L'ASSOCIAZIONE per un anno anticipati f. 4. Semestre e trimestrein proporzione Si pubblica ogni sabato. Sepoltura del principe Enrico di Bar in Capodistria. Abbiamo altravolta toccalo come in ogni città i chiostri e le chiese dei PP. Francescani venissero scelti a preferenza per collocarvi l'ultima stanza di illustri famiglie e di personaggi celebri. V' ha memoria che nella chiesa dei Minori Conventuali di Capodistria fossero sepolti, un principe reale di Francia, e quel Filippo Arcelli generale dei Veneziani il quale compiè la conquista dell' Istria nel 1420 a' danni del patriarca Lodovico di Tech che n' era legittimo principe. Sciolto il convento nel 1806, l'edifizio e la chiesa vennero convertiti in usi profani, le pietre scritte levàte ed adoprate come materiale, cancellate le leggende, forse senza che alcuno ne tirasse copia. Aveva bene il vescovo Tommasini raccolte alcune leggende sparse per le chiese, ed avevale poste in appendice ai suoi Commentari sull'Istria; il Naldini egualmente ave-vane registrate molte nella sua Corografia tli Giustino-poli, ma tra queste non figuravano gli epitafi del principe francese, nè del generale Arcelli. In brandello di carta favoritoci dalla gentilezza di Monsig. Arciprete di Umago D. Luigi Bencich leggiamo registrata, siccome tratta dal marmo, la seguente leggenda: HIIC I///CENT VIS CERA I///VSTRIS HENRICI ////DE BAR PRIMOGENITI ILLVSTRIS DOMINI DVCIS BABENSIS CONSANGVINEI G///////// ////////////SSIMI RE//////S FRA//////RVM ////////NO Mi MCCCLXXXXVII • DIE TER/////IO MENSIS OTTORRIS /////// ANIMA RE 0 VIE S C///////////////////^ La quale noi leggiamo: Hic jacent viscera illustris Henrici de Bar primogeniti illustris domini Ducis Barensis ac consanguinei generosissimi Regis Francorum. Anno Domini i 3 97 die tertio mensis octobris. Cujus anima reyuiescat in pace. La sepoltura vi si indica collocata presso i gradini dell' aitar maggiore e scritta nei lati che formavano la pietra sepolcrale (come pensiamo all'ingiro): sulla pietra stava inciso lo scudo. Il personaggio sepolto in Capodistria era figlio primogenito di Roberto duca di Bar e di Maria di Francia, figlia del re Giovanni, che si sposarono nel 4 giugno 1364. Enrico insieme al fratello Filippo si recarono a militare nell'Ungheria con molta nobiltà francese contro il Turco; ma nella infelice giornata di Nicopoli i Francesi ebbero la peggio. La fama collocava fra i morti ambedue i de Bar; ma dalla leggenda apprendiamo che il primogenito Enrico morì nell'ottobre 1397 in Capodistria, allora soggetta ai Veneziani, ricoveratovi, come sembra, malconcio a segno da non poter progredire il viaggio a Venezia. Esso non poteva contare più di trentadue anni d' età. Il ducato di Bar passò al terzogenito Odoardo III. Dei fratelli, Luigi fu cardinale, Carlo signore di Nogent-la-Botrou; Giovanni morì alla celebre battaglia di Azin-court; delle sorelle, Jolanda fu moglie a Giovanni re d' Arragona, Maria a Guglielmo li conte di Namur, Bona a Valerano conte di S. Polo, Giovanna a Teodoro II Pa-leologo marchese di Monferrato, Jolanda minore ad Adolfo duca di Berg e Julich. Ricorderemo alcune circostanze della spedizione cavalleresca a cui prese parte il principe Enrico de Bar. I Turchi venivano avanzando a rapidi passi in Europa, e miravano alla conquista di Costantinopoli la quale da remotissimi tempi riguardavasi siccome la chiave di Europa e di Asia, del Mar Nero e dell' Egeo. Gli imperatori bizantini, corrotti dalla mollezza e da vili arti che chiamavano politica, non potevano resistere all' irruzione che li minacciava; nè i popoli loro soggetti lo potevano e lo volevano, ammolliti essi pure, e non retti da forte e saggio reggimento. Gl'imperatori ricorrevano al mezzo delle preghiere e delle lagrime; Emanuele Paleologo II rivolgevasi alla Francia nel 1396 deplorando di essere sempre più stretto in Costantinopoli dal sultano Bajazet-te ed invocava assistenza. La nobiltà francese si mosse all'entusiasmo, un'armata di mille cavalieri, di mille scudieri e di dodici mila soldati sotto il comando del conte di Nevers, del contestabile di Francia conte d' Eu e del maresciallo Boucicaut fu unita per muovere in aiuto del re d'Ungheria Sigismondo, e giovarlo nelle imprese della Valachia e Bulgaria. Altro corpo d'armata sotto il comando di Enrico principe ,di Bar e del signore di Coucy doveva imbarcarsi nella Provenza, restituire l'influenza francese in Italia, e traversando la Lombardia recarsi nell'Ungheria meridionale. Nell'aprile 1396 la colonna francese si mosse attraverso la Germania a piccole giornate, ed a questa si unirono per via l'Elettore palatino, il conte di Miimpel-gard, il Gran Maestro dei cavalieri di S. Giovanni Filiberto Naillac; Sigismondo re d'Ungheria die mano per unire un'armata, il di cui comando venne dato a Stefano Lascovitz nemico occulto del re, vi si unirono Tedeschi sotto il comando del conte Ermanno di Cilli. Francesi, Tedeschi, Ungheri si unirono in Buda formando un grosso di centomila e la confidenza in tanta forza fu eccedente. L'armata fu raggiunta nella bassa Ungheria dal corpo che veniva da Italia sotto comando del principe Enrico, entrò nella Servia, prese Widdino. I Francesi furono dappertutto nell'avanguardia, e prendevano a dileggio gli Ungheri ed i Tedeschi, al cui valore fu molto dovuto. Il dì 15 settembre 1396 si marciò contro Nicopoli, il di cui assedio venne impreso dai Francesi, sebbene non avessero macchine d'assedio; una flottiglia manteneva la comunicazione pel Danubio. La fidanza era tale che non si credette la nuova dell' avvicinamento di Bajazette con 200,000 uomini fino a che non ebbe a vederlosi. Tenuto consiglio di guerra, i Yalachi dovevano formare l'avanguardia, come più pratici del modo di guerreggiare delle truppe turche leggiere; dovevano i Francesi attaccarsi coi Gianizzeri, Sigismondo cogli Ungheri e Tedeschi formare il grosso, sostenere i Francesi, e tenere lontani gli Spalli. Ma i Francesi vollero assolutamente l'onore ed il pericolo dell'avanguardia, i nobili giovani riguardarono compromesso l'onore della nazione; l'ostinatezza del Contestabile la vinse; i Francesi si posero nell'avanguardia sotto il comando del conte diEu e parte del corpo di battaglia sotto il comando di Nevers e Coucy. La battaglia venne data il dì 28 settembre 1396; i Francesi dispersero sulle prime l'avanguardia turca, ma giunti al grosso dell' armata stessa che stava dietro palizzata, non vollero attendere che s'avanzassero gli Ungheri ed i Tedeschi, scesero di cavallo, assalirono le barricate ed ebbero sulle prime la meglio, ma poi assaliti dalla fanteria e fatto impossibile di unirsi agli Ungheri, vistisi ridotti a soli dodicimila mancò loro repentinamente 1' animo, mostraronsi meno che donne, mentre poco prima erano stati più che uomini; fuggirono in completo disordino. Il panico terrore si propagò ali' armata che per poco resistette. Appena il re Sigismondo potè salire una nave Veneziana e scendere il Danubio; dell'armata si salvò chi potè. Dei Francesi pochi si salvarono; il conte Nevers, il Contestabile, il principe Enrico di Bar, la Tremouille, Coucy, l'Elettore Palatino furono tra i presi. Il dì seguente alla battaglia Bajazette ordinò la morte dei prigionieri; diecimila furono scannati in macello che durò dal levare del sole alle quattro pomeridiane; alle preghiere del Nevers fu accordata la vita a lui ed a ventiquattro Francesi dei più nobili, i quali furono rinchiusi nella torre di Gallipoli. Fra i prigionieri vi era il principe Enrico» Sigismondo che nel suo passaggio per ricoverare in Dalmazia li vide, ne ebbe compassione, e deliberò riscattarli; altrettanto vollero i re di Cipro e di Francia. Nel 1397 ebbe luogo la liberazione in Brusa verso pagamento di 200,000 zecchini. Sebbene gli storici non parlino del principe fra le persone che uscirono vive di cattività e comunemente ritengasi che fosse morto in prigionia, la lapida di Capodistria è testimonio che desso ne sortì, e lasciasse le sue spoglie mortali in questa città, come sembra, nel viaggio di ritorno che faceva. Oggidì invano si cercherebbero le ossa o la pietra che copriva la tomba del valorosissimo principe francese, campione della fede, che combattè per la salvezza dell'Europa. Nella profanazione della chiesa le ossa andarono calpestate, la pietra, cancellata l'inscrizione, è forse una di quelle che formano i marciapiedi della piazza: la memoria dell'illustre è dimenticata. Alcune inscrizioni romane desunte da schede. D M L GALLIVS SIL VESTEH MIL CHORT II PRAET SIBI ET PARENTI BVS lllllilllllllH T F //// mM Viene indicata siccome scritta su masso sostenente la mensa dell' altare nella chiesa di S. Mauro presso Rozzo, guasta per età. La gente Gallia figura in lapida triestina; appena potrebbe dubitarsi che Gallio Silvestre della presente leggenda fosse da Rozzo ove ordinava per testamento il sepolcro a sè ed ai genitori suoi; l'aggregazione alla coorte seconda dei Pretoriani è novella prova come gli abitanti dell'Istria montana venissero accolti in milizia tanto celebrata. ///// CVMICVS ///Z///XIMI • F • ///////////////IX H • S • E Esiste in casa di Giamaria Lussa sotto Rozzo, per pietra da pavimento presso il focolare. Fu tratta da sotterra in un orto, e copriva le ossa di persona straordinariamente alta. TEDIA 0 ' F MARCELLA Pietra piccola e mobile di figura quadrangolare in casa del sig. Antonio Ban in Rozzo. Breve narrazione del successo, cause, ed occasione della guerra tra la repubblica di Venezia e Ferdinando Arciduca d'Austria nel 1615. (Cont. e fine. Vedi il N. antec.J La terra di Muggia stette anche in pericolo di perdersi, e parve che il Signore Dio volesse ammonire il veneto provveditore della sua ingiusta guerra, perchè solo sette persone morirono delli arciducali, e tredici restarono feriti. Se con questa vittoria gli arciducali si fossero ritirati ai loro alloggiamenti ed ivi fermatisi, si sariano in un certo modo immortalati, e forse fatto mutar pensiero alla Repubblica; ma l'infelicità de'nostri tempi volse, che il conte di Terzal, vice-generale, o fosse "per vendetta dell' abbruciamelo di Novi che fu rovinato dai Veneti il mese d' agosto passato, o fosse stimolato da' suoi soldati che per esser partiti tanto lentamente dalle lor case avevano desiderio di prede, o per altro infortunio si levò, due giorni dopo il fatto d'armi, con parte della sua gente, e passato di notte il Carso venne nel territorio di Monfalcone, luogo della Repubblica, ove assaltate alcune ville, e postovi il fuoco ad esempio delle milizie venete, cominciò prima lo svaligiamento conducendo via quanto in quella furia venne loro nelle mani, coti di robe di casa come d' animali che ivi ritrovarono, e avrebbero facilmente potuto occupare la rocca e la terra con tutto il territorio se avessero voluto; ma lo stesso giorno sull' ora di nona ritornarono li arciducali ai loro alloggiamenti sopra Trieste; un'altra parte di gente arciducale, che era di quelli di Segna e di quei confini, passati nel territorio di Muggia e tirando verso l'Istria, andavano depredando e abbruciando quanto potevano non ritrovando alcun impedimento d'abitatori che tutti s'erano ritirati nei luoghi sicuri e forti; e nello stesso tempo alla fama della rotta data a'Veneziani, alcuni di Vinodal e di quei confini, passato il monte maggiore, corsero buona parte dell'Istria facendo lo stesso, che dicevano aver cominciato a far i Veneziani, e aver da quelli imparato, di che dolendosi grandemente l'arciduca Ferdinando, che non era stata la sua mente causa di tanto male, chiamò alla sua corte il di Terzal ed alcuni suoi principali ministri, e a loro diede ordine che raffrenassero quel tanto fervore, e che commettessero all'esercito di Sua Altezza, che attendesse più alla difesa del paese, che all'offesa de'Veneziani credendo che per quello che dal vice-generale di Gorizia veniva scritto, ed era comune opinione nel Friuli che i Veneziani non avrebbero fatta altra mossa, ma che fossero pronti ad accomodare questi rumori cominciati di guerra; e mentre nel contado di Gorizia e nel Friuli si stava con buona speranza per quello che due gentiluomini principali nel Friuli, un Pramper ed un Frangipane, avevano quasi assicurato di questa quiete, giacché non era stata intenzione dell'arciduca di romper coi signori Veneziani che anche non a-vevano fatta altra novità di guerra; non di meno il sabato precedente le feste di Natale del Nostro Signore, che fu ai 19 di dicembre, avendo la Repubblica mandato in Friuli Pompeo Giustiniani genovese, suo generale in terra ferma, che prima andò riconoscendo tutti i luoghi de'confini, e dopo di ciò gli uomini d'arme nel veronese, vicentino, padovano e trivigiano con molte compagnie di soldati delle cernide e con molte provvisioni da guerra credendosi pur che queste dimostrazioni fossero per difesa solamente rispetto alla vicinanza di soldati arciducali, la mattina a buon' ora accostatosi il Giustiniani alla fortezza di Palma con un esercito, per quello si disse, di 4 mila fanti e 500 cavalli conducendo due pezzi d'artiglieria, occupò prima il villaggio austriaco di Medea col suo monte che scopre Palma, e il villaggio di Moriana, e marciò verso il borgo di Cormons, dove, mandato avanti M. Antonio Mazano di Cividale capitano de'cavalli, fece persuadere a quei gentiluomini e ad altri abitanti di quella terra, che dovessero rendersi alla Repubblica altrimenti gli avrebbe spianato il borgo, e tagliali a pezzi, onde astretti dalla necessità per essere il luogo aperto, si resero, e accettato l'esercito nel borgo tutti furono spogliati dell'armi sottoponendosi ai comandi del veneto generale, il quale come padrone diede quelle leggi e pubblicò quei bandi che a lui parve, e fatte dipingere alla casa del Comune l'armi e in-« segne di S. Marco, e mandato un numero de'soldati sopra il monte dove anticamente era un castello ma distrutto, impiantata un'insegna fece rifare detto castello, e condurvi sopra due pezzi d'artiglieria e trinoierare il borgo con buoni ripari per assicurarsi con le sue genti, attendendo col mezzo de'suoi capitani e soldati pratichi di quei luoghi, di ridurre all'obbedienza della Repubblica tutte le ville convicine, facendo per forza andar nella fortezza di Palma i decani e principali delle ville austriache a giurar fedeltà e obbedienza alla Repubblica, avendo fatto fare lo stesso a quei di Cormons, e pochi giorni dopo mandarono a Palma, ove poi dal provveditor generale furono onorati col privilegio di cittadini di Cividale, e due della famiglia dei Mirti fatti alfieri con restituir loro l'armi. Ed essendo il giorno seguente di Natale partiti da Cormons 200 cavalli e circa 500 fanti occuparono anche il villaggio di Luvezze con pensiero di mantenerlo per la comodità del sito e per la vicinanza della terra e fortezza di Gorizia, eh' è metropoli di tutto il contado, che poi il giorno seguente per esser venuto a Gorizia il conte di 'Ponzati con la sua gente mentre si poneva all' ordine di andar a ritrovarli e sloggiarli di là, li abbandonarono, ma quanto poterono far levar dal luogo di fieni, paglia, biade e altre robe, fecero il tutto condurre a Cormons, e nel medesimo tempo spedita in Istria per mare molta gente, e fatti venir ancora Turchi in buon numero in diverse parli del Luvezze, hanno assaltato i sudditi arciducali, depredando e abbruciando ogni cosa, facendo alla peggio come hanno saputo; e sebbene presso a Fiume hanno dato un gagliardo assalto al castello Mochianese, e battutolo da mar e da terra con buone cannonate, però hanno poi abbandonata l'impresa, e si sono ritirati, tutto che la loro armata fosse di molte galere sottili e 40 barche armate, dicendosi che aspettassero le galere di Candia e due galere grosse per venir con maggior sforzo all' assalto della città di Trieste per mare e per terra; e il generale Giustiniano si è posto all' assedio di Gradisca con buona fanteria e cavalleria essendo le cose in termine, che Dio sa quello che possa succedere conoscendosi l'intenzione della Repubblica esser tale che sotto colore o pretesto di ripulsare e vendicare le ingiurie ricevute da Uscochi ladroni come dicevano senza mai toccare l'arciduca Ferdinando, ora vogliono inquietare l'Italia, e in questo modo occupare lo stato di Sua Altezza avendo sempre coperta questa loro volontà col pubblicare di far guerra agli Uscochi, e tacer di muover guerra all' arciduca, e per conseguenza a tutta la Casa d'Austria e all' impero, sebbene si sono dichiarati col sig. marchese di Bedmar, ambasciatore del re cattolico in Venezia, di voler in ogni modo assicurare lo stato da questa parte contro gli Uscochi solamente. Memorie istoriche antiche e moderne della terra e territorio di Albona. (Da manoscritto di Bartolomeo Giorgini.) CAPITOLO I. Deli origine, antichità e sito della terra d'Albana. A voler francamente asserire qual fosse il primiero fondatore d'Albona, o Alvona, secondo la greca pronuncia, ed in qual anno del mondo eli' avesse il di lei nascimento sarebbe sciocchezza, nonché temerità l'affermarlo; sì, perché l'antichità e picciolezza ne'suoi primordi la rese incognita alle penne degli storici Greci, sì anco perché pochi de' Latini prima di Tito Livio scrissero generalmente dell' Istria, o Giappidia, in cui (come in appresso dirassi) fu fondata, non avendosi di lei altra contezza, che di passaggio nell' Itinerario d'Antonio, ed in Plinio nel lib. 4, cap. 21. Tuttavia è comun opinione de' scrittori antichi, che verso l'anno del mondo 2731, innanzi la fondazione di Roma 500 anni incirca, e 1222 pria dell' incarnazione del Divin Verbo, ritornando Giasone nepote di Pelleo re di Tessaglia co' suoi Argonauti dalla conquista del Velo d' Oro da lui fatta in Coleo con Medea figliuola di quel re Aete, spedì questi per 1'Istro, o Danubio, molti de' suoi vassalli ad inseguirlo sino alle spiagge Aquileiesi dell'Adriatico; nò potendolo questi raggiungere per esser egli di già partito di ritorno alla regia paterna per mare, stanchi i Colchi famosi di sì lungo cammino per non ritornar svergognati alla corte del loro sovrano senza il bramato riscatto della di lui figliuola, scelsero piuttosto fermarsi ai lidi della Giappidia, nomandola Istria, fabbricandovi in essa alcune cittadi e castella, fra le quali potrebbe esservi compresa anco Albona; forse allettati dalla fertilità ed ampiezza del territorio, recin-' to quasi d'ogni intorno dell' acque. È probabil però che l'antica di lei fondazione non fosse da principio sul monte dov' ella di presente s' at-trova; poiché in quella guisa che l'antica Nisazio, città della quale non ci rimane di presente che il sito, fu fondata alla foce del fiume Arsa nell' angolo orientale dell'Istria sul golfo Canario; così Albona sull'opposta sponda in sito ameno i suoi primieri abitatori la fabbricassero. Di ciò possono dare qualche contezza le vestigia di grosse mura, che tuttavia si scorgono nella villa chiamata anco in oggi Stari Grad, che nell'illirico idioma significa vecchia cittade, o terra murata, distante dalla presente Albona da circa sei miglia, il che fa creder ad alcuni, che gli antichi abitatori annoiati non meno dell'insalubrità di quell'aere, soggetto all'umide esalazioni dell'Arsa, dalla penuria delle sorgenti di quel piano terreno, dalla distanza di circa otto miglia dal mare, che dalla difficoltà del difendersi dalle nemiche incursioni sopra quest'alto monte, che sovrasta al Canario, e copioso di limpidissime fonti, in saluberrimo aere la riedificassero. Sta ella situata, secondo i geografi, all' estremità meridionale della Giappidia, regione montuosa dell' Istria, la quale conservando il primiero nome separa questa dalla Liburnia in gradi 44 e minuti 40 di latitudine boreale, e in gradi 37 e minuti 30 di longitudine ver la fine del 7.mo clima sotto il 14 parallelo, dando il sole al di lei maggior giorno ore 15 e minuti 24. CAPITOLO II. DeW ingrandimento e fortificazione d'Albona. Persino al secolo XIV della grazia non fu Albona che mediocre castello situato su la sommità di questo monte, il cui recinto non stendevasi che al di sopra la chiesa di S. Stefano. Ricovratosi però, come dirassi al Cap. VIII, sotto le ali del Veneto Leone, e concorsevi ad abitarla molte famiglie forastiere, 1' aggrandirono con fabbriche in modo tale, che di parte per la magnificenza di quelle e per il numero de' suoi nobili cittadini, e per il decoro e splendore con cui vivono, meritar si potrebbe il nome di città più che di terra murata. Perlocché la Serenissima Veneta Repubblica sempre attenta alla conservazione e difesa de'suoi fedelissimi sudditi, risolse di cingerla nel restante di mura con cinque torrioni quadrati all'uso di que' tempi, muniti di petriere di bronzo, facendo erigere una cortina merlata in forma di rivelino per difesa della porta maggiore, nel mezzo della quale si eresse un superbo portone d'ordine toscano, al di sopra del quale in adequato nicchio vi fe' por la figura di tutto rilievo d'un alato leone di pietra dorato, geroglifico del glorioso di lei protettore, opera la più stimata dagl'intendenti per la rarità del lavoro di quante ve ne abbiano le altre città e luoghi del Serenissimo Dominio, e per tener anco in bocca una palla con singoiar artifizio intagliatavi nella pietra medesima, la quale toccata con dito, od altro stromento, per gl' intervalli de' denti, si muove e s' aggira in bocca dello stesso leone. (sarà continuato.)