wilson. Lo stesso ragionamento vale ov-viamente anche nel senso inverso. È più facile parlare della sostanziale debolezza dello stato italiano, quando si tratta di valutare l'incapacità della cultura italiana (non importa se "alta" o "dopolavoristica") di penetrare durevolmente i dintorni delle città a mag-gioranza italiane. Particolarmente importante è che i rapporti tra la città di Trieste ed il suo "hinterland" erano molto intensi. In una prospettiva di lungo periodo da quasi tutti i partiti coinvolti tali rapporti sono recepiti come rapporti di conquista e di sottomissione. Significa che o la città riesce a sottomettere le campagne, oppure le campagne riescono ad invadere e conquistare la città. Va sottolineato che nel primo dopoguerra non fu soltanto lo Stato italiano a capitolare davanti ai compiti che lo attendevano al confine orientale. Pare invece che vi fosse anche una specie di diffidenza da parte della popolazione italiana verso le regioni ex-austriache che erano considerate pericolose e difficilmente integrabili all'interno della compagine statale italiana. Il fascismo molto spesso fece finta che tali problemi non esistessero; ma nei momenti di scontro acuto con il movimento d'opposizione sloveno-croato anche i rappresentanti dello stesso regime si ricordarono che già ai tempi degli Asburgo la zona era considerata pericolosa. 8 Ció riguarda innanzi tutto l'atteggiamento della minoranza nei confronti dell'Italia in quanto stato e degli italiani in quanto nazione. Cfr. Segatti (2008). 9 Stranj (1992, 20) valuta "l'incidenza dell'assimilazione sulla generazione slovena attuale pari a una perdita del 20% circa." Sulla minoranza sudtirolese negli anni dopo il 1945 cfr. Bergonzi, Heiss, (2004). Esprimo la mia gratitudine a Hans Heiss (Bolzano) per uno scambio d'opinione circa i due "casi", quello altoatesino e quello sloveno. Rolf WÖRSDÖRFER: L'ALTO ADRIATICO TRA OTTOCENTO E NOVECENTO. PARAMETRI STORIOGRAFICI STORIA ORALE E "CARATTERE NAZIONALE VAGANTE" Nonostante quello che sopra si è scritto sul rapporto tra storia politica e storia sociale bisogna stare attenti, perché in alcuni casi gli avvenimenti finora poco esplorati restano legati alla politica, giacché è quest'ultima a decidere ad esempio gli spostamenti di confine. Di recente un bel saggio scritto da Alessandro Cattunar (2010) ci ha dato qualche idea su come andare avanti, pur tenendo conto dei limiti inerenti all'approccio metodologico dello stesso autore. Cattunar indaga sulle ripercussioni della politica internazionale nel Goriziano a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale. Lo fa intervistando un gruppo di persone, le cui vicende private erano legate al cosiddetto "confine mobile" di Gorizia e ai vari cambiamenti intervenuti. Ne esce fuori un quadro molto differenziato della situazione personale di ognuno degli intervistati. Nessuno di loro, ed è questo uno dei risultati principali della ricerca, è fautore in asso-luto di una determinata soluzione dei problemi di confine, sia tale soluzione a favore dell'Italia o sia essa a favore della Jugoslavia. In genere si tratta di gente comune non coinvolta nella lotta tra i partiti in causa, oppure di persone che simpatizzano con uno dei due partiti, talvolta vantando perfino amici e parenti che favoriscono un'opzione diversa dalla loro. La difficoltà più grande che nasce da una storiografia di tale tipo è quella legata ad una valutazione quantitativa del tutto assente. Significa che si fatica a comprendere, se i campioni scelti servono soltanto a riempire una lacuna storiografica, perché non si è sufficientemente tenuto conto di un segmento della popolazione oscillante tra le due parti in causa. L'interpretazione alternativa sarebbe invece che tale parte è quella pre-valente sul piano qualitativo e quantitativo, il che probabilmente sarebbe una forzatura. In conclusione si potrebbe aggiungere, che dopo decenni di storiografia nazionale non importa molto, se i campioni della ricerca sono rappresentativi o meno; ció che conta invece è che ci siano e che non siano taciuti. Di seguito vorrei analizzare anche le radici storiche del cosiddetto atteggiamento oscillante. Nella storiografia dei nazionalismi tra l'altro non si tratta di un elemento completamente nuovo o sconosciuto. Credo che sia stato Theodor Veiter il primo a parlare di un "carattere nazionale vagante" (schwebendes Volkstum) rispetto ad alcuni segmenti della popolazione di confine, come potevano essere ad esempio i cosiddetti "Windischen" in Carinzia. (Wörsdörfer, 2005). Più tardi sulla scia delle ricerche di Emil Brix, lo storico britannico Eric Hobsbawm si è occupato del fatto che molti istriani, ancora nel 1910, continuavano a considerarsi tali senza accettare nessuna etichetta na-zionale (Hobsbawm, 1991, 71). È giusta l'osservazione di Vanni D'Alessio circa "l'indisponibilità di molti ad ab-bandonare forme d'interazione basate sull'utilizzo di più lingue" (D'Alessio, 2009, 29), un'indisponibilità che fino ad un certo punto riesce ad ostacolare i processi di nazionaliz-zazione. Va aggiunto che l'esempio triestino e quello di molte altre città dal mar Baltico fino al mar Egeo dimostrano che il bilinguismo non significa per forza il mantenimento di una situazione interetnica prenazionale. Parlando la lingua dell'avversario nazionale il protagonista puó lo stesso essere coinvolto sul piano emotivo con la lingua e la cultura Rolf WÓRSDÓRFER: L'ALTO ADRIATICO TRA OTTOCENTO E NOVECENTO. PARAMETRI STORIOGRAFICI Fig. 1: Foto scattata all'arrivo della commissione internazionale per la demarcazione dei confini 24.3.1946 (foto: Marjan Pfeifer), di proprieta del Museo di storia contemporanea di Lubiana. Sl. 1: Fotografija, nastala ob prihodu mednarodne razmejitvene komisije 24.3.1946 (foto: Marjan Pfeifer). Fotografija je last Muzeja novejše zgodovine Slovenije. materne, con tutte le conseguenze che ció ha per il comportamento elettorale, la presenza nell'associazionismo, le scelte di carriera ecc. All'osservazione di D'Alessio andrebbe aggiunto l'aggettivo "disinvolto", si dovrebbe parlare di un utilizzo disinvolto di piu lingue, dove ogni idioma mantiene un suo senso piuttosto tecnico privo di contenuti affettivi ed ideologici. ESODI E REGIMES DI CONFINE Per citare un altro libro abbastanza recente sui problemi del confine - e torna anche la questione degli esodi - vorrei accennare al lavoro di Jure Gombač. Gombač (2007) sul piano teorico si mette nei panni dello storico delle migrazioni, soggetto scientifico un po' sopra alle parti, che non sappiamo mai precisamente - anche se in questo caso non e rilevante - se preferisca l'approccio di storia sociale oppure quello culturalistico. Il fattore essenziale mi sembra invece che parlando del Capodistriano nel momento in cui la zona B del Territorio libero di Trieste si sta sciogliendo, Gombač da un'immagine molto concreta di ció che ormai da qualche tempo e definito l'esodo istriano. Credo che da ció nasca una ricerca valida che non toglie nulla all'importanza di altre opere sullo stesso fenomeno storico, ma che riesce ad aggiungere determínate informazioni sui Rolf WÔRSDÔRFER: L'ALTÔ ADRIATICÔ TRA ÔTTÔCENTÔ E NÔVECENTÔ. PARAMETRI STÔRIÔGRAFICI particolari dell'esodo dalla zona B, informazioni di cui oggi malvolentieri faremmo a meno. Gioca a favore del tentativo di Gombač il fatto, che egli abbia colto l'occasione di poter analizzare una microregione quale quella del Capodistriano utilizzando delle fonti abbastaza omogenee. È altrettanto ovvio invece che si puó scrivere la storia sociale degli spostamenti di popolazione, a partire dall'esilio sloveno e croato nel periodo fra le due guerre per arrivare all'ultima tappa dell'esodo italiano, vale a dire quello dalla zona B. Il primo fu molto a lungo definito un movimento d'élites, ma credo che ormai i dati scoperti negli archivi sono sufficienti per metter in dubbio tale tesi. Se per un verso è vero che tra le vittime della politica di snazionalizzazione fascista vi furono molti impiegati, insegnanti, preti ed intellettuali, dall'altro, vi troviamo anche gli organizzatori delle casse agricole e gli stessi contadini, che li seguirono sulla via dell'esilio. Un'ultima osservazione, dettata anche dall'appartenenza nazionale di chi scrive, quella tedesca: il confine giuliano fortemente militarizzato per certi versi ricorda quello di Berlino e per altri invece è assai più permeabile, se pensiamo all'accordo di Udine sul traffico minore tra gli abitanti della zona di confine e sul ruolo da supermercato della Jugoslavia assunto da Trieste negli anni Sessanta e Settanta (Nečak, 2001). Varrebbe la pena fare un confronto tra i vari regimes di confine nell'epoca della guerra fredda oppure addirittura nel periodo tra le due guerre. CGNCLUSIGNI E PRGPGSTE Gli italiani alla fine della Seconda guerra mondiale erano identificati con il fascismo, ma ció non poteva significare che nel fascismo di confine vi fosse qualcosa di profondamente italiano, legato al tipo di costruzione della dimensione nazionale presente sulla penisola appenninica, all'idea stessa dell'italianità?10 L'amalgama dello "slavoco-munismo" non contiene un elemento veritiero, in quanto alcune nazioni della Slavia meridionale erano disposte ad adattare un comunismo di stampo terzinternazionalista non soltanto ai tempi del primo Comintern, ma anche - e con forza maggiore - all'epoca delle aberrazioni staliniane?11 Sono ragionamenti che rischiano di sfociare in un'interpretazione essenzialista della storia. Lo scontro in atto tra i due - fascismo e comunismo - sarebbe poi stato talmente duro da non compromettere soltanto l'oppressore in camicia nera, ma anche la componente comunista che all'inizio degli anni Venti adoperó la violenza piuttosto in termini difensivi. Il fatto che la stessa lotta di liberazione a partire dal 1941 - per quanto riguarda gli sloveni - e a partire dal 1943 - per quanto riguarda gli antifascisti 10 Nel 1946 a Pola vi è uno strano incontro tra Guido Miglia, direttore del quotidiano italiano "L'Arena di Pola", e il comunista dissidente croato Ante Ciliga. Quest'ultimo osserva che nella Pola occupata dagli alleati ed assediata dalla Jugoslavia gli italiani hanno fatto sparire il croato dalle vie e dalle piazze, come se si vivesse ancora in epoca fascista. Per Ciliga, e forse anche per Miglia, è un segno, che qualcosa non va bene. 11 Mi sembra questo il nocciolo duro di alcune riflessioni avanzate da Marina Cattaruzza in un recente saggio pubblicato in lingua inglese (Cattaruzza, 2011, 79-81). Rolf WÖRSDÖRFER: L'ALTO ADRIATICO TRA OTTOCENTO E NOVECENTO. PARAMETRI STORIOGRAFICI italiani - finisce in una serie di episodi terribili, non dipende soltanto dall'importazione di forme di violenza e distruzione che andavano ben al di là della violenza squadrista. Fu lo stesso fascismo con la guerra coloniale in Libia e con l'impresa d'Etiopia ad avvicinarsi alla logica dello sterminio. Ne risentiva fortemente anche il clima politico sul cosiddetto "confine orientale" che non aveva bisogno né di Hitler né di Stalin per raggiungere punti molto alti di violenza. Uno dei grossi limiti ascrivibili alla situazione della Venezia Giulia, oppure della Primorska slovena, è quello che ambedue le parti in causa non si sentivano in grado di rispettare le attese nazionali della parte opposta e che, anzi, per ognuna di loro l'anta-gonista veniva visto come una nazione di corsari, la cui presenza lungo l'alto Adriatico dipendeva da fatti di conquista e colonizzazione. Come tale la nazione concorrente era considerata illegittima e fasulla. Ho già menzionato la politica di snazionalizzazione del regime fascista, che cercava di creare un deserto culturale che poi avrebbe voluto colonizzare con la cultura dopolavoristica. Va osservato che l'Osvobodilna fronta tentó di reinterpretare la geografía etnica delle regioni di confine in chiave antiitaliana. Basti pensare al fatto che lo Znanstveni inštitut puntó sulla furlanità in un momento in cui l'occupatore tedesco fece esattamente la stessa cosa. Sono aspetti che continuano ad entrare in conflitto con una storiografia che sa distinguere soltanto tra i buoni ed i cattivi, dove non importa molto se i buoni sono denominati "italiani brava gente" oppure "sloveni da sempre sofferenti dell'ingiustizia altrui". La storiografia politica ha spesso ricostruito le vicende della Giulia oppure della Primorska come delle vie d'uscita dalle guerre mondiali, crisi postbelliche comprese. Era sufficiente che le parti in causa cercassero degli alleati affidabili in grado di soste-nere oppure almeno tollerare il progetto di emarginazione oppure anche di eliminazione dell'avversario. Il paradosso storico consiste nel fatto che senza quell'atteggiamento ambedue le nazioni nella regione di confine non sarebbero quelle che sono oggi; tuttavia, ovviamente lungo il loro percorso si presentarono delle occasioni per cambiare rotta. Non bisogna guardare soltanto alle nazioni-stato, ma va tenuta presente anche la situazione attuale delle rispettive minoranze. Come già affermato, la storiografia non si scrive con i "se" e allora pare difficile proseguire su questa scia. Ormai sarebbe meglio non chiedersi, quale altro esito avrebbe potuto avere un vicinato meno conflittuale e traumatico. Temo in ogni modo che sia da parte slovena che da quella italiana si cerchi ancora di delegare una parte troppo grande delle colpe storiche all'avversario regionale oppure alle forze esterne (Germania nazista, URSS staliniana). Per un verso è anche vero: per quanto duro possa essere stato l'attacco tedesco contro la Polonia, l'operazione "Barbarossa" contro l'Unione Sovietica portó con sé nuove stragi ed innanzi tutto l'inizio irrevocabile della Shoah. Ciononostante bisogna prestare attenzione a non fare del fascismo di confine una specie di totalitarismo giocattolo sostanzialmente innocuo. La stessa osservazione vale ovviamente per gli aspetti deteriori della politica nazionale e denazionalizzatrice dell'Osvobodilna fronta, che non possono essere attribuiti semplicemente a dei fattori "esterni", provenienti da Mosca. Rolf WÖRSDÖRFER: L'ALTO ADRIATICO TRA OTTOCENTO E NOVECENTO. PARAMETRI STORIOGRAFICI Va posta infine una domanda precisa: come si puó arrivare al punto, a partire dal quale il rapporto tra italiani e sloveni non sia più considerato una nicchia del tutto insignificante (per la parte italiana) oppure un rapporto da sempre e per sempre conflittuale (per la parte slovena)? Come si puó garantire che il rapporto italo-sloveno per gli italiani sia più di un semplice segmento dell'ampia questione che riguarda il confine orientale, come dice Raoul Pupo? Con quali mezzi si puó garantire che lo stesso rapporto italo-sloveno per gli sloveni sia più di un rapporto di snazionalizzazione a senso unico, vale a dire un rapporto da subire passivamente oppure da combattere con la violenza? A mio avviso ci deve essere una verifica dei curriculum di studi: abbiamo bisogno di lezioni di storia sulla Slovenia presso le università italiane, almeno in quelle del NordEst e dell'area adriatica, come sull'altro versante abbiamo bisogno di lezioni di storia d'Italia presso le università slovene. Intendo qui una storia d'Italia che non riguardi soltanto i rapporti interetnici italo-sloveni, ma che si estenda alla storia dell'Italia unita e del Risorgimento a partire almeno dall'epoca napoleonica. Perché non ricercare alcune radici comuni delle due nazioni vicine nell'epoca fran-cese, in cui tutta la zona di confine tra l'altro era unita sotto il dominio della Grande Nation. Capisco bene che quell'epoca è troppo distante da poter mettere a disposizione dei contemporanei degli oggetti di identificazione. Penso peró che a partire dall'epoca napoleonica si potrebbe tentare di comprendere che cos'è e come funziona una nazione, discutendone per la prima volta al di fuori dei rispettivi miti nazionali. Risulta ad esem-pio incomprensibile come mai non sia mai stato tradotto né in italiano né in sloveno il bel volume di Andreas Moritsch sulla regione Alpe-Adria, che di tali intrecci tratta ampiamente. Inoltre, ci vorrebbero dei libri di testo accordati da apposite commissioni. In Germania esiste ad esempio un istituto di ricerca, il "Georg Eckert Institut für Internationale Schulbuchforschung", che ha accumulato decenni di esperienze nella ricerca sui libri di testo. Sarebbe un'occasione anche per gli sloveni e gli italiani studiare i materiali elaborati da tale istituto. Di fatto, se non facciamo capire agli studenti italiani che cosa sia la Štajerska, come mai quelli sloveni dovrebbero sapere qualcosa della Sicilia o della Sardegna oltre al fatto che degli sloveni vi furono condotti al confino dopo la Prima guerra mondiale? Ovviamente il discorso vale anche nella direzione opposta.12 Se tutto ció ci sembra legato un po' troppo al rapporto italo-sloveno, che per ragioni ovvie resterà ancora per molto tempo asimmetrico per quanto riguarda il peso interna-zionale dei due stati, allora potremmo farvi entrare l'intera area adriatica. Varrebbe la pena concretizzare il dibattito sulla storia regionale in modo da renderlo fattivo per una storia delle regioni che si estendono tra il Veneto e l'Albania oppure tra il Quarnero e 12 Ci sono dei limiti che riguardano gli idiomi nazionali. In ogni caso si potrebbe riuscire a mettere insieme una bibliografia della storia slovena composta da libri pubblicati nelle lingue straniere conosciute dagli studenti italiani (inglese, francese, tedesco). Si dovrebbero trovare delle case editrici disposte a pubblicare dei documenti attinenti alla storia slovena e tradotti in lingua italiana. Lo stesso vale a mio avviso nel senso inverso. Rolf WORSDORFER: L'ALTO ADRIATICO TRA OTTOCENTO E NOVECENTO. PARAMETRI STORIOGRAFICI lo stretto di Otranto. Potrebbe entrarvi anche qualche riflessione sulla forte carica di nostalgia provocata da quel mare, che una volta fu il mare dominato dalla Serenissima (Petri, 2010b). Sono in ogni modo circostanze che dipendono anche da una precisa volonta politica, su cui gli storici possono tentare di influire, anche se non e garantito, che la loro parola trovi ascolto. ZGORNJI JADRAN MED 19. IN 20. STOLETJEM: ZGODOVINOPISNI PARAMETRI Rolf WORSDORFER Tehniška univerza v Darmstadtu, Inštitut za zgodovino, Residenzschloss, 64283 Darmstadt, Nemčija e-mail: woersdoerfer@ifs.tu-darmstadt.de POVZETEK Prispevek vsebuje vrsto aktualnih razmišljanj na temo historiografije jadranskega prostora, še posebej italijansko-slovenskega obmejnega območja. Prispevek uporabi rezultate italijansko-slovenske zgodovinsko-kulturne komisije kot povod za spraševanje in razmišljanje o stanju raziskovalnih dejavnosti na in o tem obmejnem območju. Avtor posebej poudarja, da je nujno premagati ozkogledi, nacionalno-zgodovinski pogled na celotno regijo. Med drugim se sprašuje, kakšne so možnosti, da raziskovalci v okviru socialne zgodovine, ustnih zgodovinskih virov in primerjalne književnosti formulirajo nova vprašanja. Doseženim uspehom navkljub dvomi, da bi lahko v bližnji prihodnosti prišlo do novih pogledov na zgodovino tega prostora. Specifičnost jadranskih obmejnih manjšin avtor primerja s podobnostmi in razlikami v razvoju nemške manjšine južno od Bren-nerja. Med podobnosti razvoja sodijo premiki mej in prebivalstva na obeh območjih, kot glavna razlika med manjšinama v času po 1945 pa je naveden obstoj "trde" (Južnotirol-ci) in "mehke" manjšine (Slovenci na območju Furlanije-Julijske krajine). Pomembna je tudi ugotovitev, daje Bolzano (nem. Bozen) v 30-ih letih prejšnjega stoletja iz fašističnega zornega kota pomenil izjemo v "uspeli" italijanizaciji, ki si ga je po drugi svetovni vojni italijanska stranka v Trstu vzela kot opozorilo za etnični razvoj v tem pristaniškem mestu. Nasprotno pa predstavlja t. i. "lebdeča narodnost" konstanto na različnih mejnih območjih med Koroško, Goriško in Istro. Novejše delo, ki na podlagi intervjujev raziskuje fluktuacijo etničnih in nacionalnih samoopredelitev in razvrstitev v Gorici, si po avtorjevem mnenju zasluži veliko pozornost. Aktualne so še vedno tudi raziskave različnih oblik pregnanstva in prisilnih migracij. Možnosti primerjave med izseljevanjem julijskih Slovencev in Hrvatov med obema vojnama in eksodusom istrskih Italijanov po letu 1945 še zdaleč niso izčrpane. Konkretne oblike sodelovanja med zgodovinarji in zgodovinarkami jadranskega prostora so še vedno aktualne. Vrh tega bi morali biti učni načrti univerz in šolski učbeniki neprestano pod budnim očesom strokovnjakov. Prepogosto se v šolah poučuje zgodovino Rolf WÖRSDÖRFER: L'ALTO ADRIATICO TRA OTTOCENTO E NOVECENTO. PARAMETRI STORIOGRAFICI z nacionalnim poudarkom in veliko redkeje zgodovino, ki bi obravnavala prepletenost različnih etničnih in nacionalnih skupin. Ključne besede: severnojadranska regija, mešana italijansko-slovenska zgodovinsko-kul-turna komisija, socialna zgodovina, ustna zgodovina, italijansko-slovenski odnosi, (post) nacionalno zgodovinopisje FONTI E BIBLIOGRAFIA Bergonzi, V., Heiss, H. 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