UDK 850(450.361).09»1890/1950« IL TEMA DEL DIVERSO IN UNA LETTERATURA DI FRONTIERA Atilij Rakar Volendo volgere súbito l'attenzione ad un'area culturale geográficamente e storicamente determinata, per essere in grado di mostrare su testi precisi dove e come si manifesta la tematizzazione del diverso nella cultura letteraria di un ambiente a caratteri specifici, definibile come letteratura di frontiera, nell'ambito delle lettere italiane difficilmente troveremmo opere che piú si prestiño a tale definizione di quelle che nell'ambito delle lettere italiane offre la letteratura triestina. E basta restare ad autori come uno Svevo, un Saba e uno Slataper che ne sono i rappresentanti piú vistosi, per cogliere anche quelli che sono i caratteri piú tipici della cultura letteraria che va maturando a Trieste a partiré dalla fine dell'Ottocento per prendere presto coscienza di sé e presentarsi come letteratura di frontiera anche nelle dichiarazioni pro-grammatiche in cui si definisce. II postulato che »Trieste... deve volere un'arte triestina«1 non é stato espresso da nessuno in termini cosí calzanti come da Scipio Slataper. Negli articoli che lo scrittore triestino, poco piú che ventenne va pubblicando nel 1909 sulla rivista fiorentina »La Voce« col titolo Lettere triestine, viene presa in esame la realtá specifica di Trieste proprio in vista del tipo di »coltura«2 a cui questa cittá dovrebbe tendere per esprimere la sua anima. Nelle Lettere triestine si notano súbito i punti su cui verte il discorso slataperiano sulla cittá del portofraneo: c'é la denuncia di una carenza, da ritenersi la piú grave e la piú sentita dall'autore, esclamata fin dal primo articolo che si presenta col titolo »Trieste non ha tradizioni di coltura«,3 c'é l'invocazione di una cultura in cui trovi l'espressione adeguata quello che Slataper chiama »l'anima«4 di Trieste, non mancano poi né una individuazione di quelli che sarebbero i caratteri di quest'anima né una definizione del tipo di cultura a cui Trieste avrebbe da tendere per arrivare all'espressione autentica di sé stessa. Ció che qui s'impone con maggiore insistenza all'attenzione del lettore sono proprio le ragioni a cui Slataper si richiama: la situazione che l'autore delinea con tanta intelligenza, onestá e coraggio si dimostra un esempio típico di una situazione di frontiera, la cultura che invoca con altrettanta chiaroveggeneza e pone come miraggio a cui tendere é per definizione una cultura di confine. Basta ricordare qualche passo di questo discorso teso 1 Scipio Slataper, Scritti politici, a cura di Giani Stuparich, Milano, Monda-dori, 1954, p. 46. 2 Ivi, p. 11. 3 Ibidem. 4 Ivi, pp. 17, 45, 46. 39 a metiere in rilievo la realtà specifica di Trieste che, come Slataper letteralmente dice, »possiede ... una propria natura ... différente ... dagli altri comuni italiani«,5 »è italiana in modo diverso dalle città italiane«:6 »Anche se non piú il nostro dialetto è diverso dagli italiani, ricordiamoci che fu ladino. La nostra anima è diversa anche ora«.7 Ed asserzioni come »Trieste ha un tipo triestino: deve volere un'arte triestina«8 per »esprimere questo modo diverso«,9 non si presentano come un invito, come proposta di un programma da preferire, ma s'impongono colFinflessibilità di postulati che non ammettono alernative, si richiamano ad evidenze che escludono esitazioni. All'insegna di questa premessa il discorso slataperiano assume accenti sem-pre piú polemici: »Ci innicchiamo, coscienti délia nostra italianità, nel pen-siero italiano. Non gli diamo quello che sarebbe essenzialmente nostro se spremessimo a viva forza la nostra dolorante vita. ... E siamo codardi. Abbiamo paura di quello che ci circonda: se il nostro spirito lo smuove puô esserne sfragellato. C'è un'ansia terribile nelle cose nostre: ma noi la lasci-amo nascosta nelle cose, non l'aizziamo con la ricerca. Un velo sul complesso dei fatti ... guardarli tutti, sintéticamente, nella realtà: questo no! ... si invece! È necessario: scoprire la causa délia nostra inquietudine ... ignavi son tutti quelli che non vogliono vedere le nostre condizioni. E le subiscono passivamente. Siamo in contatto diretto con altre civiltà; ma gli ignavi che non sanno turbarsi con il conflitto delle ragioni politiche contro le intellet-tuali fino a scoprirlo apparente e conciliario, non vogliono cercar di trasfor-mare in vantaggio il danno di questo contatto. ... Sappiamo il tedesco; potremmo dominare tutta la letteratura nórdica: e, indolenti, ne siamo avvinti. O, stupidi, la disprezziamo. Ci dobbiamo difendere dagli sloveni: se ci forti-ficassimo del genio e dell'entusiasmo slavo? L'anima nostra se ne potrebbe aumentare se, accettati corne forze nuove, sapesse ridurle a ritempramento délia sua energía; come sapemmo accrescerci di numero con l'assimilazione di tedeschi e di slavi.«10 Lo spazio concesso alla citazione sembrerà eccessivo, ma è nelle ragioni qui esposte che Slataper meglio riassume i tratti essenziali délia realtà triestina, presentandoli con coraggio, »senza paura«,11 come puô dire, dopo aver »guardato con seria e sincera attenzione d'intorno a sé e in sé«.12 Si tratta poi di argomenti su cui il Nostro amerà insistere in aperta polémica con quanti vanno diffondendo in Italia un'immagine différente di Trieste; e infine, ció che piú importa, è nei passi citati che si possono individuare anche motivi destinati a ricomparire nelle pagine artistiche di Slataper, come potremmo vedere. Restando al concetto centrale, rispetto al quale tutti gli altri motivi si presentano subordinati, è comunque da sottlineare che tutte le ragioni ad-dotte hanno qui il ruolo di metiere in rilievo l'eterogeneità di Trieste. »L'anima tanto eterogenea«13 non puô non riportare a quelli che Slataper chiama 5 Ivi, p. 14. 6 Ivi, p. 44. 7 Ivi, p. 46. 8 Ibidem. 5 Ivi, p. 44. 10 Ivi, pp. 43—44. 11 Ivi, p. 17. 12 Ibidem. 13 Ibidem. 40 »elementi primi«,14 naturalmente diversi fra loro, che sono inclusi nel concetto stesso dell'eterogeneitá, é comunque dall'eterogeneitá di Trieste che Slataper deriva il postulato di »un'arte triestina«,15 di un'arte »che ricrei con la gioia dell'espressione chiara questa convulsa e affannosa vita nostra«.16 Giunti a questo punto, non possiamo astenerci dall'allargare lo sguardo al panorama della letteratura triestina contemporánea per vedere come essa si presenta nei confronti del discorso slataperiano che sembra imporsi come il suo manifestó, il suo programma. Non c'é bisogno di avvertire che gli articoli citati non possono essere definiti come un programa vero e proprio della letteratura triestina nel senso dell'interdipendenza che tale rapporto fa supporre. Essi vanno presi come espressione riflessa di una attivitá letteraria giá in grado di definirsi, di fis-sare dei punti, ma non piú. Slataper aveva tutte le prerogative per imporsi come un caposcuola, un'attenzione a parte meriterebbero i piani che faceva, piani che l'evento della guerra sconvolse, senonché quando apparvero sulla »Voce« i suoi articoli invocanti una letteratura triestina, questa era giá nata: c'era giá Svevo, c'era giá Saba ... i due piú grandi. II primo, ormai prossimo alia cinquantina, sembrava aver giá dato l'addio alia letteratura dopo aver pubblicato piú di dieci anni prima senza successo due romanzi, Una vita nel 1892, Senilitá nel 1898, opere che saranno riconosciute come fondamentali quando verranno scoperte. Slataper non le vede. O fa finta di non vederle. Saba non aveva che pochi anni — cinque per l'esattezza — piú dell'autore delle Lettere triestine; nel 1909 pero poteva dirsi ormai uscito dal noviziato poético. Slataper avrá letto di Montereale, come Saba ancora si presentava, almeno L'osteria fuori porta, pubblicata alia fine del 1907 sul »Palvese«, rivi-sta triestina che l'autore delle Lettere triestine poi cita17 e per diré di essa abbastanza bene, anche se in termini piuttosto litotici. Ma quando, due anni piú tardi leggerá Poesie, l'opera che offre giá pienamente l'immagine della lirica sabiana, il giudizio che Slataper ne dará si rivelerá di un'incredibile incomprensione: Saba si vedrá annoverato fra i crepuscolari, lo stato d'animo che esprime sará paragonato a »timiditá d'insetto caduto dal gelso sulla strada maestra«,18 una poesía della sublimitá di A mia moglie verrá definita »cómica«!19 Per tacere del rifiuto, da attribuire a Slataper, del saggio Quello che resta da fare ai poeti che Saba invierá alia redazione della »Voce«, un saggio che poi esprime in termini vociani principi tutt'altro che contrastanti con le posizioni slataperiane. La reazione di Saba a rifiuti cosi umilianti possiamo immaginarla. I due proprio non erano fatti per intendersi. Eppure, malgrado le dif-ferenze che sembrano irriducibili, il poeta e lo scrittore di Trieste hanno anche tratti comuni che i critici piú attenti metteranno presto in rilievo. E anche a restare nei limiti del tema che qui ci siamo proposti potrebbero essere messe in rilievo tendenze analoghe, e non solo di per sé interessanti ma capaci di condurre ad analogie anche piú significative. 14 Ibidem. 13 Ivi, p. 46. 16 Ibidem. " Ivi, p.42. Sul »Palvese« Slataper stesso pubblicó un bozzetto intitolato II freno. 18 Scipio Slataper, Perplessitá crepuscolare, in Scritti letterari e critici, Roma 1920, p. 184. (Slataper pubblicó l'articolo sulla Voce del 16 novembre 1911). " Ivi, p. 185. Si veda anche la recensione delle Poesie di Saba che Slataper aveva pubblicato il 26 gennaio dello stesso anno su La Voce. 41 Per incominciare con una considerazione di carattere preliminare, pos-siamo partiré da alcune note di Saba piú fácilmente riportabili al tema della »eterogeneità« o quello implícito degli »elementi primi« di memoria slata-periana. Quando Saba scrive: »Trieste è sempre stata un crogiuolo di razze. La città fu popolata da genti di verse: Italiani nativi della città, Slavi nativi del territorio, Tedeschi, Ebrei, Greci, Levantini, Turchi col fez rosso in testa e non so quante altre. Nacque, come città moderna, dall'istituzione del porto-franco sugli scorci del secolo XVIII .. .«20 e insiste suH'immagine di »questo trafficante amalgama di persone cosí étnicamente diverse«21 per dire che »vi sono oggi ancora triestini che hanno nel sangue dieci dodici sangui diversi«,22 si direbbe che il poeta voglia riprendere il discorso slataperiano di trenta-cinque anni prima per »exaggerare«, come dicevano i predicatori del Sei-cento, su un argomento che si rivela anche qui diducibile al tema dell'etero-geneità di Trieste. Laddove Slataper si limita a dire: italiani, sloveni, tedeschi, l'elenco degli »elementi primi« che fa Saba sembra non aver fine. Ci si avvede presto perô che il computo degli »elementi primi« spinto a raggiungere »dieci dodici sangui diversi« non rappresenta un complemento del discorso slataperiano ma un ragionamento in direzione diversa. Gli »elementi« a cui resta Slataper, quali nominativi di nazionalità in aspro conflitto fra loro, portano direttamente in politica anche in un discorso che si annuncia come un rag-guaglio delle condizioni di cultura e prende le mosse da un titolo come Trieste non ha tradizioni di colturaP Nel caso di Saba invece succédé il contrario: in un articolo dichiaratamente político, intitolato Inferno e paradiso di Trieste, nato dalla contemplazione dell'inferno triestino degli anni che immediatamente seguono la seconda guerra mondiale e concepito come generoso appello agli italiani e agli sloveni della città contesa ad arrivare alia »reciproca sopportazione«,24 giacché »convivere bisogna«,25 il tema della eterogeneità si presenta anche in forma di una parentesi che ci distrae dal contesto: i due elementi nazionali in conflitto finiscono infatti per confondersi e perdersi in cotanta pluralità e l'argomento dei »dieci dodici sangui diversi« porta ad una conclusione per niente politica: ció che il poeta ne deduce è infatti »una delle ragioni della neurosi, particolare«26 ai triestini, come letteralmente dice. Ed è un argomento, questo, a cui Saba ama ritornare. Magari parlando di donne. Pregato di scrivere per le lettrici di Grazia un articolo sulle donne di Trieste, Saba non puó non incominciare col dire della »singolare bellezza«27 delle triestine per puntare subito su »un'impronta particolare«28 che naturalmente, secondo lui, »nasceva dall'incrocio di razze«29 oltrecché »dalle carat-teristiche della terra«.30 Anche il »romanticismo«31 e l'»emancipazione«32 delle 20 Umberto Saba, Inferno e paradiso di Trieste, in Prose, Milano, Mondadori, 1964, pp. 818—819. 21 Ivi, p. 819. 22 Ibidem. 23 Scipio Slataper, Scritti politici, op. cit., p. 11. 24 Umberto Saba, Prose, op. cit., p. 820. 25 Ibidem. 26 Ivi, p. 819. 27 Ivi, p. 810. 28 Ibidem. 29 Ibidem. 30 Ibidem. 31 Ivi, p. 811. 32 Ibidem. 42 triestine nascono, secondo Saba, »da quel miscuglio di civiltá e di razze, come dal suolo dal quale erano pórtate.33 Insomma, come é »la cucina triestina ... un compendio di tutte le razze confluite a Trieste agli esordi della cittá«34 cosi é »la donna triestina frutto essa medesima di queste mescolanze«.35 Se-nonché, per le stesse ragioni, le donne triestine »tutte«,36 aggiunge Saba, »sia le popolane che le aristocratiche erano facile preda di malattie nervose«.37 Secondo il poeta »Trieste é sempre stata, e forse sará sempre, qualunque sia per essere il suo destino, una cittá nevrotica ..., per cosi diré, l'antinapoli, dove (intendiamo Napoli) i nervi si distendono e le complicazioni della vita appaiono meno tragiche«.38 Nella tematizzazione sabiana il motivo della ete-rogeneitá étnica evoca come per riflesso quello della neurosi per formare un binomio che si ripete come un ritornello e si esaurisce in sé stesso. Anche nelle opere di Saba potrebbero essere indicati passi in cui l'im-pegno político del poeta si manifesta in espressioni che non si dimenticano: basti pensare al citatissimo verso »E tu concili l'italo e lo slavo«39 nel quale culmina una delle liriche piú alte del Canzoniere. E ai versi di questa poesia che Saba stesso si riferisce quando, in un clima di accese discussioni sull'iden-titá di Trieste e sugli interrogativi che ne derivano, vuol far presente quella che a suo avviso é la condizione di fondo che si pone per fare di Trieste »una cittá bella ed abitabile«,40 come dice, »una cittá in cui fosse un privilegio nascere«.41 Volendo esprimere questa condizione in termini di un imperativo, di una legge che dovrebbe poi essere la legge massima, osserva che questa »non sarebbe in fondo, che la messa in azione, l'adeguazione ai tristi tempi«42 dei versi di quella sua lírica giovanile, scritta trentasei anni prima: »Nel 1948 questi versi, tradotti in legge, direbbero: »Chiunque con atti, scritti, discorsi incita all'odio di razza (particolarmente degli slavi contro gli italiani, o degli italiani contro gli slavi) sará immediatamente messo al muro e fuci-lato.« Perché gli incitamenti agli odi di razza, oltre ad essere — come si é visto — infinitamente nocivi, sono anche infinitamente stupidi.«43 Non c'é bisogno di continuare la lettura di questo articolo né di estenderla ad altri scritti. I passi citati offrono una prova sufficiente dell'impegno politico del poeta triestino e del coraggio che tale impegno esigeva. Ma le stesse citizioni si prestano ad illustrare anche la distinzione che si voleva fare: la questione deH'»inferno e paradiso di Trieste«, come questione pre-minentemente política, non puó essere affrontata con la lógica dei »dieci dodici sangui diversi«; essa si riduce al problema della conciliazione dei due elementi nazionali indigeni, de »l'italo e lo slavo«, che si presenta come neces-sitá storica, mentre la pluralitá resa in termini di »sangui diversi« trasferisce la considerazione sul piano biologico, con tutte le conseguenze che tale tras-ferimento comporta. Significativo in questo senso il termine »razza« che 33 Ibidem. 34 Ivi, p. 815. 35 Ibidem. 36 Ivi, p. 814. 57 Ibidem. 38 Ibidem. 39 Umberto Saba, Caffé Tergeste, in II Canzoniere (1900—1954), Torino, Einaudi, 1965, p. 151. 40 Umberto Saba, Inferno e paradiso di Trieste, in Prose, op. cit., p. 820. 41 Ibidem. 42 Umberto Saba, Se fossi nominato govematore di Trieste, in Prose, op. cit., p. 823. 43 Ivi, 824. 43 Saba usa anche in poesia. Chi infatti non conosce il terzo sonetto dell' Autobiografía, dove il poeta, figlio di padre ariano e di madre ebrea, evoca l'im-magine dei due genitori per concludere che »Eran due razze in antica ten-zone«: Mió padre é stato per me »l'assassino«, fino ai vent'anni che l'ho conosciuto. Allora ho visto ch'egli era un bambino, e che il dono ch'io ho da lui l'ho avuto. Aveva in volto il mió sguardo azzurrino, un sorriso, in miseria, dolce e astuto. Ando sempre peí mondo pellegrino; piú d'una donna l'ha amato e pasciuto. Egli era gaio e leggero; mia madre tutti sentiva della vita i pesi. Di mano ei gli sfuggí come un pallone. »Non somigliare — ammoniva — a tuo padre«. Ed io piú tardi in me stesso lo intesi: Eran due razze in antica tenzone.44 Per quanto la poesia sia nota, abbiamo voluto riportarla per richiamare l'attenzione al chiaroscuro in cui le due figure dei genitori vengono rese: i due vengono presentati come caratteri del tutto opposti, leggero leggero il primo, gravato da »tutti i pesi« il secondo, e come tali in eterno ed implaca-bile conflitto. II contrapposto reso in questi termini poi rappresenta uno schema a cui Saba ricorre in ogni tematizzazione delle due razze, apostrofándole espressamente o no. E qui potrebbero essere citati esempi di un archetipo capace di impensabili applicazioni in cui é sempre riconoscibile il motivo che li genera. Basti ricordare le »voci discordi« delle Fughe, che si concludono col Congedo: O mió cuore dal nascere in due scisso, quante pene durai per uno farne! quante rose a nascondere un abisso!45 Nella lógica dell'»antica tenzone« trova comunque la spiegazione piú esauri-ente tutta una seria di immagini in cui Saba si scopre e si definisce, ed é qui che meglio si spiegano le stesse ragioni della »dirittura fino quasi al sadismo«46 che il poeta porta nello scoprirsi e nel definirsi. Non ce bisogno di diré che il sintagma »dirittura fino quasi il sadismo« é di Saba, da avvertire se mai che potrebbero essere resi come una citazone testuale anche i termini »scoprirsi« e »definirsi«: si tratta di espressioni che ci riportano ad una nota pagina del critico Pietro Pancrazi47 che fu tra i primi in Italia ad avvedersi dell'esistenza di una letteratura triestina e a tentare una caratterizzazione degli scrittori che la rappresentano. E qui il Pancrazi, dopo aver accennato, ai nomi piú significativi di questi »inventori di pro-blemi«,48 come li definisce, dice appunto: »Questi scrittori di lingua, di cul- 44 Umberto Saba, Il Canzoniere (1900—1954), op. cit., p. 245. 45 Ivi, p. 384. 46 Umberto Saba, Scorciatoie e raccontini, in Prose, op. cit., p. 286. 47 Pietro Pancrazi, Giani Stuparich triestino, in Scrittori d'oggi, serie seconda, Bari, Laterza, 1946, pp. 103—117. 48 Ivi, p. 104. 44 tura e spesso di sangue misto, sono spesso intenti a scoprirsi, a definirsi, a cercare il loro punto fermo; ma quasi col presupposto di non trovarlo«.49 Osserva a ragione Bruno Maier »che difficilmente si potrebbero definire me-glio i caratteri della letteratura triestina del Novecento«.50 La caratterizza-zione di Pancrazi si rivela infatti di tale esattezza da incoraggiare ad una lettura sistemática degli autori triestini per osservare appunto che cosa seo-prono in sé stessi, in che termini si definiscono e che problemi »inventano«. Ed é qui che si voleva arrivare. Anche per seguire con sistema un solo motivo, come il tema che ci siamo proposti, non potremmo procedere in maniera piú semplice e naturale che passare da autore ad autore ed osservare dove questo tema si manifesta, in che termini si definisce e quali impli-cazioni comporta. Possiamo argüiré che un'esplorazione cosi condotta non ci lascerebbe a mani vuote neanche ad una lettura meno attenta. Per incominciare da Svevo, al quale spetta il primo posto anche per ragioni di etá, e incominciare da uno Svevo minore, basterebbe leggere il breve racconto dal titolo La madre, per lo piú facile a riassumersi. II protagonista di questo racconto é il pulcino Curra che, venuto al mondo in una macchina allevatrice, quando prende coscienza del proprio stato non sopporta piú di rimanere orfano e va in cerca della madre, pur non avendo la mínima idea di come questa si presenti. Giunto al giardino della casa vicina vede un gruppo di pulcini uguale a quello da cui lui stesso viene, ma con in mezzo un »pulcino enorme«51 che raccoglie intorno a sé i piccoli »quale loro capo e protettore«.52 »Questa é la madre«,53 pensa Curra, e appena la chioccia chiama si precipita verso la madre tanto sospirata, per-suaso »di essere chiamato proprio lui«.54 Non c'é bisogno di diré come viene accolto: »la madre« che si rivela una terribile bestiaccia gli si scaglia ad-dosso, sicché il povero pulcino si salva a stento. Scoprendo la madre Curra scopre anche di non appartenere a quelli che godono della sua protezione: scopre di essere diverso, pur senza riuscire a spiegarsi in che cosa esatta-mente consiste questa diversitá. II motivo del breve racconto si presenta con tale evidenza da rendere facile la sua identificazione. L'esperienza a cui il protagonista va incontro é del resto preannunziata giá nell'esordio: »In una valle chiusa da colline boschive, sorridente nei colorí della primavera, s'ergevano una accanto all'altra due grandi case disadorne, pietra e calce. Parevano fatte dalla stessa mano, e anche i giardini chiusi da siepi, posti dinanzi a ciascuna di esse, erano della stessa dimensione e forma. Chi vi abitava non aveva pero lo stesso destino.«55 Ridotta a concetti astratti la struttura contenutistica del proemio citato si presenta quale annuncio di un confronto fra due entitá destínate a rivelarsi in questo paragone come irrimediabilmente diverse fra loro. Nel'approccio ad un autore anche gli schemi, presi con le debite riserve, possono dimostrarsi di qualche aiuto. Lo schema che abbiamo dedotto dal- 49 Ibidem. 50 Bruno Maier, Invito alia letteratura triestina, in Poeti e narratori triestini, Circolo della cultura e delle arti, Trieste, 1958, p. 15. 51 Italo Svevo, La madre, in Racconti, saggi, pagine sparse, Milano, dall'Oglio, 1968, p. 131. 52 Ibidem. " Ibidem. 54 Ibidem. 55 Ivi, p. 129. 45 l'apologo citato si dimostra comunque applicabile anche alla lettura di altre opere dello scrittore triestino, compresi i romanzi; da aggiungere anzi che è proprio qui che si manifestano nella maniera piú evidente sia il procedi-mento dei continui confronti con gli altri, a cui il protagonista sveviano è portato, sia le differenze che dai relativi paragoni risultano. Quanto mai significativa da questo punto di vista una delle conclusioni che si leggono verso la fine dell'ultimo romanzo della trilogia sveviana. Quando Zeno, un inetto anche lui come tutti i protagonisti dei romanzi di Svevo, riesce a spiegare un'attività e un'efficienza che sorprendono lui per primo e finalmente gli fanno esperire anche »la persuasione della salute«,56 esclama: »La salute non risulta che da un paragone«.57 È questa una delle proposizioni in cui Zeno annuncia di essere finalmente guarito. Como abbiamo avuto già occasione di osservare,58 ció che qui più dà nell'occhio è il modo con cui viene percepita la guarigione dal protagonista sveviano, notoriamente ammalato. L'asserzione che »la salute non risulta che da un paragone« puô riferirsi soltanto alia guarigione da una malattia derivata essa stessa da un paragone, da una malattia contratta nel paragone. È questa una conclusione che s'inpone a priori ma che puô contare anche su una facile e piena conferma nelle opere dello scrittore triestino. E non soltanto la malattia ma tutti i disagi lamentati dai protagonisti sveviani trag-gono origine da un'ossessiva propensione loro comune a confrontarsi con gli altri per constatare la propria diversité e l'estraneità che ne deriva, per sen-tirsi in ogni situazione dei differenti. I termini in cui viene tematizzato il malessere dell'uno e plurimo protagonista sveviano possono variare nei di-versi tempi delle loro comparse, ma si definiscano como inettitudine, come senilità o come malattia sempre risultano da paragoni e si confermano in paragoni, dando risalto all'onnipresente antagonismo che non ha bisogne di assurgere a conflitti aperti per essere notato. Sono gli stessi confronti cosí esasperati a daré sufficiente rilievo a questo antagonismo ed a fondarlo, come lo dimostrano ad esempio, per restare a Senilità, le relazioni del Bren-tani coir invidiato Balli che, per quanto ambiguë possano a momenti rive-larsi, pure restaño sempre relazioni fra due amici. La funzione che assume il confronto di se stesso con gli altri puó essere osservata già nella condotta di Alfonso Nitti, il protagonista del primo romanzo. E ad un atiento studioso di Svevo come Maxia59 non sfuggi il ruolo che qui assume il tema che ne deriva, il tema della diversità, di per sé capace a garantiré a questo romanzo l'unità tanto discussa, che certi critici sten-tano ancora a riconoscergli. Nelle opere che seguono, la morbosa propensione al confronto assume l'evidenza di un vero e proprio paradigma comporta-mentale tipico per la condotta del protagonista sveviano che per questa via va scoprendosi irrimediabilmente diverso dagli altri e come tale condannato a rimanere un escluso. La propensione a confrontarsi con gli altri, cosi tipica per il personaggio sveviano da costituire uno dei motivi più caratteristici dello scrittore trie- 54 Italo Svevo, La coscienza di Zeno, in Romanzi, Milano, dell'Oslio, 1969, p. 953. 37 Ivi, p. 919. 58 Atilij Rakar, »Senilitá« di Svevo alia luce di un confronto, in »La Bat tana«, N. 87, Fiume, 1988, pp. 5—12. 5' Sandro Maxia, II primo Svevo, in II caso Svevo, Palermo, Palumbo 1976 pp. 81—99. 46 stino, si presenta pronunciata con altrettanta evidenza anche nel Canzoniere di Umberto Saba. Questa attitudine puô essere infatti osservata fin dalle liriche con cui »il poeta di Trieste« esordisce, si fa dominante con i Versi militari che segnerebbero la nascita délia sua »Musa schietta«, come l'autore stesso dice in un sonetto de\l' Autobiografía,M per poi conservare questo ruolo ed essere presente in tutte le stagioni della poesia sabiana. In che chiave s'hanno da leggere i Versi militari lo dice, e in termini quanto mai espliciti, l'autore stesso nel Sogno di un coscritto, steso in forma di lettera alla figlia e pubblicato poco prima della morte sulla »Stampa«. Rivivendo nel ricordo come »nei primi anni di questo secolo«61 si era pre-sentato a Salerno per il servizio militare e come i nuovi compagni lo accol-sero, il poeta racconta: »... Appena suonata la »libera uscita, i piú vicini alia mia branda mi chiesero se volevo andaré con loro al cinematógrafo. Ri-sposi che lo volevo. Giunti ... alia méta, la cassiera, che sedeva, agucchiando, alio sportello, staccô per tutti un biglietto a metá prezzo (Ragazzi fino ai dodici anni, e militari fino al sergente, pagano la metá«): per me, invece, vestito in borghese, ne spiccó uno col prezzo intero. Ero pronto a pagare: ma i miei compagni si opposero. Uno di essi mi fermó il braccio. »Non è« disse alla cassiera »ancora vestito; ma è uno come noi«. Oh, Linuccia, fu quello uno degli attimi folgoranti della mia difficile vita. Mi sono sentito come disfare, liquenfare d'amore. Non ero, non mi sentivo piú, solo e sban-dato ... Facevo parte di una comunità d'uomini, che mi avrebbero, al caso difeso; e per i quali io avrei fatto lo stesso. ... Nessuno — va da sé — ebbe il piú lontano sospetto di quello che passava, in quel momento, nella mia anima. Ma io credo che i Versi militari (belli o brutti che siano) sono nati tutti allora, sulla soglia di quel cinematógrafo, che stava in vetta ad un'erta faticosa, a Salerno. Le semplici parole di un contadino friulano furono come una punta infuocata che mi avesse trafitto, con dolcezza, il cuore. ... E non solo i Versi militari sono nati da quella punta infuocata; ma anche e so-prattutto, il desiderio di fare di me stesso quel Ritratto d'Ignoto, che non mi è mai riuscito di realizzare e, quindi, di dipingerlo. Con quale strazio lo sai tu, figlia mia, .. ,«.62 Sugli sviluppi tematici generati dal progetto sabiano di realizzare il »Ritratto d'Ignoto« si ebbe modo di trattare in altre occasioni, e anche in un saggio apposito, dedicato al Saba dei Versi militari,63 a cui ci sia permesso di rimandare. Qui ci limiteremmo a metiere in rilievo una delle situazioni in cui l'io lirico dei sonetti, che il soldato Saba scrive a Salerno, riproduce con maggiore evidenza tratti tipici della condotta del personaggio sveviano non soltanto nell'atto di confrontarsi con gli altri, ma anche negli esiti di questo confronto. Ci riferiamo al sonetto Dopo il silenzio,M dove il poeta in uno stato d'insonnia dice: 60 Umberto Saba, Il Canzoniere (1900—1954), op. cit., p. 253. 61 Umberto Saba, Il sogno di un coscritto, in Prose, op. cit., p. 232. 62 Ivi, pp. 234—235. 63 Atilij Rakar, Il Saba dei Versi militari, in La Battana, N.48, Fiume, 1978, pp. 5—23. 64 Dal confronto delle varianti di questo sonetto dalla pubblicazione in Poésie del 1911 (Firenze, Casa Editrice Italiana, p. 92) a quella definitiva del Canzoniere (1900—1954), (op. cit., p. 45) non è da segnalare che il mutamento del verso finale della prima terzina, presente già nel primo Canzoniere (Il Canzoniere (1900—1921), Trieste, La Librería Antica e Moderna, 1921, p. 84). 47 Meraviglia non è se la mia mente veglia, ed il sonno non sempre ritrova. Questa che giace e ronfia è gente nuova. Io sono vecchio, paurosamente.65 Qui non possiamo non pensare a Svevo, anzi al suo romanzo centrale, il cui titolo Senilita è secondo l'autore stesso insostituibile, perché »quel titolo mi guidô e lo vissi«,66 come lo scrittore letteralmente dice per difen-derlo quando gli viene proposto di sostituirlo con un altro. Come parallelo aile ragioni a cui si richiama Svevo nella difesa di quel titolo, potremmo citare il passo délia Storia e cronistoria del Canzoniere, dove, commentando »questo senso di una vecchiaia prematura«67 e »prena-tale«,68 espresso nei Versi militari, Saba dice che »si sentiva piú vecchio quando faceva il soldato di leva a Salerno che nei suoi anni maturi«.69 A sostegno di questo commenta potrebbe essere citata una delle prime lettere del poeta dove si legge: »Mi sembra di essere piuttosto un vecchio che un giovane di vent'anni«.70 Ma, restando ai Versi militari, ció che desta maggiore attenzione è il fatto che Saba non esaurisce il tema délia »vecchiaia prematura« o »prenatale« in immagini come: Esistere da tanti anni mi sembra, che forse con Abramo ho trasmigrato." Aile immagini in cui il poeta sembra esaltarsi o comunque accettare la con-dizione délia »vecchiaia prematura« o »prenatale« si contrappongono espres-sioni di rivolta, e rivolta violenta, contro il fantasma assurdo che impersona un'identità da ritenersi detestabile. Quanto mai significativo in questo senso si dimostra il sonetto dal titolo II bersaglio, titolo di per sé eloquente nei linguaggio militere. E qui in effetti il poeta soldato, preme »con sempre repressa ansia il grilletto«72 e colpisce »una sagoma«73 che impersona tutto »l'orrore« che i suoi »occhi hanno sofferto«:74 Tutto che di deforme hanno veduto, di troppo vecchio, di troppo panciuto, di troppo lamentosamente impuro.75 Non c'è bisogno di sottolineare i termini più esclamati délia terzina che chiude il sonetto, è da avvertire subito perô che in una seconda variante de Il bersaglio, destinata a rimanere definitiva, la parola »vecchio« viene sosti-tuita da »ebraico«;76 come se si traitasse di sinonimi. Il bersaglio si rivela "s Umberto Saba, Il Canzoniere (1900—1954), op. cit., p. 45. 6" Italo Svevo, Senilità, Prefazione alla seconda edizione, in Romanzi, op. cit., p. 431. 67 Umberto Saba, Prose, op. cit., p. 430. 68 Ibidem. " Ibidem. 70 Vedi Bruno Maier, Appunti sul noviziato artistico di Umberto Saba (Dalle lettere del poeta ad Amedeo Tedeschi), in Galleria, Anno X, N. 1—2, gennaio-aprile 1960, Palermo, Sciascia, 1960, p. 36. 71 Umberto Saba, Il Canzoniere (1900—1954), op. cit., p. 45. 72 Umberto Saba, Poesie, op. cit., p. 92. 73 Ibidem. ™ Ibidem. 75 Ibidem. 76 Umberto Saba, Il Canzoniere, 1900—1921, op. cit., p. 43. 48 un penoso esorcismo che ci riporla alie origini ebraiche del poeta. E »il vec-chio« non é che uno dei fantasmi in cui viene tematizzato il presunto diverso, attribuito all'ebreo. Significativo da questo punto di vista anche il pensiero in cui Saba rias-sume i motivi della narrativa di Svevo. Nell'epigrafe per il venerato amico scomparso scrive: »Dalla coscienza sua della sua razza/dall'ambiente che lo circondava ignaro/egli trasse/Ia materia di tre romanzi ed una/dolce fiorita di favole lunga/novella«.77 Ció che va individúate in una cultura letteraria come quella triestina, nata, come si ama ripetere, da un »crogiuolo di razze« e »popoli diversi«, é proprio »la materia« che ogni autentico rappresentate di questa letteratura »trasse« dalla coscienza »della sua razza«. Nel caso di Svevo e di Saba possiamo comunque argüiré che le immagini in cui i due autori pretendono di scoprirsi e di definirsi si presentano quanto mai significative. Un mito analogo a quello del »vecchio«, in cui scoprono la loro diversitá sia Svevo che Saba, potrebbe infine essere individúate anche nel mondo poético di Slataper. Ritornando a questo scrittore per avvicinarlo dal punto di vista che qui ci interessa, potremmo presto notare anche un'immagine che gli é particolarmente cara e con la quale ama presentarse: é l'immagine del »barbara«. »lo sono un barbara che sogna«,78 dice di sé Slataper in una let-tera. E lo dice in piena sintonia con altre immagini in cui si autodefinisce. Lo scoprirsi ed il definirsi di Slataper, deciso anche lui di »veder chiaro nella sua vita«,79 come ostentivamente si propone, non raggiunge la morbosa »dirittura fino quasi al sadismo«80 di un Saba; nell'autore del Mió Carso e delle Lettere prevale l'autoesaltazione, anche se a momenti un po' ambigua. Ma questo non importa. Ció che qui si voleva mettere in rilievo é la funzione dello scoprirsi e del definirsi dei triestini, in tutti analoga: come il »vecchio« sabiano e sveviano si dimostrano traducibili in »ebraico« cosi »il barbaro« slataperiano riporta alio slavo. In ambedue i casi si tratta di fantasmi che, per quanto assurdi possano presentarsi, denotano la ricerca dell'identitá mediante ricorsi alie origini etniche o razziali, in ambedue i casi si parte dalla tematizzazione del diverso, in ambedue le soluzioni si riflettono motivi che comporta la convivenza con il diverso, ancora fortemente sentito nella Trieste dell'ultimo Ottocento e del primo Novecento, quando la memoria delle origini non si é ancora spenta. 77 Epígrafe pubblicata su »Solaria«, Omaggio a Italo Svevo, marzo-aprile 1929, P- 72. 78 Scipio Slataper, Lettere, a cura e con prefazione di Giani Stuparich, Torino, Buratti, 1931, vol. II, p.35. 79 Scipio Slataper, Epistolario, a cura di Giani Stuparich, Milano, Mondadori, 1950, p. 95. s0 Umberto Saba, Prose, op. cit., p. 286. 4 Acta