Storie sul Walk of Peace Annotazioni dal fronte dell’Isonzo Storie raccolte e redatte da: Željko Cimprič, redazione del libro: Petra Svoljšak e Tadej Koren 1 Storie sul Walk of Peace Annotazioni dal fronte dell’Isonzo La storia intima della guerra Petra Svoljšak Why do we write? A chorus erupts. Perché scriviamo? Un coro di voci inizia a cantare. Because we cannot simply live. Perché non possiamo soltanto vivere. Patti Smith, Devotion Patti Smith, Devozione O forse perché è solo così che possiamo sopravvivere?! Importanti storici della Prima guerra mondiale, che hanno messo al centro del proprio lavoro i ricordi, i diari e le lettere di chi la guerra l’aveva vissuta in prima persona, le cosiddette testimonianze o racconti personali, potevano non condividere l’opinione circa la veridicità di un documento rispetto ad un altro. Questa volta, tuttavia, il filo rosso della nostra indagine storica non è collocare le testimonianze personali in una scala di valori, bensì concentrar-ci sul contenuto di queste storie e sulle persone che le avevano scritte, che la guerra, ma anche i luoghi in cui aveva imperversato, aveva segnato per tutta la vita, marchiando ineluttabilmente il loro futuro. Con la loro presenza, però, con il loro vivere la guerra in prima persona, con le annotazioni catturate nelle lettere, nei diari, nelle memorie e nelle fotografie, anche loro avevano a loro volta segnato questi luoghi e gli abitanti di questi luoghi, imprimendoli 1 in eterno. Il segno che avevano lasciato nel paesaggio della memoria è un riflesso delle impronte lasciate nel paesaggio reale, che in cent’anni sarà pur cambiato, ma ha comunque sempre conservato nel suo grembo i resti, i cippi e i monumenti associati alle date, alle battaglie, ai ritiri, agli spostamenti. Troppo spesso, però, ci dimentichiamo delle persone per cui queste rocce, queste acque, il paesaggio carsico, la neve, il caldo, le trincee, le montagne, le colline e le valli erano luoghi sconosciuti, e la gente di questi luoghi diventava la loro casa durante la guerra, molto spesso l’ultima dimora. Il presente libro è dedicato proprio a questa memoria, a questi soldati da ambedue i lati della linea di battaglia, scomparsa nel racconto, ma che oggi simbolicamente porta il nome di Sentiero della Pace/Walk of Peace. Le testimonianze sono un ponte tra l’esperienza, la memoria, i resti sul campo e il presente di ogni momento, in cui i confini devono essere cancellati per fondersi nel linguaggio del dialogo, della pace, della convivenza, del rispetto reciproco e della mutua conoscenza. Il crudele mondo della guerra, come lo avevano conosciuto i soldati nelle battaglie sul Fronte dell’Isonzo e come lo avevano descritto nelle loro testimonianze, mostrava una pluralità del volto della guerra e, date le molteplici testimonianze, anche un’insolita carica creativa innescata proprio dalle guerre. Persone più o meno letterate, che nella loro vita prebellica potrebbero non aver scritto più del loro stesso nome, si ritrovarono con in mano una matita che iniziò a scrivere pensieri sulla vita quotidiana in guerra sotto forma di lettere, diari o reminiscenze posteriori. Tanto è vero che fino alla Prima guerra mondiale nessun evento storico aveva prodotto così tanto materiale scritto: lettere, cronache giornalistiche, 2 materiale propagandistico, permessi, telegrammi, diari, cartoline ecc., ognuno dei quali raccontava a modo proprio la guerra, le esperienze, le relazioni. Nel periodo del dopoguerra, invece, è sorta una particolare letteratura bellica che, tutt’oggi, stimola l’immaginazione, ma non crea purtroppo un sufficiente atteggiamento critico circa la risoluzione di controversie con interventi bellici. La natura delle narrazioni e delle testimonianze personali è diversa, talvolta interpretata come una storia intima della guerra, altre come ultime volontà degli scriventi o persino come modo per sopravvivere alla guerra o guarire da essa, una volta terminata. La forma più diretta della narrazione personale sono, naturalmente, le lettere e i diari. Questi ultimi in particolare sono la versione più pura, più diretta, meno trasformata e meno trasfigurata della guerra; con la pubblicazione, però, diventano l’atto commemorativo più diretto, una sorta di memoriale. Con la sua immediatezza, il diario rappresenta una forma molto più spietata rispetto alle lettere, essendo una risposta diretta agli eventi, quasi senza riserve (salvo, ovviamente, l’autocensura, inconscia o consapevole). L’esperienza vissuta non viene filtrata né trasfigurata e non è destinata a nessun pubblico. Ciò nonostante, le lettere e i diari riuscirono a registrare quello che doveva essere ricordato, mentre le memorie della guerra hanno registrato le reminiscenze di una guerra che persisteva nei pensieri e nella vita di coloro che le scrissero o di chi oggi le legge. Nella maggior parte dei casi, nelle memorie gli eventi erano descritti in un lasso di tempo successivo rispetto al momento in cui erano avvenuti ed erano influenzati in modo cruciale dal tempo trascorso tra l’esperienza vissuta direttamente e l’esperienza ricordata, nonché dalla trasfigurazione di azioni ed eventi passati, da una sorta 3 di nostalgia per il passato, forse anche dal desiderio di aver giocato un fattore importante nella guerra, nella propria guerra personale e dalla consapevolezza dei cambiamenti irrevocabili avvenuti in sé stessi e nel proprio mondo. Si tratta di un altro tempo, di un riflesso della guerra mnestica, di uno sguardo all’indietro. Oggi, però, tutte queste annotazioni rappresentano uno sguardo all’indietro e non possiamo nemmeno pretendere di capirle, di poterle interiorizzare, di confrontarci con esse. Sebbene gli storici affermino che il ricordo sia un privilegio di fattori attivi, di coloro che erano lì, esso è, dopo tutto, anche un privilegio di noi stessi che leggiamo questi scritti e che possiamo persino collocarli direttamente nei luoghi, come lo fa il libro delle memorie del Sentiero della Pace insieme alle guide, alle presentazioni on-line e ai pannelli informativi che fungono da ricordo e da monito di un tempo che non deve ritornare mai più. 4 Pensieri introduttivi e delucidazioni Željko Cimprič Negli ultimi anni, la Ente “Fundacija Poti miru v Posočju”, ha pubblicato con diverse ristampe una guida intitolata “Il Sentiero della Pace dalle Alpi all’Adriatico”,1 con l’invito a visitare i siti del patrimonio culturale e storico della Prima guerra mondiale delle varie battaglie dell’Isonzo. La guida descriveva i punti più interes-santi, corredandoli con un ricco materiale fotografico e cartografi-co. Con il marcato aumento d’interesse per questo periodo storico, il libro di Marko Simić “Po sledeh Soške fronte” (Sulle tracce del Fronte Isontino)2 invitava i lettori sloveni già negli anni ’90 del secolo precedente a visitare i luoghi degli scontri delle varie battaglie dell’Isonzo, ma vista la sua mole di pagine difficilmente trovava spazio negli zaini degli escursionisti. Dall’altro lato, però, il formato importante ha consentito la pubblicazione di fotografie di notevoli dimensioni e di altissima qualità, nonché di una cronologia completa degli eventi delle dodici battaglie dell’Isonzo. Il libro è diventato una sorta di vademecum imprescindibile, che sorpren-dentemente si trova ancora oggi nell’offerta speciale del Kobariški muzej (Museo di Caporetto [Kobarid]). Nel 1994 è stata pubblicata la guida “Il fronte dell’Isonzo” in lingua slovena, tedesca e italiana.3 I libri dell’autore Lovro Galić hanno fornito informazioni ancora più esaurienti sugli eventi nella regione dell’Alto Isonzo, ma a causa della 1 Tadej Koren, Il Sentiero della pace dalle Alpi all'Adriatico. Guida lungo il fronte isontino, Ustanova »Fundacija Poti miru v Posočju«, Kobarid 2015. 2 Marko Simić, Po sledeh soške fronte, Mladinska knjiga, Ljubljana 1996. 3 Petra Svoljšak, Soška fronta. Ljubljana: Cankarjeva založba 19941, 20022; Die Isonzofront. Ljubljana: Cankarjeva založba 1994; Il fronte del ’Isonzo. Cankarjeva založba 1994. 5 mole del volume, anch’essi risultano adatti solo a una preparazione approfondita che precede la visita dell’ex campo di battaglia. Diversi sono gli scopi per la pubblicazione di un libro che racconti le storie dei partecipanti alla Grande guerra. Potrebbe diventare imprescindibile per l’accompagnamento interessante e utile sul Sentiero della Pace, consentendo una visione degli eventi “da vicino”. Negli ultimi tre decenni, gli editori sloveni hanno iniziato a pubblicare sempre più spesso libri che analizzano la Prima guerra mondiale e altri volumi in cui vengono pubblicati diari e memorie di ragazzi e uomini sloveni che avevano preso parte a diverse battaglie. Nei tre decenni in cui ho collaborato alla missione di pace del Museo di Caporetto e della Fondazione Sentiero della Pace nell’Isontino, ho potuto vedere che grazie a queste iniziative editoriali, molti visitatori si sono potuti fare un’idea migliore degli eventi storici di questi luoghi. Tuttavia, a causa della mancanza di memoria storica che in Slovenia ha perdurato per decenni, è ancora presente una visione molto parziale degli eventi accaduti. Spesso vi contribuiamo anche noi che proponiamo ai visitatori una propria interpretazione personale degli eventi, derivata dallo studio di varie fonti, ma spesso senza aver trascorso una sola giornata in loco a esplorare il campo di battaglia.4 A mio parere sono molto più qualificati di noi a creare un quadro reale di quanto accaduto coloro che hanno vissuto la guerra in prima persona e le cui storie, a volte per miracolo, sono sopravvissute. Queste svincolano il lettore dalle indicazioni generali, dall’enumerazione delle unità militari, delle loro azioni, dei luoghi 4 Lovro Galić, Tolminsko mostišče I, Tolminski muzej, Tolmin 2005; Lovro Galić, Od Krna do Rombona 1915–1917, Ustanova »Fundacija Poti miru v Posočju«, Kobarid 2007. 6 e dalle varie valutazioni degli eventi portandolo verso un’esperienza personale e offrendogli l’opportunità di entrare in empatia con la situazione in cui si sono trovati gli autori. A volte, durante le visite dell’ex campo di battaglia, ci accompagnano esattamente nel luogo in cui è avvenuto l’evento descritto e questo comporta davvero un’esperienza speciale. La presenza di soldati sloveni arruolati nell’esercito austro-ungarico era relativamente modesta nelle battaglie dell’Isonzo. Lo dimostrano le statistiche delle perdite, che risaltano solo in singoli episodi, come le battaglie sul Carso, sul Škabrijel (Monte San Gabriele) e in altri luoghi. È significativo il fatto che, ad eccezione dei membri del 2° Reggimento fucilieri da montagna (k.k. Gebirgs-Schützenr-egiment Nr. 2), nell’immediato entroterra della catena montuosa del Krn (Monte Nero) fino al San Gabriele non ci fossero maggiori attività di unità prevalentemente “slovene”. Nel comporre il mosaico di racconti che avrebbero accompagnato il lettore sloveno sul sentiero fino al mare, era necessaria un’impostazione diversa, che integrasse nuovi obiettivi. Ed è così che si è verificata l’opportunità di aggiungere la prospettiva di guardare nelle trincee attraverso la terra di nessuno, dall’altra parte, di dare voce ai compagni di battaglia dei nostri uomini e ragazzi, ai membri di altre nazionalità e anche ai loro antagonisti. I lettori sloveni hanno quindi la possibilità di intravedere frammenti di storie che non sono state ancora pubblicate e di racconti che sono stati pubblicati in lingue straniere, ma che sicuramente non saranno mai tradotte nella lingua slovena. Nella selezione era importante tener conto del fatto che una buona parte del testo accompagnasse l’escursionista nella zona in cui si snoda il Sentiero 7 della Pace, con descrizioni dei luoghi e dell’ambiente. E che, viste le dimensioni tascabili del presente libretto, offrisse anche uno sguardo intimo dei pensieri e dell’atteggiamento dello scrittore verso tutto ciò a cui era esposto durante la guerra. Cercare di bi-lanciare a favore della statistica il numero di narratori, di membri delle singole nazioni, non avrebbe avuto senso. Non per ultimo, solo osservando il percorso del Sentiero della Pace, è evidente che in molti tratti esso lambisce le postazioni e l’entroterra dell’esercito italiano. Questo vale per la zona sui pendii soleggiati della catena montuosa del Krn fino al Mrzli vrh (Monte Merzli) e lo stesso vale per le creste sulla sponda destra dell’Isonzo, dalla testa di ponte di Tolmino fino al Sabotin. Da questo monte fino al mare il decorso è diverso perché le posizioni degli avversari cambiavano a seconda dell’occasionale avanzata dell’esercito italiano. Esso era molto più cospicuo rispetto a quello dei difensori, ma sarebbe sbagliato dedurre che proprio il numero molto più grande di combattenti da parte italiana sia la causa delle tantissime testimonianze conservate in lingua italiana. Nonostante le numerose testimonianze, è pur necessario tenere conto delle stime secondo le quali quasi la metà dei membri della fanteria italiana erano anal-fabeti. Sarebbero molto preziose le testimonianze di quei semplici soldati – operai, chiamati “zappatori”, che scavavano e scalzavano la terra e le pietre nella direzione delle postazioni dei difensori, ma si trovano raramente – solo quando i compagni che sapevano scrivere facevano loro un favore. La vera ragione dell’immenso numero di storie italiane conservate è da ricercarsi nella consapevolezza tante volte confermata che la storia è scritta dai vincitori. Le tante vittime conseguenti alla deci-8 sione di entrare in guerra sono diventate, con la celebrazione della vittoria e il loro compiangimento, una discolpa dei capi dell’esercito e del popolo e, allo stesso tempo, parte dell’identità italiana. Oltre alle tantissime edizioni di libri, anche alcuni archivi dedicati, dispersi in vari luoghi e regioni, conservano e tramandano il ricordo di questi connazionali. Il lettore viene sorpreso dalla descrizione critica del corso della guerra nei libri che, nonostante la censura, furono pubblicati e persino ristampati nell’Italia fascista poco prima dell’inizio della Seconda guerra mondiale. D’altra parte, però, i ricercatori trovano documenti altrettanto critici negli archivi dello Stato appunto perché confiscati dalla censura. Se questo modesto mosaico di narrazioni offrirà ai lettori sloveni una visione leggermente diversa degli eventi accaduti durante la guerra, potrà al contempo incoraggiare i lettori italiani a scoprire l’immensa raccolta di libri di autori che hanno vissuto la guerra in prima persona e di altri volumi di ricercatori delle battaglie dell’Isonzo che hanno pubblicato il loro lavoro in un secondo momento. Forse saranno persuasi a incamminarsi sul Sentiero della Pace e a visitare i luoghi descritti. Una caratteristica particolare che potrà sorprendere il lettore ed è comune alle testimonianze dei combattenti di entrambi gli eserciti è il fatto che i racconti di eroismo o di incoraggiamento sono estremamente rari. Questo la dice lunga sulla particolare strategia e sulla tattica di combattimento nella Prima guerra mondiale, una guerra di logoramento, dove da entrambe le parti era l’uomo “qualunque” a venire spietatamente sacrificato. Il giovane poeta Giuseppe Ungaretti, che si trovò in trincea nella parte meridionale del teatro degli scontri, parla di questa sorte in una breve poesia intitolata “Soldati”: 9 Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie 5 In occasione del 50° anniversario della presa di Gorizia, il celebre poeta fu invitato a visitare l’ex campo di battaglia e nel discorso pronunciato il 20 maggio 1966 nella Sala degli Stati Provinciali del Castello disse riguardo a Gorizia: “Non era il nome di una vittoria – non esistono vittorie sulla terra se non per illusione sacrilega – ma il nome d’una comune sofferenza, la nostra e quella di chi ci stava di fronte e che dicevano il nemico, ma che noi, pure facendo senza viltà il nostro dovere, chiamavamo nel nostro cuore fratello. ”6 Le testimonianze raccontano spesso una visione simile della guerra, ma certamente la convinzione prevalente è che i partecipanti siano stati sacrificati in una guerra senza senso. Le singole storie non si susseguono in ordine cronologico, ma seguono il corso del Sentiero della Pace da nord a sud. Il lettore incontrerà quindi salti temporali e spostamenti degli autori in diverse parti del campo di battaglia, dalle vette alpine all’Adriatico. Troverà inoltre delle informazioni, si spera utili, seguendo l’ordine delle testimonianze, nell’ultimo capitolo di questo libretto. Visitando le varie sezioni del sentiero, il lettore scoprirà che il paesaggio ha un aspetto diverso da come era descritto nei racconti di un secolo fa. A cambiare di meno è l’alta montagna, al di sopra 5 https://www.libriantichionline.com/divagazioni/carlo_picca_ungaretti_soldati 6 http://www.sardegna.istruzione.it/allegati/2015/Discorso_Ungaretti.pdf 10 del limite della vegetazione arborea, dove si potranno scattare varie fotografie con lo sfondo di panorami mozzafiato e dei reperti conservati. Ma per poter godere di questi piaceri, sarà necessario lasciare il Sentiero della Pace e salire più in alto. Conoscendo i racconti dei soldati, l’ulteriore sforzo ricorderà al visitatore che oggi ci si arrampica per volontà propria e non per eseguire un ordine, che si è scelta una bella giornata per l’escursione, che si è ben attrezzati e ben riforniti, che si porta un peso che si decide volontariamente e che in vetta ci aspettano i piaceri della montagna, il ristoro, ecc. Più a sud, si troveranno più raramente dei punti panoramici. In questa parte del campo di battaglia di allora è soprattutto il bosco a farla da padrone, nelle zone più basse e pianeggianti, invece, troviamo degli insediamenti più grandi. I racconti, pertanto, non indicheranno al lettore i luoghi in maniera esatta come in montagna. Durante la consultazione della guida, il lettore coglierà facilmente le differenze tra l’origine sociale e l’istruzione dei singoli scrittori. Ma l’intento sia degli uni che degli altri era lo stesso, lasciare una testimonianza della propria esperienza di guerra. Gli sforzi di coloro che erano alfabetizzati a malapena meritano un particolare rispetto. Nelle traduzioni dei loro testi, a volte è andata persa la fedeltà alla forma originale. Qualcosa a tal riguardo sarà spiegato nell’ultimo capitolo. Spero che la lettura di questi frammenti di racconti possa incoraggiare a visitare i luoghi lungo l’Isonzo e ad ascoltare le storie raccontate dai musei e dalle guide durante le visite organizzate nei luoghi dei combattimenti. Anche gli esperti accompagnatori 11 spesso ascoltano con gratitudine i racconti dei visitatori – che sono poi storie dei nostri antenati. Tutte le storie di questo mondo dovrebbero essere raccontate. Se le ascoltiamo con cuore aperto, le storie degli altri ci aiutano a vivere. Ogni storia è una partitura unica e tutte insieme formano la melodia del nostro mondo. Ara Malikian, musicista7 Buon cammino! 7 https://www.rtvslo.si/tv/novosti/ara-malikian-zivljenje-med-strunami/544179 12 13 Austria Villach Beljak Tarvisio Trbiž Kranjska Gora Kranjska Log pod Gora Mangartom Trenta Italia Austria-Ungheria Bovec 33 Bled 27 17 Soč 41 a 46 48 59 87 Bohinjska 62 82 Kobarid 109 Bistrica 107 113 125, 143 Walk of Peace 146 Tolmin 150 San Pietro al Natisone 153 Špietar 155, 164 169 167 Kambreško 176 Kanal Cividale del Friuli Čedad 180 186 Il fronte isontino (prima della Dodicesima Battaglia) Šmartno 195 181209 221 Nova Gorica Gorizia 237 Gorica Šempeter 247 pri Gorici 229 263 Redipuglia 281 Miren Renče Redipulja 288 256 226 234 298 Komen 296 Monfalcone 303 Tržič Iso 311 Malchina nzo Mavhinje Duino 306 Devin Miramare Jadr Miramar a M ns 317 a k r o e m 14 A o d r r je iatico Trieste Trst Koper Capodistria 17 Antonio Budinich I Giuseppe Garzoni I 27 33 Karl Paulin I 41 Antonio Budinich II 46 Lettera di un partecipante alla Dodicesima battaglia dell’Isonzo Giuseppe Garzoni II 48 Giuseppe Rudello I 59 Virgilio Bonamore 62 Alice Schalek 82 87 Ivo Brlić 107 Ivan Volarič Lorenzito Cappellari 109 Francesco Orlandi I 113 Giuseppe Cordano I 125 Giuseppe Pozzobon I 143 Sandro Locatelli 146 Bartolomeo Piguzzi 150 Rudyard Kipling I 153 Pietro Ferrari I 155 Giuseppe Pozzobon II 164 167 Karl Sovre I Paolo Caccia Dominioni I 169 Rudyard Kipling II 176 180 Franc Avčin Giuseppe Rudello II 181 Giuseppe Cordano II 186 195 Karl Sovre II Giuseppe Cordano III 209 Pasquale Attilio Gagliani 221 Giuseppe Pozzobon III 226 Piero Leoni 229 Dante Chiasserini 234 237 Josip Stanković Hugh Dalton 247 256 Jože Perpar 263 Vladislav Pavliček Giuseppe Manetti 281 Paolo Caccia Dominioni II 288 296 Jožef Grilc Vittorio Mascherini 298 Francesco Orlandi II 303 306 Albin Mlakar Pietro Ferrari II 311 317 Karl Paulin II 15 16 Antonio Budinich I “Le memorie di guerra di papà”. Trieste: Beit casa editrice srl., 2015. Antonio Budinich scrisse le sue memorie degli anni di guerra nel periodo dal 1939 al 1949 sotto forma di racconto per i suoi figli. Li trascrisse fino al 1939, li perse durante la guerra e li ritrovò accidentalmente dopo il bombardamento di Trieste da parte degli Alleati il 20 febbraio 1945. Fino al marzo 1916 prestò servizio come sottotenente e tenente in varie unità nella guerra con il Montenegro, e poi nel battaglione della Bosnia-Erzegovina di nuova costituzione, che in autunno fu trasferito attraverso il passo della Moistrocca (Vršič) in quel di Plezzo (Bovec) assumendo il nome di 5° Battaglione del IV Reggimento della Bosnia-Erzegovina. Alle 10 del mattino del 27 settembre arrivammo a Klagenfurt. e qui finiva il nostro viaggio di quattro giorni di ferrovia. /.../ Fummo invitati prima noi ufficiali a recarci nei magazzini, per provveder-ci di tutto quello che volevamo; e con generosità e larghezza alla quale non eravamo abituati, fummo forniti di biancheria calda, di maglioni di lana, di calze, di pellicce, di berrettoni, di gambali, di magnifici scarponi da montagna, di occhiali da neve, di guanti di pelliccia, di bastoni di montagna, di ferri per il ghiaccio: pareva che l'equipaggiamento fosse per una spedizione polare. /.../ I giorno dopo, 4 ottobre, alle 6 di mattina, incominciammo la salita del passo. Attraverso questo passaggio il genio austriaco aveva costruito una magnifica strada, la Prinz-Eugen-Strasse: io avevo ancora mio cavallo e quindi con tutta comodità potei ammirare il sezione 1 17 panorama meraviglioso. La strada, con ampi giri di ardita costruzione, saliva fino 1650 metri. /.../ ma stringeva il cuore il pensiero che gli uomini si massacrassero per trasportare un poco più in qua o un poco più in là i confini dei loro stati. Immediatamente dopo la notizia della morte dell’Imperatore, venne l’ordine del comando supremo dell’esercito, di far celebra-re dovunque fosse possibile, anche nelle posizioni più avanzate, l’ufficio funebre in suffragio dell’Imperatore, e di far prestare subito alle truppe il giuramento al nuovo sovrano Carlo 1. Per noi la cerimonia si svolse in prossimità di un cimitero militare nella località Soča. /…/ Durante il giuramento lo rividi nel gruppo degli italiani: il dottor Remigio Sussich, da Lussingrande. /…/ Fungeva da segretario del cappellano. Remigio Sussich mi mostrò i tragici registri che egli teneva, dove erano elencati i morti – per la maggior parte prigionieri russi – che soccombevano per denutrizione, esaurimento, debolezza – parole scritte cosi nei registri per non scrivere la vera parola: fame. Povera gente! Strappati dalle loro case, dalle loro campagne, passati attraverso la zona del fuoco e della morte della guerra, per esser sottoposti a duri e pesanti lavori nella prigionia e per morir poi di fame! Finalmente, dopo una quantità di pratiche e di formalita, riuscii ad avere la licenza straordinaria; straordinaria perché essa non doveva menomare il mio diritto alla licenza regolare quando fosse venuto il mio turno. Ottenni cinque giorni. /.../ Partii da Versnik la mattina del 6 dicembre. /.../ Nei giorni precedenti erano cadute 18 gennaio – febbraio 1917 abbondanti nevicate ed enormi masse di neve coprivano ogni cosa: il paesaggio era di una bellezza fantastica; centinaia, anzi migliaia di uomini erano occupati a spazzare la neve per tener libera la strada della Mojstrovka che era l’unica comunicazione dell’alta valle dell’Isonzo con il retroterra. Ma la neve che continuava a cadere con una furia che io non avrei mai pensato, rendeva in gran parte vano il lavoro degli uomini. Ai due cavalli della diligenza ne furono aggiunti altri due e poi altri due: ma furono rimedi insufficienti: a un certo punto non si poté più proseguire; dovemmo scendere e in un rifugio attendere un altro mezzo di trasporto; dopo un paio d’ore d’attesa vennero le slitte che facevano il trasporto dei passeg-geri e dei bagagli fino a Kronau: cosí mi toccò la fortuna di fare un magnifico viaggio in slitta attraverso il passo della Mojstrovka con una tempesta di neve, con una temperatura che sarà stata di –14º C, in un paesaggio invernale di meravigliosa bellezza. Dopo otto ore di viaggio dalla partenza da Versnik arrivai a Kronau. /…/ La sera di domenica 10 dicembre partii da Trieste. /.../ A Kronau fui informato del fatto che I passo della Mojstrovka non era più transitabile, e dovetti quindi andare con il treno fino a Tarvisio per arrivare alla mia destinazione attraverso il Predil. Da Tarvisio, di nuovo con una slitta, raggiunsi Raibl (oggi Cave del Predil): la quantità di neve che era dovunque era impressionante; all’ingresso di Raibl vidi una casa che il giorno prima era stata abbattuta in parte da una valanga. Neanche per il Predil si poteva passare per la grande quantità di neve e perché la strada era battuta dall’artiglieria italiana. Tutto il movimento per il fronte dell’alto Isonzo si svolgeva atraverso la miniera. /.../ Un ascensore, di quelli usati dai minatori, sezione 1 19 ci portò verticalmente in giù per circa 300 metri. /.../ In fondo alla miniera era un’ampia caverna e là si svolgeva una vita molto intensa: là avveniva tutto il movimento dal e per il fronte: ufficiali e soldati che andavano e venivano dai servizi, dalle licenze; merci, bagagli, armi, munizioni. Da quella caverna un trenino per una galleria di 2–3 chilometri conduceva all’aperto. Dalla stazione finale del trenino (cioè prima di. Bretto), sulla grande strada del Predil, partivano i camion. /.../ Il movimento sulla strada del Predil, per Plezzo e per l’alto Isonzo si poteva svolgere soltanto di notte, perché di giorno la strada era battuta dall'artiglieria italiana. /.../ La strada a una certa altezza era attraversata da grossi fili di ferro che trattenevano i mascheramenti per nasconderla alla vista del nemico. Lo che ero seduto su una cassa, mi calai giù, e fu una fortuna: dopo circa due chilometri di strada mi senti violentemente portar via il berretto dalla testa; uno dei detti fili di ferro me lo aveva strappato. II 14 gennaio ci fu comunicato che dovevamo trasferirci a Pustina, nella valle della Koritnica. Il movimento del battaglione doveva avvenire dopo il tramonto del sole, perché la strada che dovevamo percorrere era battuta dalle artiglierie italiane. Partimmo da Versnik alle 5 di sera. /.../ Eravamo appena entrati nel bacino di Plezzo che un violento bombardamento si scatenò sulla strada, mentre i riflettori illuminavano tutto il terreno. /.../ II tempo era pessimo: cadeva dal cielo acqua fredda mista a neve. /.../ Arrivammo a Pustina alle 11 di sera, bagnati fino alla pelle e con i mantelli carichi di neve, che sugli indumenti bagnati restava attaccata in modo tale da non potersi più scuotere. Gli uomini erano in uno stato da far pietà: ma più pietoso era il fatto che non trovammo 20 gennaio – febbraio 1917 gli alloggiamenti pronti. /.../ E quella notte, cosi bagnati e coperti di neve, dovettero dormire vestiti all'aperto. Il maggiore Peternel era furente: tirava moccoli spaventosi contro la guerra, contro la politica, contro la Germania, contro l'America. /.../ Quel primo giorno a Pustina fu un giorno terribile: intanto incominciammo con il patire la fame, perché la cucina e le provviste che sarebbero dovute arrivare dopo di noi nella notte arrivarono appena alle 10: una valanga caduta sulla strada verso la mezzanotte aveva interrotto la comunicazione. Anzi, era caduta così vicina alla colonna delle nostre cucine e dei nostri bagagli che un paio di carri e un paio di caldaie delle cucine erano stati travolti in un burrone e sepolti sotto la neve della valanga. /.../ In quel giorno e nei giorni successivi avvenne la sistemazione a Pustina: la sera del nostro arrivo le tavole con le quali dovevano esser costruite le capanne per gli ufficiali erano ancora là, sepolte sotto mezzo metro di neve: ci vollero circa dieci giorni prima che le abitazioni fossero pronte. /…/ Quando poi potemmo avere delle piccole stufe, l'umidità gelata lentamente si sciolse, ma tutto fu impregnato d’acqua. Eravamo in posizione di riserva: durante il giorno si facevano piccole esercitazioni con i soldati e la notte molto spesso i soldati del nostro battaglione erano adibiti alla costruzione delle trincee nella conca di Plezzo: 3–4000 uomini con due o tre ufficiali uscivano verso il tramonto, raggiungevano le posizioni in circa due ore di marcia, lavoravano tutta la notte e rientravano all’alba. Era un servizio faticosissimo e pericoloso, perché si doveva stare tutta la notte all’aperto, esposti al freddo intenso e al frequente cannoneggiamento nemico. /.../ Il lavoro ferveva nell'oscurità: si scavavano trincee, sezione 1 21 si tendevano reticolati: tutto ciò a poche centinaia e qualche volte a poche decine di metri dal nemico. Ogni tanto i riflettori italiani dalle alture dirimpetto cercavano nella notte, e quando arrivavano a fissare sopra di noi i loro fasci di luce, il lavoro era subito interrotto, gli uomini si gettavano immobili a terra o si nascondevano nelle trincee. /.../ Assai spesso, quasi ogni giorno, quando il tempo lo permetteva, Peternel mi chiamava a passeggiare con lui: andavamo sulla strada un paio di chilometri, o verso Bretto o verso Plezzo: e durante queste passeggiate si confidava abbastanza apertamente con me. Egli probabilmente non aveva potuto indovinare i miei sentimenti irredentistici, ma aveva invece pienamente indovinato che io odiavo la guerra, e non mi nascose che anche lui la odiava cordialmente e che, come me, odiava cordialmente i tedeschi che ne erano stati la causa; da ciò la sua avversione per il tenente Braun, che era un duro tedesco della Boemia. Odiava anche gli ungheresi: era un croato della Banovina e, prevedendo l’inevitabile sconfitta della Monarchia, era preoccupato di quello che sarebbe potuto avvenire della sua patria: aveva piuttosto simpatia per gli italiani: se la prendeva con Cadorna che egli riteneva un incapace, perché con tutta facilità avrebbe potuto far un’offensiva sul fronte di Plezzo e imbottigliare senza via di scampo tutto ciò che era nella valle dell’alto Isonzo e nella valle della Koritnica dove eravamo noi. E qui aveva ragione: rotto i fronte nel bacino di Plezzo – e ciò l’avrebbe potuto ottenere con facilità – tutto ciò che era nella valle dell’alto Isonzo doveva necessariamente cadere perché alle spalle erano passaggi intransitabili; e noi della valle della Koritnica non avevamo altra via di rifornimento o di ritirata che la miniera di Raibl. “Aber was macht dieser Caverna?” – mi diceva spesso 22 gennaio – febbraio 1917 maggiore Peternel, che aveva la particolarità di non saper dire un nome esatto – “Er ist ein richtiger Trottell”. Io credo che in fondo egli desiderava una buona e improvvisa offensiva italiana nel bacino di Plezzo per poì andar a finir prigioniero in Italia. /…/ Lui in Italia non c'era mai stato, e mi domandava sempre di Venezia, di Milano, di Bologna, di Firenze, di Roma: evidentemente nel suo pensiero sceglieva i luoghi migliori per la sua ipotetica prigionia. Nella seconda metà di febbraio i comandanti e gli ufficiali delle compagnie ebbero l’ordine di andare a passare qualche giorno nelle trincee per orientarsi nelle posizioni che poi avremmo occupato. A me toccò andare sul Ravelnik, proprio sul gruppo centrale. Ma-ričić, sempre fedelissimo, volle venire con me. II comandante del Ravelnik mi attendeva, e subito mi fece percorrere il settore della sua compagnia. /.../ Le trincee del Ravelnik, in tutta la nostra zona di guerra, erano famose per la loro perfezione e considerate quasi un capolavoro dell’arte militare: ed era vero; io ne fui meravigliato. In due anni i vari comandanti che si erano susseguiti in quel posto le avevano ampliate, migliorate e sempre più perfezionate. Avevano una profondità di almeno due metri, per consentire ai soldati di essere in qualunque punto sempre nascosti alla vista del nemico. In primissima linea, a pochi metri di distanza dal nemico, si poteva circolare liberamente per corridoi e camminamenti coperti ed aperti, ma sempre nascosti. Le trincee erano tutte internamente rivestite con rami e vimini intrecciati, rafforzati da pali e tronchi d’albero. Per i posti di vedetta c’erano comode nicchie ben protette con feritoie dalle quali la vista spaziava sulle posizioni dell'avversario e sulla terra di nessuno. I terrapieni intorno alle trincee erano grossi, robusti, per resistere alle più gros-sezione 1 23 se granate, e venivano continuamente rinforzati. Tutto il sistema delle trincee, poi, era completato dalle molteplici file di reticolati. Le abitazioni dei soldati erano naturalmente sotterranee: erano caverne scavate nella terra, ciascuna per 20–30 uomini, rivestite di tavole e arredate di tutte quelle piccole comodità che possono rendere meno pesante la vita nella trince. Scendemmo dalla collina del Ravelnik per una complicata via attraverso le molteplici linee dei reticolati. Camminavamo allo scoperto: la nostra passeggiata nottuma mi pareva una follia: buoni tiratori che fossero dall’altra parte o una raffica di mitragliatrice potevano stenderci al suolo: ma non volevo naturalmente tradire la mia apprensione; ostentavo franchezza. “Non temere. – mi disse a un certo punto il mio accompagnato-re – Non succederà nulla. Da molto tempo s’è stabilito fra noi e gli italiani una specie di tacito accordo: noi mettiamo ogni sera le nostre vedette notturne e loro le loro, senza molestarci: anzi, qualche volta entriamo anche in conversazione con loro. Fra poco essi pure usciranno da reticolati e potrai vederli.” /.../ I tempi erano cattivi: eravamo ai primi di marzo, ma ance nessun segno della vicina primavera: l’inverno era stato freddo assai, e caratterizzato da abbondantissime nevicate: le montagne tutt’intori erano piene di neve fino alle falde. Frequenti erano le valanghe e continuamente giungevano notizie di disgrazie causate da queste. /.../ Il freddo e l'abbondanza della neve rendevano quanto mai faticosi e difficili i rifornimenti alle truppe che erano nelle posizioni più elevate. Pustina era il centro delle compagnie dei portatori che 24 gennaio – febbraio 1917 facevano la spola fra la valle e le posizioni in montagna. Erano i disgraziatissimi Träger, i portatori che salivano alle trincee del Rombon, della Cukla, dello Svinjiak. A questo servizio di portatori erano destinati i soldati di seconda categoria, quelli che nella visita di leva non erano stati trovati sufficientemente robusti per il servizio di trincea: come truppe non combattenti avevano un trattamento sotto ogni riguardo inferiore. Il loro equipaggiamento era manchevole, il loro nutrimento più scarso che quello dei soldati di prima categoria. Ma pagavano caro il privilegio di non esser destinati alla trincea, perché facevano una vita bestialmente faticosa. Con i muli carichi di viveri ed altro, partivano alle 2–3 del mattino: per vie erte, gelate, in mezzo a tremende tormente di neve, con indicibili sforzi per procedere e per aiutare gli animali che camminavanó con difficoltà, arrivavano a destinazione dopo sette – otto ore di via. Né erano immuni dai pericoli della guerra, perché spesso venivano bersagliati dalle artiglieri del nemico che conosceva i loro passaggi. Quando, a tarda sera, erano di ritorno, faceva pietà vederli: sfiniti dal sonno, dalla fame, dalla fatica, mangiavano in fretta la scarsa cena per dormire subito fino alla ripresa della fatica al mattino successivo. /.../ Passarono un paio di settimane e finalmente il divieto delle licenze fu tolto. /.../ Avevo davanti a me tre settimane di felicità: /.../ Quando, dopo due giorni di viaggio, rientrai a Pustina, mi parve di rientrare nell'anticamera dell’inferno. Il maggiore Peternel, naturalmente, brontolò perché ero venuto in ritardo. /…/ A Pustina non trovaì nulla di nuovo, all'infuori di una colossale valanga, che nel pomeriggio del venerdì santo era andata a finire nel letto della Koritnica, producendo un ’inondazione della valle di Pustina perché sezione 1 25 la massa di neve per alcuni giorni ostruì il corso del torrente. Mi raccontavano gli ufficiali che la caduta della valanga aveva prodotto l’effetto di un terremoto: la terra aveva tremato: non sepolti dalla neve, ma colpiti dalla pressione dell’aria, due soldati erano stati uccisi. Un ponticello di legno sulla Koritnica era letteralmente volato via per la pressione dell’aria, e i pezzi si erano trovati a più di cento metri di distanza: blocchi di pietra di diversi quintali di pietra erano stati gettati, dal letto del torrente, fin sulla strada da Pustina alla Chiusa, a 30–40 metri di altezza. Una valanga di dimensioni enormi: era là da dieci giorni ed era ancora un’enorme montagna di neve che aveva quasi cambiato aspetto al paesaggio. Quando, quattro mesi più tardi, nell’agosto di quell’anno, passai per Pustina per andar di nuovo in licenza, ancora tutta quella neve non era sciolta. 26 gennaio – febbraio 1917 Giuseppe Garzoni I “La Guerra Vissuta”. Udine: El Tomãt, Persico Edizioni 2008. 1 Giuseppe Garzoni fu arruolato nei bersaglieri il 16 maggio 1915. Il 24 maggio, alle 8 del mattino, la sua unità era già in territorio austriaco, nel villaggio di Robidišče, e il giorno successivo aveva circondato Caporetto. Il 28 maggio avevano scalato il monte Zaprikraj e il 1° giugno il costone tra Kal (1698 m) e Vršič (1897 m). Nei successivi tre mesi presero parte ai combattimenti in quella zona e nel frattempo si riposavano sulle montagne di Drežnica e nei villaggi. Il 10 settembre arrivò l’ordine di marciare lungo l’Isonzo fino a Plezzo. Una settimana dopo, a seguito delle battaglie sotto il Ravelnik, gran parte della sua unità venne catturata. Garzoni sopravvisse agli orrori dei lavori forzati in prigionia nella Serbia occupata grazie alla sua conoscenza della lingua tedesca. Trascrisse le sue pagine di diario su un taccuino contabile che aveva trovato tra le macerie di Belgrado. I discendenti lo trovarono casualmente nella soffitta di casa sua dopo il terremoto del Friuli nel 1976. CUINDI IL GIORNO 10 SETTENBRE ganbiamo fronte. Il ultimo battalgione, che era il mio, alle 6 la mattina si discende della montagna e ariva a Ravana [Nota – Drežniške Ravne]. Alle 10 ore lì si prende il rancio e si riposò fino meso giorno. Si conpera qualchi fiasco di vino e si beve tra amici, e a mezzo giorno si parte, diretti per Teranova [Nota – Trnovo ob Soči]. Cuando siamo rivatti a Teranova, si credeva di fare alt come ci avevano detto. Cuando siamo 1 https://espresso.repubblica.it/grandeguerra/index.php?page=autore&id=51 sezione 2 27 giunti, viene il ordine di continuare la marcia. Pasevamo diversi paesi, ma alt non si fa. Alla mezzanotte ci diedero il caffè e poi si continuò la marcia. Di cua e di là della strada si vede a buttarsi, che non si potteva no andare avanti. lo tenei dura fino al luna, ma dopo ò detto io e altri due conpagni: “Lo mi fermo, morti per morti mi fermo cui.” “Anche noi ci fermiamo.” Ci butiamo a tera, tutti bagnati del sudore. Il saino era tutto trapasatto il sudore, ganbiarsi non si potteva perchè tuto era bagnato, il saino era conpletto di chili 38 e le munisioni e fucili altri 10 chili. Come si potteva andare avanti? Lì si metiamo a dormire fino di mattina alle 11. Le ore di riposo sono 3 e non si può di più. Si alsiamo e non si pottete star nemeno in piedi. Si guardavamo unno laltro. “Ma è innutile! – disi io. Siamo in guera. Tocca andare.” Si presi su il saino di novo e si andieti a cercar la conpagnia. LA MATTINA si vede la pusisione del nemico, formidabile che aveva. Di mangiare più di giorno non si può, siamo allo scoperto in unna vallata. Il nemico ci vede tutte le nostre mose, cuindi tutto tocca far di notte. La sera stessa di notte facciamo unna piccolla avansata, e li si fece le trincee, profonde nel tereno ghiaioso, circa un metro, e la tera si la buta verso il nemico, poi si copre di erbe fresc[h]e aciochè il nemico non fosse acorto del nostro lavoro. La matina non si pottetti andare più fori. Unna sete di morire. La pettito [l'appetito], dopo 2 giorni che non si mangiava, della sette era perso anche la pettito. E tutto il giorno toccò di star lì, seduto non puoi stare, straiato nemeno, in piedi nemeno. Cuindi toccò stare incuffiato, coi genonchi soto la barba, perchè se ti alsavi eri fucilato subbito de nemico. Scoperto che àno il lavoro nostro, le 28 primavera – autunno 1917 canonate erano in cuantità, davanti e di dietro che scoppiavano e i srapnel per laria. Cuindi si era in messo al fuocco. La sera mi tocca di andare a prendere il rancio nel paese di Plesso [Nota – Plezzo, Bovec] ancora più distante 2 ore di camino. LA SERA DEL 17 le conpagnie 1. 4. 5. Ricevono l’ordine di occupare unna posisione chiamato Rovencih [Nota – Ravelnik, m 519, alle porte di Plezzo], posisione fortamente tenuta del nemico, e dominato [che domina] tutto la estesa pianura dove erano le nostre trincee. La forsa nemica [era stata oggetto di] calcolo sbagliato del nostro statto magiore, che [la] credeva esiguo e [quindi riteneva] di facilmente occuapare la posisione. La notte si uscì dalle trincee e avansiamo fino sotto i articolati che erano formidabili, di unna larchesa di 30 metri. La posisione era un cocusolo avansatto, e ritornato dalle parti di nord ovest e sut, e a est era collocato [collegato] com monte 10 cuoto [quota 10], formidabilmente fortificato, con tre trincee formate a tunel, non visibil a distansa, in più 2 batterie da montagna, unna a destra e latra a sinistra, che ci teneva inchiodatti nelle trincee, non potevo di giorno alsar la teta. Arivatto le conpagnie a pochisima distansa, verso le 4 circha il nemico gettò dei raggi luminosi che li permise di vedere tutta la nostra manovra. Le prime battulgie con i tubbi di gelatine arivarono sotto e caciarono i tubbi sotto i articolati, dando fuoco alla micia, e i tubbi esplodeno fragorosamente, gietando per aria unna parte del in menso grovilgio spinatto lasistende [là esistente]. Allora li ufficiali diedero lordine del asalto. Con un grido formidabile ci gettiamo per sallir su, ma apena arivati a pocche decine di metri dal nemico, che fin allora non aveva datto segno di vitta, che sezione 2 29 spararono pocchi colpi di fuccile, che ci arivò adoso unna scaricha tremenda di metralgiatrici, obligandoci a rendersi, a cercar riparo sotto a cuelle raffiche micidiali, con le vanghete e con le unghie si procura di scavarsi delle bucche per ripararsi. Ma troppo in vista, perchè esendo scoperto tutto l'intorno, unna stesa pianura, le nostre trincee erano indietro di 5 a 10 metri. Inposibile era rag-giungerle, perchè le metralgiatrice nemiche spasavano il tereno. Il nemico, indovinando la nostra manovra, nella notte aveva piasato 18 metralgiatrici, e le nostre tre conpagnie furono getatte in unna vera tomba, da dove era inposibile usirne. Subitto al primo chiaro, alli occhi la disperata situasione. Li ufficiali incoragiavano, ma erano loro più scoragiatti. Fattosi giorno, un spetaccollo terifficante si presentò alli occhi nostri. I feriti geme-vano, chiamando aiuto. Noi non si potteva muoversi per aiutarli, si vedeva i austriachi che in trincea stavano a put [ad armi puntate] e se unno di noi si moveva era subito colpitto da unna scarrica, che a cuella distansa no si potteva spalgiare. Situasione tragica e disperata per il 6 Bersalgiere, che in 4 mesi di prima linia non aveva conosciuto che vitorie. Verso le 6 di matina del 18 settenbre un soldatto austriacco in lingua italliana gridò: “Bersalgieri arendetevi.” E i nostri risposero di no. Ci lo disi ancora unna volta. Visto che nesuno si arendeva, cominciò unna ardisca [mai vista?] tragedia che nella mente di ogni subestide [superstite] resterà in perituo [imperituro] ricordo. Laltelgeria sparava a sero e le mitralgliatrici: in pocco tempo morti e feriti divenero di un numero inpresionante. 30 primavera – autunno 1917 I austriaci cesarono di novo il fuocco, e ci disero: “Arendettevi e prendete su i vostri feritti e portatelli cui. Non state a morire così. Vedete da solli che per voi altri non è scampo.” I feriti cominciarono a gridare: “Conpagni arendettevi, se non nesun si salva.” Erano grida strazianti, che un cuore di saso avrebbe avuto pietà. Allora scominciò la resa. Andiamo su disarmatti, portando con noi i feriti. Li austriaci sfc]lesero con parelle, aiutandoci e sicurandoci di tutti che non avrebbero sparatto. Arivatti nelle linee nemiche, soldatti e ufficialli tutti ci darono la mano, tratandoci con modi cortesi e chavallereschi. Un tenente ferito al ventre viene portatto in parella. Pasando davanti a dun ufficiale austriacco, [che] fa mettere a terra la barella e l’osal-lutò con parole nobilli. A noi ci dano sigari e sigarete, tabacco, ecc. E noi, non avendo che riganbiare, si dava le piume, stelete e cualchi buracio, cuello che per loro era caro. sezione 2 31 Monte Lipnik 32 Karl Paulin I Ricordi inediti, archivio del Kobariški muzej. Karl Paulin era artigliere nella batteria del 3° Reggimento di artiglieria da montagna nell’Alto Isonzo, sullo Javoršček e sul Rombon, dal 2 ottobre 1915 al 31 agosto 1917. Visto che in quel momento il nostro reggimento aveva 6 batterie sul campo di battaglia, tutti i 280 uomini si dispersero nelle batterie che si trovavano nelle vicinanze di Bovec (Plezzo). In 30 ci unimmo alla quarta batteria che si trovava sul pendio dello Javoršček di fronte a Bovec. La sera, con il buio, ci incamminammo verso le posizioni, scrutando in tutte le direzioni. Dato che fino a quel momento non mi ero mai trovato sul fronte, avevo difficoltà a immaginarlo. Solo qua e là si udiva qualche colpo o si illuminava qualche razzo. Era il 2 ottobre quando arrivai per la prima volta sul campo di battaglia. Presso la batteria, o meglio nei trinceramenti – rifugi, trovammo un po’ di spazio, dove vestiti e calzati ci sdraiammo su delle assi di legno per riposare. Ma non riuscivo a prendere sonno perché ero pieno di preoccupazioni e paure. La mattina dopo, all’alba, uscii dal rifugio per guardare i dintorni del mio alloggio. Cosa vidi? Mio trovavo in una faggeta e dormivo in un buco come una bestia selvaggia. Lì davanti, dietro l’Isonzo, c’erano i villaggi quasi completamente devastati di Koritnica e Kal, e un po’ più a sinistra c’era Bovec, sopra il quale regnava potente il monte Rombon. Conoscevo tutti quei luoghi già prima della guerra. Plezzo era già in mano italiana. Mi rincuorava un po’ il fatto sezione 2 33 di trovarmi quasi a casa – vicino al paese mio, pur non potendo andarci veramente. Dovevamo lavorare come bestie, non c’era pace né di giorno né di notte, il cibo era pessimo, ogni momento eravamo in pericolo di morte, dormivamo nei boschi, in buchi per la selvaggina, non per le persone. Le cose peggioravano quando pioveva, eravamo zuppi ed era impossibile sedersi, tanto meno sdraiarsi nel buco dove si raccoglieva l’acqua per terra, che a volte raggiungeva l’altezza delle scarpe. Più volte mi ritrovai bagnato fino alle ossa e innumerevoli volte dovetti sedere in un buco di notte con l’acqua che dal soffitto mi colava dietro il collo. In quei casi, aspettavo a stento la luce del giorno per poter uscire dal buco. In quel periodo mi trovavo nella squadra di riserva che di regola soffriva sempre di più rispetto alla squadra assegnata stabilmente ai cannoni. Portavamo il cibo nei calderoni alle postazioni sullo Javoršček, a circa due ore di cammino dalla cucina che si trovava dietro la collina, vicino all’Isonzo. Dovevamo sempre fare legna da ardere e prepararla per l’inverno /.../ Verso la fine di marzo [Nota – 1916] iniziarono le piogge. Il fiume Isonzo era cresciuto, così come il torrente Javoršček, che attraver-savo almeno un paio di volte al giorno. Con il bel tempo, il letto del fiume era asciutto, mentre con la pioggia l’acqua scorreva dalla collina, sporca, a volte raggiungeva fino a un metro di profondità, e rotolava e schiumava giù per le rocce e subito sotto si riversava nell’Isonzo. 34 marzo – aprile 1916 Una sera mi mandarono a Koritnica. C’erano rimaste alcune case semidistrutte e in una di esse si trovava il comando artiglieria. Dovevo ritirare un ordine per la batteria. Non c’erano ponti nel punto in cui il letto del fiume era prevalentemente asciutto. Dovetti passare a guado il torrente in piena in una notte buia e piovosa. Solo quando lampeggiava potevo intravedere che in alcuni punti le rocce spuntavano fuori dall’acqua, e io mi ci aggrappavo e ci strisciavo sopra. Attraversai anche l’Isonzo e infine raggiunsi il villaggio di Koritnica. Invece di 20 minuti, camminai per 2 ore. Arrivai al comando fradicio, così che un intero fiume si riversò sotto di me mentre mi trovavo con il tenente al comando. Al calar della notte, 15 uomini marciarono verso Koritnica. Arrivammo nel luogo previsto, dove diversi soldati si erano già radunati attorno al cannone navale che doveva essere portato in cima al monte Svinjak che si estende sopra Koritnica in direzione della fortezza sopra Bovec. Circa 80 uomini erano radunati attorno a quel cannone. Solo la canna era lunga 6 metri e aveva un diametro di circa 40 cm all’estremità più spessa e 20 all’estremità più sottile. Anche per la sola canna quindi non c’erano abbastanza uomini. Prendemmo delle corde lunghe e spesse, le facemmo passare attraverso la canna e all’estremità le legammo a una trave corta e spessa. Con l’aiuto di queste corde, tirammo il cannone con l’estremità più sottile rivolta in avanti fino in cima al monte. Patimmo per tre notti, una dopo l’altra, prima di riuscire a portarlo in cima. Il 5 aprile mandarono me e altri tre sul monte Rombon, dove già in precedenza si trovava un cannone della nostra batteria. C’erano molti più metri di neve in cima. Ognuno di noi prese il proprio sezione 2 35 equipaggiamento da combattimento e ci dirigemmo attraverso l’Isonzo fino alla fortezza dietro Bovec e da lì proseguimmo attraverso la caverna della fortezza in cui si trovavano i magazzini militari e, allo stesso tempo, il posto fungeva da riparo per l’esercito. Una fortezza sorgeva di fronte alla caverna dietro la strada, l’altra un po’ verso sinistra, sopra la caverna, un po’ più in alto, a destra, c’era la quota 1313 che dovevamo oltrepassare per andare sul Rombon. Il nostro cannone si trovava sotto il Mali Rombon, a circa cinquecento passi di fronte al colle del Čukla. Eravamo in otto attorno a questo cannone. Il comandante del cannone era un aspirante cadetto, un tedesco di nazionalità ceca dal nome Čeh. Realizzammo un riparo scavando un piccolo buco nella parete di roccia viva. Lì eravamo al sicuro da shrapnel e granate. Mettevamo il cannone davanti al buco per sicurezza, la sera lo spostavamo sopra il buco. Dovemmo fare un percorso nella parete viva per poter arrivare con il cannone in cima. In quel punto il cannone era sempre pronto a sparare, se necessario. Chi raggiungeva il cannone per primo tirava la maniglia e la granata o lo shrapnel era già in volo verso le file nemiche. Verso mattina, ancor prima dell’alba, il cannone doveva essere nuovamente messo al riparo. Eravamo a soli 400 metri dal nemico. Sparavamo prevalentemente solo di notte. Durante il giorno gli spari erano pochissimi. Non appena spuntavamo con il cannone in cima, già iniziavano a fischiare le pallottole verso di noi. Quel buco – rifugio, era troppo piccolo per tutti e otto gli uomini, quindi non potevamo sederci tutti, tanto meno sdraiarci. Il fuoco era continuamente acceso notte e giorno in una piccola stufa rettangolare da campo in modo da poterci riscaldare. Anche se il nemico vedeva il fumo, non potevano farci nulla con l’artiglieria. 36 marzo – aprile 1916 Diverse volte volarono alcuni shrapnel o granate, spaccandosi sulla roccia sopra di noi o in qualche burrone sotto di noi. Il 25 aprile abbandonammo la vecchia postazione. Con grandi sofferenze portammo il cannone e le munizioni in cima sul Mali Rombon, dove non c’era spazio che per un solo cannone. Fino a quel momento, erano posizionate in quel punto le sentinelle della fanteria, che subito ci fecero spazio. Da qui si poteva vedere su tutti i lati, perciò era molto pericoloso. Da tre lati eravamo circondati da un precipizio di circa trecento metri, dove si trovava il nemico, Čukla, invece, era a sinistra sotto di noi. Iniziammo subito a consolidare la nostra posizione. Durante il giorno raccoglievamo pietre e le ammassavamo. Era difficile trovarle perché c’erano dappertutto circa tre metri di neve. In quella neve erano stati fatti dei cunicoli che portavano su tutti i lati. In certi punti divergevano e ovunque c’erano delle iscrizioni tipo Sentinelle o Reparto mitragliatrici e così via. I cunicoli erano molto pratici perché il nemico non poteva vederci sotto la neve. Quindi di giorno raccoglievamo pietre, ma di notte costruivamo un muro spesso che il nemico, puntualmente, fracassava con l’artiglieria. C’era molta sofferenza perché per quindici giorni lavorammo ininterrottamente giorno e notte. In quel periodo non fu sparato alcun colpo da parte nostra, perché altrimenti ci saremmo traditi. Ci stavamo preparando per il combattimento che era previsto per il mese successivo. Poiché le munizioni per i cannoni scarseggiavano, dovemmo scendere a prenderle a quota 1313. Non ci andammo tutti in una volta, ma in gruppi di due. Nessuno poteva portare più di una cassa. Dentro c’erano tre granate o tre shrapnel. /.../ Non avevo fatto neanche dieci passi quando sprofondai con entrambi i piedi nella neve, ritrovan-sezione 2 37 domi a circa tre metri di profondità sotto la neve. Atterrai in piedi ma la cassa mi scivolò dalle mani. Mi trovavo in una lunga conca tra le pareti, e sopra di me c’era uno strato di neve in cui c’era il buco attraverso il quale ero caduto. Arrivò l’8 maggio (1916) e la nostra artiglieria iniziò a sparare sugli avamposti nemici che ci rispondevano a loro volta. Alla fanteria, ai bosniaci fu dato mezzo litro di rum a ciascuno per essere più coraggiosi. Gli spari, i boati e i tuoni dura-rono un bel po’ di tempo. Presto si sollevò sotto di noi sul Čukla un gran baccano, con urla selvagge della fanteria che gridavano “urrà”, e noi già li vedevamo saltare fuori dalle trincee con fucili e baionette piantate in mano balzando verso le trincee nemiche, come se fosse una questione di vita o di morte. La nostra fanteria non fece nulla, sebbene fosse riuscita a occupare le prime trincee nemiche, non riuscì a mantenerle a causa delle perdite eccessive all’interno della squadra. Da entrambe le parti gli uomini si ritirarono, ciascuno nelle proprie postazioni. Dell’intero battaglione erano rimasti a malapena 100 uomini della squadra. Molti erano i feriti e i morti. Per via dei feriti e dei morti tra le due linee ci fu un’ora di tregua affinché gli infermieri potessero portare via i feriti e i morti. Uscimmo dalle trincee e dai rifugi per osservare le tristi scene che si presentavano davanti a noi. Anche gli italiani uscirono dalle loro trincee. Per un po’ tutto tacque, presto iniziammo a scambiarci i saluti e a sventolare i nostri berretti e fazzoletti. Visto che eravamo vicino agli italiani, colsi l’occasione e gridai in italiano al soldato italiano più vicino: “Saluta mia madre a Kobarid (Caporetto) n. 70 e dille che la saluta suo figlio, mia madre si chiama Ana Pavlin”. Dato che Kobarid era occupata dagli italiani, non potevo scrivere a casa, quindi mia madre non sapeva nemmeno dove fossi, se fossi vivo o 38 marzo – aprile 1916 morto. In seguito appresi che quel soldato aveva fatto visita a mia madre a Kobarid e le aveva portato i miei saluti. Lo venni a sapere nel gennaio 1918, quando tornai a casa per la prima volta in congedo. Il nemico sapeva che le nostre file erano abbastanza decimate, quindi il giorno successivo iniziò ad attaccare. Era peggio del giorno prima. Scoppi e rombi da tutte le parti, su di noi piombavano le granate più pesanti – 28 cm da Polovnik attraverso l’Isonzo fino al Rombon. Avevamo paura di quelle granate. Rispondevamo al nemico quanto potevamo, ma non riuscimmo a trattenerlo. Sfondò avanti e prese le nostre prime trincee, conquistando così il costone del Čukla e mantenendolo. La nostra fanteria iniziò a scalare le rocce e la neve attraverso la boscaglia per tornare indietro. Le pietre dovevano essere spostate in ogni modo se volevamo sparare, quindi al comando del Čeh, nel momento peggiore degli spari, due uomini si dovettero alternare sul bordo del burrone, mettendosi davanti al cannone con le spalle verso il nemico e iniziarono a buttare le pietre nel burrone. Quando tutto fu pulito, girammo il cannone a sinistra verso il Čukla, sotto di noi, dove era tutto un brulicare di italiani nelle nostre vecchie trincee, che stavano verticalmente rispetto a noi. Iniziammo a spedire una granata dopo l’altra nelle trincee. Ogni granata cadde in trincea. Le scene erano spaventose. Rocce, parti di corpi umani, stracci volavano in aria. Cominciavamo a esaurire le munizioni che dovevamo andare a prendere nel riparo che si trovava sotto di noi nel burrone. Quando tornammo con le munizioni, il cannone era distrutto, la struttura e la ruota frantumate, e la guaina trafitta da un pezzo di granata che fuoriusciva dalla canna e dalla guaina. sezione 2 39 Informammo telefonicamente della sorte del nostro cannone l’aspirante cadetto Čeh che in quel momento si trovava in cima al Veliki Rombon. Diede l’ordine di continuare il combattimento. Dovevamo prendere le munizioni dalla fanteria e i fucili nelle trincee della fanteria. In cima non c’erano trincee perché su tre lati del Rombon c’erano precipizi. Andammo dalla fanteria e lì prendemmo munizioni e fucili. Cercai riparo dietro una roccia alta mezzo metro. Alla mia destra c’era un bosniaco. Entrambi sparammo fino a che le canne dei fucili erano calde. Arrivata la sera, gli spari si attenua-rono. Il mio stomaco mi ricordò che avevo fame. Temendo di ritrovarmi con un proiettile nella schiena, feci un salto veloce verso la cucina che si trovava di sotto. Lungo la strada vidi alcuni feriti e morti, la loro vista non era piacevole. Sulla strada, prima di arrivare in cucina, incontrai il nostro Čeh con un revolver in mano, sembrava molto infuriato. Mi disse: Non vedi che il nemico sta spingendo avanti, torna subito indietro, altrimenti ti ammazzo come un cane. Sono dovuto rimanere zitto e tornare indietro. Lungo la strada aveva respinto tutti i soldati che erano diretti verso la cucina. Sparai alcuni colpi e notai che il bosniaco non sparava. Gli dissi in bosniaco: “Spara, fratello, vedi che l’italiano sta venendo qui.” Non gli importava, rimase tranquillo. Continuai a sparare e dopo un po’ mi voltai di nuovo verso di lui e gli diedi una spinta – ancora niente – lo girai, era morto. Aveva ricevuto una pallottola dritto in fronte ed era rimasto morto nella stessa posizione, come se stesse sparando. Pensai che forse la stessa sorte sarebbe toccata anche a me, oggi, domani, dove? In tempo di guerra, l’uomo è come una goccia che pende da un ramo, se ne sta lì dall’oggi al domani. 40 marzo – aprile 1916 Antonio Budinich II La mattina, credo fosse del 14 maggio, il battaglione intraprese la salita del Golobar: era una strada ben costruita, perché serviva ai rifornimenti e a tutte le comunicązioni del settore del Javorček e delle posizioni vicine con il retrofrontel. /.../ Súl Javorček c’era ancora una quantità enorme di neve: ce ne saranno stati, secondo le posizioni, da quattro a cinque metri. E in molti tratti, per comunicare da un punto all’altro, trovammo scavate delle gallerie nella neve: erano gallerie larghe un metro o poco più, alte circa due metri e lunghe anche cento e più metri. Perciò bisognava sempre portar con sé la lampadina elettrica, perché le gallerie nella neve erano perfettamente buie. Ma quella quantità di neve era una vera provvidenza per noi, perché le granate erano inefficaci: nella neve non scoppiavano. Le ore della mia fatica erano quelle della notte: i posti di osservazione delle trincee erano molto numerosi. Dato il freddo, i cambi avveniva-no assai spesso. Subito dopo il tramonto, gli ufficiali e i sottoufficiali si raccoglievano tutti su una piccola spianata che era davanti alla mia capanna, e là io davo le disposizioni per il servizio notturno: davo la parola d’ordine, disponevo le guardie, formavo le pattuglie che ogni notte venivano mandate fuori dei reticolati a perlustrare il terreno e a tenere i collegamenti con le compagnie vicine. Ogni notte, due o tre volte, a ore non fisse, facevo la ronda per tutta l’estensione della mia trincea, che misurava circa un chilometro: e questo servizio era veramente duro, perché le trincee erano ripide, sassose, complicate, spesso incrostate di ghiaccio: e naturalmente dovevo percorrerle al buio, e soltanto in alcunl tratti con una debole lampadina elettrica. sezione 2 41 Le prime settimane soffrii molto: sempre vestito, con le scarpe indosso, assai spesso bagnato; dormivo a tratti di un’ora, e anche meno, continuamente disturbato. E sempre, poi, con il tormen-toso, assillante, pensiero dell’imprevisto che poteva accadere: un agguato, una sorpresa, un assalto nemico. Ma con il tempo poi mi abituai al disagio: spogliarsi per dormire mi parve una cosa super-flua; gli scarponi mi parvero qualche cosa di necessario, quasi una parte integrante dei miei piedi. Me li levavo di rado: due o tre volte per settimana, di giorno, e per pochi minuti, per lavarmi i piedi e per cambiarmi le calze. Anzi, veramente non le calze, bensi gli stracci dei piedi, le cosiddette Schuhfetzen: perché al fronte non si adoperavano calze. Vršič: quest’ultimo specialmente attirava la mia attenzione, perché era n punto quanto mai contrastato e tormentato: non passava mai giorno che sul Vršič non si combatesse. La cima del Vršič pareva un vulcano in eruzione: avvolta nel denso fumo delle esplosioni che il vento ogni tanto diradava, e nel fumo i lampeggiamenti sinistri degli scoppi e delle granate che venivano di fianco, delle mine che cadevano dall’alto e che con fragore di tuono scoppiavano e facevano rimbombare tutte le vallate intorno. Il Vršič era il centro dello spettacolo terrificante: i pochi cannoni che erano là, nascosti nella roccia, rispondevano rabbiosamente, ma dalle altre cime tutt’intorno, dal Velika Vrata, dal Krn, da Lipnik, dallo Svinjiak, dal Čukla, dal grande e dal piccolo Javorček, le batterie austriache tempestavano di colpi le posizioni italiane, quelle del Polounik specialmente. Nell’aria, in tutte le direzioni si incrociavano le traiettorie delle granate. 42 primavera – estate 1916 Vista dal Monte Javoršček su Kal (¤ 1698 m), sullo sfondo il monte Krn (Monte Nero) 43 Dalla cima del Javorček si vedeva verso il sud, al di là del Polovnik e delle colline del Kolovrat, il bassopiano friulano e le prime leggere alture del Carso: là infuriava la grande guerra. Tutto si perdeva e si uguagliava nell’azzurro e nella nebbia dell’orizzonte? Ma nella notte molte volte durante i miei giri per le trincee, quando si com-battevano le epiche battaglie dell’Isonzo, vedevo l’orizzonte come illuminato da un incendio... Cosi io, verso la fine di giugno, feci un escursione sul Vrsič che durò due giorni. Era il famoso Vršič dei continui [combattimenti], il punto più tormentato di tutta quella zona, del quale si raccontavano gli episodi più macabri e più sanguinosi, e che destava in tutti un senso di curiosità e di paura. Arrivato al posto, mi presentai al comando della guarnigione del Vršič e gli esposi lo scopo della mia visita: era un capitano di nazionalità tedesca, molto gentile e molto gioviale di temperamento. Mi condusse nella cancelleria del suo comando, che era in una caverna scavata nella roccia e là, con uno schizzo topografico alla mano, mi spíegò il piano e la disposizione del fortilizio. Quello che subito mi sorprese fu leggere nello schizzo del capitano la quantità di uomini, di armi e di materiali che si trovavano sul Vršič, mentre a vederla di lontano, quella cima, si sarebbe detto che a mala pena qualche dozzina di persone potessero trovarvi posto. Erano circa 400 uomini, e poi cannoni, mitragliatrici, lanciafiamme, lanciamine, riflettori; e poi magazzini di viveri, di munizioni, di materiali; c’erano poi gli alloggi, le cucine, le cancellerie, la mensa degli ufficiali, un’infermeria. La maggior parte di questi uomini vivevano come veri trogloditi: soltanto sul versante settentrionale, non visto dal nemico, c’erano alcune costruzioni esterne: ma il 44 primavera – estate 1916 comandante faceva sempre scavare nuove caverne e nuove gallerie nella roccia, perché il suo desiderio ultimo era di far posto a tutti e a tutto sottoterra. Avuta l’istruzione teorica a voce e sullo schizzo, il comandane chiamò un tenente perché mi accompagnasse e mostrasse ogni cosa. Impiegammo quasi due ore, a fare il giro di tutto: quella costruzione del Vršič era come un immenso formicaio, dove la vita si svolgeva nella roccia in locali posti in diversi piani e comunicanti l'uno con l'altro con un complicato sistema di anditi e di gallerie. Naturalmente tutto era terribilmente ristretto: i soldati erano alloggiati in caverne e dormivano stipati come sardelle su tavolati a più ripiani; le abitazioni degli ufficiali erano minuscole cellette; le cucine strette, piccole come quelle dei piroscafi della navigazione costiera: non si può dire se in esse si cucinasscro più i cuochi o le vivande. Nella mensa degli ufficiali pareva di essere nel ventre di una balena. Ogni metro cubo di spazio costava lavoro e denaro per l’uso delle perforatrici c delle materie esplosive, perciò ogni angolo era sfruttato; i più ampi erano i corridoi, acciocché, in caso di allarme, gli uomini potessero sfollare presto all'aperto. sezione 2 45 Lettera di un partecipante alla Dodicesima battaglia dell’Isonzo2 Stimatissimo Ufficio Parrocchiale! Per quanto riguarda la richiesta di dati più dettagliati sulla morte del fante fuciliere addetto a Ribno, Ivan Olifčič, quella che segue è la richiesta di far sapere alla sua famiglia quanto la prudenza concede. Da Bovec, attraverso Čezsoča, il fosso Slatenski jarek, si arriva a una conca circondata dallo Javorček, il monte Golobar, Lipnik e Vršič. La conca chiamata “Dol” prende il nome dalla cappella militare chiamata Kapellental. Dietro la cappella, nell’ombra di alberi non troppo fitti, si ammassano file di tombe di eroi. Nella cappella si svolgevano le funzioni religiose fino a quando non è stata gravemente trafitta dalle granate nemiche. I caduti del Distretto Golobar venivano seppelliti dai curati di notte, per precauzione. Qui, da questa conca, una serpentina porta verso la vetta inferiore del “Vršič”, che era nelle nostre mani, mentre dal trigonometrico Vršič gli italiani colpivano i nostri con bombe a mano. L’avamposto nostro e quello del nemico si sono avvicinati qui in altura a 14 passi. Se il nostro Vršič non avesse avuto caverne dove i soldati poterono trovare riparo dai missili nemici di ogni tipo, i nostri non sarebbero riusciti a mantenere il Vršič. Nelle caverne si cucinava, si mangiava, si dormiva. In un certo senso, l’avamposto più importante nella zona della Divisione era stato affidato alla 11a Compagnia d’alta montagna del 2° Reggimento fucilieri che si era indubbiamente distinta, ai ragazzi 2 Una copia della lettera è stata mandata al Museo di Caporetto da Irena Čelesnik. 46 ottobre 1917 selezionati dell’esercito sloveno, di cui si sentivano solo gli elogi più lusinghieri dai non sloveni che ammiravano la tenacia slovena, il coraggio, la lealtà degli sloveni e il patriottismo sloveno, ignoti fino ad allora. Non vi è un solo uomo nella Compagnia a cui il monte Vršič non abbia appuntato sul petto eroico una medaglia per il coraggio. Era il 24 ottobre prima delle due di notte, quando i ragazzi, armati di tutto punto, aspettavano nelle caverne il comando per attaccare gli italiani. A uno dei compagni accidentalmente si era infiammata la bomba a mano. Non sapeva cosa fare in quell’istante, la granata esplode in 4 secondi. L’aveva gettata in un angolo dove non c’erano compagni, pensando certamente che così sarebbe stato meno rischioso. Nell’angolo, invece, c’erano due enormi tubi di ferro pieni di ecrasite, arma con la quale si voleva far saltare in aria parte delle fortificazioni nemiche. L’ecrasite prende fuoco e distrugge la caverna con un terribile botto. La squadra, compreso Ivan Olifčič, è stata dilaniata. Abbiamo trovato alcune tessere (Legitimationsblatt). Non era opportuno raccogliere i singoli pezzi e trasferirli a valle su un percorso faticoso e in parte pericoloso. Abbiamo tappato di rocce l’ingresso della caverna e in primavera verrà murato. La caverna sarà bene-detta in un momento successivo. Se lo stimatissimo Ufficio Parrocchiale volesse qualche chiarimento in più, sarò a Ljubljana, in via Vegova 10 fino al 10/I/18 dove mi godo un meritato congedo. Un augurio di Buone feste! Con massima reverenza Ljubljana 19/12/17 (Nota – firma illeggibile) sezione 2 47 Giuseppe Garzoni II LIN DOMANI DI MATINA DEL 27 faciamo pulisia e poi si conpera cualchi bidone di vino in conpagnia e li si bevette, e riposo fino a sera, e la sera si parte novamente per andare al monte nero [Nota – Krn/Monte Nero, m 2244]. CUANDO SIAMO SUL ISONSO, il ponte lo avevano aterratto i Austriaci, cuindi si doveti passare su un ponte costruito del gie-nio italliano e si dovetti pasare per uno, e fu cuello lì il primo guassto della guera. Poi pasatta tuta la conpagnia si mettiamo in marcia. Cuando siamo arrivatti in un paese chiamato Magossa [Nota – Magozd) scominciamo a sentire cualchi fucilata e noi altri ci ordinarono di caminar adaggio e nascosti. Cuando siamo arivati a Ravana [Nota – Ravne] ci ordinarono a tera, e caricate il fucile. In quel momento lì, persi tuto il coraggio di paura, sentendo le scariche dei fucili della avanguardia. Di lì si distaccò unna battulgia in ricognisione e si sente anche cualchi colpo di canone. In tanto in tanto da lì si fece le tende in un canpo di grano e scominciò a piovere. Tuta la notte piovette. Si cercò un po' di pallia, non si la trova. Si disfa un tetto di pallia e poi a forsa di stenti si trovò e poi mi metei alletto. LÌ DOMANI MATINA DEL 28 partiamo e andiamo sul monte craio [Nota – Krasji vrh, m 1773], sensa saino. Di lì non troviamo nesuna novità e il capitano ci indicò il monte nero che si doveva occupare e poi ritorniamo indietro alla canpamento, il cuale ci feci levar le tende e andare acontonati. Sicome anche in cuel 48 maggio – agosto 1915 giorno pioveva, si ganbiano di camicia e di tutto, poi si mettiamo a riposare. LA MATINA DEL 30 siamo ritornati su con tutto il coredo e siamo attendati sul monte craio, e lì abiamo fatte le tende. La sera sentiamo verso le 3 dopo meso giorno la 3° conpagnia sul monte orci [Nota – Vršič, m 1897], che fu attacato del nemico. Loro assistetero alla assione fino ai estremi. La sera verso le 5 ore la battallia cesò. I morti nostri furono i primi 4 uomini. L’INDOMANI ci viene un ordine di andare di rinforso; partiamo a mezzo giorno. Durante che traversso una piccolla vallatta trovo i 4 morti che stavano per sepelirli. Unno dei cuatro aveva un frattello nella 6 Conpagnia, il cuale viene mandatto giù del monte Orcis [Nota – Vršič]. Non sapendo che era suo frattello il morto che stava sopra unna parrella pronto per esere callato nel pucco, era coperto de la facia cor un tello, il frattello corrioso li scopprì la facia. Scoppiò in un grido dicendo: “E mio frattello, è mio frattello.” Si mette a gridare, poi si calma. Lo spolliò del por-tofollgio e di un annello doro. Da cuel istante vienne un ufficiale e li c[h]iesi: “Cosa fai lì?” E lui piangendo dice: “Ò trovatto il mio frattelo morto.” “Di che conpagnia sei?” “Della 6 Conpagnia.” “La sesta conpagnia è in tri[n]cea.” “Sì, e io mà [mi hanno] mandato a prendere delle munisioni, ma cuesto sera non ci vado sopra.” E il ufficiale li risposi: “Come non vai, devi andare”. Cuindi fu cacciato su subito. Inmaginiamoci il dispiacere di cuel persal-giere. lo a cuesto ebbi assistito fino che lo caciò via, che stavo a asspettare nuovi paccheti di munisione. Stribuita [distribuita] la munisione andiamo su. La sera fu calma. sezione 2 49 LINDOMANI SERA, IL 1 GIUGNO, alle ore 5 di sera [siamo] andati fino in cima il monte, alla sinnistro del monte nero. Siamo statti attacati dei soldati austriachi. Sotto unna piogia e tenpesta si dovete risponderre al fuoco nemico. Cuesto lotto [lotta] durò pocco più di un cuarto dora: un ferito dai nostri. Ora si troviamo tuti abagnati. Ci viene il ganbio di altre conpagnie e noi altri si ritorna lì indietro. Cuando eravamo a basso di cuesto monte alto 1800 metri non si trova di andare a dormire. Persi di strada nel bosco. Il capitano con un lumicino ci attendeva a basso e poi ci fece smarire nel bosco. Si chiama qualche duno sottovoce, che ci indicasse il sentiero giussto, ma non è mezzo di saper niente da nesuno, nesun era prattico ancora dele montagnie. lo pensai tra me: se si fa facile perdersi così, con cuesti ufficiali in cuera no si va bene. /.../ IL 6 GIUGNO novamente andiamo sul monte Orcis [Nota – Vršič). Anche in cuel giorno ci diedero due paccheti di munisione. Mentre [di]stribuivano la munisione alla conpagnia, vediamo a sfilare i primi 70 prigionieri fatti dei nostri conpagni. Si corse a vederli. Tutti incapottatti e con lo saino, tutti bagnati, facevano compasione benchè erano i nostri nemici. Sfilati che sono, noi andiamo al nostro posto e si scomincia a sallire la montagna. Dopo due ore eravamo sopra e lì si metiamo in linia. Viene ordinato di farsi cualchi piccolo riparo coi sasi e lì si pasò la notte soltanto con la coperta e mantelina, sensa saino né tello da tenda. Pioveva tutti i giorni a burascatte, come fa in alta montagna. Tuti i giorni eravamo persiguitati del nemico, che cercavano di avansare anche la notte. 50 maggio – agosto 1915 LA SERA DE 10 AL 11 ci tocca cinque volte la larmi; la seconda volta che fu dato la larmi delle sentinelle si scominciò un focco di tuto il reggimento e 4 metralgiatrici, durò cuasi mezzora, poi si calmò. LÌ STIAMO FINO IL GIORNO 12 con 2 orazioni [razioni] di calette, due scattolette di carne in conserva e unna pagnotto. Unna fame che non si potteva nemeno star in piedi. Dormire non si potteva; nemeno chiudere un occhio per scherso. Il canone batteva le roccie della montagnia, a cualche metro sfiorarono la testa. Di gran neve si mangiava. I feriti furono sei. IL GIORNO DODICI si aspeta il ganbio, e non viene. Mi senbravo che in cuei giorni mi toccava morire, sensa pallottolle ma bensì di fame, di fredo e di bagnatto. Anche in cuella sera furono datti due allarmi e si dovete aprir il fuoco. IL GIORNO 13 vediamo arivare i alpini che ci davano il ganbio. Subito arivati i alpini ci chiesero come si sta in cuesto pusisione. E noialtri ci si risponde che siamo statti speso molestatti tutte le noti. Alora il capitano ci dice: “Domani noi altri li caciamo i austriaci di lì, volgiamo star trancuili noi cui [qui].” Allora presi i ordini, il capitano mette i suoi soldatti e noi altri scominciamo a sfillar giù al fianco de monte. Abian dovuto percorere la montagna tutta a spalssi [sbalzi] perchè il nemico si era acorto del ganbio che si aveva, e lui tutto il giorno continuò un focco inmenso di artelgeria. Un colpo tacco laltro [dopo l’altro], a basso che siamo arivatti, erano le 5 di sera. Ci avevano preparatto il caffè, il brodo, la carne, il vino e due pagnote di pane. Cofn]sumato cuesto rancio in primura tra la fame e il tenpo che sezione 2 51 non cera, dopo andiamo alla canpamento a prendere la robba. Non si trova altro che il saino e la tenda tuta rotto dai scrappnel fshrap-nels], e né scarpe né biancheria non si trova, che lavevano portatta via i alpini che erano statti lì. Poi ritorniamo al nostro posto. Di lì si asspetta i ufficciali che ci aconpagnano a baso a far le tende di novo. Viene un proietile di 305 il cuale si lo sente a venire come un reopplano. Si corre tuti al riparro sotto alberi grossi per difendersi dei sassi. Cade 20 metri in un scolgio. Lì si trovavano 2 alpini, 2 del genio e un Bersalgiere, il cuale la granatta cade a un mettro distante de[l] Bersalgiere. Li sfasciò il capello e lui col ribbonbo [rimbombo] della tera li fecce fare tre salti come unna palla di goma nel buccho e rimase salvo. I altri a 2 morti e due gravamente feriti, e il battalgione non sofri nesun danno mediante [grazie a] i grosi alberi. Da lì scanbiamo [scappiamo] giù del monte, sensa ufficiali, tuti per conto nostro. Allì a 10 minuti viene un secondo colpo, più avanti, ma non ci fecce danno. Arrivati a basso asspettiamo i ufficiali. Arivano mezzora dopo. Ci coma[n]dano di far le tende in silensio, sensa pottere acendere un fiamiffero. Ci portarono il rancio di novo, anche unna bela cuantità di pasta sciuta, e poi se ne andiamo a letto. Novamente viene ordinato di non fumare, perchè il nemico avveňdo avuto il osservatorio sul monte nero, ci vedevano bene. Quindi noi altri per nostro interese non si fuma. LINDOMANI DI MATTINA si alsiamo, si laviamo in un riuzello [ruscello] lì vicino, e poi si disfa la tenda, pronti per partire. Ci dano un cuchiaio di grappa a testa e poi si parte per andare in riposo a Terranova [Nota – Trnovo ob Soči]. Pasando per cuei sentieri troviamo molti borghesi, che erano anche molte done, specialmente 52 maggio – agosto 1915 ragasse dei dintorni di Civitalle [Nota – Cividale], che portavano i viveri sul monte planina [Nota – Planica, m 1376]; tutte sudate facevano conpasione sul isstante. Arivati che siamo a Teranova, aspetiamo che ci diano il ordine di acanparsi, che ormai era ra-giunto tutto il Regimento che il mio battallione era il ultimo. Poi ci dano il ordine di far le tende. Le tende le faciamo sotto delle piante di noce. Poi ci dano il secondo rancio, che il primo lo abiamo mangiato per il viaggio, e poi stanchi si metiamo a dormire. Anche il giorno 14 è pasatto. /.../ IL GIORNO 22 pasò Cadorna e il re in automobile. DUE GIORNI DOPO, IL 24, i austriaci mandarono due saluti col canone di callibro 305. La popolasione era tutto spaventatto, che ancora non aveva visto niente; scanpavano per cuelle strade tutti inpauriti. E li altri giorni si li pasò discrettamente. Si andava alla istrusione la matina e poi si aveva riposo, e li pasai senpre coi paesani. POI IL GIORNO 27 GIUGNO siamo partiti alle sei di mattina. Al ponte del isonso ci sallutò il collonello che lasciò il Regimento. Poi a uno a uno pasiamo il ponte dirigendosi verso il monte Craio (Krasji vrh). Durante la strada novamente si trovava cuelle done che portavano i viveri sul monte Planina [Nota – Planica]. Tutte sudatte, ma non mi fecero più conpasione, avendo visto la vita che conducevano a Teranova coi soldatti. Durante la strada si feccero più alt, dal caldo che lera. Arrivati sopra siamo fermati in un fianco del monte e lì si aspeta i ordini di andare a posto. In sezione 2 53 cuel tenpo lì viene un piccolo tenporale, [per] il cuale siamo un po’ bagnati. Dopo ci portarono in ur altro posto a farre le tende. Le tende non si potteva farle in premura, mal grado della rappida fripida] montagna e continua a piovere. Il rancio pure fecero fat-tica a farlo nella piogia i cucinieri. Poi andiamo al letto. Pallia più non esiste, si doveti andare a ronpere delle frasche di albero per mettere sopra la palta e i sasi, e poi si metiamo a mangiare e poi a dormire. E come si dorme bene in guera, anche sui sassi pur dessere fuori della trincea. LINDOMANI mattina mi also e metto a sciugare la roba delo saino, che cuella che avevo adosso era sciugatta col dormire. Verso le 2 di sera mi viene ordinato di andare di corvè al fianco de monte planina [Nota – Planica] a portare su lacua da fare di mangiare. In cuel viaggio mi sono auguratto più volte la morte. Era il tenpo che continuava ancora a piovere, la montagna era rapida [ripida], andava un passo avanti e due in dietro, che cualchi giorno prima erano pasati i nostri mulli che avevano rovinato il sentiero che era nome [soltanto] i bucchi di accua e palta, e le scarpe rote e non potei andare avanti con cuela marmita di accua. E non cè rimedio tocca di andare. La strada non si sapeva ma a forsa di girare in su e in giù siamo arivatti. Li consegniamo laqua al ufficiale e poi si ritorna giù novamente. Siamo alla canpamento [chej è notte, tutti bagnati brendiamo il rancio e poi di novo si torna a dormire, con la roba bagnata adoso. /.../ LINDOMAN DI MATTINA mi also e mi toccò di montar di sentinella. In cue tenpo lì un mio conpagno andò alla caccia alle peccore, 54 maggio – agosto 1915 ma non era faccile prenderle per la montagna, perchè spararci non si potteva. Cuindi a forsa di sassi ne amassò unna e poi li levò la trippa perchè se no era troppo peso a portarla su; quando arrivò pronti a pelarla, e chi a cercar legno, e poi si andietti in un burone a cucinarla nelle gavette e nelle brasse. Cucinato che [fu], le si mangiò a vollontà. Poi tuti i 6 giorni si li pasò da signori, ma il giorno dal undici al dodici la pasai malle. IL GIORNO 11 DI MATTINA scominciai a fare unna grotta in forma di trincea per dormire dentro, sicome eravamo scomodi, e cuindi tutto il giorno lavorai come unna bestia, poi la sera non avevo finito. Verso le 7 di sera sorge un tenporalle; io in fretta metto su la tenda, e non arrivava, e non seppi come fare, son costretto a giustarla alla melgio. Scominciò a tuonare, e giù pioggia, e tenpesta, e vento in quantità. Vado sotto la tenda; con la tenpesta e il vento si ronpe, cuindi piove come di fuori, un fredo di morire, tutto bagnato, la mantelina e poi la coperta. Il tenporalle durò cuasi fino mezzanotte. Alle sette e mezza tirò il fulmine per il tellefono, distante da me 100 metri, che andò a cadere nella baito del tenente. Il povero tenente giovane e ricco, che un momento prima stava ragionando con un sargente di artelgieria, il qualle ragionavano chi doveva morir prima dei due, il tenente risposi: “lo mi tocca di morir prima, perchè io mi tocca esspormi più al pericollo di lei.” Da cuel momento il tenente si ritirò nela sua baito e il sargente lasciò il tellefono e se ne andò a riparo. Un momento dopo si scatenò il fulmine e colpi il povero tenente a pieno corpo; levandoli le scarpe, passò nella schiena e andò a giù per le ganbe. Il attendente che stava acanto a lui fu stramortito e perdetti un occhio; un altro morto e 8 i feriti. Sun cuel momento lì sezione 2 55 [i soldati] gietarono via tute le baionette; le sentinelle bandonarono il posto, era avenuto un panicho nei soldatti straordinario. Erano venuti a chiederci dei rinforsi portando cuesta bruta novità, e vollevano un soldatto per piccolo posto, ma era inposibile andarci del buio che era, per cuelle roccie che non si pottè andare di giorno e meno di notte. Allora il mio caposcuadra dise: “È innutile, non si può andare; si amassasi [ci si ammazza] giù nei buroni, andremo domani matino, tanto i tedesc[h]si son bagnati anche loro; non ci vengono a insollentarci, e subitto che lè terminato il tenporalle andremo.” /.../ LINDOMANI si va a lavarsi, sicome eravamo vicino di unna bucco di granata che aveva un animo di 10 cupi metri di accua. La granata era di 305. Poi la sera si parte per andare al fianco del monte orcis [Vršič]. La strada era breve, ma noi ci à toccato di caminare dalle 7 di sera fino 2 di matina, indove che in 2 ore si andava. I nostri ufficiali bravi di maffia e basta, e in cuera non sano nemeno prendere il fronte de[l] nemico. La gran parte son cosi. /.../ IL GIORNO 22 DI SERA un nostro conpagno, disideroso di andare alla cantina per conperarsi cualchi cosa, va giù. Noi lo abiamo avertito che era tropo chiaro ancora: “I austriaci tamasono.” E lui era un siciliano, per il suo dieletto ci risponde: “Sono a mangiare, adeso non tirano.” Parte e va giù. Non fece nemeno 50 metri, che un colpo di fucile si sente. Noi altri [stavamo] guardando l’in-dividuo, [quando] parte il secondo colpo; mentre lui cercava di nascondersi, la pallotola lo abucò il costato. Stramasò per tera morto. lo coragioso, che in cantina ero già statto, ritornando in dietro io e un altro conpagno troviamo cuesto morto, che ancora no 56 maggio – agosto 1915 si lo potteva prenderlo, perchè il nemico ci vedeva ancora, cuindi abiamo asspetato li un po’ e poi abbiamo chiamato del aiuto. Era caldo ancora; il sancque era sconparso. Lo portiamo indietro e lì li levarono il portafolgio [e] un crocifiso, che era tanto catolico, e il piastrino di riconoscimento per portarlo al comando. Poi li faciamo il buco; chiamato il medico, si lo sepelisce. In cuel giorno, dopo io la serra prima che avevo statto in cantina, mi avevo conperato dela cicollatta, la cuale mi mosse un mal di corpo per 3 giorni, e non si potteva andare a sodisfare i bisogni, che di notte e di giorno toccava di farli in trincea, in unna carta e poi butar fori. /.../ L’INDOMANI ci ordinarono un plotone di gua[r]dia filli lungo la linea, duncue parto. Pioveva forte, la strada che dovevo percorrere era disesa, buroni, piccoli sentieri. Tante volte cadere, come G Crito [Gesù Cristo] cuando andava sul calvario, lui aveva la Croce e noi altri il saino con fucile e 15 chili di munisione. Cuindi ariviamo al posto destinatto. Era unna casa e si andiedi accantonati. Cuelli che andarono via, andettero malcontenti, perchè li si stava bene. Si canbiamo di vestitti, si acendetti un focco sul foccolare di cuesta casa e poi si sciugò i panni e siughiamo tuto. Di dormire non erano più sassi, si aveva un bel materaso di lana, il cuale era abbandonato dei borghesi di cuel paese chiamato Magozza [Nota – Magozd]. E si dorme bene tuta la note. POI LA MATTINA si spesionò i fili del tellefono. Ero in 5 uomini, con il caporal magiore. Durante il giorno andai nelle case a vedere come avevano lasciato cuesti borghesi. Provai un dispiacere grande a vedere tutti cuesti mobbili sfasciati dei nostri soldati dopo la sezione 2 57 loro ritirata nel interno. Li àno scaciati il 5 Giugno ancora, perchè faccevano delle spie e amasavano. nascosti nei boschi la notte tuti cuei che pasavano coi feriti e anche ufficiali ne àno amasati. /.../ In quelle case a vedere, io mi presi un paio di calsse di lana, un panciotto e altre cose che mi faccevano di bisogno, e pensavo tra me: “Se sucedesse nei nostri paesi cuesto, oltre la guera che soffro, dovrei sofrire anche cuesto.” /.../ In quel paese era rimasta unna dona solla e un uomo. La dona era amalatta e vecchia, II lano lasciata li e il uomo era un matto calcollatto dei medici e lo àno tenute lì, era mutto di fatto, però un giorno rilevarono i nostri ufficiali che invece serviva di spia per i austriaci e lo ànno fucilatto subitto. /.../ IL GIORNO 9 AGOSTO mi tocca di andare di avvamposti in unna tri[n]cea chiamato “la trincea dei morti”, i cuali erano fisi e non si li potteva sepelirli. Erano austriachi. Unna pussa irresistibile. Tocava montar la sera tardi e dismontar la sera dopo, ma senpre di notte, per non farsi vedere, se si fossero acorti che durante i giorno fosemo li, ci amasavano tuti. E tutto il giorno sensa mangiare. La sera dopo dismonto, torno a riposare, ma non si è posibile. Viene chiamatto allarmi più volte, cuindi la notte passò. 58 maggio – agosto 1915 Giuseppe Rudello I La vita era aspra. Diario di guerra dal 1916 al 1918. Comune di Arzergrande: Biblioteca comunale 20173 Il giorno 22 novembre 1917 comincièva la vita della fame, cioè quella della prigionia. lo rimasi prigioniero sul Monte Col Beretta, all'alba dei ventidue novembre del millenovecento diciassette. Quella mattina era stata “fatale”. /.../ Ma ecco che Il giorno appresso, bisognava partire di nuovo per Cambresco (KAMBRESKO e monte Globocak) e tutti pronti, quando sono arrivati tre camion, che ci hanno caricati e “menati” in mezzo a quelle montagne dove siamo arrivati alla sera; per dormire c’era una baracca dove dormivano gli artiglieri quando c’era il fronte, cloè prima della disfatta di Caporetto. Là si stava al “meno male” ma ll lavoro era “troppo” sopra a quei monti, perché il nostro mestiere era di trovare quei cannoni che gli Italiani avevano abbandonato nella ritirata e condurli alla stazione; si tirava tutto il giorno come i cavalli. Tutte le notti si andava a rubare patate per mangiare. Quella vita durò più di tre mesi, dal quindici maggio quando siamo saliti, al giorno ventidue agosto, che siamo allora passati di comando, cioè siamo passati sotto il comando austriaco, il quale pochi giorni dopo ci ha condotti a Ronzina un paese dietro le linee dell’lsonzo. Là síamo stati un giorno e una notte e poi presi i carri, che noi facevamo da cavalli per condurre cose e la nostra roba, e abbiamo ripreso il cammino per andare a Caporetto. Siamo passati da Tolmino, dal quale siamo partiti camminando alla mattina presto e siamo arrivati a Caporetto alla sera, dove ci hanno messo in una 3 https://slideplayer.it/slide/11885472/ sezione 2 59 baracca. lo alla sera, avendo del “grano turco” ne ho mangiato così tanto che il giorno appresso mi ha preso una potente febbre e avendo marcato visita, il capitano medico mi ha mandato all’ospedale; era il giorno ventisei che sono entrato nell’ospedale di Caporetto, dove i miei compagni sono partiti per andare a lavoro sul monte Nero. lo da quando fui ricoverato all’ospedale, dopo due giorni, comincial a “migliorare la febbre”. Ero in branda quando è venuto un sergente austriaco, Il quale ha domandato chi era capace di fare il falegname, al quale stando a letto, io risposi e da li a poche ore mi sono alzato; questo stesso sergente condusse me e un soldato napoletano a fare casse da morti. Lavorammo in quella bottega quasi un mese e poi ci hanno cambiato lavoro, ma sempre dentro in quello stesso ospedale; poi ci hanno condotti a prendere legna sopra una piccola collina. Là si stava bene perché avevamo tutta la libertà, perché il sergente era un ottimo uomo. Dopo questo lavoro eravamo molto ben visti da tutti i comandanti dell’ospedale. Un bel giorno dopo avere mangiato tanta frutta mi sono ammalato e mi è venuta la febbre a quaranta. Mi misi a letto, dove ero assistito da una bella signorina Tirolese, la quale mi governava molto bene; dopo pochi giorni sono guarito ed ho ripreso il mio lavoro. Ma póco dopo mi fu cambiato il lavoro, dove rientrai nell’ospedale a fare l’infermiere, proprio nella camera dove c’era quella signorina, con la quale si andava molto d’accordo, essendo essa quasi Italiana e parlava il “vero Italiano”, tanto che pol alla fine voleva più bene a me che a tutti “li austriaci”. Passati parecchi mesi, sempre facendo quel lavoro e là dove lo ho passato una “vitta felice” tanto che più non ricordavo i disagi della prigionia. 60 novembre 1917 Alpini a Drežnica ( “Il miglior amico dell’alpino è il mulo.” ) 61 Virgilio Bonamore 1915, copia del diario inedito, archivio Kobariški muzej. 24 Maggio mi presento al 12° Bersaglieri a Milano e mi vestono in giornata. 25 Maggio – 17 Giugno accasermato a Milano, prima con paglia a terra, poi con la branda. Si lavora molto. Sempre di picchetto armato a causa dei moti antitedeschi. 18 Giugno Parto pel fronte con 450 altri compagni. Andiamo a Caporetto per Prendere il posto dei compagni caduti nel combattimento che il 12° ha avuto sotto il Monte Mrzli. 5 Luglio A mezzogiorno in punto parto con la IIIa compagnia in fila indiana. Fa un caldo terribile aumentato dal riverbero delle roccie su cui il sentiero si inerpica faticosamente fra due abissi. Non ricordo marcia così faticosa, numerosi i colpiti da malore. Io mi portai bene fino a pochi passi dalla prima sosta, che si effettua dopo 4 ore di salita continua, poi non potendone più butto il zaino e mi riposo un quarto d’ora. Riprendo quindi la marcia e presto arrivo al luogo stabilito per l’alt. Sono le 16.15 e siamo proprio immediatamente sotto la vetta dello Spleca. II nemico tira parecchi shrapnells, a casaccio, uno passa mezzo metro sopra la mia testa, lo spostamento d’aria quasi mi butta a terra. Sullo 62 maggio – agosto 1915 Spleca restiamo fino a sera e mangiamo una scatoletta. Alle 19 riprendiamo la marcia che dovrà durare sino alle 3 del mattino seguente. Se Iddio mi darà vita non scorderò mai più questa lunga marcia notturna effettuata tutta per asprissimi sentieri alpini a un’altezza di 1800 metri circa. Si costeggiò tutto il versante sud del Monte Nero, Si valicò la forcella Spleca–Sleme e infine ci si inerpicò fino a qualche centinaio di metri sotto la vetta dello Sleme sulla quale sono fortificati gli Austriaci. Quella marcia cauta, al buio, in fila indiana, in perfetto silenzio aveva dell’epico. Ogni tanto, nei passaggi difficili, qualche uomo cadeva senza emettere un grido per non violare la consegna e risuonava tristissimo il rumore della caduta del corpo e delle armi. Qualcuno riprende-va, altri restavano. Sulle nostre teste passavano continuamente i proiettili d’artiglieria col loro sinistro ululato, continue scariche di fucileria echegiavano dovunque. Durante le brevi soste gli uomini morti di fatica, si addormentavano a terra. Finalmente si arriva alle prime trincee a 150 m. dal nemico. Io occupo dapprima proprio la prima linea di trincee che è scavata sulla cresta di un abisso; nel fare zaino a terra, questo ruzzola senza che io possa trattenerlo e precipita nel burrone. Non è possibile scendere a cercarlo, temosia perso per sempre, coi viveri e le care cose che conteneva. Da mezz’ora siamo a terra tutti addormentati, salvo le vedette, che nuovamente ci si sveglia e ci si porta ad occupare un’altra linea di trincee mezz’ora di strada più avanti. Sono le trincee che gli alpini hanno evacuato in silenzio. Alfine si può riposare in qualche modo. sezione 2 63 6 Luglio Ho dormito fino alle 8 malgrado tutte le cannonate e fucilate. Subito mi preoccupa il pensiero dello zaino perché ho un appetito formidabile. Ottengo dal tenente di andarlo a cercare ed eccomi in cammino. Le trincee occupate stanotte per quella mezzoretta sono tutte vuote. Discendo faticosamente il burrone che è molto profondo, e dopo due ore di pazienti ricerche trovo lo zaino incastrato fra due roccie. Pel ritorno, cerco una via più agevole ed allungo maleddettamente la strada. Mentre attraverso uno spiazzo scoperto mi fanno bersaglio di alcune fucilate che mi passano vicinissime, mi butto a terra ed aspetto un po'. Poi riprendo, altre fucilate, altra sosta. Cosi continuo per tre o quattro volte, finché raggiungo il bosco e filo via incolume. La mia spedizione mi è costata quattro ore di tempo e sono stanco morto, ma ho il mio “canterano”, come scherzosamente chiamiamo lo zaino, e le provviste che contiene. 7 Luglio Notte burrascosa. Ho dormito poco pel freddo intenso e per il frastuono dei cannoni. Si tira da Monte Cucco sopra una batteria nemica nascosta cento metri sopra di noi, ma senza successo, tanto che verso le nove essa ci ha bersagliato di colpi innocui. Ormai non si può più uscire dalle trincee. Scelti tiratori sparano immediatamente su chiunque osi uscirne. Ieri ho visto cadere fulminato a 20 metri da me l’attendente del ten. Vagliasindi. Ieri per tutto rancio ebbimo ½ pagnotta e una scatoletta. Oggi una pagnotta e una scatoletta, anche mezza tazza di vino. Questa sera devo montare di sentinella fuori delle trincee. Contrariamente a quanto si diceva la presa dei monti Sleme e Mrzli che dominano 64 maggio – agosto 1915 Batognica (Monte Rosso) 65 Tolmino non ha fatto un passo avanti quindi la conquista di Tolmino è ancora molto lontana. 9 Luglio Altra notte trascorsa tranquilla. Alle 23 uscii con la mia squadra a lavorare al fossato d’approccio che si costruisce un po’ per notte e che servirà per marciare coperti all’assalto delle posizioni nemiche. Gli Austriaci hanno spostato i loro cannoni da montagna ed ora battono le nostre trincee dal rovescio. Per fortuna devono difettare di munizioni se no non potremmo sostenere la posizione. Oggi tirarono pochi shrapnells e ferirono diversi bersaglieri della IIa compagnia. Uno scoppiò proprio sulla mia trincea e feri Goi al mio fianco. Ebbe una palletta in un occhio e venne portato via. Oggi ancora brodo e carne puzzolente, assolutamente immangiabile. Continuo con la pura pagnotta ma non si potrà continuare sempre cosi! Altro che dire che i soldati sono trattati bene! 10–11 Luglio La notte e la giornata sono trascorse senza notevoli incidenti. Alle 15 usciamo per un’ora a lavorare di pala e piccone. Alle 16 monto di guardia con la mia squadra. Verso le 20 incomincia un acquaz-zone terribile, scappiamo tutti in trincea ma ben presto l'acqua incomincia a filtrare. Cade una terribile tempesta che ricopre il suolo per un palmo. I chicchi sono grossi come noci. Noi siamo già tutti inzuppati d'acqua ma, dopo qualche ora di sosta, ricomincia a piovere violentemente e dura cosi per tutta la notte. Siamo in condizioni pietose, bagnati fino alle ossa e tutti intirizziti. Per soprammercato verso la una di notte abbiamo un falso allarme che 66 maggio – agosto 1915 ci fa sciupare un migliaio di colpi. Io poi sono preso da terribili dolori viscerali. Al mattino tremiamo tutti dal freddo e non v’è mezzo di asciugarci. Come Dio vuole ricompare il sole e in qualche modo asciughiamo i panni addosso. A mezzogiorno dell’11 ricevo otto pacchetti raccomandati dalla mia Itala nonché una lettera e due cartoline. Anche una cartolina da Irene. Itala mi ha mandato calze di lana, carta da lettere, sigarette, cioccolato, sapone e altro, insomma tante utili cose. Non so come esserle grato. 14 Luglio Grazie a Dio sto meglio. Il giorno passa senza incidenti notevoli. Verso sera i cannoni austriaci ci mandano alcuni shrapnells dalla vetta del Mrzli. Uno piomba vicino a me, si interra e non scoppia. Decisamente sono fortunato. Questa notte si rinnova un violento temporale che ci bagna da capo a piedi e ci lascia tutta notte a tremare dal freddo. 15 Luglio Appena giorno ci alziamo tutti dalla paglia fradicia. Gli abiti bagnati si sono incollati alla pelle e ci fanno tremare dal freddo. Anche gli ufficiali sono conciati in modo pietoso. Le mie scarpe sono due serbatoi d'acqua. E chissà quando potremo asciugare. C’è appostato su di una roccia di fronte alle nostre trincee a circa 200 metri un tiratore austriaco che spara continuamente su chiunque si espone. Ne ha feriti già diversi e non riusciamo a scoprire il suo nascondiglio. Ha già il suo nomignolo “Pianetti” ma glie l’abbiamo giurata e questa notte o domani qualcuno di noi andrà a scovarlo. sezione 2 67 18 Luglio Notte orribile. Verso mezzanotte si scatena un terribile uragano. Frattanto giungono i primi plotoni del 23° che prendono i nostri posti alle trincee. Noi, sotto un diluvio d’acqua, ci riuniamo in uno spiazzo in attesa dell’ordine di partire. L’acqua continua ininterrotta. Fa freddo, sono inzuppato fino alle ossa. E’ buio pesto. Alle due ci mettiamo in cammino tenendoci per le mantelline perché non si vede nulla. Dopo poche centinaia di metri eccoci fermi nel buio, sotto l’acqua torrenziale sul piccolo sentiero largo 20 cm, proprio a picco sull’abisso. E’ una tortura inenarra-bile. Tremo convulsamente dal freddo, sento i rivoletti d’acqua scendere per la schiena e non si può muovere un passo per non precipitare. Cosi siamo stati immobili sotto l’acqua per ben tre ore. Poi, anziché procedere, si retrocede e si ritorna al punto di partenza. Apprendiamo che i torrenti ingrossati impediscono il transito. Siamo bloccati sulla montagna. L’acqua cessa verso le nove del mattino. Questa notte fu ben più terribile di quella del giorno 5. Ho tanto freddo e sono inzuppato come una spugna. La marcia si farà dunque la notte veniente. Come passare il giorno cosi conciato? 19 Luglio Ieri nel pomeriggio ebbimo un po’ di sole. Verso le 18 ero quasi asciutto. Alle 19 ricominciò la pioggia ed alle 20, quando si intraprese la marcia, eravamo inzuppati di bel nuovo. Marciammo cinque ore costeggiando tutta la catena del Monte Nero. Alle ore 1 e ½ di oggi 19 giungemmo a destinazione: un vallone profondo che separa il Monte Nero dallo Spleca. Passammo la notte seduti sullo 68 maggio – agosto 1915 zaino non permettendo il fango di sdraiarci. Il freddo è addirittura insopportabile. Ho tremato tutta notte. Oggi in cinque rizzammo la tenda. Ebbimo caffè e vino. Rancio sempre freddo. Sopra di noi, sul Monte Nero, gli alpini hanno effettuato un’ avanzata vittoriosa. Anche il 23° Battaglione che ci sostitui sostenne questa notte un vivace attacco nemico. Durante tutta la marcia sentimmo il fuoco di fucileria e di mitragliatrici. Stamane la nostra artiglieria apri un fuoco d’ inferno sullo Sleme. Erano 45 batterie che tuonavano. Dicesi che fra alcuni giorni daremo il cambio al 36° Battaglione che combatte ora a fianco degli alpini sul primo costone dello Sleme recentemente occupato. Oggi nessuna lettera da nessuno. 20 Luglio Oggi ho fatto il lavandaio, il calzolaio ed il sarto. Le mie cose sono in ordine. La sera abbiamo avuto finalmente il rancio caldo, pasta in brodo, discreta. E’ incredibile l’importanza che si da qui al mangiare, è l’argomento predominante delle conversazioni. Da Itala, ebbi due care raccomandate e due pacchetti di sigari che ho subito distribuito ai miei compagni. 21 Luglio Questa notte il combattimento è durato intenso alla nostra destra. Fioccavano le pallottole anche qui. Stamane alle tre un proiettile traforò la tenda e feri Vismara Angelo perforandogli la coscia destra mentre dormiva al mio fianco. Sono cosi due miei camerati feriti al mio fianco. Goi alla mia sinistra, colpito all’occhio da una palletta di shrapnell, Vismara alla mia destra. Goi poveretto è il più sfortunato perché perdette l’occhio. Stasera sarò di guardia. sezione 2 69 Da Gorizia giunge notizia di una nostra bella vittoria. Hanno fatto 2000 prigionieri austriaci e prese diverse mitragliatrici. La morsa intorno ai monti Sleme e Mrzli si stringe sempre più. La vittoria finale sarà nostra. Con la presa di questi forti Tolmino deve subito cadere e Gorizia sarà seriamente minacciata. Ore 13. Ci viene dato improvvisamente l’ordine di affardellare lo zaino, armarci e tenerci pronti per partire. Il riposo è bell’e finito. Si vede che si è decisa una avanzata generale forse per cogliere i frutti della vittoriosa avanzata effettuata questa notte dagli alpini. Alcuni artiglieri da montagna che passano con le munizioni da 65 mm in spalla dicono che andremo di rinforzo al Monte Nero. 22 Luglio Siamo partiti questa mattina alla una. Si sale la seconda cresta del Monte Nero. La marcia dura solo due ore, poi ci fermiamo nel fondo di un crepaccio. Verso le sei gli austriaci aprono il fuoco dall'alto con fucili e mitragliatrici. Le pallottole fioccano come gragnuola senza produrci gran danno dato che noi siamo ben coperti dai sassi. Qualche austriaco, colpito da noi sulla cresta del monte, cade e ruzzola fino a noi. Il combattimento dura un paio d'ore poi il nemico si ritira precipitosamente. Noi manteniamo la posizione. Abbiamo avuto pochi morti e parecchi feriti. Il resto del giorno passa tranquillo. 26 Luglio Sono le sette quando ci mettiamo in marcia verso l’estrema cresta del Monte Nero che ora i nostri chiamano Monte Rosso perché tutto insanguinato. Questa fu la marcia più lunga e più terribi-70 maggio – agosto 1915 le fatta sin qui. Alla quota 2200 il sentiero, appena percettibile, si snoda sul dorsale di una cresta. Appena sotto l’abisso scende a picco per centinaia di metri. Si procede in fila indiana troppo serrata. Lo zaino taglia le spalle. Il nemico che già ci aveva scorti e salutati con qualche shrapnell sullo Spleca ci scorge in questo terribile punto e dai forti di Plezzo, con tiri curvi, ci spara contro con le granate da 305. Gli effetti sono terribili perché noi immo-bilizzati su quella parvenza di scosceso sentiero non possiamo né procedere né retrocedere. Davanti a me è la Ila compagnia. I primi due colpi scoppiano sotto il sentiero. Abbiamo solo cinque feriti piuttosto leggeri. Il terzo colpo batte cinque metri sopra il sentiero. Un enorme masso di roccia precipita e travolge una ventina di bersaglieri. Al diradarsi del fumo due morti sono sfracellati sulla strada fra una dozzina di feriti gravi e leggeri. Tre uomini fra cui un tenente e un sergente furono trascinati nell’abisso e seppelliti sotto le macerie. Il momento è impressionante. Per fortuna il nemico non spara più. Io, benché cinquanta metri più indietro ricevo un sasso sulla testa che mi stordisce e mi produce una ecchimosi allo zigomo sinistro. La marcia prosegue. Alle 15 sostiamo sotto la sella del Monte Nero. La teoria dei feriti alpini e 42° fanteria Non finisce mai. La lotta ferve più che mai. Alle 16 si fa zaino in spalla e si riparte. In questo punto il tenente Pampuri mi chiama e mi da un ordine da portare abbasso a Smast. Sono otto ore di marcia. Parto subito. Sbaglio strada e arrivo a Tremenza alle 23 ½. E’ buio pesto. Proseguo ormai sino a Caporetto dove mi fermo per la notte. Non posso più procedere stante che sono stanco e mi duole terribilmente la testa pel colpo ricevuto. Dormo al posto di guardia dei ciclisti del 5° Bersaglieri. Saranno le tre di notte che un sezione 2 71 colpo d’arma da fuoco mi sveglia di soprassalto. E’ il mio vicino di sinistra che si è sparato un colpo sotto la gola. Il poveretto è spirato immediatamente. Sono tanto stanco, bagnato dalla pioggia presa in due giorni che la tragedia non mi impressiona affatto e dopo mezz’ora mi riaddormento. 27 Luglio Sono le 7. E’ ora di rimettermi in cammino per recapitare l’ordine. Arrivo a Smast, sempre sotto l’acqua, alle nove. Consegno l’ordine e mi butto di nuovo sulla paglia, questa volta al coperto, e dormo fino a mezzogiorno. Dovrò ripartire domani per raggiungere la mia compagnia. 28 Luglio Bene riposato e ristorato (a Smast ormai c’è di tutto, per quanto carissimo) riparto per raggiungere il battaglione che nel frattempo si è portato avanti. Accompagno tre ammalati congedati dall’infermeria. Piano piano a piccole tappe passiamo sotto la cresta dello Spleca poi saliami il Monte Nero. Alle 18 arrivo alla prima spalletta. Siamo ormai a 2000 m. d’altezza in una orrenda gola rocciosa. Qui pernottiamo sulla terra bagnata con un gran freddo. Al mattino seguente rieccoci in marcia pel Monte Rosso. II Monte Nero rimane alla sinistra, il Monte Rosso è più a destra, più in alto. E’ l’ultima cresta presa. Marciamo lungo il ripido pendio del Monte arido e sassoso. Siamo sotto il tiro del Monte Sleme e del Mrzli. Benché si cammini distanziati le pallottole continuano a fischiare rabbiose tutto intorno. A tratti ci nascondiamo fra le pietre. Questo lungo pendio è tutto 72 maggio – agosto 1915 seminato di cadaveri nostri e nemici, appena sepolti a fior di terra. Oggetti d’equipaggiamento e di corredi giacciono ogni dove. Eʼ incredibile la quantità di frammenti di shrapnells e di granate che è sparsa dappertutto. Dopo tre ore di marcia c'ingol-fiamo in un'altra gola detta la spalletta del Monte Rosso. Al di là della cresta si vede una conca rocciosa che forma il didiedro della catena del Monte Nero. Sul fondo è il ghiacciaio. Più in là un laghetto alpino le cui acque dall’alto sembrano inchiostro. Il paesaggio è prettamente alpino e grandioso. Però non v’è tempo di ammirarlo. Da qui una leggera traccia di sentiero da cannoni si snoda proprio sulla cresta della catena. Da ambo le parti è l'abisso. Bisogna arrampicarsi con mani e piedi e fare attenzione di non sdrucciolare. In certi punti, pericolosissimi, non si passa che ad uno ad uno. Pare impossibile che gli alpini abbiano potuto avanzare da questo lato. Certo fu un compito d'eroi. Tutto il merito della presa del massiccio del Monte Nero è dovutoagli alpini. Lungo la via incontriamo diversi feriti del mio Battaglione che scendono. Scende pure il tenente Dagona in barella. Che vita quei poveri portaferiti a scendere con le barelle! Finalmente, sono le 15, arrivo a destinazione. Siamo sull’estrema cresta del Monte Rosso. Le trincee nostre alle quali i plotoni si danno il cambio di 24 ore in 24 ore, sono proprio sul tagliente. Il resto della truppa costituita dal 21° Battaglione Bersaglieri, dal Battaglione Alpini Intra, dal III° Battaglione del 42° Fanteria, è aggrappato alle roccie 20 metri sotto. Le trincee austriache sono immediatamente sotto le nostre. Davanti le nostre trincee sono ancora molti cadaveri nostri che si seppelliscono a poco a poco. Tra le nostre e le trincee austriache i cadaveri non si contano. sezione 2 73 2 Agosto Riprendo oggi il diario. Non fu possibile scrivere durante i quattro giorni trascorsi sul Monte Rosso (Luznica). Ho vissuto durante quei giorni i più tristi orrori della più tremenda guerra. Non un giorno cessò di piovere. Il freddo era cosi intenso che in tutto il Battaglione oltre cinquanta dovettero scendere coi piedi gelati. il 29 fui 24 ore in trincea, sempre accoccolato fra i cadaveri nostri e nemici. Il fetore era insopportabile, eppure dovemmo sostenere un furioso assalto nemico e lo respingemmo. Molti sono i nostri caduti colpiti alla Testa mentre si sporgevano dai ripari per sparare. /…/ Il rancio giunge scarso e costituito da pane e carne a lesso insipida e gelata e qualche scatoletta. L’acqua giunse nelle ghirbe, scarsissima e puzzolente. Io non mangiai né bevetti per due giorni. Quel fetore dei cadaveri, il gelo, l’acqua incessante, l’astensione dal sonno, impossibile coi continui allarmi mi ridussero in uno stato compassionevole. Il 30 scesi al ghiacciaio per prendere un fagotto di neve. Un’ora di discesa e due di salita fra roccie e abissi pericolosissimi. Lungo il tragitto incontro molti poveri nostri soldati morti e caduti dall'alto. II 31 altro terribile assalto respinto come il primo. Io sempre incolume, per miracolo. Finalmente il 31 si attende il cambio. Siamo ridotti a metà. Potevo raccogliere una grande quantità di oggetti lasciati dal nemico cioè fucili, armi, giberne, oggetti d’armamento ecc. ma come trasportarli? Mi accontento di due caricatori che metto nello zaino. In quel punto gli austriaci avranno lasciato un migliaio di fucili di splendido modello, interi zainetti di munizioni, nastri di mitragliatrici intatti. La sera del 31 si aspetta il cambio. Verso le venti giungono i primi soldati. Sono del 119° Fanteria. Sono pochi, 74 maggio – agosto 1915 solo quelli che hanno potuto passare dalla colletta approfittando degli ultimi chiarori del giorno. Piove sempre e tira un vento gelido. Restiamo ancora tutta notte a pigliare acqua e freddo. Il mattino del giorno 1 finalmente tutto il 119° Fanteria è passato e scendiamo noi. La IIIa compagnia è in testa. Gli uomini passano uno per uno intervallati. Dopo mezz’ora e dopo otto giorni di acqua e nebbia esce il sole, proprio quando necessitava la nebbia per non essere scorti dal nemico. E tosto cominciano a fioccare gli shrapnells. E tutto il battaglione uomo per uomo deve sfilare cosi per la cresta pericolosa sotto il tiro nemico. Sono momenti indimenticabili. Quando giunge il mio turno per passare sono le 10 circa. Il passaggio richiede quasi un’ora. Sono a cavalcioni della cresta, proseguo un metro poi chino il capo sotto lo scoppio di uno shrapnell. Nulla, avanti, dopo due metri altro scoppio, io sempre illeso. Al terzo colpo Zani, di Vicenza, dieci metri davanti a me è colpito alla testa getta un grido e precipita. Il poveretto ha avuto il capo sfracellato dalla spoletta. Intravedo il suo corpo ruzzolare. Era un bravo giovane. lo procedo sempre chiedendomi se verrà la mia volta. Altri colpi arrivano (sono tirati dal forte di Plezzo) qualcuno dietro di me è ferito, urla, ma prosegue. A un certo punto i colpi arrivano più serrati e rabbiosi. La cresta è interrotta da un crepaccio. Mi butto dentro. V’è già Fandella il Caporale Maggiore della 15a. Siamo sdraiati sul cadavere di un povero alpino caduto lì. I colpi sgretolano la roccia sopra di noi e veniamo coperti da macerie. Fandella ha il labbro tagliato da una scheggia, io sempre illeso. Passa qualche minuto poi approfittiamo di un momento di tregua e via di corsa ora che il passo più brutto è superato. Balziamo fra le roccie come caprioli né si sente il peso dello zaino né il dolore ai piedi. In un’ora arriviamo alla seconda colletta. Poi sezione 2 75 ognuno prosegue per suo conto fino allo Spleca dove giungo verso le 17. Fino al mattino seguente arrivano i bersaglieri. Ci furono altri due morti e parecchi feriti. Io sono sfinito. Rizziamo la tenda in cinque e ci buttiamo a terra. Finalmente dopo cinque notti possiamo chiudere gli occhi. Qui siamo a 1360 metri, il freddo è meno intenso. Però gli abiti, la coperta, la mantellina tutto è inzuppato fradicio d’acqua ma non importa si dorme ugualmente. Il mattino del 1° Agosto ci svegliamo con un bel sole. Abbiamo rancio caldo, caffè, vino e rhum. Sono ristorato. Anche gli abiti asciugano. /.../ Oggi una trentina dei nostri vanno all'ospedale ammalati. Io sto discretamente. Ho i piedi gonfi ma cosa da poco. 3 Agosto Sempre fermi allo Spleca. Il tempo, naturalmente, diluviò tutto il giorno e riecçoci bagnati. Giove Pluvio non concede proprio tregua? 6–7–8 Agosto Sempre qui sulla vetta dello Spleca sempre pronti per la partenza. Nulla di notevole. Ogni giorno una dozzina di ammalati scende all’ospedale. Il Tenente ci annuncia che prima di avere il cambio e di andare a riposo dobbiamo partecipare all’assalto generale contro i monti Luznica, Sleme e Mrzli. Il mio 13 battaglione avrà probabilmente l’onore di dare l’assalto al Mrzli, laddove già caddero molti dei nostri col colonnello De Rossi, il col. Negrotto e altri ufficiali. 9–10 Agosto Sempre coll’armi al piede. Si aspetta che i grossi cannoni da 305 piazzati in pianura vicino a Smast e quelli da 210 piazzati sopra 76 maggio – agosto 1915 Drezenga siano pronti per preparare l’assalto. Il capitano ha scelto Catalani e me per seguirlo sempre di scorta al combattimento. 12 Agosto Finalmente alle 20.30 ci mettiamo in marcia verso lo Sleme. La notte è buia e rischiarata a intervalli dai razzi luminosi che gli austriaci gettano dal Luznica e dai frequenti lampi di un temporale. Alle 2.40 del 13 agosto arriviamo a destinazione. La 1a Compagnia va subito in trincea. Noi ci nascondiamo in un burrone. 13 Agosto Questa sera l’artiglieria dovrebbe iniziare i tiri contro le posizioni nemiche. Il bombardamento, dicesi, durerà un paio di giorni poi noi andremo all’attacco. Speriamo che questa volta la vittoria ci arrida. 14 Agosto Dalle 3 di questa mattina fino alle 12 ½ tutte le nostre artiglierie hanno battuto le posizioni avversarie su tutto il fronte cioè dal Luznica allo Sleme e al Mrzli. Il frastuono era tremendo. Nel frattempo noi ci portammo su in alto fino a poche centinaia di metri dalla vetta. Stante la pioggia l’ascesa pel ripidissimo pendio dello Sleme, nel buio, senza sentiero fu oltremodo terribile. Per ben tre volte io sdrucciolai indietro per venti trenta metri. Per salire un dislivello di trecento metri impiegammo ben tre ore. Finalmente verso le quattro si giunse all'estremo limite e tutti ci accovacciam-mo nel fango nel massimo silenzio. Io mi assopii per un’oretta a cavalcioni sulle ginocchia del sergente Meda che a sua volta era appoggiato al tronco d'una pianta per non precipitare. Appena albeggiava che anche l’artiglieria austriaca ci scoperse e comin-sezione 2 77 ciò a batterci sotto il fuoco incrociato dei cannoni da montagna. Ebbimo cosi le prime perdite. Il povero Trecchi mi cade al fianco colpito da pallette di shrapnells e precipita andando a sfracellarsi in fondo al burrone. Altri due ne muoiono così. I feriti sono parecchi ma non li posso accertare. E’ pure ferito il cappellano del reggimento. Cosi passa il tempo nell’angosciosa attesa di esserè colpiti da un momento all’altro. Verso le dieci cominciamo a disporci per l’attacco. Si dovrà lanciarsi senz’altro sulla trincea austriaca 200 metri sopra di noi, tagliare i reticolati e lanciarsi alla baionetta. Dunque il 21° battaglione sarà davanti a tutti e delle tre compagnie la mia, la IIIa, precederà e dei quattro plotoni il mio, il IV°, sarà proprio davanti. Il mio capitano rinnova a me, al sergente Meda, al caporale Bellora, a Cecchetto, a Catalani la raccomandazione di non lasciarlo mai. Sono le 12.15. Si dispongono davanti su di una linea tutti i tagliafili, indi gli zappatori poi gli altri. Alla nostra sinistra c’è l’abisso inaccessibile, sulla nostra destra il 42° fanteria. Già l’artiglieria ha cessato i tiri, già si ode il frastuono degli attacchi diretti contro il Luznica e il Mrzli. Alle 12.35 precise (ho sempre l’abitudine di osservare l’orologio nei momenti solenni) si inizia l’attacco. Il capitano Rossi incita i Bersaglieri e parte decisamente, noi seguiamo dappresso con la baionetta innestata. Dietro di noi seguono i tagliafili e gli zappatori indi i bersaglieri. Ma il capitano Rossi corre troppo, in pochi minuti percorriamo duecento metri di ripidissimo pendio sotto il grandinare delle pallottole austriache e giungiamo sotto i reticolati. I tagliafili sono ancora indietro a mezza strada già cosparsa di caduti. Noi, il capitano compreso, tentiamo di svellere i paletti e rompere i fili col piccozzino e le vanghette ma la bisogna è rude e il reticolato è quintuplo e non si rompe senza le 78 maggio – agosto 1915 pinze apposite. Ogni momento uno di noi cade ferito o morto. Gli zappatori, decimati dal fuoco nemico sono ancora molto indietro e sembrano titubare. Allora il nostro Maggiore Mazzucco si lancia in testa per incoraggiare e giunge a pochi passi da noi ma cade colpito da una pallottola. Meda e Bellora si precipitano al soccorso e cadono feriti anch'essi. A questo punto la tragedia immane si svolge rapidissima. Due cannoni austriaci, la cui esistenza non si sospettava, sparano da destra e da sinistra con fuoco incrociato nel bel mezzo dei bersaglieri e falciano tutto quanto. Il tiro incrociato a mitraglia da forse meno di 300 metri atterra dozzine di uomini ad ogni colpo. Noi dall’alto assistiamo all’orrenda carneficina. Nessuno più avanza e noi siamo lassù, una dozzina in tutto, sotto i reticolati. Ci buttiamo a terra. In basso pochi minuti di bombardamento con granate e bombe hanno tutto distrutto. I morti sono a mucchi gli uni sugli altri. Sulla destra il 42° Fanteria è scappato da un pezzo lasciando scoperto il fianco delle nostre truppe. Dopo qualche tempo non vediamo più nessuno se non morti e feriti. Cadono quasi tutti gli ufficiali. Noi abbiamo tagliata la ritirata dal fuoco dei cannoni però il tiro di fucileria, essendo noi troppo sotto la trincea nemica non ci molesta troppo e coi cannoni non ci tirano per non colpire gli austriaci stessi. Cosi passiamo diverso tempo a terra ben decisi a vendere cara la vita in caso di una sortita degli austriaci dalla trincea. Ma benché noi siamo in pochissimi cioè 14 in tutto col capitano Rossi e il tenente Marchesi essi non osano e noi restiamo li ventre a terra e facciamo un fuoco accelerato e continuo per far credere di essere in molti. A un certo punto le munizioni sono quasi esaurite e il capitano decide di iniziare la ritirata alla spicciolata. Parte primo il caporale Villa strisciando sul terreno ma sezione 2 79 dopo pochi metri getta un grido e resta immobile. Segue un altro e subisce la stessa sorte. Dopo qualche minuto scende Vergani e giunge quasi fino in fondo quando una pallottola lo raggiunge e lo stende a terra, infine Negri tenta la sorte ma cade anche lui. Poveri ragazzi! Il tiro micidiale e preciso non perdona a nessuno. Teniamo rapidamente consiglio e decidiamo di stare sul posto fino a notte per indi scendere col favore delle tenebre. Trascorrono cosi lente lunghe ore di paziente attesa. Piove e siamo letteralmente immersi, immobili nell'acqua gelata. Finalmente, piano piano, strisciando, iniziamo al buio la discesa. La fucileria austriaca non è tanto sensibile e passiamo quasi tutti. Sul cammino calpestia-mo innumerevoli i morti. Che strage! Quante povere giovani vite spazzate! Piove sempre e ci mettiamo sul fondo di un burrone a passare la notte fra l’acqua e il gelo. 15 Agosto Solo oggi posso afferrare tutta l’immensità del disastro. Il 21° Battaglione non esiste più se non per quella cinquantina di superstiti rimasti. La 7a e 9a Compagnia del 36° Battaglione sono dimezzate. Il 23° Battaglione decimato. E’ uno scacco terribile. Oggi i resti del Battaglione vengono riuniti in un piccolo avvallamento cinquanta metri sotto la trincea. E’ triste il constatare la scomparsa di tanti giovani e specialmente dei commilitoni più cari. Della mia compagnia solo il mio capitano è salvo. Egli mi chiama ben presto e mi affida temporaneamente la carica di furiere essendo ferito il sergente Meda. Cosi scendo alla nostra prima trincea e comincio il paziente lavoro di raccogliere l’elenco dei morti, dei feriti e dei dispersi. La notte dormo in qualche modo fra il fango e il gelo. 80 maggio – agosto 1915 16 Agosto Questa mattina sono salito a prendere gli ordini del Capitano. Appena arrivato su gli austriaci aprono il fuoco coi loro cannoni da montagna. I colpi arrivano tutti da tergo cioè dal Monte Mrzli e dal Luznica. Tutto il bosco viene metodicamente spazzato dagli shrapnells. E’ cosi che subiamo ancora forti perdite come pure le subisce il 90° Fanteria che è salito durante la notte. Tutti dobbiamo stare continuamente pancia a terra in qualche piccolo avvallamento, appena qualcuno alza un po’ la testa il tiro ricomincia e ad ogni colpo i feriti si contano a decine. Ho trascorso così una giornata terribile. Il colonnello viene ferito leggermente da un primo shrapnell e mentre scende al posto di medicazione un latro lo raggiunge e lo abbatte in gravissime condizioni. Il fuoco dei cannoni nella giornata ha ferito oltre cinquanta bersaglieri e 80 soldati di fanteria oltre diversi morti. La sera scendo nuovamente abbasso e sono un po’ meno in pericolo. 29 Agosto Niente attacco. Pare che la progettata nuova offensiva sia stata so-spesa. Il capitano Rossi che ha preso a volermi bene mi conferma che il 31 sera dovrò scendere a Smast per essere accolto nel corso Allievi Ufficiali. sezione 2 81 Alice Schalek Isonzofront. Gorizia: LEG, 2003 . Alice Schalek era una giornalista, scrittrice e fotografa austriaca, durante la Prima guerra mondiale era corrispondente di guerra per il quotidiano Neue Freie Presse e collaboratrice dell’Ufficio stampa militare (Kriegspressquartier) che supervisionava la copertura media-tica della guerra. Nel marzo del 1916 il percorso da corrispondente la condusse sul Fronte dell’Isonzo, nel quartier generale dell’Isonzo-Armee. L’ultimo monte che voglio salire è appunto il Mrzli Vrh. Questo nome per tutti, una risonanza inquietante. Partendo da Tolmino si risale a cavallo il versante della valle del torrente Tolminski. /…/ Saliamo a piedi solo gli ultimi duecento metri di questo monte alto millequattrocento. … Lungo tutta l’immensa ampiezza dei tre monti collegati fra loro e fino a pochi passi di distanza, la trincea nemica segue la nostra che la sovrasta. /.../ Sul Mrzli Vrh grava una specie d’angoscia. Ogni movimento dà il via a una catena di avvenimenti. Ogni uomo che si mostra scatena un andare e venire del piombo apportatore di morte, sia di qua che di là. Da otto giorni, oramai, il Mrzli Vrh è sotto un fuoco tambureggiante. Ne ho visto l’inizio dal Krn, ho udito volare sulla mia testa i tiri lunghi nella valle del Tolminski. È passata già una settimana e il monte non ha ancora ritrovato pace. In realtà non l’ha mai avuta dall’inizio della guerra. Bisogna immaginare che cosa significa questo. Dallo Sleme oltre mrzli Vrh fino a Vodil, il fronte è lungo molti chilometri. Ovunque è aperto alla vista del ed esposto al fuoco. E, tuttavia, in nessun 82 luglio 1916 punto si può togliere la gente dalla zona del pericolo, perché non si sa mai in quale punto si effettuerà l’attacco. È addirittura peggio che sul Monte San Michele, perché là la linea del fuoco non lo sovrasta. Ed è peggio che sul Podgora, perché questo monte così tormentato da quattordici mesi è alto solo duecento metri. È peggio che nella zona di Plava – Zagora, perché là la linea non è cosi terribilmente lunga. Di questi quattro spaventosi punti del fronte isontino, Il Mrzli Vrh è, probabilmente, il più orrendo – un triste primato del quale quelli che sono sul monte incriminato farebbero volentieri a meno. /…/ Il capo del genio militare è salito oggi sul Mrzli per ispezionare il tunnel della mina che deve essere fatta saltare domani. Il foro d’approccio si è avvicinato fino a sette passi dal nemico; strisciando in silenzio percorriamo il camminamento fino in fondo. Qui, tra noi e le piastre corazzate italiane, giace una salma nemica che devo fotografare. Attraverso le feritoie si suole di solito fare fotografie senza uno scopo preciso perché, per il mirino dell’apparecchio, il foro non è abbastanza grande. Ma se si deve puntarlo su un punto determinato bisogna inserire il vetro smerigliato. Se poi il luogo dove va collocata la macchina fotografica è sbarrato da baionette occorre togliere per introdurre la lastra. Certo così si rischia di destare l’attenzione della sentinella nemica a causa della luce ba-lenante attraverso l’apertura. Inoltre qui si ode ogni rumore. Lo schiocco dello scatto può tradirci e non c’è alcuna possibilità di svignarcela da quell’angusto corridoio. Ma tutto va bene. La strana lastra viene riposta con cura. È ancora presto, e prima che inizi la sparatoria, mi resta ancora tempo sufficiente per esaminare le devastazioni che i sette giorni sezione 2 83 di fuoco tambureggiante hanno prodotto nei ricoveri degli ufficiali. Una “abitazione” è completamente a pezzi, per fortuna e per combinazione era completamente vuota. Vedo sui volti degli ufficiali la tensione nervosa, nei loro sguardi la fissità impressionante, che loro l’attesa produce. Qui l’attesa è continua, si aspetta, si aspetta; da un anno si aspetta di essere colpiti. /…/ Il Mrzli viene attaccato senza riguardo non solo perché rappresenta la porta d’irruzione. Oramai gli Italiani non sperano più di sfondare. Ma la loro posizione qua, sotto di noi, è cosi insopportabile che vorrebbero allontanarci dal crinale. Per diminuire le loro perdite quotidiane profondono ecatombi di vittime davanti ai nostri reticolati. In un punto la nostra artiglieria, appostata sullo Schlossberg di Tolmino, riesce a sparare nelle loro linee da tergo. In caso del attacco di là cade un uomo su due. Dallo Schlossberg si vedono precipitare giù nell’Isonzo. In altri punti gli Italiani non hanno né trincee né ripari di sorta. È impressionante vederli accucciati dietro semplici teli di tenda. In nessun punto delle nostre linee esiste qualche cosa simile. Il lavoro dei nostri pionieri e zappatori, che hanno fatto cose degne di ammirazione, protegge le nostre truppe da così terribili sofferenze. Certamente solo ora, dopo l’ultimazione delle trincee. /…/ Verso mezzogiorno sul Mrzli Vrh grava una pesante calura. Il sole riscalda dall’alto, la roccia dal basso. La gente suda come in un bagno di vapore. Le mosche sono tante che non si scacciano più via. Perfino giù, nel nostro quartiere, non posso dormire a viso scoperto. La sete tormenta, gli occhi vedono scintille. Non una foglia verde cresce sul campo sbrecciato. Capisco sempre meglio perché nessuna voglia andare sul Mrzli Vrh. /…/ 84 luglio 1916 Nella dura roccia del Vodil hanno scavato una specie di camino, come quello che la natura ha dato alla “Piccola Torre”. Questo stretto, ripido tubo scende per quasi mille metri verso Tolmino. Nei punti più lisci, dove non c’è nemmeno una traccia di gradino, è stata fissata una scala di corda. Essa oscilla e si tende al passaggio di chiunque. Occorrono entrambe le mani per puntarsi contro la parete, ed è una faccenda ardua da portare la macchina fotografica. Sembra una favola d’altri tempi l’idea di poter assoldare un portatore. Una cosa simile non esiste in tempo di guerra. Che cos’è il denaro per l’uomo del Vodil? Il caldo spreme il sudore dai nostri pori. Il sole fa della trincea d’approccio una caldaia da streghe. Avvicinarsi a Tolmino sembra una liberazione. La mia stanchezza mi porta alle labbra la domanda: è per questa via che i soldati portano su anche le casette di cottura, le munizioni, il legname per costruzioni? E allora provo un segreto sollievo pensando ch’io devo soltanto scendere di lì, non salire. /…/ Siamo stanchi e fa un caldo infernale. Nessuno si lamenta, ma mi accorgo, dalle occhiate degli uomini, che anch’essi guardano giù per misurare la distanza che resta ancora da percorrere per arrivare a Tolmino. Improvvisamente il sentiero sotto di noi s’interrompe. Una granata l’ha centrato in pieno a venti passi da noi. Uno di noi potrebbe forse passare, ma siamo in tre. E anche se potessimo passare illesi tutti e tre, i loro tiri, destinati a noi, metterebbero in pericolo gli uomini qui appostati. La trincea nemica è a quindici passi. Il calibro ventotto ha fatto centro un’ora prima. Appena di notte sarà possibile riparare il buco. Non resta quindi altro da fare che risalire. Rifare in salita tutta la terribile e lunga via. sezione 2 85 È naturale che io sia stanca morta – siamo in cammino da circa dodici ore – e che sotto questo sole mi sembri assai amara la risa-lita. E così, mi fa un’impressione assai profonda notare che anche il capitano degli zappatori, che è con noi, è quasi impossibile a proseguire. Egli fa tutti i giorni quella strada. Questa notte a causa del corridoio per la mina non ha dormito. Aveva forze bastanti ancora per la discesa. Ora è troppo. È l’ultima impressione del fronte isontino. Mi porto via l’immagine dell’uomo, immagine simbolica di una delle mille guardie dell’Isonzo, che rimangono al loro posto fino allo stremo delle forze. 86 luglio 1916 Ivo Brlić Lettere alla madre, archivio del Kobariški muzej. L’aspirante cadetto Ivo Brlić (successivamente sergente e aiutante di battaglia) era un membro della 3a Batteria del 13° Reggimento artiglieria da montagna. Ivo Brlić era uno studente di giurisprudenza e soddisfaceva diligentemente le aspettative di sua madre, scrivendole regolarmente e dettaglia-tamente della sua esperienza sul campo di battaglia. La sua scrittura andava oltre le solite annotazioni sotto forma di diario. Comprensi-bilmente. Sua madre, Ivana Brlić-Mažuranić, era infatti la più famosa scrittrice croata nonché pluricandidata al Premio Nobel per la letteratura. Trascorreva la maggior parte del suo tempo nei posti del osservatorio della sua batteria, ma la curiosità lo spinse anche nelle caverne e nelle trincee della fanteria fino al confine meridionale della catena montuosa, fino alla Monte Sleme. 7 giugno 1916 Mia dolce mammina! Ieri è stata la prima giornata bella e limpida dopo due giorni di neve e nebbia, quindi è stato solo ieri che ho potuto vedere dove mi trovavo. Davanti a noi c’è a forma di semicerchio una bella galleria di alte vette montuose, nessuna delle quali è inferiore a 2000 m. La maggior parte di esse è ancora innevata, solo le ripide pareti esposte a sud sono nude, grigie e nere. Nelle posizioni rivolte verso di noi, sulle alture e sull’altopiano, si possono vedere le nostre fortezze, costruite con pietra o neve, e solo a pochi metri da esse, quelle del nemico. I contorni dei pilastri, dei pali e del fil di ferro davanti a loro creano sezione 2 87 Vrh nad Peski (¤ 2178 m), Ivo Brlić in un osservatorio 88 un’impressione terrificante. Su di essi pendono stracci strappati: sembra un tugurio zeppo e brutto. Sui costoni ci sono caverne e muri di pietra, e dietro o all’esterno di essi ogni istante può lampeggiare e tuonare pochi secondi dopo. Qui i nemici hanno puntato i loro cannoni contro di noi. Li conosciamo esattamente – li abbiamo contati e abbiamo dato loro dei nomi. Quando tuona all’improvviso, il nostro tenente chiede: “Wer schiesst da?” [Nota – Chi spara?] Con la solita facilità gli si risponde: “Ein, drei ...” o qualcosa del genere. In qualche modo noi siamo al centro di questo semicerchio, su un’altura leggermente più bassa di quelle davanti a noi. Con i nostri cannoni ci troviamo appena sotto la vetta che scende in maniera relativamente dolce verso il nemico, dalla nostra parte, invece, è molto ripida. Le nostre casette sono fissate alle ripide pareti e appoggiate a dei pilastri scolpiti nella pietra. Delle serpentine portano dall’una all’altra fino a raggiungere quella nel punto più alto, la nostra casa – la casa degli ufficiali della batteria. Si trova a pochi metri sotto la vetta, stretta contro una parete possente e protetta dal fuoco nemico. È costruita con pietre grezze, non tagliate e impilate, proprio come nel Litorale. All’interno è rivestita con assi e tappezzata di tela. In tutto ha le stesse dimensioni della nostra piccola stanza di sopra nel vigneto. Su entrambe le estremità ci sono due letti uno sopra l’altro, fatti di assi e riempiti di paglia. Alle pareti sono appesi su dei chiodi di legno sciabole, pistole e fucili, cappotti militari, binocoli, zaini; al centro c’è una piccola stufa di ferro. Alle 4 arriva il tè – e poi tutti a casa propria. Io all’osservatorio situato sul picco roccioso in cima al colle. Da qui si apre una bellissima vista a sinistra sulla valle del fiume, e più avanti sulla galleria di montagne innevate – e sui cannoni italiani. L’osservatorio è na-sezione 2 89 scosto in modo eccellente e, sebbene si trovi in cima alla collina, gli italiani non l’hanno ancora scoperto. Siedo qui fino alle 6:30 e attraverso un binocolo con ingrandimento 15×, sto attento al nemico affinché non scappi. Tanto non appena inizia a sparare tutti corrono fuori e osservano da dietro le rocce. “Wer da schiesst?” Se noto qualcosa, devo segnalarlo immediatamente per telefono, e il nostro comandante continua a dare ordini. L’acqua, però, non ce l’abbiamo. Si cucina con la neve sciolta. È bello vedere verso le dieci come riempiono le pentole di neve in cucina, come se stessero cucinando la neve. Come puoi vedere, ispeziono spesso la cucina e chiedo al nostro compaesano di Križevci, “Kocha”: “Come va la salute?”, e ti prego di riferire al riguardo alla nostra Marija. Invece dell’acqua, beviamo un ottimo tè o birra o acqua minerale, dipende, ma è un peccato che qui nessuno sia in vena di fare baldoria. Il nostro comandante è un astemio convinto ed è chiaro che nessun altro abbia a che fare con l’alcol. Ci laviamo e laviamo i nostri panni con la neve sciolta che sgorga dietro la nostra “villa” da una crepa nella neve. 8 giugno In base agli schizzi e alle spiegazioni sapevo già orientarmi sul campo e potevo dire con esattezza da dove e verso dove venivano sparati i colpi, se si trattasse di artiglieria, di mitragliatrici o di mortai, nostri o dei nemici. Bagnate dal sole le Alpi sono bellissime, come i denti appuntiti di qualche predatore. Ho guardato a lungo questa bellissima immagine e ho cercato di rievocare tutto ciò che avevo visto in Svizzera. Non ricordavo tanta bellezza né dalla natura né dalle fotografie. 90 giugno 1916 La cima tagliata di una grande montagna [Nota – Krn, Monte Nero] si erge dritto davanti a me, 300 e oltre metri più in alto. È nera e spaventosa mentre si erge sull’orizzonte oscuro. La sensazione che lì, proprio in cima, nella caverna, ci sia un cannone italiano che in qualsiasi momento potrebbe accanirsi addosso a noi dalla sua grande altezza, non fa che aumentare la paura e la particolarità di questa possente roccia, che con la sua altezza e significato supera tutte le altre vette. 9 giugno Dalla torre di guardia, l’alfiere sta già dando ordini per telefono. /.../ Sto tremando, fa freddo. /.../ Mi sono appena alzato dal letto caldo. Mi avvolgo ancora più stretto nel mio cappotto. Taccuino in mano. Il telefonista ripete l’ordine ricevuto al telefono. Scrivo e comando: “/.../ genau richten! Erstes – Schuss!” La parete trema, il suono rimbalza da tutti i muri. Cinque colpi, poi il telefonista ripete: “Feuer einstellen!” E questo era quanto. Pare che gli italiani ci abbiano notato, ma in questi casi non si deve sparare, perché vedendo il “Mündungsfeuer aus dem Rohre” [Nota – fuoco di cannone] ci trovano subito. 10 giugno Alle tre e mezza si è udita una forte cannonata. Erano i nostri cannoni di un’altra batteria che si trovava nella valle dietro di noi. Mentre sparavano oltre le nostre teste, le loro granate ruggivano e fischiet-tavano. Sono subito salito sull’osservatorio. Il mio spauracchio notturno [Nota – la cima del Krn] era circondato da nuvole di esplosioni. Lo bombardavano. La caverna, ovvero l’ingresso della caverna, era sezione 2 91 perfettamente visibile. In quella caverna, che sta qualche metro sotto la cima, c’è il cannone degli italiani. Quando sparano, lo trascinano sul bordo della caverna e ci tempestano, ma quando iniziamo noi a sparare contro di loro, si ritirano all’interno insieme al cannone. Come delle lucertole impaurite che strisciano tra le rocce. Hanno molte di queste caverne sulle loro cime. Notte e giorno si possono sentire le macchine perforatrici che traforano le caverne nelle rocce e le esplosioni di dinamite che fanno saltare in aria le rocce. Giorno e notte costruiscono quelle caverne che poi noi distruggiamo completamente con i nostri colpi. Quasi dall’oggi al domani, un nuovo buco nero appare accanto a quello crollato – una nuova caverna. E una caverna così, ben costruita e fortificata, si trova in cima. Di tanto in tanto compare il cannone italiano sul bordo dell’apertura. Se lo spingessero solo qualche metro più in là, si schianterebbe dalla parete verticale a una profondità di oltre 1000 metri. A quanto pare, i nostri cannoni della seconda batteria dietro di noi hanno notato qualcosa e hanno tuonato. L’ingresso nero è scomparso in una nuvola di esplosioni. 2 o 3 colpi intorno all’ingresso hanno distrutto il muro e le rocce cadevano oltre la parete verticale in profondità. Guardo attraverso il binocolo, contando i secondi: uno, due, ... cinque, ... sette, otto... Boom, si sente il botto. Sopra l’ingresso appare una nuvola di polvere e per un po’ non si vede nulla. Dall’ingresso crollavano i sacchi di sabbia ammassati, pietre e assi. Il vento spargeva la sabbia sparsa e il fumo di una granata esplosa. 11 giugno – domenica Da alcuni giorni qui fa di nuovo molto freddo. La bora ha iniziato a martoriare e la neve è caduta di nuovo stanotte, ma nella mattina 92 giugno 1916 limpida e stellata tutto si è congelato. Dalle tre e mezza alle sei del mattino ero di turno all’osservatorio. Mio Dio, saltavo vivace-mente da un piede all’altro, battendo con le mani e soffiando nei palmi – tutti vecchi trucchi provati e testati. Ma un uomo non può starsene a ballare come un orso per due ore e mezza, anche perche lo trova divertente. Fuori il vento sta perdendo forze, ma la neve cade ancora. Ce n’è già più di mezzo metro. Non so perché la maggior parte delle persone si immagina il tormento infernale nelle fiamme e l’inferno come un enorme fuoco. Per me l’inferno è un muro di pietre ammucchiate, attraverso il quale fischia e ulula la neve, la pioggia, passando per centinaia di crepe. Se avesse potuto cadere qualcos’altro, sarebbe caduto stamattina. E pure la batteria italiana tuonava e le granate ruggivano. Non sapevo se fosse il vento, i tuoni o gli spari dei cannoni o se volassero le granate. /.../ Ero aggrappato al muro e tremavo per il freddo. 12 giugno La sera ero di servizio all’osservatorio dalle 10 alle 12. Faceva freddo e c’era vento. Alle 23 di notte ho assistito a un interessante duello tra la nostra batteria e quella italiana. Il fuoco è stato aperto dagli italiani. Nella fitta oscurità si vedeva lampeggiare sul versante opposto, due o tre secondi dopo si udiva uno sparo, e subito dopo ronzava una granata proprio sopra di me. Dal suono potevo distinguere dove stava andando. Verso quella batteria situata nella valle dietro di noi. Mi giro e guardo in quella direzione. Pochi secondi dopo lampeggia nell’aria e si sente una detonazione. La granata ha raggiunto il bersaglio ed è esplosa. Non sezione 2 93 c’era bisogno di attendere la risposta. Su quel lato in cui era esplosa la granata italiana sono apparsi quasi nello stesso momento tre lampi, uno dopo l’altro e anche i tuoni erano quasi simultanei. La batteria dietro di noi non è rimasta loro debitrice. /.../ Tre granate hanno ululato sopra di me come il vento. Guardo verso il lato nemico. Proprio sopra la batteria nemica, tre lampi appaiono in un piccolo triangolo, come tre razzi di luce. Tutte e tre le granate hanno raggiunto il bersaglio. Poco dopo mi raggiunge una potente detonazione. Altre due granate italiane fischiano sopra di me e di nuovo la risposta arriva da tre delle nostre canne. La notte è buia, il vento fischia ancora e non vedo l’ora che arrivi mezzanotte. 16 giugno Non appena spunta un po’ di sole e si schiarisce il cielo, si sente il rombo dei cannoni e gli spari della fanteria provenire da tutte le parti, come se avessero aspettato proprio un po’ di sole per potersi vedere e spararsi l’uno contro l’altro. Qui come altrove, gli osservatori se ne stanno in piedi, in ginocchia o sdraiati e con i binocoli scrutano i luoghi che ormai conoscono già a memoria. I telefoni funzionano e segnalano movimenti, lavori e cambiamenti osservati. Ognuno di loro conosce esattamente, senza errori, ogni sassolino a chilometri di distanza e nota ogni minimo cambiamento. Da un giorno all’altro, in un punto sulle rocce è cresciuto un pino nano – strano. Sarà segnalato. Da un’altra parte, sul profilo piatto della sella della montagna è apparsa una piccola, insignificante punta di pietra. 94 giugno 1916 Tutto questo viene osservato e riportato. Dopo alcune ore di te-lefonate, si sente tuonare alla nostra sinistra e poi dietro di noi. Due batterie nostre martellano e al posto di quella piccola punta, la sella ora appare un po’ più curva. 23 luglio Verso le 23 di sera è cominciato un viavai sull’altopiano [Nota – Batognica]. Dapprima solo qualche singolo colpo di fanteria, ma poi è diventato sempre più vivace, fino a svilupparsi in un terribile attacco notturno. Da noi si vedono dal lato, di profilo, verso il cielo, le sagome delle nostre trincee e dei fili, e subito a destra, le barriere di filo spinato e tre linee di trincee italiane. Stracci e rottami pendono dai fili e, con il cielo scuro sullo sfondo, tutto questo sembra un orribile spaventapasseri. Sono entrati in funzione mitragliatrici e mortai, artiglieria e fucili. Le mine volavano dalle nostre trincee verso quelle del nemico e viceversa. L’intero altopiano è stato inghiottito da un fumo nero, disgustoso, come se bruciassero resina e catrame. Gli italiani vanno all’attacco. È durato poco tempo, poi tutto si è calmato. Gli italiani, ovviamente, sono tornati alle loro posizioni con le teste insanguinate. Si potevano vedere distintamente le loro sagome che ritornavano correndo e scomparivano nelle trincee, come inghiottiti dalla terra. Quanti di loro ogni giorno vengono portati via da qui, perché quassù, da noi, non possono nemmeno essere seppelliti su questi sassi. Ci troviamo nelle prime linee di battaglia. Sulle pendici del nostro monte, a sinistra e a destra ci sono trincee, intagliate e scavate nella roccia con le mine. sezione 2 95 24 luglio Ci stiamo preparando assiduamente per l’inverno. La dinamite spacca le pietre giorno e notte, nelle pareti verticali si scavano le terrazze su cui vengono costruite le baracche. Sembrano nidi di qualche uccello gigante. Dal basso, nessuno può immaginare che sia possibile scalare questa parete, eppure noi vi abbiamo trascinato anche i nostri cannoni! Me ne meraviglio io stesso! 25 luglio Oggi, due batterie appena arrivate nella nostra zona stavano sparando ai nostri bersagli e io e il mio comandante siamo dovuti andare su un’altra collina, alla nostra destra, nelle trincee della fanteria. Solo da lì era possibile osservare attentamente tutti i bersagli. Siamo rimasti lì tutta la mattinata fino alle 11 e mezza, correggendo per telefono gli spari verso gli obiettivi a qualche chilometro di distanza. Tutto era completamente calmo, solo qua e là veniva sparato qualche colpo vicino a noi. 5 agosto Oggi sono due mesi che mi trovo sul fronte – grazie a Dio senza problemi e senza incidenti. Sono stato promosso e mi sono abituato a tutto questo. Prego Dio che rimanga così anche in futuro! Ieri è venuto un tenente colonnello a fare un’ispezione. Ha scoperto che fra tutte le colline della zona, la nostra era la più adatta, e ci ha ordinato di costruire un osservatorio dandoci l’incarico di diventare l’osservatorio centrale. Ora – grazie della domanda – avrò un buon lavoro. Dovrò osservare per tutte le batterie del nostro gruppo e sapere esattamente quale di queste potrà entrare in azione 96 giugno 1916 e avvisare immediatamente quando vedrò qualcosa nell’area della sua azione. Un lavoro molto duro e complicato. Dato che il nemico può vedere il punto in cui costruiremo la postazione, potremo lavorare solo di notte. Costruiremo una caverna che porterà ad una più ampia grotta nella roccia, con due lucernai per osservare. Ieri abbiamo iniziato a lavorare alle nove e mezza. Si poteva ancora intravedere qualcosa, ma col binocolo era impossibile distinguere un paio di persone sulle pietre grigie, con molte crepe scure in mezzo. C’erano sei uomini al lavoro e io che li supervisionavo. La notte stava diventando sempre più buia. Era sempre più tranquillo, si vedeva sempre meno. Verso le dieci e mezza un forte vento si è portato dietro una fitta nebbia impenetrabile. Pace ovunque. In cinque o sei punti si sentono solo i martelli che battono su pietre e legno. In lontananza si sente una canzone italiana e dei colpi di martello. Anche loro lavorano di notte. /.../ I nostri uomini scavano e fanno rotolare le pietre attraverso una parete verticale. Qua e là qualcuno parla piano, poi tutti zitti, scavano e picchiano sulle rocce. /.../ Gli uomini cercano tastoni l’un l’altro e lavorano in silenzio. Poi arriva mezzanotte. “Mannschaft abtreten! Zweite Partie!” [Nota – “Unità, partenza! Secondo turno!”) “Buona notte, uomini!” La buona notte si sente dalla nebbia da tutte le parti. E si va a dormire. 24 agosto Ieri ho visto cose così strane come mai prima d’ora. Le immagini mi sono rimaste talmente impresse nella mente che le ho sognate tutta la notte. sezione 2 97 All’una del pomeriggio mi sono recato sull’altipiano davanti a noi [Nota – Batognica] in trincea, lì, dove le trincee si trovano a soli 40 passi una di fronte all’altra, dove si svolgono perennemente battaglie e massacri. Dopo due ore trascorse a nascondermi, ho raggiunto la posizione. Questo altopiano si erge solitario come un cubo e scende verticalmente su tutti e quattro i lati. L’ho scalato percorrendo delle ripide serpentine e quando ho raggiunto la pianura – dissodata, scavata, sparpagliata, brutta, tutta in disordine, sono rimasto completamente confuso. Non sapevo orientarmi. Mi sono ritrovato in un castello maledetto. Pietre scure, grigie e annerite dalle mine e dalla polvere da sparo giacciono sparse, laddove sono state gettate dalle mine e dalle granate. Le trincee di fango, profonde due metri e mezzo, si snodano, si incrociano, si perdono e ritornano poi nello stesso punto. Qui ci sono delle pedane realizzate con assi in legno dove se ne stanno i fucilieri e sparano attraverso dei fori larghi 4 cm, protetti dagli scudi metallici. Su queste assi giacciono e dormono, stringendo saldamente i loro fucili, ognuno dietro il proprio scudo, ognuno sul proprio posto. Non possono nemmeno accennare un movimento. Le guardie sono sveglie e attraverso il foro del loro scudo guardano laggiù, qualche passo più in là, con la canna del fucile che spunta fuori. Tesi e attenti come un gatto quando vede la preda. Anch’io decido di guardare fuori. Ma non appena apro il foro nello scudo, il proiettile nemico sta già tintinnando sul mio scudo. Mi è stato detto di non aprire mai completamente questo buco. Lo chiudo e lascio solo una piccola fessura, tanto da poter vedere attraverso. Osservo e vedo laggiù, a pochi passi di distanza, un buco aperto, la canna di un fucile e degli occhi. Oscuri e attenti, che scrutano tesi 98 giugno 1916 e penetranti il mio scudo. Se avessi aperto il foro un po’ di più e se mi fossi mostrato, sarei morto. Ho fissato a lungo quegli occhi che luccicavano e scrutavano il mio scudo con uno sguardo in attesa. L’apertura scura della canna ha ulteriormente rafforzato questa impressione. Ho sentito per davvero la paura e mi sono venuti i brividi sulla schiena, anche se sapevo di essere completamente, assolutamente al sicuro dietro il mio scudo. Tuttavia, non riuscivo a staccare lo sguardo da quegli occhi. Potevo vedere esattamente il mirino sulla canna del fucile, il suo scudo, su cui si potevano vedere i colpi dei proiettili, i sacchi di sabbia che lo circondavano. Ero a pochi passi da lui. Poi sono stato chiamato dal tenente che mi guidava e siamo andati avanti. “Oggi sono su i bersaglieri”, mi ha detto. Abbiamo proseguito lungo le trincee. Pezzi di mine esplose e granate, baionette, munizioni giacevano e pendevano lungo le pareti della trincea scavata e minata. È umido e si respira con difficoltà. Abbiamo svoltato in un’altra trincea e siamo andati avanti. Qui non si vedeva più uno scudo accanto all’altro, ma erano sparsi solo qua e là. Quando abbiamo raggiunto l’estremità della trincea, mi ha detto: “Questa è la trincea anteriore. Ora siamo 10 metri davanti alle nostre postazioni, protette da barriere di filo spinato”, quindi a 15 metri dai nemici. Una sensazione insolita quella di sentirsi solo fuori, nello spazio tra le postazioni, e avere le proprie posizioni dietro le spalle. Tutto questo è tanto più misterioso, tanto più terrificante in quelle trincee buie, umide e annerite dalla polvere da sparo. Ad ogni passo, a destra e a sinistra c’è un ingresso nel sottosuolo. L’acqua gocciola dal soffitto. È basso e devi chinarti per non sbattere la testa. Di tanto in tanto tutta l’enorme e possente massa di rocce trema e delle vibrazioni smorzate e pesanti scuotono queste trincee. sezione 2 99 Da qualche parte tra queste rocce viene fatta esplodere una nuova trincea con la dinamite. Dentro è buio come in un cunicolo, in lontananza però si può intravedere una debole luce gialla. Si illumina un piccolo cerchio attorno alla lampada a petrolio. Due uomini siedono intorno alla lampada. Uno tiene in mano un’asta di ferro e l’altro la sta battendo con un martello. Praticano un foro in cui verrà inserita la carica di dinamite. Proseguiamo ed usciamo in un cortile [Nota – la posizione del “Kavernenhof” sopra la parete sud del monte Batognica]. Le pareti sono scure e annerite e su di esse è tesa una rete di ferro per trattenere le mine. È perforata in centinaia di punti. Nel cortile giacciono pezzi di ferro, granate, mine, baionette, munizioni. Le pareti sono cementate in alcuni punti. In uno degli angoli si trovano delle assi e delle travi di ferro. Uomini in uniformi annerite dalla polvere da sparo si muovono avanti e indietro, grigi e silenziosi, come tutto questo castello dannato. Qua e là le posizioni sono sporgenti. Qui ci sono i nostri enormi mortai che fanno tanta paura agli italiani. Tanti fucili, e poi ancora una mitragliatrice che miete davanti a sé. Lungo la trincea sbucano aperture nere a destra e a sinistra. Guardo dentro. Una lampada a petrolio è accesa. È larga due metri. Ci sono tre persone sdraiate su una tavola di legno. È una sistemazione scolpita nella pietra. All’ingresso sono appese delle armi arrugginite, nella cassa si trovano bombe a mano. Dal soffitto gocciola lentamente, goccia dopo goccia. Finalmente, dopo un lungo viaggio, esco sul lato sud dell’altopiano – al sole. Rimango come folgorato. Il contrasto è troppo forte. Laggiù, nel profondo, bellissimi campi dal color verde scuro, un saliscendi di piccole colline verdi, villaggi con casette sparse, frutteti, boschetti e boschi, e tra tutto questo serpeggia bello, cristallino, 100 giugno 1916 smeraldino, come se avesse assorbito tutto quel verde – l’Isonzo. Non avevo mai visto un’acqua simile, mai un colore simile. 30 agosto È in corso sotto la mia guida la costruzione di un nuovo osservatorio al quale porta, attraverso l’intero versante, un fossato di collegamento profondo 2 m, scolpito con la dinamite. Alla fine, nella roccia viva, verrà fatta saltare con la dinamite, a 2 m sotto la superficie, una caverna, e il fossato sarà al sicuro dai colpi di granata perché sarà ricoperto di assi e travi di ferro. La caverna sarà comunque al riparo dai calibri più pesanti, perché sarà scolpita nella roccia viva. All’interno la rivestirò di assi, un letto, un tavolo, una sedia, un piccolo fornello in ghisa, e potremo resistere 24 ore in servizio di osservazione, che è meglio dell’alternarsi di 2 ore di giorno, 2 ore di notte, proprio nel bel mezzo del sonno, e poi sveglia alle due del mattino per andare al lavoro. 16 ottobre Non potevamo sentirci affatto a causa del rumore e dei tuoni. Un fulmine dopo l’altro colpiva le cime delle montagne rocciose, avvicinandosi sempre di più. Siamo rimasti seduti e abbiamo smesso di giocare ai tarocchi. I lampi illuminavano costantemente le finestre e i cavi telefonici erano diventati incandescenti per via dell’elettricità statica. Improvvisamente un fulmine ha illuminato così tanto la stanza che d’un tratto siamo rimasti sbalorditi e accecati. Volevamo saltare giù dalle sedie, ma un terribile schianto assordante ci ha scaraventato all’indietro scuotendo l’intera grotta fino alle fondamenta. La baracca ondeggiava sui pilastri e il tuono cupo rimbal-sezione 2 101 zava forte da un pendio all’altro. Per qualche secondo nessuno si è mosso, poi siamo scappati tutti fuori. Un fulmine aveva colpito la nostra centrale telefonica. I telefonisti erano storditi, ma grazie a Dio erano ancora tutti vivi, spaventati, nella stanza sotto di noi. I fili erano tutti bruciati e ridotti in cenere, le assi bruciate, parti di rocce crollate. Sulle cime vicine lampeggiava e tuonava. Un vento gelido soffiava attraverso ogni pelliccia e ogni cappotto. Nevicava così fittamente che quasi non si vedeva nulla. La neve ha coperto tutte le cime e ha riempito tutte le caverne intorno. 15 novembre Non ti devi preoccupare per me adesso. C’è il muro più forte che ci protegge da qualsiasi impresa militare – la neve. Non si può parlare di guerra qui fino alla primavera. Le granate non esplodono nella neve, e la fanteria non riesce a fare nemmeno un passo fuori dalle trincee, quindi ora questa è per noi una vacanza. 13 dicembre Cara mammina. Ora sono le 10 del mattino. È dalle sei che stiamo spalando la neve con il sottufficiale a me assegnato, ma non riusciamo a scavarci fuori. Davanti all’ingresso e davanti alla porta dell’osservatorio c’è stata una grande valanga, tanto che ci sono almeno 20 metri di neve davanti all’ingresso. La connessione telefonica con la batteria è interrotta e quindi sono sepolto nella mia grotta come in una tomba. Il tempo fuori deve essere terribile, perché si sente l’ululato smorzato del vento e il tuonare delle valanghe. Dio solo sa quanto tempo starò sepolto qui. Anche gli uomini della batteria non potranno salire quassù per tirarmi fuori. Dal momento 102 giugno 1916 che la connessione è interrotta, non posso nemmeno informarli di essere sepolto. Il fossato di collegamento è già pieno della neve che abbiamo spalato. È ancora buio pesto, il che significa che siamo ancora almeno dieci metri sotto la superficie. Non c’è più spazio per buttare la neve. Finora l’abbiamo buttata dentro nella caverna, ma è già piena. È difficile respirare perché tutte le aperture sono ostruite. Un po’ d’aria riesce a passare solo attraverso il tubo della stufa. Ce ne stiamo entrambi seduti con le mani in mano e aspettiamo il nostro destino. E non c’è niente che possiamo mangiare. Sto ancora fantasticando sul fatto che potrei essere in vacanza già da due giorni. Io, poveraccio, non ho proprio fortuna. Erano le tre del pomeriggio quando quel sottufficiale e io ci siamo rimessi al lavoro. Infilavamo e compattavamo la neve sul fondo della caverna senza sosta e senza pranzo, da tre ore di fila. Finalmente, il manto nevoso è diventato luminoso e trasparente. Vuol dire altri tre o quattro metri, ma se fuori c’era una luce forte, cosa poco probabile, un massimo di cinque metri. Le nostre vangate progredivano gradualmente, pala dopo pala. Eravamo sicuri di aver già spalato almeno cinque metri. Improvvisamente abbiamo notato delle macchie scure sulla superficie bianca. Poi la neve ha cominciato a cadere all’interno. È apparsa una piccola buca, attraversata dal vento e dalla neve, e noi abbiamo potuto fare un respiro a pieni polmoni. Cominciavamo già a vedere tutto offuscato, perché l’aria, quella che c’era in questo spazio relativamente grande, se l’era bruciata la stufa, oltre a noi. Ora è entrata aria pulita e noi abbiamo continuato a spalare come ubriachi. All’esterno si vedevano delle ombre scure, ma all’improvviso una testa è apparsa davanti al buco: “Ehi, ehi, aiutaci dall’interno!”, abbiamo sentito una voce sezione 2 103 attutita dalla neve. E noi due che pensavamo di aver scavato tutto da soli. “Dai, qua, a sinistra! Legami a una corda, sta crollando tutto sotto di me. Voi da dentro, tirate verso sé!” L’apertura stava diventando più grande. Il muro, il tunnel, è stato scavato. Sei dei nostri uomini sono scesi dentro per riscaldarsi prima di scendere giù verso la batteria. In otto ci siamo legati alla fune e siamo saliti sull’altro versante, perché solo da lì era possibile scendere. Non appena siamo arrivati in cima, il primo è stato preso dalla neve e dal vento ed è precipitato giù per il declivio. In quell’istante ci siamo tutti buttati a terra, sulla neve. Ha rotolato finché la corda lo permetteva, ma quando si è completamente srotolata, l’abbiamo tesa tutti in una volta. Aspettavamo proprio quel momento, poi lui ha ripreso a salire con difficoltà e ci siamo rialzati tutti. Era necessario andare avanti. Lottavamo con il vento, abbiamo scavalcato il crinale, spesso aspettando in piedi o sdraiati che le raffiche di vento cessassero. In mezz’ora di avanzamento in sofferenza abbiamo percorso un sentiero che altrimenti si fa in massimo cinque minuti. Spesso abbiamo dovuto spalare la neve con le pale, palpando, ritornando indietro e vagando a destra e a sinistra in una nebbia impenetrabile e in un’indescrivibile bufera di neve. 19 febbraio 1917 Mia cara mammina! Ieri sono tornato dalla mia possente montagna e ora sono distaccato permanentemente nel nostro secondo plotone. Ecco perché c’è un’aggiunta nel mio titolo: Geb. Kan. Bt. 3/13 II. Zg. [Nota – 2° Plotone della 3a Batteria del 13° Reggimento Artiglieria da Mon-104 giugno 1916 tagna]. Qui mi sono abituato bene alla nostra città incantata, innevata, che con i suoi innumerevoli tunnel sembra un formicaio. C’è ovunque l’illuminazione elettrica. Mi chiedi se abbiamo il servizio di osservazione anche in un inverno del genere. Quando l’inverno era al picco, prestavamo un servizio di mezz’ora, ma ora il tempo è meraviglioso già da quasi un mese. Ieri c’erano +14°C al sole! Il termometro scende raramente sotto lo zero, tranne di notte. Dal mare soffia un vento caldo e il sole splende magnificamente. Nelle valli ci sono fino a 15 m di neve, qui, da noi, una media di 6 metri. E la superficie è ghiacciata, quindi ora posso camminare in giro dove voglio e posso arrivare dove in estate non potrei mai andare a causa delle rocce e delle creste. 21 marzo Dopo una serie di richieste, spiegazioni, tentennamenti e valutazioni, ho ottenuto il permesso dal mio attuale comandante, il tenente Schmid [Nota – per andare sullo Sleme dall’amico Rebrean]. Alle 10.45 ho calzato i ramponi, ho indossato la pelliccia, ho preso il binocolo e un bastone tra le mani. Prima ho attraversato il passaggio nella parete e poi sono rotolato più che sceso giù per il ripido pendio innevato verso la valle. Qui ho affrontato salite e discese ricoperte di neve ghiacciata e i ramponi mi hanno aiutato molto. Dopo un’ora di salita ho raggiunto la cima [Nota – del Veliki Stador] e qui ho visto sotto di me una parete verticale e piatta di 800 metri, e lì avanti le case di Rebrean, le nostre posizioni, le colline, le valli, i boschi, l’Isonzo e il mare. Non riuscivo a immaginare come sezione 2 105 avrei fatto a scendere oltre la parete. La cima era ricoperta di neve profonda e io sono entrato in un tunnel scavato. /.../ Poi davanti a me un’infinità di scale. Scolpite nella pietra, calpestate nella neve, di legno, sospese in aria, e poi ancora un breve tunnel. /.../ Alla fine sono sceso per le serpentine nella neve fino ai piedi del monte. /.../ Poi ho camminato costantemente per le trincee, i fossati di collegamento ... pareti di neve a destra e a sinistra. Sono arrivato lì alle due e mezza del pomeriggio, dopo un cammino di 3 ore e mezza. 17 aprile Da noi il tempo è brutto già da un mese intero. La bufera di neve è iniziata il pomeriggio del 20 marzo, mentre stavo tornando dalla visita a Rebrean e quando ti ho scritto di come stavo vagando. /.../ Camminiamo da un mese ormai e siamo collegati solo attraverso i tunnel scavati nei pendii a chilometri di distanza in varie direzioni. È da sabato che sono di nuovo al sole, perché è stato scavato un tunnel fino a qui e ricevo così cibo regolarmente. Nelle giornate come queste qui è spaventoso e grandioso allo stesso tempo. È comunque piacevole a modo suo, perché la mia casa in cima non può mai essere innevata e ho abbastanza aria e luce diurna. Sotto, nel reparto, nei tunnel c’è un’illuminazione elettrica perenne e un’aria pesante e soffocante. Ora siamo qui in due perché hanno scoperto che per una sola persona questo lavoro è troppo faticoso e troppo lungo. 106 giugno 1916 Ivan Volarič Diario, archivio del Kobarški muzej. Di Sužid vicino a Kobarid. Il 16 febbraio 1915 fu trasferito da Lubiana al 155° Battaglione del Landsturm, “milizia territoriale” della 2a Compagnia, che era di stanza a Caporetto. Partii da casa il 1° febbraio 1915 per unirmi all’esercito a Ljubljana [orig. – luvlana], entrando nel 97° Reg. Inf. III ErsatzKompanie. Da lì fui trasferito a Tolmin al 155 Landsturm Batalion, 2 Komp., il 16 febbraio a Kobarid e lì rimasi fino al 24 maggio 1915 fino all’attacco dell’esercito italiano. Il primo giorno, la truppa attraversò Drežnica per raggiungere Mrzli vrh. Io dovetti trasportare delle apparecchiature postali e le spedizioni a Santa Lucia. Da lì sul Mrzli vrh e lì rimasi fino al 27 maggio, poi a Zatolmin e Santa Maria, Mengore. Da lì il 1° giugno attraversammo Santa Lucia, Čepovan, Vipava [Nota – poi sul Carso, sul campo di battaglia orientale della Galizia]. 22 settembre [1916] a Tolmin, a Polog, 23 settembre sullo Sleme, Rdeči rob. Mi presentai lì senza sapere cosa ne sarebbe stato di me e poi rimasi come ordinario del sig. tenente. Il 25 andammo, tutta la truppa, a fare il bagno a Polog. Rimanemmo laggiù fino al 28 settembre 1916. Poi, su ordine del sig. maggiore Meister, fui assegnato al quartier generale del 155° Battaglione, all’unità di rifornimento. Lì facevo tutto ciò che era necessario nel magazzino, ero assistente militare, attendente, assistente d’ufficio. Mi era andata bene e almeno gli ultimi giorni li avevo trascorsi bene. sezione 4 107 1° ottobre 1916 a Polog. Poi fu assegnato al magazzino. C’era molto lavoro. L’inverno era rigido, nevicava. Il tenente responsabile del rifornimento Shoja se ne andò il 18 novembre, lo rimpiazzò il tenente Broth e fu molto soddisfatto di me. Il 22 novembre 1916 morì l’imperatore Francesco G. Il 26 novembre 1916 di nuovo a Polog a prestare giuramento al nuovo imperatore Carlo. Il 3 dicembre, mentre facevo rapporto, chiesi al tenente Pečnik il permesso di andare in congedo. L’8 dicembre ricevetti il permesso di 18 giorni di ferie con un’indennità di viaggio di 77 corone 76 centesimi, soldi per il cibo ... Il 31 dicembre e il 1° gennaio 1917 mi trovavo con il tenente dal battaglione sullo Sleme e guardavo la nostra amata vallata. Mercoledì delle ceneri a Polog il 18 febbraio senza particolarità e il 19 1917 Hrast Ignac di Sužid fuggì dal monte Sleme sotto il Krn verso casa, in Italia. Il 18 marzo 1917 ero di nuovo in montagna dal battaglione e andai a osservare i nostri posti ... Nell’ultimo paragrafo troviamo l’informazione cruciale, dove racconta dei soldati di questa valle, ai quali, come a tutti, veniva concesso di volta in volta il permesso di congedo, ma loro non potevano andare dalle loro famiglie perché nella valle c’era l’esercito italiano. Per questo fatto si trovavano in una posizione diversa rispetto ai soldati italiani. 108 maggio 1915 – marzo 1917 Lorenzito Cappellari Luigi Olivieri, Il Battaglione »Cividale« nella guerra 1915–18. Cividale del Friuli: Associazione Fuarce Cividât, 2006. Nella raccolta è pubblicato un estratto del diario inedito. Nel 1915, Lorenzito Cappellari era sottotenente del Battaglione Alpini Cividale. Durante questo periodo si ebbero azioni anche sul Vodil. In una di queste venne di nuovo impiegata la 110^ Compagnia, dopo aver ricevuto dal deposito del reggimento i complementi necessari per coprire le perdite sostenute nella precedente operazione. Questa nuova azione, /…/ doveva essere di sorpresa notturna. /…/ Si riuscì a superare la prima rete spinata procurandovi un varco. Si continuò l’ascesa, ma poi il nemico divenne sospettoso e lanciò razzi luminosi che naturalmente ci scoprirono. L’unica speranza di successo per noi dipendeva dalla sorpresa, mancata questa il nostro compito, già di per sé difficile, divenne impossibile perché c’era ancora un reticolato da superare. Poi, con nostra grande sorpresa, si cominciarono a vedere le prime luci dell’alba che venivano in breve tempo, quindi, a creare per noi una situazione assai difficile. In queste circostanze i comandanti delle due compagnie si con-sultarono; considerato che le nostre forze avevano il nemico non soltanto di fronte, ma anche ai nostri lati, e che di conseguenza alla luce del giorno si sarebbe fatto fuoco su di noi da tre lati, causando per noi una situazione insostenibile poiché non avevamo sezione 4 109 alcun riparo essendo privi di ogni attrezzo di scavo, essi decisero di chiedere al comando superiore il permesso di ritirarsi e di tentare la stesa impresa più tardi. Questa loro richiesta venne alla fine trasmessa al generale che ordinò l’attacco. La risposta fu: rimanere sul posto. Ciò, per noi, significava: morire sul posto. Infatti, appena si fece giorno e noi tutti allo scoperto, il nemico iniziò il suo fuoco micidiale. Poi, improvvisamente, accadde una cosa che nessuno degli ufficiali si aspettava. I soldati dell’Exilles, vista la situazione disperata in cui si trovavano, cominciarono a sventolare i loro fazzoletti bianchi in segno di resa. I nostri soldati, quindi, seguirono l’esempio. Il capitano Rossi della 110^ Compagnia estrasse la rivoltella prendendo di mira coloro che indicavano la resa (si tratta del capitano Ernesto Rossi; n.d.c.). Mi trovavo allora vicino a lui. Poi lo vidi puntare l’arma verso la sua testa. Riuscii appena in tempo a disarmarlo, ma ormai aveva perso completamente la testa. Quando io notai i primi accenni alla resa pensai che ciò ci avrebbe messo nella possibilità di scappare e di raggiungere le nostre linee. Infatti, nella confusione creata nelle file nemiche dalla resa, avrebbe prodotto, se non la fine del fuoco, una notevole riduzione che ci avrebbe permesso di ritornare al punto di partenza. In questa situazione decisi di prendere il comando effettivo della 110^. Nella compagnia, oltre al capitano ed al sottoscritto, c’era pure un allievo o un aspirante ufficiale venuto poco tempo prima da Milano. Lo chiamai e gli diedi l’incarico di condurre in salvo il comandante. Le mie previsioni, riguardo il fuoco nemico, ri-sultarono corrette; i due ufficiali, infatti, riuscirono a rientrare 110 settembre 1915 nelle nostre linee senza difficoltà. Ciò facilitò il mio compito di salvare non soltanto il capitano, ma altresì la quasi totalità della compagnia. Poi venne il mio turno, poiché, ormai, ero rimasto da solo. Giù di corsa per la china. La mia fuga fu più che altro una serie di capi-tomboli. Arrivai a destinazione tutto infangato e con una gamba e le braccia insanguinate per essere stato impigliato nel filo spinato. Ritrovai subito il capitano Rossi ed assieme ci incontrammo poi con il generale che si rifiutò di udire da noi spiegazioni e ci trattò come se fossimo i colpevoli dell’accaduto. Un vero bestione. Comunque egli cercò di addossare la colpa sui suoi dipendenti. Mise sotto processo il maggiore Baj ed il capitano della compagnia dell’Exilles. Costoro vennero imprigionati a Caporetto e sei mesi dopo ci fu il processo. Io venni chiamato come testimone della difesa (mi trovavo allora a san Vito a Tagliamento nel Battaglione ”Monte Matajur“). L’accusa, cioè chi rappresentava il pubblico ministero, chiese addirittura la loro fucilazione. Ma il verdetto fu per loro favorevole e vennero immediatamente messi in libertà. Non ebbi mail l’opportunità di apprendere il capo di accusa poiché il processo fu tenuto a porte chiuse. /…/ Avevo perciò 19 anni. A quell’età si è, generalmente, molto im-pressionabili; ho, per questo, un certo orgoglio per aver saputo conservare la calma in una situazione assai difficile che mi ha quindi permesso di prendere le giuste decisioni. Ai primi di ottobre il battaglione venne inviato sul Vodil e prese posto in trincee che furono prima conquistate, poi perse ed infine rioccupate nuovamente. /…/ sezione 4 111 Verso la metà di quel mese arrivò al comando di battaglione una circolare del Comando Supremo nella quale era detto che si stava chiamando alle armi la classe 1896 (la mia classe) e si stabiliva che ad istruire le nuove reclute dovevano essere gli ufficiali ed i gra-duati con più esperienza di guerra. Dei 26 ufficiali che iniziarono la guerra con il “Cividale” due soltanto erano rimasti in linea; il capitano Alvio Della Bianca, che allora comandava il battaglione, e lo scrivente, a cui era stato di recente affidato il comando della 110o, sebbene non fosse che un sottotenente. 112 settembre 1915 Francesco Orlandi I Appunti Militari, diario inedito, archivio di famiglia Vittorio Mascherini.4 La mattina del 10 Gennaio, partimmo da Medea dopo avere sfi-lato innanzi al Colonnello nella piazza del paese, per Medeuzza, Chiopris, San Giovanni di Manzano e altri paesi, giungemmo ad Orsano dopo oltre 30 Km. di marcia coi piedi gonfi e spellati. Qui le truppe dovevano riposare qualche giorno per rimettersi in forza. Giunto a Caporetto passando tra i curiosi, riconobbi un Territoriale del 63° Reggimento, un Bolognese, l’avvertii che anche altri mi seguivano ed egli poi, ben riconobbe. Passato il paese voltammo a sinistra e per il ponte piegammo a destra, giungendo alle quindici al paesetto di Ladra, fine della seconda tappa. Fummo accantonati in una stalla mezza scoperta dove in un cartello esterno portava questa scritta: “Luogo per n° 60 cavalli o 360 uomini”. Maggior spazio per le bestie che per gli uomini in guerra! II 24 Gennaio alcuni Sottufficiali si recarono in prima linea per prendere visione dei posti da occupare nella notte e ridiscendendo narrarono il seguente episodio: “Nella notte precedente un Caporale di cucina del 156° si era recato con altri compagni, muli e marmitte a portare il caffè in linea avanzata. Per il buio della notte sbagliò camminamento e si ritrovò nella linea nemica. Gli Austriaci gli assorbirono tutto il caffè e gli chiesero del perché noi Italiani non desideravamo fare la pace e con un biglietto sul quale scrissero” 4 Il diario è pubblicato su http://www.archiviomascherini.org/diario-orlandi-prefazione.html sezione 4 113 ‘Buono il caffè Italiano’ rimandarono il Caporale verso la nostra linea. Rientrato narrò sorridendo la sua avventura. II 29 venne l’ordine di partire, ma tale buona notizia fu rattristata da una grave disgrazia. La mensa Ufficiali che si trovava vicino al Ponte dei Mulini presso la strada che conduceva a Tolmino, era un po’ troppo scoperta al nemico, che aveva notato certamente l’an-dirivieni dei poco cauti Ufficiali del nostro Battaglione. La mensa era appena ultimata quando 5 granate nemiche da 75 scoppiarono sopra la casa, una, sfondato il tetto, uccise, nel piano superiore il capo-cuoco Torello e ferì gravemente l’Aspirante Gusmano. Al piano terreno ferìpure il mensifero della 1a Compagnia Eraldo Canella, nonché il Capitano Paradisi, Comandante in quell’epoca il Battaglione. Tutti gli altri che stavano seduti a tavola rimasero illesi. Il mio Tenente, il Signor Mascherini, aveva da poco lasciato la mensa e fu ben fortunato di non trovarsi presente a quel triste spettacolo. Quella sera fui incaricato di preparare i verbali di consegna a quelli che dovevano darci il cambio ed io fui incaricato di fare la consegna al nuovo Comandante, che arrivato, si meravigliò sentendo da me che anche la Classe del 1881 era in quella zona pericolosa e che io avrei potuto benissimo essere suo padre! Avute le firme nei verbali di consegna mi misi in cammino e ben presto raggiunsi la coda della mia Compagnia che stava salendo nuovamente per raggiungere la prima linea del Vodil, Sezione E, ad una altitudine di circa m. 1440.5 II 31 Gennaio 1917 non vi fu gran movimento nemico. Al Geofono (apparecchio conficcato nel terreno per udire sensibilmente i suoni 5 Mrzli vrh è a metri 1360, Vodel a metri 1953, le postazioni italiane non erano mai più alte di 740 metri. 114 gennaio – giugno 1917 lontani) si udi verso le ore 20 un rumore di perforatrice e verso le 22 uno spiccato tintinnio di gavette e cucchiai ruzzolanti, segno evidente che si gustava il rancio dei nemici. Anche il cannone ed il fucile si fecero ben poco sentire. In quel giorno dal mensifero del Tenente mi fu dato un po’ di minestra, un po’ di bistecca ai ferri e due sardine, per me fu proprio un pranzo speciale! Alle ore 10 il Furiere Vagnozzi ed io ci recammo alla chiesa di Libussina.6 Là trovammo Ufficiali e soldati, Cappellano compreso, che stavano forzando la porta laterale della chiesa per entrarvi, essendosi perduta la chiave dal Comando del Presidio. Con un palo di ferro fu fatto saltare il catenaccio e si poté entrare nella magnifica Chiesa che nulla lasciava proprio desiderare sia l’architettura, per il mobilio, per gli arredi e per una buona armonica sostituita a di vecchio e raro organo, rovinato da qualche mano sacrilega desiderosa imposses-sarsi delle sue canne di puro stagno. Feci anche una rivista a tutti i ripostigli della sagrestia. Il Sergente ed io ascoltammo la S. Messa e la spiegazione del Vangelo fatta dal Cappellano che con un magnifico e simpaticissimo modo, consigliò ai soldati di sopportare con cristiana rassegnazione i disagi della guerra; guerra che nemmeno egli poteva sapere il perché il Signore l’aveva permessa! La mattina del 12 Febbraio, venne l’ordine per una tradotta R5 e mi accinsi a partire, senza però le scarpe del Tenente, perché era a dormire. Discesi faticosamente per la mulattiera gelata, correndo spesso il rischio di cadere. Giunto all’ufficio licenze l’amico Vesco-ni mi compilò regolarmente il foglio di via. Poi andai a prendere una gavetta di pasta e feci colazione. Fui indrappellato con altri 15 partenti e condotto alla visita medica dove fu accertato che non 6 In questa chiesa fu il parocco Simon Gregorčič, il famoso poeta slovena, nato a Vrsno. sezione 4 115 avevo né malattie veneree o contagiose. Mi diedero due scatolette e due pagnotte per il viaggio e fui condotto a Smast, dove risiedeva il Comando della 46° Divisione. /…/ Ci venne assegnato una baracca per pernottare, ma vista la ri-strettezza di spazio, pensai che valeva la pena fare due kilometri e tornare a Libussina. /.../ Col Furiere facemmo la cinquina e redassi alcuni permessi per Caporetto a militari che desideravano di passare una giornata in baldoria con donne di malaffare. Dopo aver sbrigato la mia corrispondenza particolare, mi misi a dormire saporitamente. La mattina del 13 Febbraio di buon’ora ridiscesi a Smast, passando sulla cresta gelata della strada a rischio di cadere. Inquadrato con altri, fummo condotti da un carabiniere sotto una tettoia dove ci venne fatta una perquisizione e furono sequestrati diversi oggetti che i militari avevano pensato di portare a casa per ricordo di guerra. Giunsero finalmente i camions e saliti tutti quanti dopo due ore giungemmo a Cividale. Qui in un baraccamento, nuova perquisizione, e mi fu sequestrata una delle due scatolette di carne in conserva perché ... non l’avevo mangiata nel breve viaggio, forse andò ad ingrassare la mensa dei sequestratori! Per fortuna che mi era rimasta solo una mezza pagnotta, altrimenti mi avrebbero sequestrata anche quella! Pazienza! Il pomeriggio fu passato entro i baraccamenti, non essendo permessa l’uscita. Nella notte poco si dormì, perché tutti desideravano di mettersi nuovamente in viaggio per potere più presto possibile trovarsi a casa propria. Era un pandemonio, chi urlava, chi cantava a squarciagola canzonette napoletane, chi aveva molto bevuto, si che, alle ore 2 del mattino 116 gennaio – giugno 1917 Mrzli vrh (Monte Merzli) odsek 4 117 del 14 Febbraio, fui costretto ad alzarmi e seduto sulla polverosa branda mi misi a scrivere a questo diario. Giunsi così al 3 Marzo, ultimo giorno della mia permanenza a Bologna e mi preparai alla partenza. Rimanemmo fermi ai baraccamenti fino alle ore 19, poi fummo nuovamente condotti alla stazione e messi sul treno diretto a Cividale. Alle ore 4 fummo, In una lunga fila, condotti al trenino a scarta-mento ridotto e vi fummo caricati. Ci portarono fino a Loch, oltre Brischis, a terra ci caricammo dei nostri pesanti fardelli e cominciammo la lunga marcia. Lungo la strada avemmo la fortuna di trovare un compiacente carrettiere borghese che ci permise di mettere sul suo carro i nostri pesanti bagagli fino a Robic. Da questo paese fino a Caporetto, marciammo come tante pecore sbandate, coi più forti e meno carichi davanti e i più deboli di dietro. Ve ne erano di quelli che portavano sacchi di noci, castagne, marroni, cassette, scatoloni, mobiletti in legno adatti per portare diversi fiaschi di vino, barilotti, damigiane, valigie, ecc. Tutti portavano del loro meglio, agli amici, desiderosi di far gustare le specialità gastronomiche dei loro paesi. Erano le ore 6 del 7 Marzo quando col Piantone Viola cominciammo la salita del Merzli. Dopo un'ora terminammo la ripida salita, fu la volta delle lunghe ed alte grandinate che ci fecero maggiormente sfinire dalla fatica. Finalmente dopo due ore, bagnati di sopra dalla pioggia e di sotto dal sudore, arrivammo al Comando di Battaglione. Due ciclisti al mio passaggio, mi chiesero, dai loro baraccamenti, se ero io 118 gennaio – giugno 1917 Francesco Orlandi ed il telefonista Lietti si mostrò eccessivamente gentile; che succedeva a mio carico? Fu cosi che passai al Comando di Battaglione ed addetto allo Stato Maggiore. Fui subito istruito su quanto dovevo fare. Mi trovavo in un baraccamento comodissimo, ben riscaldato. Il locale era di legno, imbottito di cartone impermeabile. Una stufa di ferro bruciava mat-tonelle di bardiff, producendo un caldo esagerato. I nuovi compagni di Battaglione dimostrarono una simpatia speciale a mio riguardo ed i Superiori mi tenevano in grande stima. Durante la notte com-pilai tutti i moduli che ogni mattina all’alba, dovevamo inviare al Comando di Reggimento. Gli ufficiali perlustravano ed ispezio-navano ininterrottamente la linea posta sotto la loro sorveglianza. Rientravano alle ore 4,30 portandosi alle loro brande, poco distanti dal mio ufficio. Solo un portaordini ed io eravamo svegli, mentre i ciclisti ed il telefonista sonnecchiavano con la testa sul tavolo. II tempo, sempre pessimo, durò anche tutto II 31. Nel pomeriggio ebbi l’ordine del cambio e cioè dal Vodil si doveva passare al Merzli, ma causa il forte grandinare ed il vento impetuosissimo, fu rimandata la partenza di 24 ore. In quella sera venne l’ordine dal Comando della 46° Divisione che: “Per decreto luogotenen-ziale del 4 Marzo 1917, a partire dalla mezzanotte del 31 Marzo – 1° Aprile, l’ora normale verrà anticipata di 60 minuti primi, nell’istante suindicato gli orologi saranno perciò portati a segnare l’una anti-meridiana.” Ed io puntualmente feci fare un salto di un’ora all’orologio del mio polso sinistro e dissi fra me: – Verrà la pace un’ora prima !! ... Giunsero notizie, desunte dall’interrogatorio di disertori presentatisi nelle nostre linee, nelle quali si diceva che le truppe erano scarse, ma supplite con spesse mitragliatrici. Che il nemico sezione 4 119 lavorava a costruzioni di baraccamenti, sgombero di neve e trafori nelle linee immediatamente dietro la linea di vetta dello Sleme. Che di notte le vedette si portavano in buche scavate fra la trincea ed il reticolato, protette da muretti a secco, dandosi il cambio ogni notte per il gran freddo. La linea di trincea, profonda 2 metri, era protetta da reticolato alto m. 1,60 e profondo da 3 a 5 metri. Le trincee erano munite di feritoie scudate. Numerosi camminamenti partivano verso il tergo della posizione dove erano scavate 4 caverne a due ingressi alte m. 1,80 con due ordini di cuccette in legno che potevano contenere da 30 ai 40 uomini, ricoveri per 3 o 4 soldati scavati nella terra e ricoperti con tronchi, tavole, lamiere e zolle. Il rancio scarso e scadente veniva distribuito fra le 11 e le 12, composto di carne per i soldati in prima linea ed in razioni di pesce salato per la riserva. La stagione non accennava a ristabilirsi, piogge dirotte frammez-zate a grossa grandine che si faceva sentire sul tetto della nostra baracchina, come bene e spesso non mancavano di cadere grossi sassi e terra, franati dal roccione sovrastante. Passammo accanto al Comando di Reggimento sito in una baracca appostata sotto un alto picco, tale da renderla invulnerabile al tiro dell’artiglieria nemica, non però dalle frane dei macigni sovrastanti, uno dei quali staccatosi poche sere prima, era piombato sul locale adibito a sala da pranzo e fortunatamente senza fare vittime umane, aveva mandato in frantumi stoviglie e vetri della mensa Ufficiali. II 5 Aprile venne finalmente un po’ di sole, dopo tanta pioggia, grandine e nebbia fitta; ma per poco! Approfittai per recarmi poco distante dal Comando per vedere a mio bell’agio la vicina Tolmino, e l’antistante bassa quota (Pan di Zucchero) che strenuamente 120 gennaio – giugno 1917 ostacolava la nostra avanzata! Indi passai fra un piccolo cimitero montuoso, composto di bersaglieri, fanti e sconosciuti! Nel pomeriggio ebbi nuovamente dolori al ventre e indisposizioni generali; cosa comune nelle truppe in quel luogo, forse per l’acqua che serviva per tutti gli usi, acqua di neve disciolta ed infiltrata nel terreno che procurava oltre dolori al ventre, anche una grande dis-senteria. Anzi una mattina venne un Generale della Divisione per una ispezione sui luoghi e col Tenente Medico trattò anche sull’e-liminazione di questo inconveniente. Indicò di fare tre serbatoi in cemento per raccogliere le acque e di mano in mano renderla potabile con sostanze chimiche. Cosa poi che non fu eseguita per deficienza d’acqua, essendo quella sorgente attiva solo durante la stagione delle nevi e delle pioggie. La mattina del 19 invece, il Cappellano confessò lungo la strada, passeggiando. Poi, in una baracca non ancora ultimata di fronte al Comando, fu posto su cavalletti l’altarino portatile ed appeso sopra un arazzo, uso stendardo, col Sacro Cuore di Cesù e lì più di una cinquantina di soldati ed il Tenente Colonnello, assistettero alla S. Messa e adempirono all’obbligo Pasquale con molta devozione. Il Cappellano parlò a lungo con bene ispirate parole e buoni sentimenti, conciliando l’amore per il prossimo col contrasto della guerra che faceva odiare i fratelli di certe altre Nazioni. Essendosi fatto bel tempo, gli Ufficiali si dilettarono a fare gruppi fotografici ed a giocare con i ciclisti ed inservienti dello Stato Maggiore a foot-ball dimostrando di avere una non comune abilità in questo genere di sport. Il 20 Aprile di mattina mi recai a Caporetto col Sergente Maggiore Vagnozzi per fare un bagno e davvero fummo fortunati avendo una stagione splendida! /.../ sezione 4 121 Verso le ore 9 l’artiglieria nemica colpì in pieno alcuni fabbricati adibiti a magazzini, facendo 4 morti e feriti. Molti abitanti si diedero a correre verso il fiume, ma là ancora furono raggiunti e si ebbero ancore 3 morti e parecchi feriti. Il 25 Aprile l’artiglieria nemica sparò parecchio sulle nostre trincee ed avemmo due soldati feriti ed il Tenente Gusumano della 1° Compagnia pure ferito da pallottole di shrapnel ad una gamba. /.../ Furono portate, per gli Arditi, due passerelle “Graziani” da gettarsi sui reticolati nemici e passarvi sopra. Consistevano in una lunga pedana di tela, fornita di rete metallica interamente, che a contatto dei ferri spinati si fissava per appoggio e permetteva di salirvi sopra abbastanza comodamente. II 29 Aprile dalla caverna sopra di noi fu tolto un cannoncino da montagna di medio calibro per sostituirlo con un altro maggiore ed era bello vedere quegli artiglieri, erculei Alpini, caricarsi sulle spalle il cannone, l’affusto e le munizioni per il relativo cambio. ... Alla sera furono prese le necessarie disposizioni per l’uscita del primo Plotone d’attacco avente il compito di oltrepassare i nostri reticolati, aprirsi un varco tagliando quello nemico e fare un’irruzione nella loro trincea, allo scopo di ritornare con prigionieri e bottino. Per meglio disporre alla rischiosa e faticosa impresa fu mandato al Plotone un dono: tre bottiglie di grappa. /.../ A mezzanotte il Tenente Colonnello, l’Aiutante e i ciclisti, si portarono in linea per assistere da vicino alla imminente azione offensiva degli Arditi e vederne i preparativi e lo sfilamento dei 26 uomini comandati dall’Aspirante Cortesi e dall’Aiutante di Battaglione Riganelli, che formarono tre gruppi: il primo di protezione alle spalle in caso di aggiramento da parte del nemico, il secondo per 122 gennaio – giugno 1917 il taglio dei reticolati, ed il terzo per l’irruzione nella linea nemica. Dopo l’una del 2 Maggio salì pure al Comando di Battaglione. /.../ A tali perdite, il Cortesi salvatosi miracolosamente, sebbene avesse avuto i due morti, uno a destra e uno a sinistre accanto a lui e ferito leggermente, diede ordine di lenta ritirata che avvenne senza ulteriori perdite. Dopo poco furono recuperati i morti, prima che facesse giorno, e medicati i feriti che in maggioranza non erano gravi. I due cadaveri furono puliti e fotografati da un amico del Riganelli, Capitano del Genio. Indi furono trasportati al Cimitero di Kamno. Le fotografie non riuscirono e quindi non potemmo avere le sembianze degli estinti, ultimo ricordo dei due valorosi. /.../ La mattina del 30 Maggio ebbe luogo una funzione religiosa oltre il ponte di Ladra per l’inaugurazione di una piccola cappella votiva ai caduti del 22° Gruppo artiglieri. Intervennero il Vescovo Castrenze con molti Cappellani militari, il Generale Comandante il Corpo d’Armata Cavaciocchi, il Generale della Divisione, Colonnelli ecc, nonché rappresentanze di tutte le truppe a riposo. Furono fatti diversi discorsi che accennavano alla Vittoria delle nostre armi e della pace non lontana che avrebbe portato a noi, tanti benefici. Il 31 Maggio tutti i Cappellani, oltre una quarantina, furono adunati dal Vescovo Castrenze a Caporetto per una funzione religiosa e per una adunanza circa le delicate e pietose mansioni di Cappellanie presso i diversi reparti, ed intensificare le preghiere per la pace. Fu preso un gruppo fotografico e fatta una modesta colazione a pagamento ala Casa del Soldato. Il 28 Giugno cominciarono ad accumulare materiale d’artiglieria portato da autocarri fino ai piedi delle mulattiere, e tutta la notte sezione 4 123 lunghe file di muli, somati d’ogni genere di ostacoli, che arrivavano fino a 300, fecero continuamente la spola. Si videro arrivare nuovi ufficiali d’artiglieria per i nuovi pezzi, che anche di giorno, si recavano a prendere cognizioni utili per i nuovi appostamenti. La sera del 29 i nostri zappatori stavano rinforzando la linea dei reticolati e dovevano essere protetti, durante il lavoro, dagli Arditi, mentre invece questi ben prudenti preferivano rimanere dietro gli zappatori. Venuti a conoscenza di ciò, il Tenente Mascherini ed il Sergente Valenti, verso le due antimeridiane del 30 Giugno uscirono dalla linea con l’intenzione di prendere a bastonate gli Arditi poco coraggiosi. Costoro vedendo il Comandante della 1° Compagnia ed il suo dipendente uscire, cercarono di portarsi sulla posizione loro assegnata, ma in quel frattempo un cannoncino sparò ed il proiettile scoppiò a pochi passi dal Sergente Valenti che rimase gravemente ferito alla testa con la perdita di un occhio, ad un braccio con asportazione della mano e alle gambe, al ventre ed al costato con schegge penetranti. Il Tenente Mascherini, coperto in parte dal Valenti, rimase egli pure ferito alla regione superficiale della testa, all’avambraccio e mano sinistra, coscia destra e altre scalfitture di minore entità. Il Valenti raccolto in quello misero stato dai nostri portaferiti e condotto al posto di medicazione. /.../ Il Cappellano del 156° con noi dimostrò i suoi dubbi, circa il sopravvivere del Valenti, troppo malconcio. Nel pomeriggio però, l’attendente del Tenente Mascherini, di ritorno dall’ospedale di Kamno, ci portò migliori notizie del Valenti, che avevano già operato. 124 gennaio – giugno 1917 Giuseppe Cordano I Diario di un fante. Rozzano: Società Storica per la Guerra Bianca, (MI) 1997.7 Giuseppe Cordano era un caporale del 160° Reggimento Fanteria della Brigata Milano. Si trovò nell’area di Mrzli vrh nell’aprile e maggio 1916, e poi di nuovo nella regione del Goriziano e a nord di Gorizia dall’inizio di ottobre dello stesso anno fino al ritiro dell’esercito italiano alla fine di ottobre 1917. Ogni giorno prendeva appunti sulle condizioni meteorologiche e gli eventi. Marzo 3 – Piove. All’ora una pomeridiana si parte da Biacis, è sempre il 3° Battaglione che viaggia di conserva. Alle ore cinque passiamo il confine italo-austriaco lungo la Valle del fiume Natisone. Alle ore nove di sera, passati sul ponte del fiume Isonzo, facciamo alt al paesello di Smasti (40), lungo il fiume Isonzo verso Tolmino, a circa quattro chilometri da Caporetto. Qui ci accantoniamo in case di civili abbandonate. 13 – Piove. Al lavoro alle trincee di Sellische. 14 – Piove ma finalmente nel pomeriggio, dopo quindici giorni, si rivede il sole. Nella serata anche il 2° Battaglione se ne va in trincea sul Monte Merzli. 7 https://espresso.repubblica.it/grandeguerra/index.php?page=autore&id=57 sezione 4 125 15 – Piovigginoso. Alle ore cinque pomeridiane ecco un ordine: prepararsi in tenuta da trincea. Distribuiscono gli elmetti di ferro e alle ore sei del pomeriggio si parte. Il 3° Battaglione, seguendo la carrozzabile lungo il fiume Isonzo, sul lato sinistro, passa da Sellische, dal paesello di Volarie e Gabria, tutti paesi abbandonati dai civili; a mezzanotte arriviamo in trincea. La notte è buia, nera, silenziosa. Non si capisce niente dove siamo o come dobbiamo metterci; in qualche maniera si riesce ad appostarsi. Il 3° Battaglione del 160° Reggimento Fanteria, dà il cambio al 14° Battaglione del 50 Reggimento Bersaglieri. Qui siamo nella zona del paese di Dolla (43), ai piedi del Monte Vodil, all'estremo terminale a destra, il luogo più vicino alla città di Tolmino. Appena sorta l'alba cerchiamo di sistemarci. In trincea si trovano pochi soldati, in compenso un gran fango. Intanto il nemico, accortosi dei nostri movimenti siccome le loro trincee sono molto vicine alle nostre, ci disturba con raffiche di fucileria e con bombe a mano. 16 – La 10.a Compagnia è schierata all’estrema destra, collegan-dosi ad una pianura tutta allagata dal fiume Isonzo. Siamo a circa 40 metri dalle trincee austriache, il fante dice che i bersaglieri si erano ridotti a pochi soldati perchè decimati dal fuoco nemico e dalle malattie. 18 – Bel mattino. Ci ristoriamo al sole, addossati a qualche accidentalità del terreno. Bisogna essere cauti: le nostre linee sono alquanto dominate dal nemico e se il “cecchino” ti vede, per te è finita. /…/ 126 marzo – maggio 1916 Verso il mattino, sul pendio del Monte Vodil un assalto nemico, eseguito a sorpresa, è riuscito a impadronirsi di un importante ridottino avanzato occupato da soldati del 42° Reggimento Fanteria. Poi cade un silenzio di morte. lo e Rocchi intanto, come portaferiti, cerchiamo di trasportare al posto di medicazione, con la barella (a tal uopo ne siamo forniti), i due bersaglieri feriti gravi e quello morto. Così in questo pietoso lavoro abbiamo, oltre alla fatica e i pericoli, la visione reale del dolore e della tragedia che siamo immersi. 20 – Mattina calma. In questa trincea, se ti capita di fare i tuoi bisogni corporali, di giorno devi farli sulla vanghetta, poi li getterai fuori la trincea. Il sole oggi è benevolo con noi, si cerca di goderlo come si può. Sulla prima sera una vedetta austriaca che dista una ventina di metri da noi, ci parla un poco in tedesco, un poco in italiano, in-vitandoci di andare da loro che hanno da mangiare, da bere e da fumare. E continua ad intervalli per una buona mezz'ora. 21 – La pioggia ci costringe a rannicchiarsi nelle nostre tane come topi. In mezzo a tanto fango sopravvivere è un sacrificio snervante Sulla sera cessa la pioggia ma l’austriaco ci tiene allegri con una intensa fucileria, chissà con quale intenzione. Il rancio arriva sempre di notte, ma il più delle volte non arriva perchè le vie di accesso coi muli sono continuamente battute da granate nemiche. E allora ci arrangiamo come si può con i viveri di riserva, in questo caso facciamo incetta di quelli che lasciano i feriti e i morti. sezione 4 127 Aprile 1 – Attività di aeroplani nostri e nemici. Cannonate austriache sul Monte Merzli e sul Vodil. 2 – Tempo bello. Visita del Generale comandante l’8.a Divisione al paese di Camina. Per pura combinazione l’austriaco spara ancora granate, costringendo i visitatori ad allontanarsi. Il fante è fissato nel dire che la posizione delle trincee sul Monte Merzli è oltre modo pericolosa. 6 – Tempo bello. Aeroplani nemici lanciano ancora bombe incendiarie sul paese di Sellische. Le nostre artiglierie cannoneggiano il Monte Vodil. Sulla sera si prepara il nostro equipaggiamento per la trincea, cosi anche il 3° Battaglione parte per il Monte Merzli. A Sellische si comincia la salita, seguendo la strada mulattiera costruita dai nostri soldati. Si cammina in fila indiana serpeggiando per l’erto monte, silenziosi e alquanto timorosi nella notte scura coi nostri pensieri poco confortevoli. Facciamo alt alla località chiamata Roccette, a quota 1.200 metri, qui sono in posizione i rincalzi alla prima linea di trincea. Si prosegue poi ancora salendo e costeggiando una parete rocciosa a picco sulla valle, seguendo un sentiero scavato nella roccia. Se fallisce il passo si farà un salto di un centinaio di metri in basso. La tenue visibilità dell’aurora ci favorisce, lasciato il roccione, ci immettiamo in un camminamento scavato nel terreno roccioso. Dobbiamo essere cauti e prudenti perchè ci conduce alla trincea avanzata. Questa si trova quasi sulla sommità del monte. Arrivati 128 marzo – maggio 1916 ci adattiamo come si può, siamo stanchi e, bisogna dirlo, quasi come un senso di timore ci prende. 7 – Mattina calma. Si vede o al riparo di un grosso masso di pietra o dietro a una roccia, delle piccole baracchette di legno, i “canili", dove vi prendono posto quattro o cinque soldati. La trincea è un poco più avanti, ma non è continua in distensione. Solo dove il terreno lo permette, o uno scoglio di roccia o un masso di pietra può darti un riparo, ivi si appostano due o tre soldati e con qualche sacchetto pieno di terriccio, si creano le postazioni di difesa. Qui siamo tutti di vedetta, da qui ci si difende e si tenta di offendere. Quassù fa fresco, siamo a 1.400 metri di quota. La 10.a Compagnia presidia il settore di estrema destra, verso il Monte Vodil. La trincea e’ interrotta dal roccione dove passa il sentiero di accesso. Siamo in posizione sul culmine del monte, ma la cima vera e propria è ancora presidiata dall’austriaco. La vista panoramica da quassù è stupenda ma la visione della zona è apocalittica: una pietraia informe, battuta, sconvolta, scavata metro per metro da granate anche di grosso calibro. Le piante sono state polverizzate, non esiste che qualche moncone di tronco. Fra le due trincee è un cataclisma, sono disseminati ovunque morti insepolti, tascapani, fucili, brandelli di vestiario e membra di corpo umano. Fra i nostri posti di trincea avanzata e quella nemica, in certi punti siamo a circa quindici metri distanti. Ci dividono gruppi di roccia o piccoli avvallamenti, anche a picco. /.../ Nella notte qualche scambio di bombe a mano e di bombarde nelle linee e qualche granata. La prima notte siamo tutti svegli e con i nervi tesi: siamo alquanto suggestionati di queste posizione. Rancio sezione 4 129 non ne arriva, acqua non se ne può avere. Nella notte scaramucce di fucileria sul Monte Vodil. Verso mattina, invece, sul Monte Nero si ode una nutrita fucileria. 8 – Spunta l’alba, serena e chiara. Di prima mattina sul Monte Slemen si inizia un attacco nemico con intensità, ma un intenso fuoco di fucileria e mitragliatrici, da parte degli italiani tiene in-chiodato l’austriaco nelle sue linee. Le nostre artiglierie battono con granate le loro trincee e retrovie. Verso mezzogiorno anche l’avversario risponde controbattendo con ogni sorta di calibri le nostre linee, retrovie e ricoveri su tutto il nostro settore, creando momenti di inferno. Il bombardamento è furioso, intenso. Noi, accovacciati dietro i nostri miseri ripari, siamo annichiliti, storditi dal rombo incessante e dai boati spaventosi. Qualche granata colpisce in pieno un canile dove sono riparati dei soldati e tutto salta in aria. Le rocce, martellate dai grossi proiettili, si schiantano; volano per l’aria grosse e piccole pietre che cadono con furiosa distruzione. L'aria è satura, putrida di gas e odore di carne umana bruciata. La gola è arida, la sete ci tormenta. Lamenti e grida di aiuto si odono da ogni parte, ma come ci si muove? Come si può aiutarli? Si tenta carponi strisciando, affidandosi alla buona fortuna. Medicare e mettere nei camminamenti i feriti più gravi, almeno saranno un poco riparati. Quelli che sono in grado di muoversi, volentieri se la svigneranno da soli al posto di medicazione al Comando di Battaglione, alle Roccette. Alla prima sera ecco un ordine: dobbiamo attaccare noi. Ci prepa-riamo ai nostri posti, baionetta innestata al fucile e attendiamo. 130 marzo – maggio 1916 La bufera di oggi è passata, ce ne siamo già scordati, gli scampati ritornano sempre, sorretti dal nostro spirito di conservazione. Intanto si mangia un poco di pagnotta e scatoletta di carne, che riscaldiamo nel coperchio della gavetta con gli scaldarancio che ci vengono distribuiti. 9 – Bel tempo e mattino calmo. Durante il cannoneggiamento di ieri una granata ha sollevato un soldato morto, giacente tra le due trincee, trasportandolo e appiccicandolo ad un troncone d’albero come fosse una bandiera. Si raccolgorio i morti nostri, altri penseranno alla loro sepoltura. I colonnelli del 159° e 160° Reggimento Fanteria visitano le nostre trinceee mi chiedono quanti morti e quanti feriti vi furono ieri. 10 – Tempo bello. L’austriaco spara bombe incendiarie sul paese di Vollaria causando vari incendi. Da quassù osserviamo giù nelle retrovie nemiche del Monte Slemen, il viavai dei soldati che vanno e vengono al lavoro. Ma non si tirano fucilate su di loro perchè succederebbe il finimondo contro di noi da parte della loro artiglieria. Nel pomeriggio dobbiamo assorbirci un furioso temporale e pioggia torrenziale. Nella prima notte io e l’amico Rocchi, avvisato il Capitano e le vedette nostre, usciamo dalla trincea con i dovuti accorgimenti e leviamo dal tronco d’albero quel soldato morto, che una cannonata ve lo aveva trasportato, e lo portiamo al comando del Battaglione col telo a tenda. Già da due giorni, laggiù verso Gorizia, si odono intensi canno-neggiamenti. sezione 4 131 11 – Tempo bello ma freddo; è caduta la brina. Laggiù verso Gorizia il cannone spara ancora, anche sul Monte Nero. Il nemico con tiri di granate su Caporetto, Camina e Smasti causa danni e feriti e morti tra la truppa ivi accampata. Il fuoco continua tutto il giorno anche con grossi calibri. Quassù la guerra è fatta dai cannoni, i fucili e le mitraglie sono secondari. Il Monte Rosso, con le sue cime rocciose, è un efficace osservatorio per l’austriaco e un eccellente posizione per l’appostamento delle artiglierie. Calma da noi. 12 – Sorge l’alba nevicando un poco. /.../ Prima dell’alba abbiamo il cambio in trincea e ci ritiriamo alle Rocciette, come truppa di rincalzo. Siamo a circa trecento metri dalla trincea avanzata, al riparo da un promontorio roccioso che si alza a strapiombo. Finalmente ci si può riposare riparati dalle intemperie alloggiati nelle baracchette di legno, i “Canili”. In trincea avanzata sul Merzli non si resiste a presidiarla più di cinque giorni, perchè non arrivano nè acqua nè rancio. La posizioni di difesa richiede che siano tutti di vedetta, allo sbaraglio di tutte le intemperie, solo con qualche sacchetto pieno di terriccio e il telo a tenda. Giornalmente le artiglierie nemiche sconvolgono tutti i nostri ricoveri che poi, di notte, si devono rifare o riparare. 13 – Durante il giorno sono di servizio per trasportare feriti o morti da quota 1200 alla quota 599, sul pendio del monte, dove esiste un ospedaletto da campo e un cimitero. Nella notte calma ma nevica con la tormenta. 132 marzo – maggio 1916 15 – Mattino bello, orizzonte limpido. Sul Monte Nero, ancora coperto di neve, si vedono dal nostro versante file di muli e soldati che salgono verso le cime. Laggiù verso Gorizia osserviamo i pal-loni frenati che servono come nostri osservatori. Notte alquanto calma ma un temporale di neve ci costringe a rintanrsi nei nostri “Canili”, proprio come cani nella cuccia. 17 – Tempo bello. Il Generale comandante la Divisione viene a visitare le linee del Merzli. La voce del fante dice che l’austriaco ha brutte intenzioni su questo settore: dice che l’austriaco per le feste di Pasqua prossime vuole essere a Caporetto, vedremo! Alla 10.a Compagnia arriva il Capitano Casa, proveniente dagli alpini. Nella notte abbiamo il cambio dal 159° Reggimento Fanteria e scendiamo ad accantonarci a Camina. Questa volta la trincea la lasciamo con piacere, senza nessuna nostalgia. 19 – Oggi ho l’occasione di vedere soldati italiani che conducono alla prigione altri soldati italiani. Sembra abbiano trasgredito alle leggi del soldato in guerra. Saranno processati e qualcuno sarà fucilato. Come giudica il fante questi casi?! Non lo dice, non si interessa, è fatalità. Per lui sono degli sfortunati. 21 – Piove, riposo. Mi capita un caso comico: devo rispondere di una cassetta di medicazione che, come porta feriti, avevo in consegna. Fu distrutta da una granata sul Monte Merzli il giorno otto di questo mese. Si voleva addebitarmela col motivo che io l'avevo abbandonata: questo fatto è senza commenti. lo e il mio cugino Gualtiero facciamo una visita al cimitero di Camina dove sono sezione 4 133 sepolti i soldati italiani: è un gesto non troppo allegro, ma credo doveroso da farsi. 23 – Piove; è il giorno di Pasqua. Ci danno l’uovo pasquale. Giornata abbastanza calma. /.../ Noi del 3° Battaglione siamo qui, a Camina, con l’equipaggiamento completo, in attesa a qualsiasi chiamata. Il 1° Battaglione del 160° Reggimento va in trincea sul Monte Vodil. È Pasqua, sentiamo il fante cosa può dire ora sull'andamento di questa guerra: bene, guarda incredulo il suo caotico svolgersi e non dà giudizi. Però vede e osserva che, come nella vita civile, anche in quella militare le cose vanno come Dio vuole. 27 – Appena sorge l’alba ecco che scoppia all'improvviso un fuoco intenso e continuo di fucileria e mitragliatrici sul Monte Merzli e sul Vodil. La sparatoria cresce di intensità, come fossero presi da pazzo furore tutti. Poi entrano nel concerto i carmoni, a completare l'opera Col sorgere del sole, come per incanto, ritorna la calma. Questi sono gli alti e bassi, il bello ed il brutto della vita nella trincea. Ormai per noi è diventata un'abitudine: i feriti se ne vanno, i morti riposano in pace, quelli che restano sperano. Verso sera anche il 3° Battaglione se ne va in trincea seguendo il medesimo cammino lungo la stessa mulattiera. Diamo il cambio al 159° Reggimento Fanteria; la 10.a Compagnia prende posizione nei posti precedenti. Nella notte piove, nevica e fa freddo: come inizio non c'e male. 29 – Tempo bello. Oggi sono testimone di un caso tragicomico. All’estrema destra della nostra trincea esiste una postazione di 134 marzo – maggio 1916 vedetta avanzata, situata dietro una sporgenza di roccia in sommità del roccione, avendo come protezione uno scudo di ferro con feritoia di mira Un poco più in alto, al di là del dirupo roccioso a circa venti metri di distanza, ci sta la vedetta austriaca, anche lei difesa da uno scudo di ferro. Io e l’amico Rocchi, durante il nostro turno di vedetta, ad un dato momento la vedetta austriaca ci chiama in dialetto istriano dicendo: “come state, quanti figli avete, di dove siete” e altro. Rispondiamo qualche parola anche noi, l’amico Rocchi gli chiede di farsi vedere. L’austriaco risponde mettendo la testa fuori dallo scudo, così facciamo anche noi, un saluto, un attimo e ci ritiriamo in silenzio. Forse con leggerezza abbiamo fatto questo, ma ci è venuto spon-taneo. Una cosa un poco azzardata per vari motivi, poteva anche spararci. Ora si deve tenere tutto segreto per evitare noie a noi stessi. /…/ Arche oggi è uno di quei giorni che non si dimenticano facilmente. Noi siamo qui inchiodati dietro i nostri miseri ripari, in attesa. Intanto succede un fatto sensazionale, una granata nemica scoppia vicino dove si trova il Felice Martelett di Suira in Bellagio, a circa una decina di metri da me e Gualtiero. Il turbine d’aria causato dallo scoppio scaraventa il Felice Martelett a circa sei metri di distanza. Ci portiamo subito da lui tutti e due, lo trasciniamo in un camminamento: fortunato lui è illeso, ha solo delle leggere escoriazioni. Se ne andrà da solo al posto di medicazione al comando del battaglione. 30 – Nuvoloso. Si lavora alacremente a riparare le opere di difesa, il colonnello visita i lavori e di dà dei suggerimenti. Qualche duello di artiglierie. L’austriaco, con tiri di shrapnel, va cercando di distur-sezione 4 135 bare i nostri lavori nelle trincee Nell’eseguire gli scavi e livellare del materiale terroso, scopriamo dei corpi umani quasi putrefatti: sono di soldati nostri e austriaci. Il Cappellano del Reggimento viene sul luogo cercando di riconoscere chi sono e dare sepoltura in posto perchè non si può trasportarli. Maggio 2 – Aeroplani nemici sorvolano insistentemente la nostra zona, forse per spiare i lavori che stiamo eseguendo. Intanto i cannoni austriaci ci disturbano sempre. Nella notte abbiamo il cambio e ci portiamo di nuovo alle Roccette alloggiando nei “Canili”. Così ci ristoriamo un poco dormendo tranquilli e mangiando finalmente il rancio caldo portato a dorso di mulo dalle cucine che si trovano ai piedi del monte: sono parecchie ore di viaggio in salita. Nella notte qualche bombarda nemica cade nelle nostre linee. 3 – Tempo bello, attività di aeroplani nemici e nostri. La nostra artiglieria, dietro segnalazioni del nostro aeroplano, aggiusta i suoi tiri con granate di grosso calibro nella zona di Tolmino. 4 – Tempo bello, attività di aeroplani nemici e nostri. Verso le dieci ore del mattino ci viene riferito che il Sampietro Galdino di Borgo, in Bellagio, amico intimo mio e di Gualtiero, caporale maggiore alla 12.a Compagnia che ora occupa la trincea avanzata sul pendio sinistro del Monte Merzli, sia stato ferito da una pallottola “dum dum” di fucile austriaco mentre si muoveva 136 marzo – maggio 1916 per dare ordini ai soldati in trincea. A questa notizia io e Gualtiero dalle Roccette subito ci portiamo sul posto, in trincea. Trovatolo, lo prendiamo con tutte le precauzioni, lo mettiamo in un telo a tenda per poterlo trasportare e lungo i vari zig e zag dei camminamenti, con fatica, cercando di non fargli male, a tratti anche allo scoperto, esposti al tiro di fucile nemico, con fortuna e tanta speranza, lo consegnamo al posto di medicazione al comando del Battaglione. La pallottola lo colpì alla testa, trapassandola; attraversò la spalla e le costole e si fermò nella coscia della gamba destra. La ferita è grave, il povero Galdino non riconosce nessuno. Appena medicato io, Gualtiero, l’amico Rocchi e un altro, con la barella, lo trasportiamo all'ospedaletto da campo a quota 1.000 del Monte Merzli e lo lasciamo in condizioni disperate. Siamo andati io e Gualtiero a prendere il Galdino, sebbene era di un’altra compagnia, perchè era un nostro caro amico e compaesano e noi due eravamo anche portaferiti. 5 – Tempo bello. Verso il Carso si sente incessante il tuono dei cannoni, da noi duelli di artiglierie ed attività di aeroplani. Quas-su l’aria salubre della montagna, le veglie di notte, le fatiche, ci procurano un appetite da lupo; la razione che ci viene data, anche per le difficoltà del trasporto, non è sufficiente. Eppure si deve tirare avanti. Sulla sera ecco l'ordine di prepararsi. Pare ci sia in progetto un'azione per un attacco alle trincee austriache sul Monte Merzli. È qui con noi anche il Generale Berardi, comandante della Brigata. Noi della 10.a Compagnia siamo di rincalzo alla trincea avanzata, ma sistemati nei camminamenti di approccio. Questa volta il nostro spirito di conservazione è un poco scosso, il fante ha sezione 4 137 dei cattivi pensieri. La lotta quassù è carne umana contro acciaio. Intanto attendiamo con il sistema nervoso febbricitante. Non è paura la nostra, ma il fante teme di avere paura. Intanto le nostre artiglierie martellano le linee austriache con intensità. Ecco che, nella prima notte, un furioso temporale con tempesta di neve ci infradicia tutti e causa un poco di confusione. L'azione pertanto viene rimandata. 9 – Oggi esce un poco di sole che ci asciuga e ci ristora. Si può uccidere pidocchi in quantità. 10 – Tempo sereno. Attività di aeroplani. L’austriaco getta sopra questa zona, nuvole di biglietti dove invita la popolazione ad abbandonare l’area perchè verrà bombardata tutta la zona. Questa mattina vedo fucilare un soldato del 68° Reggimento Fanteria nella campagna vicino a Camina. Il perchè? Mah!! Il fante dice: la guerra è quella che è, la vita militare è quella che è. La mano del destino guida gli uomini e le cose e il giudizio finale degli errori del soldato lo darà solo Dio. Così la pensa il fante. Tiri di artiglieria dal Monte Rosso su Camina e dintorni, anche sui nostri attendamenti, causando qualche ferito. Vengo a conoscenza che il Battaglione Morbegno, del 5° Reggimento Alpini, deve salire su Monte Vodil per tentare la riconquista di una trincea avanzata che l’austriaco si è preso dal 48° Reggimento Fanteria il 18 marzo scorso. Io e Gualtiero andiamo a Smasti a far visita e salutarli facendo i nostri buoni auguri. Partono in serata, li accompagniamo sino oltre Camina. Sono alquanto allegri, speriamo bene… 138 marzo – maggio 1916 15 – Piove. Il cannoneggiamento nemico riprende anche oggi e si estende al Monte Nero, Slemen, Merzli, Vodil, S. Maria e S. Lucia di Tolmino; su tutto il settore continua con crescente intensità. Le nostre artiglierie rispondono adeguatamente, il tuono degli scoppi è assordante, ci stordisce e ci rende ubriachi. Anche le granate da 305 arrivano a portare la loro micidiale distruzione. Colonne di fumo si innalzano come colossali fantasmi, la zona è tutta coperta di una fitta nebbia di fumo. I feriti scendono dalle trincee del Monte Merzli a file, corrono come dannati ma anche con un pizzico di contentezza. Il 3° Battaglione è sempre qui a quota 599, pronto in attesa di un richiamo. Ecco il fante che dice: “ma che guerra è questa?”. Acciaio contro carne umana, fuoco contro carne. Sono tonnellate di esplosivo e di acciaio che il piccolo fante vede e sente girargli attorno come una giostra. Ora è quasi persuaso che l’austriaco ha seria intenzioni di venire a Caporetto. Verso sera, come per incanto, tutto si calma. Il fante accoglie con gioia la calma, ma è triste per l’apocalittica visione di tanta barbara distruzione. 19 – Corre voce tra il fante che nel settore dell’Osteria dei Fioren-tini, nella zona di Trento l’austriaco con una poderosa offensiva, il giorno 15 scorso, attaccando con molte forze le linee nostre, ha costretto i nostri soldati ad abbandonare le posizioni. Ecco come possono essere giustificati i continui bombardamenti, gli attacchi sporadici e furiosi alle nostre posizioni in questi ultimi tempi da parte austriaca. Tutto questo, dice il fante, per mascherare le intenzioni serie per il colpo duro da dare nel Trentino. Anche i biglietti buttati dagli aereoplani, le dichiarazioni di qualche pri-sezione 4 139 gioniero austriaco, dove dicevano che a Pasqua sarebbero venuti a Caporetto. Era tutto un gioco, forse! 22 – Bel tempo, calma. Nella serata il 3° Battaglione se ne va in trincea ancora sul Monte Merzli, questa volta all’estrema sinistra sul pendio che si collega con il Monte Slemen. Io e Gualtiero ca-pitiamo proprio nella posizione dove fu ferito il povero Galdino. 23 – Dalle nostre trincee, o meglio dai nostri appostamenti, vediamo laggiù sullo Slemen, il via vai degli austriaci nei loro camminamenti. Oggi a un nostro cannone lancia-bombarde, mentre eseguiva delle prove di tiro sulle linee nemiche, è esploso un proiettile nel fusto del cannone; vi rimasero feriti due ufficiali e vari soldati. Notte calma. Si sentono gli austriaci che lavorano molto, forse stanno scavando dei camminamenti. 24 – Anche qui le trincee sono un sasso, uno scoglio, due sacchetti pieni di terriccio messi lì, tanto per avere qualche appiglio per difendersi. Il fante ha per tetto il cielo; qui si è soggetti al capric-cio delle intemperie. Di giorno non bisogna muoversi altrimenti, siccome il nemico ci domina, tu sei fritto. /…/ II continuo fischio e sibilío dei proiettili, il boato incessante degli scoppi, sembra ti vogliano beffare. Il fante è immobile al suo posto ad attendere la morte o l’aiuto della fortuna: non si possono spiegare quei attimi di suspance. Perciò il fante dice: “se tutta l’umanità dovesse vivere sotto l'assillo di questi momenti, di guerre certamente non se ne farebbero più”. 140 marzo – maggio 1916 29 – Piove. Nel pomeriggio si rasserena ed io voglio approfittarne ed invito il cugino Gualtiero, che siamo insieme nel “Canile”, se vuole venire con me a prendere acqua da bere giù a quota 1.000, ad una piccola sorgente. Gualtiero rifiuta, vuole rimanere a riposare perchè si sente stanco. Insisto ancora ma non vuole venire. Mi decido, prendo alcune borracce e, da solo, scendo, prendo l'acqua e torno a risalire. Mi fermo a riposare a circa cento metri dai “Canili” al riparo di un grosso masso di pietra, ad un centinaio di metri dai “Canili”. In quel momento si sente un colpo di cannone provenire dalle linee austriache ed ecco il fischio del proiettile che arriva. Ma non è una granata, è uno shrapnel che esplode in alto, vicino ai “Canili”. Ci ha meravigliati tutti questo tiro, è una novita. Dopo cinque minuti arriva un secondo proiettile che esplode a regolare altezza, sopra ai Canili". Io mi trovavo al riparo ma i “Canili” hanno il tetto di legno e le pallottole dello shrapnel li fora facilmente. Ne segue uno scompiglio generale e tante grida di aiuto. Mi incammino in fretta verso il mio “Canile”, un soldato mi dice che Gualtiero è ferito. Di corsa arrivo da lui. Lo trovo solo nel “Canile”, privo di sensi. Chiedo aiuto, lo portiamo al posto di medicazione del Battaglione: una pallottola di shrapnel lo ha ferito malamente alla testa. Con l'amico Rocchi ed altri, lo trasportiamo in barella a quota 1.000, dove esiste un ospedale da campo Fortuna vuole che l'austriaco non sparò più. Povero Gualtiero, è un anno che divi-diamo fame, fatiche e pericoli, ovunque insieme. Speriamo possa farcela a guarire. Gualtiero è un cugino mio in secondo grado, è un Sancassani, stirpe di mia mamma. Mi fu raccomandato da suo padre per fargli compagnia. Se avessi insistito a farlo venire con me, forse?... ma tutto è destino. sezione 4 141 31 – Tempo bello. Pulizia alle armi e all’equipaggiamento. Alle ore nove di sera si parte da Camina, a Smasti passiamo il ponte sul fiume Isonzo, vicino a Caporetto. Tutto il 3° Battaglione del 160° Raggimento Fanteria è in marcia lungo la valle del fiume Natisone. Verso il mattino arriviamo al paese di S. Pietro sul Natisone, dove ci attendiamo. Così abbiamo lasciato, senza rimpianti, le travagliate zone di Tolmino e Caporetto lasciando il ricordo di due cari amici e compaesani sepolti, con tanti altri, nel cimitero di Camina: sono il cugino Gualtiero ed il Galdino. La morte di Gualtiero mi turbò profondamente: mori a Camina dopo due giorni che venne ferito. 142 marzo – maggio 1916 Giuseppe Pozzobon I Memoria della campagna Italo Austriaca 1915 e 16. Vittorio Veneto: Kellermann Editore 2009. Fu un militare del 67° Reggimento Fanteria della Brigata Palermo Azioni di guerra tra Caporetto, Volaria e trincea del Vodil In questi giorni, cioè il 22, fu fatto un’azione dal mio reggimento. verso le undici del mattino, la nostra artiglieria aprì il fuoco, ora che scrivo sono le ore 3 p.m. e ancora continua, ogni tanto passa qualche ferito leggero, più tardi si sente qualche scarica di fucileria la, nostra fanteria che avanza a sbalzi. lo mi trovo qui a Volaria in una casa sotto il tirro del cannone, sento tutto un fischiare di proietili, i nostri andare, e i suoi venire, speriamo che nessuno di questi mi voglia colpire. Intanto continua a passare feriti, ore 8 sera ne sono passati ormai 65, dei quali anche molto gravi, le granate ancora fischiano e ogni tanto lotta di fucileria, pare che i nostri abbiano fatto progressi, che abbiano occupato ciò che desideravano, ma con molti sacrifici. Continua passare feriti per tutta la notte e morti non si sa quanti poverini! Finita l’azione avevano riusciti ad occupare la posizione, ma poi dal fuoco concentrato della artiglieria nemica hanno dovuto abbandonarla, che si decidano di finirla? Come si può fare a voler prendere delle posizioni che assolutamente non si possono? È impossibile loro venire, o noi andare, questo pare un giuoco per voler ammazzarci tutti, poveri ragazzi e padri di famiglial a dover finirla questa vita così miseramente. sezione 4 143 La sera del 24 mi tocca andare in trincea, spero che oggi di S. Giovanni mi voglia ad aiutare, che mai si possa finirla questa vitaccia. Sicché alle ore dieci mi invio da Volaria per la trincea del Dobil per raggiungere la mia compagnia ma quando sono stato a mettà strada le gambe non mi permetteva più di prosseguire, quindi mi fermai in una bucca sino alla sera del 25 senza mai muovermi perché ero in vista dei Toniet.8 Venne la sera presi il sentiero per andare su per il monte Vodil, per salire bisogna arrampicarsi come gatti, arrivato in linea trovai tutti i miei compagni che da un mese si trovavano in quel posto, ho avuto buona accoglienza anche da parte dei Ufficiali, si sono interessati a domandarmi della mia salute, io non so più rispondere, perché certi momenti mi pare di non più resistere. La battaglia è sempre più pesante e incerta Con 164 giorni di prima linea si può sperare poco di bene, i miei compagni spuzzano da salvatico, sonc sporchi come maiali, pieni di pedocchi, in che stato, povera gioventù! II nostro governo dac-cordo con gli alleati vogliono la guerra fino alla vittoria nostra, ma io dico che quei che parlano così, se venissero soltanto 24 ore qui, cambierebbero opunione, dunque noi non siamo figli di Genito-ri, o padri di famiglia come loro? Poi dicono che è civiltà, quanti figlioletti che patiscono e che patiranno per la perdita del propio padre, a me mi sembra che barbarie più di così non possono esistere, è ora di smetterla, ovvero sarebbe stato meglio di non averla 8 Una denominazione austriaca per l'Italiano dal 1800. 144 luglio 1916 cominciata, ora del passato non ce più rimedio, dunque procurate o grandi superbi di farla finita una volta per sempre, vergognatevi! sezione 4 145 Sandro Locatelli Una foglia sbattuta dal vento. Bergamo: Centro Studi Valle Imagna, 2009. Sandro Locatelli fu corriere, motociclista, camionista e, nel dopoguerra, notaio. 18 ottobre [19]17, ore 23 Carissimi, Son due giorni che non vi scrivo: due giorni che a voi saran sembrati due anni e a me son sembrati due secoli. Cosa volete: partii mercoledi mattina alle 4 e torno ora, cioè son tornato un’ora fa, alle 9. Quarant’un’ore di servizio continuato. Fummo a trasportar munizioni; non posso darvi la località poiché ora siamo stati avvertiti che per chi comunica i diversi movimenti sia di truppe che per rifornimenti ecc. ecc. saranno presi seve-rissimi provvedimenti, molto più nominando i luoghi! Si passa sotto processo! Non si scherza! Vì basti intanto sapere che siamo arrivati a 1100 m.[etri] d’altezza, in mezzo a 70 cent.[imetri] di neve, fra le prime e le seconde linee. Lassù pernottammo la notte di mercoledì. Si riposò sulle nostre macchine, ma il freddo e il duro ci impedirono di pigliar sonno! Ripartimmo stamani, nel ritorno facemmo trasporto truppa. Quando Dio volle si tornò qui al parco assai ma assai stanchi. Alcuno rifiutò anche la cena pur di andarsene subito a dormire. Mentre scrivo, tutti i miei compagni qui intorno dormono: solo io ed il mio conduttore vegliamo ancora e scriviamo. Scrivo ancora poiché so di dover di nuovo partire domani mattina alle 5. 146 ottobre 1917 Monte Kolovrat odsek 5 147 21 ottobre 1917, ore 23 Carissimi, Sono spiacentissimo che altri tre giorni siano passati senza che io vi abbia potuto mandare mie notizie. Che colpa ne ho io? Abbiamo in questi giorni un lavoro da non potersi neppure immaginare! Ci si leva alla mattina presto, alle 4 e mezza e alle 5 si parte, si gira tutto il santo giorno e si torna al reparto la sera alle 9, alle 10, alle 11, come questa sera. Si arriva stanchi ed affamati, si mangia ciò che ci è stato conservato e se non si fa presto a terminare il pasto ci si addormenta col cucchiaio in bocca e con la gavetta in mano. lo credo però che tale movimento... perpetuo sia soltanto per questi giorni di preparazione! Non avrei mai creduto che l’automobili-sta dovesse affrontare tanti disagi e tante fatiche. Quanta rabbia si mangia e quante imprecazioni e maledizioni si scagliano alle nostre macchine, che specialmente in questi giorni umidi non vogliono saperne di arrampicarsi su per salite e minacciano colle loro slittate di trascinare anche i loro conduttori in fondo a qualche scarpata o burrone! Oggi ad esempio per coprire uno spazio di 3 chilometri in salita impiegammo tre ore e un quarto. A forza di bastoni, sassi, schegge di pietre, spinte, calci, urtoni, e di un gran dose di pazienza, finalmente si arrivò su. Basta! Pazienza! Cividale, 23 ottobre 1917 Mamma carissima, Partimmo ieri mattina alle 4, fummo sul M.[onte] Nero, a ‘Saga e Serpenica’, fummo di ritorno alle 9 di sera. Si andò a dormire subito tralaściando anche di mangiare. Alle 11 e mezza viene il sergente in camerata e comincia a sbraitare con quanta voce poteva 148 ottobre 1917 emettere: “42, sveglia c’è da partire subito, su, su, fate presto!”. Per tutta risposta nessuno si mosse! Allora il sergente cominciò di nuovo a gridare più forte ancora che prima e cominciò a tempestare di colpi tutti i dormienti. /.../ Si partì, si andò al carico e dopo ben 6 ore di viaggio si giunse a Luico. Parte delle macchine si fermò qui, parte proseguì per Ravina di Luico. Si fece ciò che si doveva fare e si tornò. S’arrivò qui alle due del pomeriggio d’oggi. Si mangiò ciò che si trovò, si andò a dormire per un paio d’ore e poi dovemmo recarci di nuovo alle macchine per rifornirle e preparar-le ad un nuovo viaggio! Mancano ancora due ore. Dove si andrà, non lo so. sezione k-c 1 149 Bartolomeo Piguzzi Il diario sequestrato dalla censura si trova nell’Archivio Centrale dello Stato a Roma. Fu un sergente maggiore del 208° Reggimento Fanteria della Brigata Taro. Dopo l’Undicesima battaglia dell’Isonzo, il reggimento venne schierato nella zona della testa di ponte di Tolmino. La notte dal 20 al 21 ott. mentre sto coi soldati al lavoro in trincea sono le tre e viene ordine di ritirarsi e questo si fa in ordine mentre tutto è calmo. Alle 5 siamo alle baracche ci mettiamo a posto e li passiamo tutto il giorno 22; alla sera si riparte occupando le trincee si va al Duole dove si rimane fino alla sera del 24 e in tal sera si attua ordine di ritirata. E momentaneamente tengo il comando dei zappatori e ho l’ordine partire per ultimo. Così che quando sono giù nella valle coi soldati pronti ecco i tedeschi che saltano reticolati allora io pel primo gli faccio una scarica e ordino il fuoco a tutti, cosi dopo respinti incominciamo anche noi la marcia ma le cannonate battono in modo spaventevole tutta la zona così che la strada è piena di morti e feriti e arriviamo insieme alla Slimmina io e Carmignani, tutti spersi gli altri. Pian piano mi incammino verso Calabuzzaro dove trovo nei carri una 15.na di soldati e di lì andiamo a riunirci al Batt. che è a Case Solarie e durante il giorno 25 ci fanno andare sul S. Zagrodan, due volte in pieno giorno, e l’artiglieria nemica ci batte spaventosamente ma io non ho te-menza. Infine ritorniamo giù a metà costa in linea sopra Cras, e alla sera quando una sua mitragliatrice raggiunge la Vetta Sesta, allora tutti scappano giù come un’ondata di mare. Ed io, mi viene 150 ottobre 1917 giù da ridere mi accomodo un po' e comodo comodino vado giù, pian pianino cammin quando trovo il caro Monti che sfinito come un orso si riposa. Dopo alcuni minuti s’incomincia nuovamente il cammino, arriviamo alla stazione teleferica di Trinco e da un oste prendiamo 6 bottiglie di buonissimo vino entriamo nel magazzino e li troviamo derrate di scatole di salmone, buon pesce, e mangiamo un po' poi nuovamente s’incomincia il cammino. Quando siamo al bivio, sulla strada che va a Clodig ci fermiamo nuovamente, mentre poi passa quasi tutto il resto del Reg.to, e rimane lì stufami che mangiamo e beviamo in un fienile. Alle 3 troviamo la compagnia ritorniamo abbasso, prendiamo da Clodig tutto quel che ci occorre per quel giorno e poi andiamo avanti fino vicino Azzida, si riposa circa un ora poi si comincia l'ascesa di Castelmonte, e lassù in cima si sta parte del 26 e la notte. E al mattino ecco i tedeschi tentano di avanzare sulla destra e lì ricomincia la battaglia. Sono verso le 13 del 27 quando una maledetta palla nemica, che credo palla, mi spezza la coscia sulla gamba sinistra, che dolore ai miei gridi accorrono i soldati e in un telo da tenda mi trasportano in galleria. I Soldati sono: Cupo e Sol. Banti. Bussini e Volandri quei sí bravi ragazzi mi volevano anche medicare ma ecco i tedeschi e li prendono e gli altri nostri si danno a una precipitosa fuga. Alla sera viene la sua sanità e coi dovuti riguardi ci fanno portare in una chiesetta lì si sta tutta la notte in terra. Al mattino arrivano, quali angeli consolatori due sacerdoti e due uomini che ci danno un po’ di cioccolata e ci promettono di farci portare viveri e conforti. Infatti non è ancora trascorso 2 ore che appare alcune ragazze con fiaschi di latte e vino e ceste di pere e mele e uva e ci sostengono un po’. Intanto passa anche il giorno 28 fuori piove sezione k-c 1 151 incessantemente la notte si passa lì in quel misero giaciglio. E viene il tanto desiderato 29, gli angeli consolatori non mancano anche per quel giorno e giù verso sera ci trasportano un po' in spalla e in carri a Scrutto e alla sera mi medicano solamente e la notte la passo discretamente al mattino del 30 mi portano nuovamente in sala e mi addormentano mi sveglio dopo due ore e mi sento tutto ingessato. 31–1–2–3 Ci viene l’ordine di trasportarci a Cividale e arriviamo laggiù verso le 4 in un bell’ospedale ma dallo strapazzo la mia gamba mi fa male. 4 Oggi è il giorno del mio compleanno come sono costretto a passarlo male. 5 Oh quanto soffro anche per non poter scrivere ai miei cari che ormai mi crederanno morto ma pazienza. Dopotutto mi dispiacerebbe se andasse sperso le L 294.80, devo avere gli arretrati dal 25 agosto al 10 ottobre e poi cinquina di 830 dal 10 al 27 ottobre. 6–7 Mi rapiscono il portafogli, qualche malvaggio, mi rincresce non solo pel denaro che era poco ma tenevo tante fotografie dei miei cari che non potrò più avere. Dio beato quanto soffro in questi terribili giorni, non dormo né giorno né notte e oltre al gran dolore si soffre tutti una fame spaventosa. Madonnina santa quando finirà mai questa vita almeno venisse presto la fine del mese che mi togliessero il gesso e allora la mia tortura sarà più lieve. [Morì il 22 novembre nell’ospedale dell’esercito austro-ungarico a Cividale.] 152 ottobre 1917 Rudyard Kipling I Daily Telegraph, New York Tribune, 13. 6. 1917. 9 Dalla tarda primavera del 1917 fu corrispondente di guerra in Italia. Un valico, un Re, e una montagna Un falco si avventò dalla cresta del colle e si librò sotto di noi, scrutando la valle, che si svolgeva, dal principio del valico, a forma di un imbuto verdeggiante, protendendosi nello spazio. Il solito sentiero mulattiero, rozzamente lastricato, si snodava su di esso in mezzo a baraccamenti di tavole, di roccia e di terra, donde sarebbe sembrato naturale vedere sbucare all’improvviso dei montanari indiani, con tante balle di the compresso. Ma comparve invece un ufficiale di artiglieria, recante la gentile offerta di un caffè; era un maggiore, dalla faccia abbronzata, e dagli occhi abituati a scrutare orizzonti assai lontani. Egli ed i suoi cannoni vivevano lassù tutto l’anno, e sui più elevati pascoli giacenti tutt’intorno al suo ricovero si vedevano a dozzine le cupe buche delle granate, che stavano a provare come il nemico avesse tentato di snidarli di lì. La neve era appena scomparsa, scorrendo nel suo disgelo tra gli steli dell’erba disseccata intorno agli orli delle buche scavate dalle granate. Questo maggiore, come gli altri, comandava un osservatorio. Quando egli ne fece scattare l’apertura, noi potemmo – simili a falchi – gettare il nostro sguardo sopra una città austriaca, che aveva un ponte diroccato attraverso un fiume [Nota – Tolmino], e su linee di trincee 9 http://www.gofvg.altervista.org/2016/04/17/rudyard-kipling-un-valico-un-re-euna-montagna/ sezione k-c 1 153 italiane che strisciavano e che sembravano tutte disposte come su una carta topografica verso la città, attraverso pianure allagate dal fiume, tremila piedi sotto di noi. La città aspetta mentre decisioni, delle quali essa nulla sa, si stanno maturando in alto, per sapere se dovrà vivere o perire. 154 maggio 1915 – maggio 1917 Pietro Ferrari Vita di guerra e di prigionia. Dall’Isonzo al Carso. Diario 1915 – 1918. Milano: Gruppo Ugo Mursia Editore S. p. A. 2004. Fu militare nel 26° Reggimento Fanteria della Brigata Bergamo. 1915 3 novembre Al mattino ancora sotto la pioggia ci metemmo in marcia e dopo fatto la strada fino dopo Clodig, abbiamo preso una mulattiera su per il monte; era una picola strada, o più un largo sentiero solo pietre e fango che a caminare cosi caricati era una brutta vita. Sulla sera siamo arivati dopo tanti stenti e cadute, in una valle dove esisteva il confine Vecchio e si chiama Molini di Kochin [Ruchin], dove vi era il comando della 7a Divizione, Qui stavano costruendo delle baracche, e sotto queste alla meglio perche tutte ancora aperte, abbiamo passato una notte da cani con un tempo d'inferno, perche un temporale furioso univa i suoi tuoni ai colpi dei grossi calibri che da vicino si sentivano. Mi si stringeva il cuore al sentire quel’uragano, ma il Signore a cui sempre mi raccomandavo mi diede coraggio. 4 novembre Al mattino ci mettiamo in camino ancora e salimmo su di una montagna vicino ad un paesetto chiamato Pusno e ci fermiamo fino a sera, perche dove si doveva marciare era un posto scoperto e gli austriaci tiravano coi canoni. E difatti sulla sera mentre eravamo sezione 5 155 ancora fermi, qualche sdrapnels [shrapnel] venne a scoppiare sopra di noi. In questo punto cominciamo a vedere i feriti e malati che tornavano dalla prima linea. Anche il paesetto era tutto diroccato. Provai un senso di dolore alla vista di quei poveri feriti portati sulle barelle ed a cavallo ai muli, e maledii alla guerra che produceva cosi tante rovine. Vierano anche delle tombe dei primi caduti in guerra. Questa fu la prima tappa in suolo redento. 6 novembre Dopo mezzogiorno arrivano ancora gli Ufficiali con alcuni caporali e sergenti, e divisi per compagnie ci condussero in un luogo detto Casa Bertini dove si trovava il 2° e 4° Battaglione del 26° fanteria. Per la strada che si fece abbiamo passato dei piccoli cimiteri e si vedeva la pietà dei compagni rimasti, che ad ogni tomba aveva la sua piccola croce e dei fiori. Queste cose verso i morti, che volevano dire che erano sempre ricordati, mi fecero buona impressione, e recitai una preghiera per quei poveri caduti. Qui giunti, le compagnie a cui eravamo assegnati ci presero in forza ed io da questo momento apparteneva alla 13a Compagnia del 26° [Reggimento] Fanteria. [Brigata Bergamo] Presi una cartolina e la spedii a casa dandole cosi il mio indirizzo per ricevere le sue notizie. Dopo datoci la pagnotta, del formaggio e una scatoletta ci mettiamo di nuovo in cammino, discendiamo per una vallata e poi salimmo su un monte per sentieri di fango e pietre che ad ogni passo si cadeva a terra. Giunti sulla cima del monte che si chiama Sella Jesenjak, nel scendere dall’altra parte mi si presentò all'occhio la vera realtà terribile e spaventosa della guerra. Eravamo di fronte alle due colline di S. Maria e di S Lucia. /…/ 156 novembre 1915 / luglio 1916 Dopo un cammino di dolori e sofferenze siamo giunti circa le ore due di notte nel Paese di Volzana. Al nostro arrivo gli Austriaci bombardavano il paese con una furia d'Inferno. Mi condussero sotto un portico mezzo rovinato, e io morto della fatica e del sonno mi gettai a terra. Le granate mi scoppiavano vicine con immenso fragore, ma il sonno mi vinze e deciso a fare una buona morte mi addormentai. 9 novembre La sera del terzo giorno venne l'ordine di andare in trincea Tutti siamo venuti bianchi dalla paura e ci guardavamo in facia. Alcuni recitavano il S. Rosario altri dicevano delle preghiere. /.../ lo mi sono trovato in una grotta bassa, ci si stava appena seduti, eravamo dentro in 7 stretti come le sardine. Passammo qui tre giorni e tre notti. In questi giorni alla mattina molto presto si scendeva e si andava alla spesa, cioe si andava a Volzana vicino al cimitero là dove arrivavano i muli; si prendeva la roba, rancio, pasta, carne e altro che c'era per la nostra compagnia. Arrivati, sempre di notte si distribuiva il rancio ai plotoni in prima linea. 23 novembre Sulla sera dovetti andare sul roccione e proprio al posto delle prime vedette. Salendo sul roccione vidi un morto tutto nero seduto fra due roccie /.../ Mi posi alla estrema sinistra di una fila di sette soldati, che tutti con me si formava la guardia della linea avanzata. Qui essendo allo scoperto mi presi due coperte e due mantelline, delle quali una coperta e una mantellina le hò trovate sul rocione, e mi misi a terra in un piccolo posto dove a destra aveva un rialzo di sezione 5 157 Volče 158 maj 1915 – maj 1917 pietra, e a sinistra dove la montagna scendeva e dove vi erano più in basso le trincee aveva un misero parapetto fatto con qualche tavola e rami. Davanti verso il nemico vi era una specie di blindamento fatto di morti Austriaci e qualche Italiano, tavole, pali, pietre e piccole piastre di acciaio, abbandonate dai nemici. Siccome i morti erano già da tempo insepolti, nelle giornate di sole mandavano un odore insopportabile, molti altri cadaveri giacevano attorno nelle più strane movenze a secondo del momento che furono colpiti a morte, e tutti erano neri e ammuffiti. Alla vista di questi morti abbandonati ed insepolti mi sentii stringere il cuore, e piansi di compazione, e dissi: guarda la civiltà moderna a che punto arriva, non si rispettano più nemmeno i poveri morti, anche dopo morti si lasciano sul campo a marcire e ad essere sfragellati dalle granate! /…/ Ma di notte non si poteva dormire, bisognava essere sempre di vedetta, sdraiati a terra perche ad ogni più piccolo movimento gli Austriaci ci sparavano, il fucile sempre carico e pronto con baionetta inastata, perche era un posto molto avanzato, vicino alle trincee nemiche. Sono stato qui tre giorni e tre notti, e siccome non si poteva muoversi che di notte e non altro che uno o due, si pativa molta sete. 26 novembre Passata una notte tormentosa con fucileria continua al mattino cosi fu fatto, ma noi verso le ore otto ricevemmo l'ordine di lasciare libero il roccione e scendere in trincea. Prendiamo le nostre cose e scendiamo giù in trincea. Qui trovai i soldati tutti a posto per plotoni e squadre pronti a uscire all’aperto. Chi aveva l’elmetto chi la corazza, e tutti molto pensierosi. lo andai colla mia squadra, sezione 5 159 che era l’ottava del secondo plotone. Sopra noi infuriava un bombardamento terribile e nelle trincee fra soldati amici ci si davamo l’indirizzo della famiglia e biglietti con memorie, in caso che rima-nessero morti. Ad un certo momento venne l’ordine di rioccupare subbito il roccione con i medesimi uomini e Ufficiali di prima. /…/ Dopo mezzo giorno cominciò l’azione. Io dal roccione vedevo quei poverí soldati, specialmente i vecchi, che facevano molta fatica ad uscire dalle trincee, con tutto cio però sortivano e sotto un violento fuoco di fucili mitragliatrici e artiglieria, avanzava-no. Un Maggiore era attorniato dagli Ufficiali che gli offrivano le sigarette da fumare, da per tutto fischiavano le pallottole, ma egli era là in mezzo tranquillo, e faceva colla rivoltella in mano sortire i soldati che non volevano sortire. Comincio cosí ad assistere alla vera guerra. Vedevo poveri soldati che si fermavano lì allo scoperto non sapendo da che parte andare, restavano colpiti e cadevano a terra. 27 novembre Alla sera portarono via i feriti, e io rimasi solo sul roccione. Per tutta la notte sentivo i lamenti dei moribondi e dei feriti, che gridavano: aiuto! Aiuto! che si raccomandavano di venire a prenderli; ma nessuno si muoveva, perche questi feriti e moribondi erano troppo vicini al nemico, e questo sparava su chiunque osava avi-cinarsi. Questi lamenti mi facevano grande compassione, e non potendo recarle aiuto mi piangeva il cuore. Tutti i giorni seguenti fino alla sera del 5 Dicembre, vi è stato azioni, ma sempre con risultato negativo, perche il terreno era troppo scoperto e senza 160 novembre 1915 / luglio 1916 ripari, ed in poco tempo abbiamo avuto molte perdite.10 Una sera un interprete nostro gridava: venite giù tedeschil E loro rispondevano: venite Italiani non vi spariamo! E noi: venite giù voi che abbiamo bene da mangiare! E loro risposero: adesso non è tempo, aspettiamo ancora, venite voi! Cosi un altro giorno vicino a me vi erano un Capitano e due sotto Tenenti, e stavano li dicendo se le compagnie avevano i collegamenti necessari. Il Capitano rimase ferito per primo. Ed i Tenenti: Soldato porta via il capitano ferito. Dopo poco anche i due Tenenti erano feriti. Sul roccione ogni giorno bombardavano, e un giorno una granata mando in frantumi il piccolo riparo di tavole che avevo a sinistra; mi presi un po di paura e listinto medesimo mi fece scendere un poco dove era il comando della guardia. Gli dissi di permettermi di fermarmi un poco cor loro, perche di sopra non potevo stare. Un Caporale maggiore mi disse: quello è il tuo posto e a nessun costo devi lasciarlo. lo allora andai ancora al mio posto, e per grazia rimasi salvo. Dopo feriti i miei compagni di prima linea, rimasi solo a guardia sul roccione per tutto il tempo che siamo stati là, che furono 12 giorni; e due giorni, credendomi morto, mi lasciarono senza mangiare. Un mattino presto un soldato viene a cercare nei tascapani e mi prese per le gambe. Io gli dissi: cosa cè? Come, sei vivo? mi rispose. Gli dissi: portami da mangiare che hò fame. Mi dete un po di caffe e pagnota. 10 In tre giorni il 26. Regimento Fanteria perse 330 uomini e la 7. Divisione perse 700 uomini. sezione 5 161 1916 10 luglio Quest’oggi verso le ore 11 il primo plotone della mia compagnia a l'ordine di armarsi ed essere anche puliti. Ci riuniamo fuori della baracca a Casa Bertini e il Tenente Simeoni ci porta alquanto di-scosti e fermati ci disse: Ragazzi dobbiamo eseguire un doloroso compito, cioe dobbiamo recarsi a fucilare un Caporal Maggiore e 8 soldati del 25° Regg Fanteria, rei di avere la notte prima fu-giti essendo di patuglia. Noi tutti rimaniamo molto commossi e con dolore certo avremmo eseguito quest'ordine. Giunti vicino al comando vediamo questi poveri soldati legati ad una pianta tutti disperati, che ci guardavano con occhi che faceva pietà. Venne fuori dal Comando il Tenente Aiutante Maggiore, ci disse di ritornare alla compagnia perche, dal processo sommario fatto, non risultava con sicurezza che quei soldati fossero rei di ciò che si accusavano. Figurarsi la contentezza che provai ad essere liberato da cosi triste missione. Tutti noi di corsa torniamo alla baracca tutti contenti, perche ci venne risparmiato che noi Italiani si doveva uccidere fratelli Italiani. Vicino alla nostra baracca, sotto la tettoia di legno della mensa del III° Battaglione si riuni di nuovo il Tribunale Militare, è rifatto di nuovo il processo. Il Capitano della mia compagnia era difensore e fece una bella difesa, di modo che il Tribunale condanò a 15 anni di carcere militare il Caporal Maggiore e mandò assolti gli 8 soldati. 162 novembre 1915 / luglio 1916 14 luglio Stamattina hò ricevuto la lettera di mia moglie con la quale mi an-nunziava che aveva dato alla luce una bambina mettendole nome Maria, come le avevo detto io in ricordo delle grazie ricevute sulla Collina di S. Maria. sezione 5 163 Giuseppe Pozzobon II Giorni di angoscia, di malinconia, di paura Venuto il cambio alla sera siamo venuti un poco più indietro, ma sempre sotto il tirro dell’artiglieria nemica, ma intanto hanno potuto portarmi da mangiare, per darvi un idea cosa si mangia mi è venuto, una tassa di caffè, una di vino, una scattoletta di carne e una pagnotta, questa roba mi deve bastare per tutta la giornata di domani e se occorre anche due giorni, poi poggiare la testa per terra e sotto l’acqua se si vuole dormire. Il giorno 16 sempre chiusi, tutto il giorno un bombardamento da disperati, cannonate a destra e a sinistra, davanti e di dietro, però senza colpirci nessuno per grazia del Supremo, poi alla sera verso le ore 8 mi hanno condotto su per un camminamento, e la abbiamo dovuto mettersi per terra in mezzo al fango come i porci. Fortunatamente alle undici mi è venuto il cambio, allora abasso di corsa, le gambe non mi reggevanc più in piedi, ma pure di non essere colpiti via lostesso di corsa. e arrivati su una casa in paese di Volzana, abbiamo trovato il solito pranzo, mangiato quello, bagnati come eravammo siamo messi per terra a dormire, io dico il vero se in questo momento mi vedessero i nostri cari morirebbero dal creppacuore. Bisogna snidare il nemico: si va all'assalto Il giorno 17 lo passai sempre chiuso come il solito, e sempre con la paura che arrivasse qualche pillola, intanto sto leggendo notizie della mia sposa e suoccero che sono abbastanza buone, intanto si 164 marzo 1916 stravia un po il pensiero. Stavammo ad’aspettare il rancio, era verso notte, invece si scatena un forte contrattacco all’improvviso, il 65° Fanteria ha dovuto abbandonare la trincea e anche ne hanno fatti molti priggionieri, dunque l’ordine a noi del 67° Fanteria di andare occupare le trincee per dute dal 65°. Ormai non si poteva più capire d’andove venivano le pallottole, eppure bisogna andare lostesso altrimenti venivano gli austriaci, noi della 9° Compagnia in testa e avanti, passato il paese di Volzana abbiamo preso il camminamento e siamo portati sulle alture di S. Maria, strada facendo ogni tanto si trovava austriaci e chi non si rendeva giù con le gambe in aria. Qui ora è il difficile entrare sulla trincea che dentro ci sono i Tonietti, e anche sono in molti siamo di fronte a numero più grande molto di noi, per darvi un’idea noi saremo stati una cinquantenna il quel punto, loro invece saranno stati per lo meno duecento. Il giorno 18 (mio compleanno) siamo ancora qui nella trincea senza poter muoversi e parlare a bassa voce perché il nemico mi sentiva, eravammo appenna 15 metri dà loro, riguardo poi mangiare non se ne parla qui nessuno me ne può portare digiuno di quarantotto ore sicure e poi stassera verrà? Venne la sera e mi possono portare una pagnotta e scattoletta di carne ogni due persone, e tutto si sopporta in questi momenti, basta poter salvare la vita. Compleanno e onomastico tra i ... fuochi d’artificio Il giorno 19 giorno di S. Giuseppe (mio onomastico) speriamo che mi vorrà aiutare, venne l’ordine di lasciare la trincea, e di rittirarsi indietro sopra la cima d’un monticello, la abbiamo dovuto trincerarsi sezione 5 165 alla meglio con dei sacchetti tanto da riposarsi dalle pallotole che venivano da tutte le parti. Alla sera pareva un fine mondo, bombe che venivano come la tempesta, gli Austriaci ubbriachi che ogni tanto gridavano Hurra! e allora fuoco da tutte due le parti. Non si sapeva più da che parte mettersi per ripararsi. Ogni tanto si sentiva un grido, ecco un soldato che è rimasto ferito, o morto, povera gioventù come se ne va! lo col cuore sempre palpitante aspettava la morte da un momento all’altro, ma col pensiero rivolto Iddio e S. Giuseppe mi protessero, e quindi fui salvo. Alle 2 del mattino del giorno 20 viene l’ordine di rittirarsi anche da quella posizione, così di tutta notte siamo venuti a Volzana e poi subito siamo andati negli barraccamenti di casa dugo, ove si trovava le nostre cucine. In questo punto eravammo quasi al sicuro ma síamo arrivati sfiniti del tutto, non si figurava più la fe nosomia. Dopo si può dire quattro giorni di digiuno finalmente abbiamo da sfamarsi, e riposarsi, alla sera dopo aversi un po pulito personal-mente, siamo messi per terra a dormire, sarà stato verso le ore 10, non abbiamo fatto tempo dormire che tre ore quando entro un’Ufficiale a dare l’allarmi, dunque non ce da pensarsi sopra bisogna armarsi e correre giù a Volzana un’altra volta, che ce un contrattacco, gli austriaci si avevano espresso che volevano venirmi a trovare in barracca. 166 marzo 1916 Karl Sovre I Il diario si trova nell’archivio di famiglia [Nota – località di ritrovamento sconosciuta] . Fu aiutante di battaglia del 2° Battaglione dell’87° Reggimento Fanteria 22 ottobre 1917 (lunedì) Partenza da Podčepovan alle 5.30 del pom. lungo il sentiero Boroevič in montagna. Abbiamo trascorso la notte all’aperto, su una ripida collina. 23 ottobre 1917 (martedì) Alle 4 del pom. partenza verso Santa Lucia [Nota – oggi Most na Soči], alle 2 di matt. 24 ottobre (mercoledì) Camminata attraverso l’Isonzo. Alle 7 e mezza del mattino siamo arrivati a Selo [Nota – oggi Sela pri Volčah]in un feroce fuoco di art. Dalle 2h alle 3 e mezza la nostra art. e le batterie tedesche fuoco tambureggiante. Alle 8 di matt. partenza verso gli avamposti in cima di Hrad vrh [Nota – Grad]. Ci siamo persi e ritrovati in un fuoco di art., mine e fucili. Ferito Oblt. Mastnak, Lt. Ivanetič in r. a. Dorfmeister. Pioggia tutto il giorno e tutta la notte. I. R. 87 e 37 penetrano davanti a noi 25 ottobre (giovedì) Marciamo sugli avamposti italiani distrutti attraverso montagne e rocce, superando tutti gli ostacoli fino all’Isonzo. Il ponte – il sezione 6 167 villaggio Doblar – campo ital. pieno di merci, cibo, vino, grappa, vestiti, ecc. – ubriachezza generale. Pernottiamo in strada. Il bottino è immenso. 26 ottobre (venerdì) Partenza verso Aiba alle 6 del mattino – attraverso Ronzina – a destra di Aiba (Db... Dol?) passiamo la notte in paese. 27 ottobre (sabato) Canale – e percorsi più lunghi. Pernottiamo all’aria aperta. Riva puzzolente. Ci sparano da Kuk. Piove tutta la notte. 28 ottobre (domenica) Attraverso Korada a Kožbana. Verso sera arriviamo a valle. Piove tutto il giorno a dirotto. Passiamo la notte a Kožbana, lasciata ieri dagli italiani. Gente ospitale, felice della liberazione. 168 ottobre 1917 Paolo Caccia Dominioni I 1915 – 1919 Diario di Guerra. Milano: Gruppo Ugo Mursia Editore S. p. A. 1996 . Paolo Caccia Dominioni era sottotenete del Genio nellùnita dei pon-tonieri fino a luglio del 1917, poi commandante dellùnita dei lancia fuoco. Palermo, 24 maggio 1915 La caserma più vicina era quella del 10° reggimento bersaglieri, a Porta Nuova. Ho firmato il foglio d’arruolamento volontario per la durata della guerra. 18 novembre Ho passato una settimana a Palermo, e sono angosciato dal numero dei morti che il Carso e l’Isonzo hanno già fatto tra i miei amici palermitani e milanesi. Quasi tutti di fanteria. [1916] Nerviano, 8 marzo La busta gialla è arrivata, e contiene il foglio di viaggio con la destinazione: 4° reggimento genio pontieri a Piacenza. Sono contento. Aprile Metà degli uomini sono partiti per Passo Zagradan e Valcamen-ca, sopra Tolmino, agli ordini di Gulmanelli. Vanno aggregati ad alcune compagnie zappatori che fanno lavori di fortificazione in seconda linea. sezione 6 169 [1917] Vallone del Kotec-Potok 23 aprile, notte Abbiamo sceso il vallone fino alla chiesetta di San Pietro, dove ci sono tende e baracche della 14°. Il vallone sbuca ad Ajba, in riva all’Isonzo. /.../ A giorni tutta la compagnia si riunirà per portare il materiale presso la prima linea, sulla riva del fiume ,cercando di nasconderlo il più possibile con mascheramenti e altri trucchi. Le difficoltà del trasporto sono immense, specialmente per le barche che pesano una tonnellata e che devono scendere per chilometri di mulattiere tortuose, in valloni strapiombati e ricchi di frane. Ma, dice Bonetti, i pontieri riescono a tutto. Bonetti si mostra ottimista per il risultato dell’offensiva. Le linee opposte sono proprio sulle due rive, lungo le due strade che collegano Auzza, Loga, Bodrez e Canale sulla sponda austriaca, Ronzina, Ajba, Casermone e Nekovo basso sulla sponda italiana. Le rive sono tagliate a picco, quindi il fiume è assai profondo in questo punto. Il nostro compito è di gettare due ponti, uno davanti Loga, l’altro davanti Bodrez: dobbiamo far passare la fanteria che deve occupare una fetta dell’altra riva coi due paesi. /.../ Mentre sto ragionando con Bonetti delle nostre faccende entra Comolli, raffreddatissimo, in elmetto e pugnale. Vuole utilizzare subito i miei uomini, che sono stanchi e sofferenti perché hanno troppo bevuto. Cerco di oppormi, ma non c’è niente da fare; il 3° plotone deve per forza trasportare a braccia i primi materiali fino a Ajba, nel buio, facendo due viaggi di andata e ritorno sull’orrenda mulattiera. Ne abbiamo fino a domani mattina. Contemporanea-170 maggio 1915 – maggio 1917 mente faccio una ricognizione sull’Isonzo con Bonetti (di giorno non ci si può an dare, un tenente degli alpini ci si è provato ieri ed è rimasto fulminato da una pallottola di fucile nel cuore). Il vallone del Kotec–Potok, largo e verdeggiante si restringe sempre più man mano che si avvicina ad Ajba, e diventa una stretta gola, nera e incomoda, sinuosa nell’ultimo tratto; cosi le curve impediscono agli austriaci di vederci, dalla riva sinistra e dalla montagna dirimpetto. Sotto i roccioni della gola dobbiamo raccogliere barche, tavole, zatterine Viscardi, e materiale minuto. La gola sbuca sul fiume trenta metri prima dell’acqua, tra le distrutte case di Ajba. Davanti le case, a dieci metri dall’acqua, c’è la strada che segue il fiume col reticolato, i piccoli posti e gli avanzi sconquassatissimi di due barche che servirono alla sfortunata offensiva dell’ottobre 1915. Sulla riva opposta, proprio davanti alla gola, si drizza una rupe, nido di mitragliatrici austriache, che chiamano il Roccione del Diavolo. Gettare un ponte in un posto simile, cupo e sinistro, mi sembra una follia. Il silenzio è impressionante, rotto solo dal gorgoglio dell’acqua corrente e da qualche fucilata che si moltiplica lugubre nella valle. “Ostia che paraggi”, dice Paccani. Fine aprile Non sappiamo nulla di certo sulla data dell’azione: si dice ai primi di maggio. Noi vorremmo far presto per abbreviare la sofferenza di questo durissimo periodo di preparazione. Affluiscono centinaia di bocche da fuoco. Ma le difficoltà che incontriamo nel trasportare il nostro materiale sono indicibili. Ogni istante ci sorgono davanti ostacoli imprevisti e allarmanti; è una vera ossessione. Due carri con le barche sopra (nove metri di lunghezza) per la strettezza della sezione 6 171 mulattiera e per la frana della scarpata verso valle sono precipitati nei burroni. Cavalli e conducenti sono rimasti uccisi: il materiale lo abbiamo ricuperato con le funi e i muscoli dei pontieri. Tuttavia siamo già riusciti a raccogliere molto materiale (a noi sembra troppo, ma in questi casi non si sa mai) vicino al fiume. Fine aprile (perduto il conto delle date!) lo porto il mio materiale a destra di Ajba percorrendo la strada scoperta per seicento metri e accumulo tutto quanto dietro il Casermone che è un casamento sulla strada, a ottanta metri dalle vedette austriache. Questo lo facciamo nelle ore più buie della notte, coi piedi fasciati di sacchi per non far rumore. /.../ Il mio plotone è stupendo, ma bisogna vedere come ci siamo già ridotti a far questa vita. Perché tutta notte si è in ballo: la mattina si dorme male per via delle gran mine che fanno sopra il nostro attendamento per allargare la strada. L’altro giorno nessuno sapeva che ero rimasto nella tenda a dormire, e il telo è stato squarciato da una grossa pietra che si è piantata per terra a pochi centimetri dalla mia testa. Nel pomeriggio poi abbiamo le scartoffie e le riunioni. Primi di maggio Le grandi barche non le possiamo certo nascondere dietro il Casermone, ma le lasciamo allo sbocco della gola e le tireremo fuori, se sarà necessario, all’ultimo momento. Invece al Casermone portiamo le zattere leggere della passerella Viscardi. L’altra notte ne stavo avviando una attraverso il reticolato, con quattro pontieri. Il passaggio è difficile e stretto: ogni momento si restava impigliati nel filo di ferro spinoso. Improvvisamente una luce 172 maggio 1915 – maggio 1917 bianchissima e abbagliante, proveniente dall’altra riva, ci colpisce in pieno: gli uomini indietreggiano istintivamente, e io ricevo in pieno ventre l’urto della zattera. Mentre cado supino sentiamo una scarica di fucileria. Ci buttiamo sotto le rocce dove ho passato un quarto d’ora a vomitare. C’è voluto un bel po’ prima che la sparatoria cessasse e che si potesse riprendere il lavoro. Sentiamo spesso il piccone austriaco che lavora sull’altra riva. E divertentissimo farli smettere a sassate: il nemico pensa a qualche diavoleria nuova, sente arrivare con un sibilo e fermarsi qualcosa che potrebbe scoppiare, e che presumo ben diretto dalla fionda mia inseparabile fin da quando ero in ginnasio. Ma uno di questi giorni si vendicheranno. Da qualche giorno abbiamo continuamente sopra di noi gli aeroplani crociati. I pontieri brontolano e dicono che siamó scoperti. Maggio Mi hanno rifilato un incarico faticoso e sgradevole: quello di or-ganizzare e dirigere il trasporto del materiale Viscardi (per cui tutti hanno perduto la testa) da Liga all’Isonzo per il vallone di Nekovo, parallelo a quello del Kotec. Le corvé sono fornite dal 6° e 12° bersaglieri, e il trasporto dura quasi tre ore, lungo una orribile mulattiera col selciato che sembra di acciaio levigato sotto gli sdruccioloni delle scarpe chiodate. Le zattere sono incomodissime da trasportarsi a braccia, specialmente per gente non pratica. E questi disgraziati, una volta arrivati già dopo diverse emozioni (i proiettori e le mitragliatrici frugano volentieri la mulattiera) hanno la piacevole necessità di rifarsi tre o quattro ore di salita prima di lasciarsi cadere sulla loro paglia, morti di fatica, bagnati sezione 6 173 di sudore, ammaccati dai frequenti ruzzoloni. Essi bestemmiano con frequenza e intensità che finora m’erano sconosciute. 15 maggio /.../ In venticinque minuti il ponte è fatto. Albeggia. Arriva qualche shrapnel, alto, innocuo. Il Cervino si schiera sulla strada, allo scoperto, si ordinano le compagnie, si sentono alcuni comandi secchi come se si fosse in piazza d’armi. Intanto noi fissiamo le ultime travi alla riva austriaca. I pontieri sono sulla riva austriaca, che abbiamo tante volte guardata nella notte, che ci aveva fatto tanta paura. I pontieri, che avevano lavorato scalzi secondo la tradizione, si infilano le scarpe in furia, prendono giberne e moschetto, ina-stano le baionette e si raccolgono attorno a me, che non avevo dato nessun ordine. Ne rimando qualcuno alle barche, per tendere le funi d’ancoraggio e stringere i ghindamenti. Uno di essi mi cede il moschetto dicendo che serve più della pistola. Ora l’entusiasmo è generale. Il Cervino invade il ponte di corsa, a baionetta in canna; seguono mitraglieri e zappatori. Ci buttiamo tutti sulle rocce che stanno sotto la linea austriaca, ci inerpichiamo, fissiamo corde e scalette per facilitare la scalata al battaglione. 17 maggio All’alba i quattro cavi sono tesi e il traghette funziona. Abbiamo trovato, tra Ajba e il Casermone, il cadavere del pontiere Di Pietro, portordini di Bonetti, che veniva con un ordine per me. Era colpito da una scheggia alla testa, e presso a lui c’era l’elmetto pieno di sangue. Aveva cinque figli. Alla caverna del comando ho riferito 174 maj 1915 – maj 1917 che tutto andava bene e mi sono addormentato di colpo sopra dei sacchi vuoti. 18 maggio /…/ Si parla di ripiegare, abbandonando il terreno conquistato, avendo ormai assolto il nostro compito dimostrativo. In realtà la nostra linea, dopo le perdite subite e non reintegrate, e data la precarietà dei nostri traghetti, non potrebbe resistere a un nuovo attacco in forze. Arriva un nuovo ordine: questa notte si ripiega. 19 maggio, una del mattino Le esplosioni sollevano colonne d’acqua. Un terzo cavo è stato spaccato; ci rimane l’ultimo, che fa iutto il lavoro, ma il ripiegamento è quasi finito. sezione 6 175 Rudyard Kipling II Daily Telegraph, New York Tribune, 9. 6. 1917. 11 Podgora – I cannoni che aspettano sulle vette Gli autocarri straordinari apparivano ora più numerosi – sulla strada anche più straordinaria – di quello che erano stati finora. La nostra guida ce ne fece gli elogi. “Vedete – ci disse – in questi ultimi giorni siamo dovuti passare da qui, per trasportare molte cose al fronte”. “Ma che forse tutti gli Italiani nascono col volano d’una automobile nelle mani?” chiesi io, mentre la lunga fila di carri, dalle alte coperture, discendevano sulla curva che noi salivamo, e, girando su sé stessi come un perno e con l’avancarro quasi librantesi su un precipizio di quattrocento piedi di profondità, strisciavano rasenti alla nostra automobile, lasciando appena tre pollici di distanza fra le ruote. “No” rispose. “Ma anche noi ci siamo lungamente trenati a questo sport. Anzi immagino che gli chauffeurs inabili siano tutti morti”. “E anche tutti i cattivi muli?”. – Uno di questi, che pareva colto da convulsioni, si trovava in una località che appariva – almeno fino a quando non raggiunsi un’altezza di oltre un migliaio di piedi, – come l’orlo di un precipizio. “Oh, è impossibile uccidere un mulo”. Infatti allorché la bestia ebbe steso le sue proteste, riprese la dignità dei suoi avi. Il mulattiere non fiatò. Noi c’insinuammo su, per i monti e, fra di essi, 11 http://www.gofvg.altervista.org/2016/04/17/rudyard-kipling-i-cannoni-che-aspettano-sulle-vette/ 176 dicembre 1915 andammo per strade non ancora segnate sulla carta, ma altrettanto resistenti, quanto lo può rendere un lavoro assiduo ed energi-co contro il deterioramento prodotto dal traffico degli autocarri carichi dei maggiori pesi, dagli zoccoli taglienti dei muli e dal logorìo dell’inverno, che è il vero nemico. La nostra via scorreva lungo la striscia ripiegata di una catena di monti, alti non oltre i tremilacinquecento e i quattromila piedi e, più o meno paralleli all’Isonzo, nel suo corso del nord. Fiumi che avevano ruggito allo stesso livello nostro sembravano inabissarsi e restringersi fino ad acquistare le dimensioni di fili turchini, appena visibili attraverso le foreste. Le montagne protendevano lunghe spire, che facevano perdere ogni senso di orientamento. Allora, poiché il nemico che era lontano di circa sette miglia poteva scoprire gli Italiani, alcuni tratti della strada affollata dal traffico erano nascosti da due stuoie di paglia; ma parecchi fori che su di esse si riscontravano, sia in alto, che in basso, dimostravano che il nemico aveva trovato quel che cercava. Dopo di ciò, la falda colossale di una montagna rilucente di acque stillanti, ci nascose tra il verde e l’umidità, fino a che la vista di un frassino dalla tarda fioritura (i suoi fratelli trovati da noi più giù, dieci minuti prima, erano già tutti ricoperti di fogliame) ci avvertì che eravamo giunti alla sommità della brulla giogaia. E qui erano batterie su batterie di pezzi più pesanti, disposti in modo così vario, e così nascosti, che l’averne scoperto uno non dava nessuna idea della posizione dell’altro immediatamente vicino. Cannoni da 120, da 180, da 240 e anche da 305, caricati su ruote da trattrici, su affusti da marina adattati ad opere terrestri, divisi dalle loro rispettive trattrici o messi in bilico o puntellati sui loro stessi veloci motori, sezione 6 177 La cresta del Kanalski Kolovrat 178 maj – oktober 1917 si seguivano per miglia e miglia, con le loro caverne di munizioni, con le loro fucine e con i loro baraccamenti (per migliaia di serventi) sparsi od allineati sulle ripide alture dietro i cannoni stessi. Puntati al ciclo, questi erano racchiusi in cupe fosse ed in avvallamenti; nessuna immaginazione umana potrà concepire come mai fossero stati portati lassù a dominare. Facevano capolino dalle più piccole feritoie del verde terreno; stavano internati sotto burroni e caverne, in quella località ove nessuna luce poteva mostrare la loro linea e si confondevano con un monticello di stabio dietro ad una stalla. Si trovavano installati nel folto della foresta, simili ad elefanti nell’o-ra meridiana, o, per così dire, strisciando acquattati sul ventre, fino all’orlo di creste, dominanti mari di montagne. Come gli altri situati più giù sulla linea, aspettavano l’ora e l’ordine. Neppure una mezza dozzina di essi apriva la bocca per parlare. Quando giungemmo ad una località stabile, lo sportello di un osservatorio ci fu aperto sul paesaggio sottostante. Vedemmo l’Isonzo svolgersi quasi verticalmente sotto di noi e al di là erano le trincee italiane, che si inerpicavano a stento dalle rive del fiume fino alle creste delle brulle giogaie, dove è la fanteria, che deve essere vettovagliata nell’oscurità della notte, fino a quando gli Austriaci non saranno scacciati dalle alture superiori. “Questo è proprio come lottare con un ladro sui tetti”, disse l’ufficiale. “Voi potete scoprirlo dalla cima di un comignolo; ma egli può scoprir voi dalla guglia della cattedrale, e così via”. “Ma chi mai riuscirebbe a vedere quegli uomini nelle trincee laggiù?” domandai. “Chiunque può vederli, da ambedue le parti; ma essi sono coperti dai nostri cannoni. Tale è la nostra guerra. L’altezza è tutto”. sezione 6 179 Franc Avčin Annotazioni e altro materiale del periodo bellico, archivio del Kobariški muzej. Allo scoppio della guerra, Franc Avčin fu arruolato nel 27° Battaglione del Landsturm a Ljubljana. Fino a dicembre aveva lavorato come geometra nei reparti di genio che fortificavano la futura testa di ponte di Tolmin, nella seconda metà del 1915, invece, si trovava nella zona di Gorizia, da Monte S. Michele (Debela griža) fino a Plave. Nel mese di dicembre comandò l’unità di lavoro 50/5 della Milizia territoriale che si occupava della perforazione delle caverne a ¤ 383 – Prižnica sopra Plave. Seguendo il canto “Stille Nacht, heilige Nacht ...” [Nota – Bianco Natale] Canzone di Natale di guerra: [Nota – traduzione dall’originale tedesco] Obice pesante, obice leggero spara lontano, spara largo, spara ai tuoi stessi uomini, spara con lampi, spara con tuoni, spara e il nemico ride di lui! La cantavano la vigilia di Natale del 1915 gli ufficiali radunati intorno all’albero di Natale nella caverna a quota 383 sopra Plave. 180 aprile – ottobre 1917 Giuseppe Rudello II Colà stemmo un giorno e mezzo, poi il nostro capitano ci fece una "morale”, incoraggiando noi, che per la prima volta dovevamo andare sotto il fuoco. Allora nella notte medesima viene l’ordine, che noitutti dovevamo portarci in cima al monte Sabotino alto seicento undici metri; cominciammo a camminare a mezza notte e camminammo fino alla mattina alle otto. Era il cinque di agosto (1916) e noi per la mulattiera si incontrava già i feriti e prigionieri austriaci che la valorosa Brigata che era davanti, aveva “presi”; questo viaggio in montagna era abbastanza “noioso” per noi perché con il buio non si vedevano neanche I sassi su cui si inciampava. Qualche monte era illuminato dal faro austriaco e da razzi che i nostri gettavano in aria: era una sera triste. Arrivati alla mattina, dopo aver passate molte caverne e camminamenti, che io non sapevo neppure dove si fosse, siamo arrivati vicino al fiume Isonzo, in un paesello tutto “spianato” dalle granate, chiamato Santo Maurizio. Allora arrivati là, eravamo fermi tutti rannicchiati in un fosso, perché il pericolo si avvicinava; siamo rimasti là tutto il giorno e quel giorno per me è apparso spaventoso, sentendo ogni qual tanto qualche proiettile che passava e andava lontano, più indietro. La paura era per noi grande, perché non eravamo abituati a tale fischio. Alla sera dopo aver mangiato un po’, il nostro tenente che comandava il plotone, ci disse che in quella notte non si doveva dormire, perché la nostra Brigata doveva andare all’assalto sul Monte Santo: ma l’ordine fu sospeso. In quella sera siamo partiti appena ha incominciato a fare buio e adagio, adagio, ci siamo incamminati per sezione 7a 181 passare l’Isonzo; arrivati all’lsonzo, là c’era un piccolo ponte che si passava soltanto a piedi. Allora è venuto l’ordine di innestare le baionette, perché il nemico era al di là del fiume e ad uno alla volta, con intervallo di dieci metri e di corsa si doveva passare; al ché tanti dei miei compagni non sono passati, ma sono caduti dentro al fiume e si sono annegati. Io, fortunato, sono passato e arrivato sull’altra sponda; nel contempo il nemico si era allontanato e allora siamo andati su dalla riva e colà cominciavano le prime case, tutte rotte. Il paese si chiamava Salcano che è a tre chilometri a sinistra di Gorizia. Allora noi ci siamo ricoverati in un campo, dove c’erano seminati dei cavoli, tutti là dentro sempre nascosti. /…/ Dopo tante ansie il buon (Dio) ha fatto che venga notte, che ci pareva di essere più sicuri, perché il nemico di notte non ci poteva vedere. Ma ecco che anche in quella triste notte non si dorme, perchè l’ordine era di avanzare; allora tutti noi pronti col fucille carico e la baionetta innestata ci siamo inviati a camminare lungo la strada ferrata, che portava alla stazione di Salcano. Da tempo non correva più il treno ma bensì correva qualche grossa granata che partiva dalle retrovie nemiche. “La vita era aspra”. Finalmente si arriva sotto un ponte della stessa ferrovia, dove abbiamo divorato una scatoletta di viveri di riserva e proprio in quel momento mentre si mangia e arrivata una grossa granata; là sono morti tanti colleghi ed è stato ferito il nostro Maggiore comandante del terzo Battaglione. Da lì a pochi minuti bisognava avanzare ancora, in mezzo alle fucilate che sfioravano il nostro capo. A forza di strisciare per terra, siamo arrivati in paese, da dove il nemico pochi minuti prima eda fuggito; colà, si trovava tutto rovesciato e saccheggiate tutte le case e parecchie stavano 182 agosto – settembre 1916 bruciando. Si trovava in paese anche qualche persona che si era intanata nei sotterranei e nelle cantine. Si trovavano anche capre e pecore e animali per la strada abbandonati, ma nessuno se ne curava, perché tutti pensavano alla propria vita e perché là, in quei tristi posti, la morte era presente in tutti momenti. /…/ Poi avendó mangiato, arriva l’ordine di andare a dare il cambio alla Brigata Cento Undici e Cento Dodici, che si trovavano in prima linea: noi eravamo indietro a lóro un cento metri. Allora “correva” il giorno dieci dello stesso mese di agosto, ed era già quasi mezza notte e silenziosi siamo andati a dare il cambio, perché quella Brigata era da parecchi giorni che si trovava in linea; arrivati noi, non c’era trincea e per buona fortuna mi hanno messo di vedetta, non essendo (a quel tempo) ancora passato caporale e stetti di vedetta tutta la notte. Il nemico sparava ancora con il fucile qualche colpo disperso, stando sulla cima del San Gabriele: noi eravamo alle prime falde di questo “brutale monte”. Colà la paura era grande e in più cresceva la malinconia di quei giorni e più “brutale” era alla sera a fare la corvè per i viveri. Passati parecchi giorni, tra le più grandi tristezze non essendo abituati a quella triste vita, è arrivato il giorno quindici agosto (1916), giorno per noi molto doloroso perché mi è rimasto nella mente “e per sempre” finché vivo.12 /…/ Era mezzogiorno e ancora continuava energicamente il fuoco dei proiettili e non si vedeva più niente, era come una nebbia il mese di settembre; eravamo in un bel bosco fitto di grossi alberi ma a mezzogiorno non si vedeva che tutto spianato a terra e noi eravamo già scoperti in “posta al sole”. 12 La brigata perse in quei giorni 31 ufficiali e 868 soldati. sezione 7a 183 Poi passate ancora poche ore in mezzo a quella triste “sciagura”, i comandanti avvertirono di mettere la baionetta sul fucile e di fare molta attenzione se il nemico si muove per venire a rivendicare le sue posizioni da pochi giorni perdute; ma fortunatamente in quella triste occasione non è venuto e quando (DIO) ha voluto, è cessato quel fuoco infernale: già il sole era tramontato quando è cessato. Allora tutto intorno era in silenzio, tranne qualche ferito grave che dava gli ultimi lamenti. In quella sera è stato necessario andare a seppellire tutti quelli che in quel giorno disgraziatamente erano stati colpiti a morte e portarli nelle buche delle granate, là dove il terreno intorno era tutta una buca. Poi dopo qualche giorno si ricominciava il lavoro e qualche granata ogni pochi minuti si faceva sentire scoppiare poco lontano da noi, dandoci l’avviso che la guerra non era ancora finita. Noi si lavorava di notte facendo poco rumore, costruendo la trincea “fasciata” e mettendo reticolati fino alla mattina; di giorno si dormiva chi era capace di dormire, e qualche ora bisognava fare la vedetta. Io non ero capace neppure di scrivere a casa perché la mia mano tremava come “alcoisato” e come una foglia il mese di maggio. Quella vita l’abbiamo fatta per trentasei (ventisei) giorni consecutivi senza mai avere il cambio: mangiare una scatoletta e una pagnotta, un quarto di litro di caffè e nient’altro. Certi di noi erano ridotti che non erano capaci di portare il fucile; un mio compagno mi ha dato cinque lire perché gli portassi il tascapane fino alla fine del pericolo. Noi eravamo saliti su in linea il dieci agosto e siamo scesi il sedici settembre a riposo a Podsabotino, quel paese di cui 184 agosto – settembre 1916 vi avevo narrato poco anzi, paese in cul non c’era nient’altro che qualche granata ancora da esplodere. Noi si dormiva sotto le tende e ogni seconda notte bisognava andare a portare i reticolati sotto la linea che era lontana otto chilometri; era doloroso fare quasi sedici chilometri con un reticolato sulle spalle. Insomma si lavorava abbastanza e si dormiva poco. In riposo siamo stati quindici giorni ed è arrivato l’ordine che bisognava ritornare nella stessa posizione dove eravamo prima; anche quello è stato un cambio “troppo triste” pensando che là su c’era la morte, e morivano tutti i giorni “insomma”. /…/ Altri che sono stati feriti da noi, dopo poco tempo li abbiamo sentiti lamentarsi e allora ci siamo fatti coraggio e siamo andati a vedere; erano due austriaci, un ferito al ventre e un altro ferito alla gamba sinistra. Allora li abbiamo portati sulle nostre posizioni, dove sono stati medicati e pol accompagnati all'ospedale. sezione 7a 185 Giuseppe Cordano II Anno 1917 Maggio 7 – Con alcuni amici vado alla “Casa del Soldato”. Vi è da ricrearsi, vi sono libri da leggere, riviste varie, il necessario per scrivere a casa ed anche il fonografo. Subito il fante dice: “Stanno dando lo zucchero all’asino”. 12 – Alle ore quattro del mattino sveglia. Ci danno il caffè e alle ore quattro e trenta, improvviso, si inizia un nostro spaventevole cannoneggiamento. Adesso sono migliaia di cannoni che vomitano ferro. /.../ Le artiglierie nostre battono molto il S. Gabriele, Monte Santo e S. Caterina sino al S. Marco. Colonne di fumo si alzano in crescendo, tutto sembra bruciare. Uragani di acciaio ed esplosivo calpestano, triturano, martellano, polverizzano metro per metro il terreno. Quei monti sembra debbano scomparire sotto l'urto di tanta distruzione. 14 – [...] Il nemico risponde ai nostri cannoni ma con molto meno furore, e batte sempre la città di Gorizia e dintorni, causando vittime tra i civili. Il Castello di Gorizia viene colpito varie volte da granate di grosso calibro e varie parti cadono in ruina. /.../ 26 – Siamo in attesa, chissà cosa succederà ancora? Attività di squa-driglie di aeroplani. Nel pomeriggio ecco un furioso temporale. Sulla 186 maggio – ottobre 1917 sera si levano ancora le tende, con tutto il nostro affardellamento si parte salendo per una strada carrozzabile. Passiamo dal paese di Vercoglie qui, seguendo una strada mulattiera, scendiamo nella valle dove scorre il fiume Isonzo, lo transitiamo su un ponte e ci troviamo nel paese di Plava. Ora si prosegue per un’altra mulattiera, salendo passiamo il paese di Sagora, più in su, quello di Sagomilla, continuando sempre la salita. 27 – All’alba facciamo alt quasi al culmine di un monte, appostandoci a ridosso delle rocce. Questo è il pendio del Monte Cuk e una parte è stata conquistata da qualche giorno da altri reparti. /.../ Verso sera sul Monte Vodice, in nostro possesso, e nelle posizioni più avanzate del Monte Cuk, si pronuncia un attacco austriaco. Con l’intervento tempestivo della nostra artiglieria viene respinto dai reparti che lo occupano. Caso sorprendente, mentre infuria la sparatoria nelle trincee, qua vicino a noi, dove è la sede, in una grotta, del comando della 53a Divisione del Generale Gonzaga, la musica della banda militare suona marce e inni. Le note degli strumenti si confondono con il crepitio di fucili e mitraglie e i boati dei cannoni. In giornata viene fucilato un soldato del 262° Reggimento Fanteria. Nella notte siamo sempre in allarmi. 28 – Un plotone della 10.a Compagnia, di prima mattina, è comandato di servizio al Tribunale Militare di Guerra, che si è costituito e ha sede nella grotta del Comando della Divisione, qui sul Monte Cuk. Durante la seduta vengono processati alcuni soldati: qualcuno viene condannato alla fucilazione, altri vengono condannati alla galera. Nel contempo la musica della Divisione suona inni e marce: sezione 7a 187 una pagina molto impressionante e il fante non sa cosa dire o pensare Ma ecco quello che può succedere: qualche soldato, assillato dalla sete, per incoscenza o leggerezza, scende il monte verso il fiume Isonzo per prendere dell’acqua da bere, abbandonando così il suo reparto. Siccome la zona è sorvegliata strettamente da reparti di carabinieri, succede che il soldato viene scoperto e portato al comando del Tribunale. Basta questo per essere processato anche come disertore. /.../ Ora il 3° Battaglione riceve l'ordine di portarsi alla Casa del Pastore , che si trova a mezza costa di questa montagna, circa alla quota 500 dove ci troviamo appostati. Il percorso, pianeggiante, sarà circa un chilometro verso il Monte Santo, che lo vediamo avanti a noi e che ci spia minaccioso. Adesso per arrivare alla Casa del Pastore bisogna percorrere la mulattiera pienamente allo scoperto e alla vista del nemico. Ecco l'ordine del via, in pieno giorno il 3° Battaglione inizia la sfilata sulla mulattiera. I soldati si buttano a correre come pazzi ma l’austriaco li ha visti e con volontà feroce inizia uno spaventevole bombardamento. Scariche furiose di granate investono tutta la mulattiera. La 10.a Compagnia è comandata a partire per ultima ed il Capitano D'Alicandro, è stato promosso Capitano in questi giorni, mi ordina di rimanere ultimo a partire onde assicurarsi che tutto il Battaglione fosse partito: la prospettiva non è delle più allettanti. Davanti a me, lungo la mulattiera, vedo già un quadro spaventoso, una visione apocalittica che è difficile descrivere e che supera un'umana immaginazione. Soldati che, presi in pieno dalle granate, vanno all'aria braccia, gambe, tronchi umani. Chi può proseguire, corre calpestando i morti e quei miseri avanzi umani di carne ma-ciullata di soldati. La testa della colonna vedo che è già arrivata alla 188 maggio – ottobre 1917 Casa del Pastore. L'ultimo soldato ha preso il via sulla mulattiera e parto anch'io. Non posso descrivere quello che ho calpestato correndo. Come poi sono arrivato, ho intravisto lungo il percorso granate scoppiare appena avanti a me o appena dietro, volare per aria brandelli di stracci e carne di soldati. Ho corso, anzi, devo avere volato perchèsono arrivato alla Casa del Pastore quasi con i primi della 10.a Compagnia, con l'animo e il cuore fuori dalla bocca, sfinito dall'emozione. Della Casa del Pastore solo una muraglia è in piedi. Il Capitano raduna la Compagnia, si sosta per riprendere fiato e allontanare la macabra visione. Qui, a ridosso del monte, siamo quasi al riparo dalle cannonate, ma ora si deve salire verso la quota 611. La 10.a Compagnia, i rimasti, inizia la salita tra boschi e roccioni: siamo i primi italiani che calpestano questi luoghi. Le granate austriache arrivano a centinaia, qualcuna coglie il segno e fa strage di soldati. si cerca di salire più presto che si può, sfruttando le accidentalità del terreno e le rocce, giuocando a rimpiattino con la morte. In parecchi soldati siamo arrivati a prendere posizione alla quota 611: ce l'abbiamo fatta. Io sono con i primi, in questi frangenti è meglio essere tra i primi. L'austriaco ha abbandonato la posizione, ritirandosi su altre più arretrate. /.../ 31 – All’alba comincia a piovere. Dato un poco di calma, il 3° Battaglione si raduna sul solito pendio del Monte Cuk, sopra Sagomilla. Ogni soldato cerca di prendere posizione dove crede meglio starci, arriva anche un poco di sole che ci rianima e conforta. Sono due giorni che non si mangia e non si beve, con l’acqua che piove ci arrangiamo. Intanto la musica divisionale dà concerto anche sezione 7a 189 oggi, proprio qui vicino a noi. Sembra uno spregio alla realtà della situazione. /.../ Giugno 11 – Piove. L’austriaco di buon’ora tenta un attacco su un fianco del Monte Vodice, ma le nostre artiglierie, dal Monte Sabotino, stroncano ogni mossa nemica. Ripete ancora durante il giorno e nella notte ma ogni tentativo gli è andato fallito. Intanto sempre vi rimangono soldati morti e feriti. 13 – Riposo, pulizia e macello dei pidocchi. Oggi faccio il resoconto al comando del 160° Reggimento Fanteria dei giorni di permanenza sul Monte Cuk e sul Vodice: la 10.a Compagnia ha avuto 80 soldati fuori combattimento, tra morti, feriti ed ammalati, su 125 soldati presenti all'inizio. Settembre 14 – Tempo bello. All’istruzione di Compagnia. Appena terminato di mangiare il rancio, vengono distribuite bombe a mano e munizioni. Alla sera si levano le tende; si parte passando il paese di S. Mauro. Varchiamo il fiume Isonzo sul ponte numero 14, costruito con barcacce di fronte a Gorizia. Costeggiando la sponda del fiume arriviamo al paese di Salcano. Ora si prosegue salendo il pendio del Monte S. Gabriele. Raggiunta la quota 343 si sale ancora e ci portiamo in prima linea alla quota 462, da pochi giorni conquistata da altri reparti. Intanto il cannone tuona sempre da ambo le parti. 190 maggio – ottobre 1917 15 – Sorge il mattino, chiaro e sereno, accompagnato dal brontolio dei cannoni che continuano la loro opera di distruzione. Qui, in questa posizione abbiamo di faccia, anzi, ci è sopra, la vetta del monte S. Gabriele in atteggiamento di forza e di disperazione, incutendoci timore. Quello che vediamo adesso intorno a noi è un vero cataclisma, il terreno è sconquassato, sconvolto, bruciato, ha preso il colore del mattone. Fa pietà vedere. Intanto il monte, lui è lì, cupo, tremendo, vuol difendersi mentre i cannoni di ambo le parti continuano a picchiarlo maledettamente. Nella notte, nuovi di queste posizioni, si teme qualche attacco da parte dell’austriaco. Così ci fu detto da un prigioniero nemico questa sera. Nel frattempo si cerca di perfezionare le opere di difesa nostre, riadattando le trincee nemiche conquistate e smantellate completamente dalle artiglierie. 18 – Verso le ore due del mattino si pronuncia un attacco nemico sul pendio del S. Gabriele sino alle nostre trincee, ma ci trova tutti all’erta e pronti alla difesa. Qui però è tutto un altro modo di fare la guerra in trincea, si lotta principalmente con le bombe a mano perchè il campo di tiro delle mitraglie e fucile non si presta. Lavora bene l’artiglieria, che riceve le segnalazioni a mezzo di razzi luminosi di vario colore dai suoi osservatori. /.../ 22 – Tempo bello. Nelle zone della Bainsizza il cannone tuona forte. Ecco un altro fatto curioso: nella notte due soldati austriaci entrano nelle nostre linee con una marmitta del loro rancio. Si vede che hanno perso l’orientamento nei labirinti dei camminamenti. Ciò dimostra quali sorprese ci possono capitare da parte del nemico. sezione 7a 191 23 – Nelle prime ore del mattino un attacco nemico si pronuncia sul S. Marco. Dopo una nutrita sparatoria, tutto tace. La battaglia qui sul monte S. Gabriele deve essere stata veramente feroce, lo dimostrano tutte le opere austriache demolite, la zona sconquassata ed i morti ancora sparsi nella zona neutra. Nella notte abbiamo il cambio e veniamo in seconda linea, a quota 343. 27 – Verso mattina il nemico attacca forte sul settore di S. Marco, ma è stato respinto da quei reparti che presidiano quel settore causando all'austriaco morti e feriti e facendo anche parecchi prigionieri. Qualcuno di questi, interrogato, dice che nella Valle di Chiapovano vi sono accampate delle Divisioni di soldati germanici. Ottobre 6 – Piove ancora. Ho trovato un “fifaus” che ho potuto sistemare per la mia fureria; anche il Capitano sta qui con me. Appena fuori il “fifaus” abbiamo dei cadaveri di soldati che ci tengono compagnia. Se fossi ancora un portaferiti cercherei di recuperarli. Notte calma. 8 – Oggi duelli di artiglierie e tiri su ambo le linee, nella notte forte cannoneggiamento sul Carso e sulla Bainsizza. Alla mezzanotte abbiamo il cambio dall’8° Reggimento Fanteria. Finalmente scendiamo, lasciamo queste trincee con tanto piacere, sono state poco benevole con il fante. Le salutiamo con il pensiero di non più tornarci. Scesi a Salcano dal ponte numero 14 passiamo l’Isonzo proseguendo per Forcella Peuma e Valerisce. 192 maggio – ottobre 1917 9 – Al mattino si fa alt a Cerovo. Si riparte e alle ore undici siamo al paese di Subida, vicino a Cormons (110), dove ci fanno alloggiare in baracche di legno. 21 – Oggi sentiamo un cupo rumore di incessanti boati, dà la sensazione che un ciclone stia avvicinandosi. Nella notte transitano centinaia di automezzi che vanno verso l’Isonzo. Il fante vedendo ciò non è tranquillo, ha timore che le cose vadano mettendosi male. Pensa a quelle Divisioni Germaniche che, forse, si trovano nella Valle di Chiapovano e pensa male. 22 – Alla mattina gli automezzi ritornano carichi di truppa e se ne vanno verso l’Italia, dove? É una magnifica visione organizzativa, però perchè tutto questo! Oggi làustriaco tira granate di grosso calibrosul sul paese di Cormons, vengono da una lontananzai parecchi chilometri, come mai succede questo! Che cannoni sono? /.../ 24 – Il cannone tuona sempre maledettamente, piove molto. Si ha la sensazione di qualche cosa di misterioso, di tragico sia nell’aria. Certamente stanno accadendo dei fatti che ci spaventano. Il fante si domanda cosa può essere ma la risposta per ora non viene. Ecco verso mezzogiorno l’ordine di levare l’accantonamento e, con l’equipaggiamento della trincea al completo, di rimanere in attesa. Intanto granate austriache arrivano sino qua ad intervalli, dando motivo di grande panico ai soldati e alla popolazione civile. Il cannone da lontano aumenta il suo sinistro ululato. sezione 7a 193 25 – Tempo bello. Verso l’ora una del pomeriggio, mesti e silenziosi, si parte. Passiamo Cormons, Brazzano, Dolegna e veniamo a Pre-potto (111) ad attendarci in un campo. Qui veniamo a conoscenza della tremenda e tragica notizia: il nemico austriaço ha iniziato una poderosa grande offensiva, attaccando da Tolmino è entrato nelle nostre linee risalendo il fiume Isonzo sino a Caporetto. Dall’altipiano della Bainsizza le nostre truppe hanno dovuto abbandonare le loro posizioni e sono in ritirata, si può dire in rotta. Reparti di vari corpi e specialità stanno affluendo in queste zone. Scendono dai monti, dalle valli, urlando come lupi in file interminabili; dai sentieri attraverso i boschi, dalle strade, senza capi, senza comandi, senza meta, senza controllo. File di automezzi, carriaggi, artiglierie, ingombrano le strade. Si spingono, si urtano tra di loro creando panico e confusione. Una visione spaventosa che addolora. Il fante non si dà pace; è annichilito, muto, non trova più neanche il suo spirito di corpo. Immani incendi divampano su tutti questi monti e nelle vallate ed è così che nella notte, buia e nera, il bagliore ne sta facendo uno spettrale quadro. 194 maggio – ottobre 1917 Karl Sovre II 25/4/1917 (mercoledì) marcia Oltrepassiamo Hotaule [Nota – Hotavlje] – serpentine fino a Planina – Cerkno. 26/4 (giovedì) Cascata vicino a Tribuša trascorso la notte nelle baracche – festa e ottimo vino. 30/4 (lunedì) Erjavci [Nota – Rijavci vicino a Trnovo] Viviamo in compagnia di topi, ratti, scorpioni, ecc. I funghi cresco-no sulle pareti. In una stanza c’è offz. Messe il mio ufficio, gli uffici della 2a e 4a Comp, magazzino, camera da letto di tutto il personale d’ufficio e degli ordinari, ecc. Sono sdraiato sulla stufa. Di giorno battaglie aeree. La sera entra in funzione l’artiglieria. Ieri dopo pasto gli italiani hanno lanciato sul villaggio 6 granate da 15 cm. 5/5 (sabato) Erjavci Battaglie aeree sopra di noi ieri. 6 aerei nemici abbattuti. 8/5 (martedì) Erjavci – andato il Lstbaon 27 (Šerbec) 9/5 (mercoledì) Erjavci, mi sono trasferito nella sua stanza. La sera musica, birra, vino, grappa, caffè, tè, bottiglie e bicchieri rotti, ecc. /.../ fino alle 2 e mezza del mattino nella mensa ufficiali. Ultima sera a Erjavci. Partiamo per Pripeči [Nota – Pri Peči vicino a Ravnica]. sezione 7a 195 12/5 (sabato) Pripeči La mattina alle 4.30 iniziano dei vivaci spari di art. (Trommelfeuer) lasciamo Pripeči perché sotto fuoco. Alle 14.00 del pom. dura ancora, altrettanto forte. 13/5 (domenica) Pripeči Tutto il giorno e tutta la notte pesante fuoco di artiglieria. Decima battaglia dell’Isonzo. I nostri uomini portano materiale e munizioni sulla linea di guerra. Tuoni dell’art. 14/5 (lunedì) Pripeči Tutta la notte e tutto il giorno battaglie di art. Intorno alla nostra baracca tutto pieno di 28 cm, intere e sparate – in mezzo “Gasgra-naten”. Alle 9 di sera riferiscono al telefono che gli italiani sono sul Monte Santo. Le nostre compagnie sono già entrambe fuori, quindi non ci andiamo, come richiesto da Obstl. [Nota – Tenente colonnello] Medikus. Cucine, traino, uffici, bagagli, tutti hanno abbandonato in fretta il luogo in pericolo e sono andati a Voglarje (zum Gefuchtstrain) Seguiamo l’orribile battaglia art. Confermata notizia della perdita del Sv. Gora (Monte Santo). 15/5 (martedì) Come scritto sopra la notte tra il 14 e il 15 maggio e il 15 maggio tutto il giorno. 16/5 (mercoledì) Ieri è stato catturato il capitano italiano che aveva preso Sv. Gora. Questa mattina attacco nella Valle del Vipava e sul Sv. Gora. Allarme. 196 aprile – ottobre 1917 Sospeso per un ¼ d’ora. A mezzogiorno il nostro aereo vola così basso sopra di noi che lo possiamo salutare. Gira sopra le nostre teste e poi via in aria verso Sabotin. Dopo un quarto d’ora la prima granata colpisce il suolo a 20 passi dalla baracca. Poi la seconda, la terza e così via. /.../ Stanno ancora battendo intorno a noi – alle 3 del pom. il nostro aereo, il pilota italiano. 17/5 (giovedì) La sera del 16/5 calma piatta. Alle 11 del pom. riferiscono di aver catturato 23 ufficiali e 1200 uomini italiani. 18/5/1917 (venerdì) All’uscita dalla trincea 17 uomini colpiti da una mina (9 morti, il resto feriti) Sv. Gora brulica di italiani, con loro attaccano i soldati francesi. L’intera mattina Sv. Gora tutto una nuvola di fumo (granate di ecarsite) Povera la 4 Comp. che prende parte al contrattacco sul Sv. Gora. 24/5 (giovedì) 4 Comp divisa. Visita del sig. colonnello Hosner. Grazie per il comportamento eroico sul Kuk. Promuove la squadra e decora tutti gli ufficiali e gli uomini presenti al combattimento. 25/5 (venerdì) Stellung Alloggiamo in un’ampia caverna. Mi ricorda i racconti sui brigan-ti. Nel pomeriggio dalle 2:00 alle 8:00 “Trommelfeuer”, fuoco tambureggiante sul Sv. Gora. La propria art. risponde nella stessa misura. sezione 7a 197 27/5 (domenica) Domenica di Pentecoste. Completa pace tutto il giorno. In serata i prigionieri italiani confessano che nella notte è previsto un attacco generale senza preparativi dell’art. 2 nuovi reggimenti, il 237° e il 238°, arrivano a Salcano. Tutto pronto nei nostri avamposti. 28/5/1917 (lunedì) Fino alle 4 di matt. una parte aspetta l’attacco annunciato. Da entrambe le parti le art. in funzione dopo la mezzanotte con una rabbia costante che dura ancora (2 pom.) Kuk tutto in fumo. I nostri attaccano la ¤ 652, dove ha sanguinato la nostra 4 comp. di marcia del 27 Mbaon [nota – battasglione di marcia]. Sabotino lungo il crinale tutto trafitto e da ogni buco lampeggi continui – cannoni – che sparano tutti e controllano Sv. Gora e Kuk, Dolsko sedlo [Nota – Prevalo] e ¤ 652. 3/6/1917 (domenica) Alle 7 del mattino il colonnello Hosner ispeziona l’equipaggio. Pace tutto il giorno. L’offensiva è finita, inizia una vita noiosa. 5/6/1917 (martedì) Le cucine del IIo battaglione si sono spostate alle 5 di matt. per ordine del col. Hosner da Voglarji a Ravnica. Alle 6 di sera “Vol-ltreffer” [Nota – centro] granate di ecrasite ital. 3 cuochi morti, tutti gli altri feriti, calderoni con cibo cotto tutti distrutti. Per via della scabbia (prurito) mi trovavo nella stazione sanitaria del battaglione. Art. e battaglie aeree. 198 aprile – ottobre 1917 7 giugno 1917 (giovedì) Solennità del Ss.mo Corpo e Sangue di Cristo. Lo sanno, ovviamente, solo i praticanti. Situazione invariata. Da abbonato ho ricevuto per la prima volta il giornale Slov. narod. P. P. mi ha dato 100 sigarette. Geniale! 8 giugno 1917 (venerdì) Voglarje Alle 3 del mattino mi reco per ordine del capitano S. a Voglarje. Lasciando la trincea, mi incammino velocemente ai piedi del Sv. Gabrijel (Škabrijel, Monte San Gabriele), passo la 9a compagnia sulla strada per Britof. Una bellissima notte di luna. È da tempo che la strada è esposta ai fari italiani e agli osservatori dell’art. sul Sabotino, perciò questa parte del percorso non è piacevole. Per il resto una bella strada piena di munizioni e di proiettili pesanti dei nemici. Grotta dopo grotta, roccia dopo roccia. Nella valle si trova il villaggio di Britof, ovvero i resti di un villaggio distrutto. Raggiunta l’altura dove si trovano gli avamposti quasi finiti della seconda linea di difesa, mi si apre una magnifica vista: Sv. Gabrijel, Dolsko sedlo, Sveta Gora, Vodiško sedlo con ¤ 652, Kuk, davanti Sv. Danijel (Monte San Daniele) e sullo sfondo Sabotin, che sta già vomitando il suo fuoco distruttivo sul Kuk. Gorizia, Isonzo, mare. Da una settimana ormai sappiamo che oggi gli italiani inizieranno la seconda parte della decima battaglia dell’Isonzo, e davvero si sente il tambureggiamento dei cannoni, il crepitio delle mitragliatrici e il fuoco della fanteria. Kuk è avvolto da un’unica densa nuvola di fumo. In alto sopra di me scorrono lentamente i proiettili dei nostri cannoni da 30 cm in direzione del Sabotino. sezione 7a 199 Quant’è bella la natura a solo poche ore dai nostri avamposti! Primavera, bella, verde, fiorita, profumata, lieta primavera! Che differenza tra – laggiù e quassù! Viene a trovarmi il’aiutante di battaglia Praznik. Sta andando in congedo. Che uomo fortunato. Rimango qui tutto il giorno perché è possibile rientrare in trincea solo di notte. Ma se il fuoco tambureggiante dell’artiglieria non si ferma, oggi il ritorno sarà assolutamente impossibile. Vogliamo vedere. 12/ 6/1917 (martedì) Indetti dal Brig. 50 K e 14 giorni di congedo per 1 prigioniero ital. Il primo tentativo senza successo perché la guardia campestre era assicurata con un filo spinato e ogni guardia con un cavallo di Frisia. 17 giugno 1917 (domenica) Il fante Kovačič è tornato dalla pattuglia: Gft. [Nota – Gefreiter – appuntato] Stiglic morto, ucciso dalla sua stessa granata, sebbene tutta l’art. era informata che la nostra pattuglia si trova a 200 [Nota – a quota 200]. Kovačič dice che c’è una caverna italiana sotto il 3° battaglione, contrassegnata con uno straccio bianco (segno per artigl. ital) Di notte, diligentemente perforano, scavano e fanno saltare in aria le rocce sotto i nostri avamposti. Nel pomeriggio, l’art. del Čič [N.d.T. – spregiativo per italiano] spara sulla nostra sezione con granate di calibro leggero. Stavo prendendo il sole sopra la caverna, ma mi sono dovuto nascondere in una grotta. 200 aprile – ottobre 1917 Al 3° battaglione, un sergente stava giocando in trincea con una granata italiana inesplosa. Nel rimuovere l’anello di rame di 15 cm di diametro dal giocattolo pericoloso, quest’ultimo esplode uccidendo sul posto 2 uomini, ferendone a morte 2 e 12 lievemente. 18 giugno 1917 (lunedì) Alle 2 del mattino mi trovo davanti alla caverna e guardo i fari nemici. 3 puntano da Sabotin sul Sv. Gora, Vodice e Kuk, uno da Gorizia su Dolsko sedlo, l’ala destra della nostra compagnia [Nota – posizioni della truppa da Prevalo verso Kramarca sul versante occidentale di Škabrijel] e 2 la settima e quinta comp. Improvvisamente, sfreccia in aria una nostra mina da 15 cm e colpisce il suolo a 10 passi da me. Naturalmente, sono sgattaiolato rapidamente nella caverna e sono stato raggiunto solo da pietrisco. La parte posteriore della mina rimane in una buca che si è creata sulla roccia. Segue subito la seconda, cadendo anch’essa nella propria buca, ma la terza e le successive trovano la retta via oltre la nostra guardia campestre a ¤ 343. Al mattino pace assoluta. Per questo offro vino agli uomini. Nella notte tra il 17 e il 18 giugno, Kovačič si reca con la pattuglia sanitaria a cercare il corpo di Stiglic. La salma non era più sul posto, era stata portata via dagli italiani. Kovačič nominato alla medaglia argento del 1° ordine per il coraggio. Nonostante l’art. fosse stata informata che la pattuglia sanitaria si trovava a ¤ 200, l’art. amica di nuovo ha sparato proprio lì, ostaco-lando così la ricerca. (Era una da 22 cm) sezione 7a 201 20/6 (mercoledì) La sera l’art. amica ha colpito in pieno con tre granate pesanti le trincee della propria 8a compagnia. 17 luglio (martedì) Ho supervisionato il lavoro negli avamposti di riserva. Era da un paio d’ore che il Čič, un pilota con un bell’aggeggio grande, ci stava sorvolando. Dalla nostra parte, arriva in volo il nostro pilota e lo attacca con una mitragliatrice. Non si è ritirato, ma si è difeso e ha ceduto dopo 2 minuti. Il pilota ferito ha attraversato Sv. Gora. È caduto a terra tra Sabotino e Sv. Gora. 18 luglio 1917 (mercoledì) La compagnia sta scavando a Lokve. Io non posso andarci perché insegno sloveno. 28/VII/1917 (sabato) Operazioni dell’art. più vivaci del solito. 8 piloti nemici volteggiano sopra di noi tutto il giorno. Ciò ci conferma le confessioni dei disertori italiani che l’undicesima offensiva sta per iniziare. 7 agosto 1917 (martedì) Di nuovo sono volati 10 aerei accompagnati da molti piccoli sopra Voglarji, ma sono ritornati presto. Alle 3 del pomeriggio, una granata nemica di medio calibro ha colpito in pieno la baracca della nostra compagnia. Nella baracca stavano riposando 130 uomini, stremati per aver lavorato tutta la notte negli avamposti della riserva. Prima che qualcuno potesse entrare nella baracca, prima che gli 202 aprile – ottobre 1917 illesi potessero uscire o prima che si potesse aiutare i feriti, l’intera baracca era tutta un’unica terribile fiamma, alimentata dal forte caldo e dalla siccità, dal vento, dai rami secchi sul tetto e dagli alberi secchi che tutt’intorno mascheravano l’intera capanna e l’intero accampamento di tende. Il terribile panico che ha sopraffatto tutto l’accampamento e il fatto che le compagnie vicine si trovassero fuori casa – al lavoro – tutto questo rappresentava un’ulteriore minaccia per le altre baracche, le baracche degli ufficiali e il deposito delle bombe a mano, situato a 10 passi sopra la baracca in fiamme. Coloro che sono riusciti a conservare il sangue freddo, soprattutto gli ufficiali, erano al lavoro per localizzare l’incendio, cosa che sono riusciti a fare. Con una fretta febbrile, gli ufficiali e la squadra siamo riusciti a portare in salvo le casse di bombe a mano. Il luogo in cui erano accumulate queste casse era in fumo e talmente caldo che era impossibile rimanere lì per più di pochi istanti. Si temeva che ogni momento ci potesse essere un’esplosione, la quale avrebbe causato una catastrofe inimmaginabile, perché c’erano pile di granate per l’intero battaglione – tre per ogni uomo, circa 1000 in toto, oltre alla scorta di munizioni per far brillare le rocce (Sprengmunition). Siamo stati abbastanza fortunati da portare via tutte quelle munizioni e da localizzare l’incendio. Nella baracca in fiamme c’erano nel frattempo degli scoppi come nella peggiore battaglia di fanteria. Esplodevano, infatti, le munizioni della fanteria, portando con sé nelle fiamme tutto l’equipaggiamento, i fucili e tutti i beni della squadra. Centotrenta uomini, 150 cartucce ciascuno, un totale di 22.500 cartucce. 15 cadaveri neri e carbonizzati giacevano fianco a fianco in una varietà di pose. sezione 7a 203 Siamo riusciti a contare il numero delle vittime che ammontava a 17 morti e 19 feriti. Al mattino, 10 grandi aerei nemici ci hanno sorvolato. Nel pomeriggio apprendiamo che avevano bombardato Čepovan. 20 persone morte. Per me quel giorno è stato il più orribile che abbia vissuto sul campo di battaglia italiano. Siamo in congedo – in riserva. 9/VIII/1917 (giovedì) Ho ricevuto il mio primo stipendio da aiutante di battaglia [Nota – promosso a questo grado il 31 luglio] (680 K) Inviato 250 K a casa a Krško e 200 K (Z. R. Radeče) per debiti. Ga. Lt. Kramb. Restituito 50 K. 18/VIII/1917 (sabato) Tutto il giorno potente fuoco dell’art. Sv. Gora, Vodice, ¤ 652 avvolti da un denso fumo. 24/8/1917 (venerdì) La mattina, la prima compagnia che copriva la ritirata dal Monte Santo ha lasciato gli avamposti occupati subito dai Čiči [N.d.T. – spregiativo]. Feroci battaglie a Dolsko sedlo e sul Gabriele. Allertate tutte le compagnie di riserva. Il nemico lancia granate incendiarie. Incendi in diversi punti, in particolare sul Gabriele. Tutto confuso, una situazione senza speranza. Arrivano continuamente feriti. Tutta l’artiglieria si è ritirata. Il nemico è all’opera ininterrottamente, in terra e in aria. Lancia spesso bombe, la 6a compagnia (tenente Kramberger) ha occupato gli avamposti di emergenza a sinistra di Dolsko sedlo. Lt. Kramberger gravemente ferito. 204 aprile – ottobre 1917 25/VIII/1917 (sabato) Nella notte tra il 24 e il 25 il nemico ha invaso in più punti i nostri avamposti sul Gabriele, ma è stato nuovamente respinto dai contrattacchi. Ravnica, Pripeč e tutti i dintorni si trovano nel peggiore fuoco dell’art. Gli ultimi resti delle riserve si dirigono verso gli avamposti. Nel pomeriggio abbiamo lasciato le baracche a Pripeči e ci siamo stabiliti presso il battaglione d’assalto. I feriti stanno arrivando a frotte. L’orizzonte sopra Voglarji è rosso sangue – incendi. Cilenšek è tornato ferito. 28/VIII/1917 (martedì) Continuano le battaglie sul Sv. Gabr., Dol, Britof, Zagorje. L’azione dell’art. persevera con rabbia immutata. Molti prigionieri ogni giorno, tra cui anche ufficiali. 3/9/1917 (lunedì) Il 1° battaglione ha lasciato gli avamposti dove aveva combattuto sin dall’inizio dell’offensiva. In serata è arrivato il reggimento di fucilieri n. 2 di Ljubljana (ex Lir 27) Oblt. Mehle, Lt. Dolenc etc. 4 settembre 1917 (martedì) La nostra valle è pesantemente martellata. Molti morti e feriti. Il 6° reggimento della milizia territoriale (106a Divisione) è andato sugli avamposti l’altro ieri, oggi conta 600 feriti. Ha lasciato gli avamposti. Gli italiani sono penetrati nei nostri avamposti sul Gabr. in due punti. Contrattacco – combattimenti accesi che durano tutto sezione 7a 205 il pomeriggio – andati a buon fine. Catturati molti italiani, tra cui 6 ufficiali nella nostra sezione. Sono stato colpito da un frammento di ferro nella coscia destra. Visto che aveva sfondato il tetto della baracca, è stato – sfortunata-mente – troppo debole per rendermi idoneo per – le retroguardie. 5 settembre 1917 (mercoledì) Marcia attraverso Cverenc [Nota – Zverinca] verso il traino (car-riaggio) situato nella selva di Tarnova. Il sentiero è ripido, faticoso, esposto al fuoco dell’art. dal Monte Santo. 20 sett. 1917 fino al 24. Siamo stati ispezionati in ordine di successione da: comandante del regg., brigadiere, comandante di divisione, comandante di corpo e infine l’Isp. G. O. Boroevič. Dobbiamo aspettarci anche l’imperatore (e il vescovo)? 28 sett. 1917 (venerdì) Ho dovuto lasciare la stanzetta ordinata dove ho alloggiato e dormito solo una notte. Mi sono trasferito da un’altra famiglia nello stesso stabile. [Nota – Gorenje vicino alla sorgente del torrente Hubelj] Le persone sono riluttanti a dare alloggio, ma, quando vedono che non viene cambiato nulla, sono molto gentili, disponibili e felici di avere degli sloveni in casa. La coscienza nazionale del popolo semplice supera quella altezzosa dei Carniolani. 206 aprile – ottobre 1917 12 ottobre 1917 (venerdì) Ci stiamo preparando diligentemente per i nuovi combattimenti. Vestiti, porzioni di riserva, munizioni, armi, tutto viene integrato. Ci stiamo accingendo a vivere i giorni presumibilmente peggiori di quest’anno [Nota – nella selva di Tarnova, in attesa della Dodicesima battaglia dell’Isonzo]. Lt. Kapus (I. g. a. II. I. R. 87 Fpost 304) ha fotografato la mia tenda. Nel caso in cui io muoia, se qualcuno fosse interessato, può trovare questa foto da lui. Bisogna solo scrivergli. Nel baule ho circa 60 fotografie del Fronte dell’Isonzo. Sono destinate al museo didattico della guerra della scuola popolare di Radeče. Dal momento che la mia capanna, tra quelle che ho visto finora nel reggimento, è la più comoda e sicura di fronte ai capricci del maltempo, realizzata con un progetto pratico (non come le scuole della Carniola), non sorprende che non ci sia rimasto dentro da solo. Ho realizzato il progetto in modo che in qualsiasi momento un altro compagno possa accomodarvisi, e già lo ha fatto. È il tenente Kapus pl. [Nota – nobile], un gagliardo sloveno della Go-renjska. Ha pagato l’affitto in anticipo, che abbiamo subito speso in bevanda. Andiamo molto d’accordo ed è bene che uno non stia da solo. I discorsi seri, ridicoli, politici, sciocchi e intelligenti aiutano a scacciare i tristi pensieri che sono in grado di aggredire l’anima umana in questo trentasettesimo mese di questa brutta guerra. Leggiamo con interesse i giornali Slo. narod e l’Arbeiterwille e seguiamo gli eventi politici che riguardano gli sloveni. Molte parole amare (non consentite) vengono dette a spese di quei signori che dispongono delle nostre forze e ci ringraziano del sezione 7a 207 fatto di tirarli costantemente fuori dalla mer. /.../ prendendoci in giro, pensando che non li capiamo. Per aver salvato l’esercito (era principalmente grazie al nostro reggimento, cosa che ammettono) nell’11a offensiva della grande sconfitta, i cervelloni dai pantaloni rossi ci hanno affidato l’onorevole compito di prendere parte alla dodicesima: ci metteranno d’assalto in prima fila, per darci, a di-screzione delle alte teste, l’opportunità di decorare con nuovi allori le tombe ancora fresche dei compagni caduti. Siamo molto grati ai signori per la benevolenza paterna che ci dimostrano. Il brigadiere Laksa, il comandante di divisione Hrozny, il comandante di corpo il Principe Schönburg, il comandante dell’esercito Boroevič, vengono tutti a trovarci e a prenderci in giro con discorsi altisonanti. Eppure sanno bene cosa stanno facendo e perché. Mandano i reggimenti sloveni nei punti più pericolosi perché si farebbero uccidere fino all’ultimo prima di lasciare gli avamposti, e così ottengono un doppio successo – in primo luogo l’avamposto rimane nelle nostre mani e, in secondo luogo, si sbarazzano di molti “elementi pericolosi per lo Stato in tempo di pace”. Sono questi i pensieri che ronzano nelle menti dei soldati sloveni intelligenti, mentre fuori echeggia nella notte buia il suono della fisarmonica e del canto dei rozzi compagni seduti attorno ai fuochi, fino a quando non si confondono in questo “Verkehr” i tre fischi che annuncia-no il pericolo. I piloti sono qui. In un attimo si spengono i tanti fuochi e tutte le luci. Così, giorno dopo giorno, finché non arriva il comando: Marschbereit! Abmarsch! 208 aprile – ottobre 1917 Giuseppe Cordano III Anno 1916 Agosto 14 – Sveglia alle ore due di notte. Alle ore quattro zaino in spalla ed in pieno assetto di combattimento si parte seguendo la strada carrozzabile da Valle Valerisce a Valerisce Alta. Da Forcella Peuma arriviamo in vista della città di Gorizia, al di là del fiume Isonzo che scorre qui vicino a noi. Sin dall’alba si è iniziato un poderoso nostro bombardamento sul Monte Santo e sul S. Gabriele. Su questo settore i cannoni devono essere tanti. Vomitano tanto ferro e fuoco che quei due monti sembrano dei vulcani in piena eruzione. Il boato degli scoppi si ripercuote continuo ed incessante per tutto il giorno, come una apocalittica sinfonia. Il fante anche qui vuole dire la sua, cioè: “che siamo cascati dalla pentola nella brace”. L’austriaco risponde invece sporadicamente con le sue artiglierie Nella serata passiamo il fiume Isonzo sul vecchio ponte e ci appostiamo sulla sponda del fiume dalla parte verso la città. Qui si resta svegli tutta la notte in preallarmi, siamo truppe di rincalzo. Corre voce che oggi un reparto del 159° Reggimento Fanteria si sia impossessato di un caposaldo avanzato fra le tombe del cimitero di Gorizia. /.../ 15 – Alla mattina il cannoneggiamento riprende ancora non meno intenso di ieri. Squadriglie di nostri aeroplani incrociano su questo settore. lo con l’amico Rocchi e Carminati andiamo a visitare qui vicino le trincee austriache del Peuma e di Oslavia, conquistate dai sezione 8 209 nostri soldati nei giorni scorsi. Sono vere gallerie con dormitori illuminati elettricamente, con camminamenti coperti che portano alle trincee avanzate. Le nostre artiglierie, con un colossale bombardamento, hanno martellato, sconvolto palmo per palmo queste linee nemiche e noi tre ne vediamo i segni di questa totale distruzione di ogni difesa austriaca. /.../ 18 – /.../ Qualche granata o shrapnel austriaco arriva sui nostri appostamenti causando qualche ferito. Ecco un bel caso, io nell'intento di sfuggire allo scoppio di uno shrapnel, perchè quello lo si sente arrivare dal suo sibilo, cerco di ripararmi dietro un mulo che ci portava il rancio. Uno scoppio e qualche pallottola dello shrapnel colpisce il povero mulo mentre io resto illeso. Caso comico anche questo. 20 – Piove tutto il giorno. Tiri di granate austriache ai nostri appostamenti causano qualche ferito. Alle ore dieci della sera un ordine, affardellamento delle nostre cose e partenza. Il cielo si è rasserenato, finalmente. Ci portiamo a Gorizia città. Passiamo oltre e facciamo alt in un campo di granturco, vicino alla stazione ferroviaria di Salcano. Dobbiamo sistemarci anche qui sulla nuda terra, bagnata e fangosa. Siamo in un campo pianeggiante. Il 2° Battaglione se ne va in trincea. Notte alquanto calma. 21 – Attività di aereplani. Qui non è possibile fare movimenti, ci proteggono solo le piante e le foglie di granturco dall’austriaco sul S. Marco e S. Gabriele, due alture dove gli è facile scoprirci. Così acqua sotto e sole cocente sopra, il fante non può stare allegro. /.../ 210 agosto 1916 – aprile 1917 Cimitero di Gorizia 211 22 – Alle ore due del mattino il 3° Battaglione si sposta, prendendo posizione lungo un fossato che costeggia la strada carrozzabile che porta dalla stazione ferroviaria al paesello di Rusic ed a Salcano. Anche qui è necessario stare fermi perchè dal Monte Santo l’austriaco può vederci benissimo. 23 – /…/ lo e l’amico Rocchi, i soliti ficcanaso, visitiamo il fabbricato della stazione ferroviaria. Nello scantinato troviamo ancora i corpi di alcuni soldati nostri ed austriaci. Lo facciamo sapere al comandante della nostra Compagnia, così gli daranno sepoltura dopo averli identificati Nella notte si ritorna ai lavori. 24 – Verso mattina un reparto del 159° Reggimento Fanteria, nella zona del cimitero di Gorizia, spintosi fuori le linee riesce a creare un caposaldo in una fornace di mattoni. L'austriaco cerca di impedire il possesso, così la fucileria si mantiene viva e le pallottole vengono a colpire le mura del fabbricato della stazione ferroviaria vicinissimo alle postazioni della 10.a Compagnia. /…/ 25 – Oggi fa molto caldo. Duelli tra le opposte artiglierie. Nella notte il 3° Battaglione se ne va in trincea dando il cambio al 2° Battaglione. Le trincee sono situate nella pianura del cimitero di Gorizia e la 10.a Compagnia occupa il settore della fornace di mattoni. Ora apparteniamo alla 2.a Armata del Generale Capello. 26 – Osserviamo che le trincee nemiche sono situate su dei crinali di colline, distano da noi dai cento ai duecento metri e sono pro-212 agosto 1916 – aprile 1917 tette da una massa di reticolati di parecchi metri di profondità. Si capisce che sono opere già in precedenza preparate. /…/ 29 – Tempo bellissimo, se ne approfitta per asciugarsi stando però fermi nei nostri fossatitrincea. Ecco un altro fatto doloroso. Oggi il mio amico Rocchi si era messo a scaricare una bomba a mano austriaca, chissà per quale motivo. Questa, come fu, gli scoppia tra le mani uccidendolo sul colpo. Aveva sempre avuto la mania di fare quel lavoro, ma gli fu fatale. Era un grande e caro amico, povero Rocchi, ne fui tanto addolorato. /…/ 30 – Tempo caldissimo, si può asciugare tutte le nostre cose. L’austriaco cannoneggia il colle S. Marco. Nella prima sera una pattuglia nemica tenta una sortita ancora chiaro il giorno. Il fante dice che quei soldati forse erano drogati. /…/ Sulla sera il solito temporale con acquazzoni ci fa compagnia. Verso mezzanotte abbiamo il cambio dal 1° Battaglione del 160° Reggimento Fanteria e il 3° Battaglione si ritira ancora nel solito fossato lungo la strada della stazione ferroviaria per Salcano. Lo troviamo quasi pieno d’acqua, eppure lì si deve stare. Settembre 3 – Tempo bello. L’austriaco oggi si diverte a cannoneggiare delle case di contadini abbandonate, giù nella pianura di Gorizia: forse pensa che siano occupate dai nostri soldati. Notte calma, sempre ai soliti lavori. sezione 8 213 4 – Tempo bello. Attività di aeroplani nemici che sganciano bombe sulla città di Gorizia, le nostre artiglierie poi bombardano le retrovie nemiche. Nella notte abbiamo il cambio e ci portiamo a Gorizia, al Borgo Carinzia, nel grande Palazzo Ritter. Ci accampiamo negli ampi giardini, dove finalmente possiamo riposare tranquilli. /…/ 5 – Riposo, pulizia generale e delle armi. Sistemiamo le tende sotto le secolari piante del giardino. lo l’amico Carminati e Galbiati ce ne andiamo in città. Vi sono ancora molti civili, ci sembra abbiano un’aria poco favorevole agli italiani. /…/ 10 – Oggi l’austriaco ci manda qualche granata alla fornace e nel cimitero, sconvolgendo tombe, lapidi e disseppellendo anche delle salme. Nella notte al lavoro a sistemare questi fossati-trincea. Ci stiamo molto male qua. Ci si augura una buona ferita o una malattia, pure di allontanarsi qualche giorno. Nella notte qualche scaramuccia di fucileria sul S. Marco e sul S. Caterina. 13 – Tempo bello. Attività di aeroplani. Il fante ormai è persuaso che le trincee che presidia l'austriaco sono state costruite e preparate da vecchia data. Sono un vero campo trincerato e il cocuzzolo del S. Caterina, è munito di gallerie con ridottini per mitragliatrici. Sopra esisteva una chiesetta, ma il continuo bombardamento delle nostre artiglierie l’ha rasa al suolo. Notte calma, sempre al lavoro. 14 – Piove. /…/ Verso sera la pioggia si tramuta in temporale con tuoni, vento e rovesci d'acqua che ci bagnano fino alle ossa. L’acqua 214 agosto 1916 – aprile 1917 nella trincea ci arriva quasi sino alle ginocchia. È una desolazione, si batte i denti dal freddo umido, la tensione nervosa ci dà la febbre, si invoca la Madonna e i Santi. Eppure siamo saldi, fermi a sorvegliare il nemico. Lo si conosce, può attaccarci anche in queste condizioni di tempo, lui mantiene buone posizioni di partenza. /…/ 15 – /…/ L’austriaco non fa altro che buttare numerosi razzi luminosi e niente sparatoria. Ne approfittiamo per rientrare cautamente nella nostra trincea, dove dobbiamo lavorare buttando l’acqua fuori dal fossatotrincea con dei secchi forniti dal Comando. 16 – /…/ Sulla sera nostri apparecchi lancia-fiamme provano un lancio di fiammate contro i reticolati nemici e le nostre artiglierie iniziano un bombardamento alle trincee. I proiettili passano fischiando sopra le nostre teste non troppo in alto, causandoci qualche timore. Anche l’austriaco risponde colle sue artiglierie: questo inferno continua sino a notte scura. 20 – Piove tutto il giorno. Oggi vicino al nostro accampamento viene fucilato un soldato del 159° Reggimento Fanteria, non si può sapere per quale motivo. Novembre 2 – Le artiglierie continuano la opera loro battendo molto la quota 100, davanti alle nostre trincee. Per tutto il giorno sono tonnellate di ferro che passano con il loro sinistro ululato sopra le nostre teste. L’austriaco risponde con furore coi suoi cannoni. sezione 8 215 Intanto noi siamo qua dentro in questi fossati: tra acqua, fango e umidità sotto, ferro e fuoco di sopra. Si verificano casi di itterizia tra i soldati. /.../ Il rancio arriva di notte, portato dai muli sino al paese di Rusic, poi bisogna andarlo a prendere. Ci sono dei soldati comandati a turno, una marmitta ogni due soldati, è un buon chilometro lontano. lo e l’amico Carminati, onde essere più sicuri di avere la nostra bella razione di rancio, caffè e pagnotta, ce ne andiamo quasi tutte le sere volontariamente. È un lavoro un poco impiccioso, principalmente quando la notte è buia e piove. Il percorso, una buona parte, si fa nei camminamenti, dove acqua e fango non mancano mai. Nella parte in superficie poi, qualche volta, si è molestati da qualche granata nemica. /.../ Dicembre 12 – Piove. Ancora rivista del Maggiore comandante del Battaglione che, caso increscioso, percuote con il frustino alcuni soldati perchè erano un poco trasandati nel vestire. Il fante anche qui non fa commenti, tace. Ma in cuore suo condanna queste scene di isterismo. I soldati che ritornano dalla licenza, raccontano delle cose non piacevoli, come la bella vita che si trascorre nell'interno del paese. Tornano mesti, minchionati. /.../ 16 – Nella notte diamo il cambio al 57° Reggimento Fanteria e prendiamo posizione ancora nel pressi della fornace di mattoni, nella zona del cimitero di Gorizia. Così incomincia ancora di nuovo il lavoro per tenere sgombero il fossato-trincea dal fango, 216 agosto 1916 – aprile 1917 se si vuole starci da cristiani. Il fante è demoralizzato da questa continua lotta contro la natura. Ora si aggraverà di più perchè vi è l’ordine dal comando di non stendere più il telo atenda sopra il fossato. Quello ci serviva per ripararci un poco dalle intemperie e dalla pioggia. Forse ci sarà la sua ragione, intanto il fante paga. 19 – Piove tutto il giorno. Si può immaginare in quale condizione di spirito si trova il fante. Qualcuno piange, le ossa sembrano rotte, gli arti anchilosati: una vera tortura. Anno 1917 Gennaio 27 – Oggi vengo destinato dal Capitano Brucalassi, che comanda la 10.a Compagnia, come suo speciale porta ordini. /.../ Ora non sarò più porta feriti ma porta ordini. Anche qui si risparmia la corveé e la sentinella, ma quando gli altri riposano tu sei sempre di servizio a correre e non mancano anche i pericoli. Febbraio 12 – Verso le ore due del mattino il Capitano, che intanto aveva preso contatto con ufficiali del 57° Reggimento Fanteria, mi ordina di avvisare i sergenti capi plotone, perchè di ufficiali non ve ne sono alla 10.a Compagnia, che devono condurre i loro plotoni alle pendici della quota 166, che è un cocuzzolo al di sotto del monte S. Caterina. /.../ lo e l'altro porta ordini tentiamo di sezione 8 217 sgombrare il passaggio ma, come fu, il Capitano resta imbrigliato con il pastrano in qualche filo del reticolato. L'altro porta ordini intanto è mandato dai sergenti portando ordini del Capitano. A mia volta mi abbasso e nel buio tento di liberare il Capitano dal reticolato. Lui è li, diritto, appoggiato ad un bastone e con una rivoltella in mano. È vestito ancora in uniforme di riposo, guarda fisso avanti ma è scuro e non si vede nulla. Ecco, fu un attimo. Il nemico, forse accortosi di qualche movimento, dalla trincea butta dei razzi luminosi. Così io vedo che la trincea è a pochi metri da noi. Vedendo ciò do tempestivamente un avviso al Capitano e cerco di trascinarlo a terra con forza. Ma lui sta ritto, immobile, sembra di sasso. Fu un lampo di tempo, il nemico da pochi metri spara una scarica di fucileria a bruciapelo. Il Capitano viene colpito in fronte e stramazza a terra trascinandomi anche me./.../ Dopo poco tempo cessa la sparatoria nemica. Riesco così, in qualche maniera, a caricarmi sulle spalle il Capitano e a trasportarlo giù dal cocuzzolo: non potevo abbandonare là lo sfortunato Capitano. Se mi avesse ascoltato, chi lo sa!! /.../ Ora siamo qui nella trincea ripresa al nemico. Non si deve fare nessun movimento, l'austriaco ti può mitragliare. /.../ Qui, scavando per ripulire i camminamenti, troviamo seppelliti sotto il terriccio soldati italiani ed austriaci. Siamo stanchi ma bisogna lavorare. /.../ 13 – Il nemico ancora si vendica buttandoci delle grosse bombarde sulle trincee. Ma anche con queste bisogna lavorare e, con l’aiuto del Genio Zappatori, rinforzare la posizioni. Però sempre all’erta, 218 agosto 1916 – aprile 1917 con attenzione alla traiettoria delle bombarde onde correre al riparo, se ci si riesce. 14 – Oggi siamo ancora bersagliati in trincea da cannonate e bombarde che causano feriti e morti: ormai la Compagnia è ridotta a pochi soldati. Verso la sera inizia un furioso cannoneggiamento da parte del nemico proprio sul nostro cocuzzolo, battendolo palmo a palmo. I soldati non ce la fanno a resistere; chi rimane sarà certo massacrato dalle granate. Si abbandona allora la trincea ritirandosi una cinquantina di metri giù nel pendio del colle, siamo fuori tiro della traiettoria delle cannonate. /.../ Aprile 14 – Tempo piovoso. In serata il 3° Battaglione parte da Cerovo per la solita strada, passa Gorizia e, lungo la via al cimitero, va a mettersi nei sotterranei della “Casa Bianca”. Un plotone della 10.a Compagnia rimane a presidiare il ponte in ferro sul fiume Isonzo, uno è di rincalzo alla prima linea alla “Grotta del Cane”, fra quota 174 e il Convento dei Carmelitani /.../ 19 – Le nostre artiglierie battono le linee avversarie ma il nemico, un tantino furioso, risponde cannoneggiando noi e causandoci dei feriti. Per portare ordini al Comando del Battaglione devo attra-versare il cimitero di Gorizia. Qui mi si presenta uno spettacolo desolante: le tombe sono tutte sconvolte, demolite dalle granate di grosso calibro mettendo in vista, sparsi qua e là, gli scheletri dei defunti e dando una macabra visione. Per ora non si pensa sezione 8 219 a sistemarli, pure trovandosi dei soldati nostri in avamposto di vedetta. /.../ 27 – Alle ore sette del mattino parto dalla trincea e vado a raggiungere il Battaglione a Valerisce. 220 agosto 1916 – aprile 1917 Pasquale Attilio Gagliani Anno 1915 = 1916 = 1917. Campagna austro-italiana. Impressioni e ricordi. Pieve S. Stefano: Fondazione Archivio Diaristico Nazionale.13 24 luglio. Giungiamo a Codroipo all'1 dopo mezzanotte, con circa 3ore di ritardo /.../ La mattina del 25 era sata destinata per l’avanzata della fanteria: tutta la notte dal 24 al 25 e le prime ore del 25 il fuoco d'artiglieria era stato intensificato. Dall'alto del campanile della vicina chiesa di Grauglio si scorgeva tutta la linea nemica /…/ Da oltre due giorni si combatte a 12 chilometri da qui per il possesso dell'altura di San Michele che occorre occupare per impadronirsi della città di Gorizia /…/ 25 luglio. Dall'alba del 25 il fuoco, specie contro le estreme pendici sud del monte diventò di una tale intensità che in certi momenti non si scorgeva più il terreno letteralmente coperto dagli scoppi degli shrapnels e sconvolto dalle granate di piccolo e medio calibro. Alle 8 il fuoco è diminuito d'intensità e si e andato gradatamente spostando verso il vertice della collina: segno evidente che le nostre fanterie, approfittando delle perdite inflitte al nemico e dello sbandamento originato in lui dall'intenso fuoco procedevano – chi sa con quali perdite – all’occupazione successiva delle varie linee di trincee. A mezzogiorno è giunta la notizia che la collina era stata quasi tutta occupata (meno la quota più alta, più vicina alla città 13 La versione digitale: https://espresso.repubblica.it/ grandeguerra/index.php? page=autore&id=118 sezione 9 221 di Gorizia e fortemente battuta dal fuoco d'artiglieria avversaria) e che il nemico si era ritirato con perdite enormi, lasciando nelle nostre mani ingente quantità di materiale e 1.500 prigionieri. Ho avuto così l'occasione fortunata di essere spettatore di una grande battaglia della quale m'era dato solo di osservare gli effetti del fuoco d'artiglieria e di indurre da essi lo svolgimento dell'azione. È una cosa meravigliosa ed impressionante: che cosa dev’essere a trovarvisi in di mezzo? e dire che da un'momento all'altro può giungerci l'ordine di accorrere con le nostre artiglierie a rinforzare la linea di fuoco. La mia prima entrata in azione rappresenterà uno dei momenti capitali della mia vita. 26 luglio. Si è saputo che nel pomeriggio di ieri si sono fatti altri 600 prigionieri. Intanto stamani transitano da qui i 1.500 fatti ieri, riuniti in drappelli e scortati da uomini di cavalleria nostra a cavallo. Sono accorso a vederli: che spettacolo compassionevole. Uomini di varia età, alcuni non più giovani, la maggior parte però nel pieno vigore della vita: avevano lo sguardo smorto, il viso stanco, vestiti bene – tenuta di panno grigio-azzurrina, ben calzati – ma sporchi di terra delle trincee e di sudore nauseante. Ogni drappello era preceduto dagli ufficiali – 76 in tutto – vestiti in modo identico ai soldati, con piccoli distintivi appena visibili. Si capiva che erano ufficiali dalla maggiore accuratezza della persona e dal loro aspetto più fino: alcuni camminavano a testa nuda, con lo sguardo fiero: volevano forse parere disinvolti, ma chi sa come ne doveva soffrire il loro orgoglio! Esser fatti prigionieri dagli Italiani, dai mandolinisti! /.../ 222 luglio – agosto 1916 Ho pensato ed ho sentito sinceramente che preferisco mille volte di tornare a casa ferito, anche con qualche arto di meno, anziché di andare prigioniero in Austria. Che Iddio mi tenga lontano da simile jattura! /.../ 28 luglio. Alle ore 13,30 sono stato svegliato, mentre dormivo dopo colazione, essendo giunto al Reggimento l'ordine di partenza verso il sito ove si combatteva /.../ Entravo così nel vero e proprio campo della lotta, ove fioccavano i colpi d’artiglieria nemica. Fu il mio battesimo di fuoco. Ed ebbi per la prima volta la triste, orribile visione di un campo di battaglia. Tutt’intorno erano disseminati i segni di una lotta terribile: case sfondate da formidabili colpi di cannone, muri sbrecciati, alberi spezzati, solchi, buche profonde sul terreno, trincee abbandonate, robusti reticolati di filo di ferro in alcuni tratti ancora in piedi; e poi da per tutto indumenti militari gettati alla rinfusa, armi spezzate, mucchi di cartucce: tracce di sangue, brandelli umani, bombe appena ricoperte da terra e cadaveri insepolti. Ricorderò sempre l’atteggiamento tragicamente ridicolo di un cadavere austriaco trovato lungo il percorso per recarmi ad una posizione d’artiglieria. Una mano nera sollevata da terra sembrava desse un macabro saluto ai passanti! 1° al 4 agosto. Nessuna novità: si è sempre allo stesso posto, sparando da mattina a sera su bersagli assai poco visibili o non visibili affatto: grande spreco di munizioni con forse principale risultato quello di rialzare il morale della nostra fanteria. Data però la grande vicinanza fra la prima linea di trincea nemica con la nostra prima sezione 9 223 linea, avviene speso che nel battere la trincea nemica qualche colpo corto va addosso ai nostri: è un inconveniente assai spiacevole certamente, ma spesso impossibile ad evitarsi, a meno di rinun-ciare a battere le trincee nemiche. Deposizioni di disertori nemici confermano sempre i terribili effetti materiali e morali prodotti sul nemico dalle nostre artiglierie. 17 agosto. La mattina si è ripreso il fuoco d'artiglieria che gradatamente è stato trasportato sulla ridotta. Fin dai primi colpi caduti lassù si sono visti sbucare gli austriaci: ve ne erano almeno un centinaio: ma di essi ben pochi sono riusciti a porsi in salvo in un valloncello retrostante. L'impressione che si provava ad assistere quella caccia umana era un misto di soddisfazione e di pietà! Era assai bello quel tiro d'artiglieria, preciso e terribile: lo scoppio di proietti era straordinario: l'aria ne tremava e l'impressione morale che doveva produrre sui nemici, che ancora stavano nella trincea non doveva essere inferiore agli effetti micidiali. A vederli uscire, saltare i muri, scavalcare le rocce, scappare in tutte le direzioni, si provava un piacere grandissimo per il bel risultato del tiro. Ma nello stesso tempo non potevo fare a meno di provare una immensa pietà per quei disgraziati! Dal mio osservatorio ne vidi scappare alcuni sul dinanzi della trincea, verso i nostri. Si erano ficcati in una buca e la sera si vennero ad arrendere a noi: erano in 6 fra i quali 2 triestini che parlavano benissimo l’italiano: raccontarono che il nostro tiro li aveva fatti impazzire dal terrore: sul loro viso però si vedeva la gioia di essere finalmente usciti fuori dal pericolo di doversi trovare nuovamente sotto il tiro dei nostri cannoni. 224 luglio – agosto 1916 Quando il tiro della nostra artiglieria ci provò che la trincea era finalmente vuota, la nostra fanteria avanzò per distruggere il reticolato e occupare la trincea. A sera questa era già quasi tutta in nostro potere. Finalmente ci siamo levati questo ostacolo! 18–24 agosto. La famosa trincea che sembrava tutta occupata dai nostri, è ancora in massima parte in mano del nemico che nella notte l’ha quasi tutta rioccupata. È una cosa esasperante! Quel benedetto 124° fanteria non ha in sé la fibra necessaria per avanzare all’assalto di una trincea né per trattenervisi, una volta riuscito ad occuparla! In tutti questi giorni si sono fatti nuovi tentativi, che hanno fruttato ben poco. Pretendono troppo dall’artiglieria! sezione 9 225 Giuseppe Pozzobon III Sul Carso: monte S.Michele, monte Cappuccio, monte S Martino Quindi venne l’ordine di rinforzare i Reggimenti 67° e 68°, che si trovavano nel monte S. Michele, e mi presero noi che eravamo due centurie, e mi mandò a Romans, li fui assegnato alla 9° Compagnia del 67o Regg.o fanteria, e il giorno appresso mi mando in trincea Monte Capuccio. Dunque il 27 Dicembre, alla sera mi fece fare zaino in spalla, passati l’Isonzo e avanti fino a Sdraussina, li mi hanno messo sulle barracche sotto il su detto Monte, poi il 28 a sera su per il Monte fino ai ricoveri di rincalzo, mi parevano tante stalle da maiali, li abbiamo dovuto stare tre giorni, di giorno nascosti perché altrimenti il nemico mi vedeva, e di notte su e giù, a fare la corvè. Dunque una sera appena l’imbrunire mi hanno fatto andare a Gradisca per prendere delle bombe, ogni due uomini portarne una su per il monte S. Martino del Carso, pesavano soltanto 60 chili ciascuna, dunque io ne presi una, e con un altro mio compagno Toscanino preso un bastone, e una davanti all'altro su per il Monte, e fino proprio alla cima. La notte era scura, la strada piena di sassi, dunque siamo arrivati su (dopo essere cascati qualche 10 volte) esauriti di forze, tutti sudati, e tremanti pure dalla paura del pericolo, che da tutte le parti le pallottole fischiavano. Ritornati giù del Monte S. Martino, e su per il monte Capuccio, sul nostro posto, abbiamo impegnato tutta la notte; quando fui arrivato non ne poteva più, grasso come ero, e far di quelle passeggiate, si può immaginare cosa è ... 226 gennaio 1916 In trincea Il primo dell’anno 1916 abbiamo dovuto andare in trincea, alla distanza del nemico, circa 25 metri, si arrivava con le bombe a mano. Pioveva, e ho dovuto mettermi in un bucco che non era sufficiente neppure per un piccolo, ma con la pazienza è venuto giorno, e poi mi sono accomodato alla meglio, e la abbiamo passato otto giorni, veniva sempre qualche bomba, e grande fucileria di notte, e di giorno l’artiglieria non cessava mai, ma insomma non abbiamo avuto tanti mallani. /.../ Trasportare bombe sotto il fuoco del nemico Adesso quello che si aspetta è il cambio, ma chi sa quando verrà! Intanto l’artiglieria nemica batte senza cessare un momento, non posso tollerarla, se fosse soltanto per il fante, la guerra cambierebbe aspetto. Venne la notte che di nuovo dormii bene, la mattina dell'undici ho veduto tre sott'Ufficiali Austriaci fatti da noi prigionieri, interrogati dal nostro comando si sono dichiarati stanchi di questa guerra, e specialmente sul nostro fronte. Il giorno 12 orribili fatiche da muli, straportando bombe sotto un infernale fuoco nemico, con di più sdrussolai per terra, rompen-domi il ginocchio sinistro in un sasso. /…/ Giorno 13 passai il giorno abbastanza calmo, pioggia tutto il giorno come il solito, alla sera ora del rancio la nostra artiglieria comincia il fuoco infernale, povera fanteria non mi lasciano stare neppure a mangiare quel po di porcheria, appena cessato il fuoco sezione 9 227 via in trincea era le undici di notte, e via su per i camminamenti curvi per non essere colpiti dalle pallotole che fischiano da tutte le parti, si sembra tanti delinquenti, si va uno davanti all’altro, poi quando si arriva al posto si va dentro sul bucco come l’orso, in mezzo al fango e sotto e sotto la pioggia, e peggio ancora arriva bombe e granate. Il giorno 14 siamo in trincea l’artiglieria nemica comincia tirrarmi dalle ore otto del mattino e continua tutto il giorno, un po bombe poi granate e poi Sdrapel, cera un panico fra di noi non si sapeva più d’andove venivano, e andove poter salvarsi, ma è innutile cercare il posto buono, se viene bisogna prenderla. Questa è una, e il rancio andove è? che da 36 ore non si mangia, ma intanto l’ordine è di andare di vedetta, e per mangiare un’altra volta. Finalmente arriva un po di roba tanto per cavarsela, ed è tutto freddo e noi tutti gellati che si avrebbe bisogno di roba calda, invece la roba calda me la getta i Tonietti, bisogna provare per credere, poi per consolarci ogni tanto portano giù morti o feriti. Povera gioventù quanti soccombono per capricci degli altri. Il giorno 15 sempre di vedetta alla mitraliatrice, pioggia continua e cannonate, Dio ha voluto che nessuno di queste mi ha colpito che brutta posizione! Se si salva la pelle è un miracolo, siamo presi di fronte, di fianco e di dietro, senza avere la soddisfazione di poter diffendersi o ripararsi, questa è la capacità dei nostri comandanti. 228 gennaio 1916 Piero Leoni Sei mesi sul Carso (Giornale di Trincea) – Milano: Soc. An. Arti Grafiche G. Callegari 1925. Borgo Pisa, 3–5 maggio More solito, il battaglione che è qui in queste misere baracche, le quali prendono nome da la nostra brigata, ha il compito del rifornimento a gli altri due in linea: l’uno nel settore di destra (Bosco Cappuccio), l’altro nel settore di sinistra (San Martino). Come sono massacranti per i soldati queste corvées fatte di notte, per i camminamenti stretti e malagevoli, pieni di buche, di sassi, di intoppi! Si porta di tutto: putrelle, travi, rotoli di filo spinato, lamiere, sacchetti a terra vuoti, pacchi di cartucce, bombe, razzi e bidoni d’acqua, e le casse di cottura col brodo e il caffè caldo, finchè il buio della notte lo permette e spunta l'alba a ritornare tutto nell'immobilità. In primissima linea (Lunetta), 6 maggio (ore 19) Come si sapeva, c’è stato un piccolo cambiamento. Il mio battaglione (quello di destra dei due in linea) occupa un tratto di fronte del turno precedente, più un tratto verso sinistra: ci siamo cioè distesi un pochino. Nel tratto occupato da la mia compagnia sono così comprese due gallerie che, partendo da la nostra linea, vanno – in direzione normale – verso la linea nemica. Vi lavora una squadra del genio. Si tratta di giungere con una linea retta sotto la linea nemica, per poi sezione 9 229 far brillare due potenti mine e far così saltare un segmento delle posizioni antistanti. 7 maggio Che vita orribile. A tutti gli altri pericoli si aggiunge ora anche quello di potere di minuto in minuto saltare in aria come fuscelli. Infatti anche il nemico viene – sotterra – verso di noi con contro gallerie. Dalle nostre gallerie lo si sente distintamente lavorare senza posa: colpi sordi di piccone e di mazza nelle viscere della terra, che – a stare nel punto più avanzato dei lavori di scavo – sembrano a volte a pochi metri. E’ una gara insomma, nella quale chi arriverà primo farà saltare in aria l’altro. Abbiamo tuttavia speranza di giungere primi; noi infatti usiamo le perforatrici, mentre essi lavorano soltanto di mazza. 8 maggio Maledizione! Stanotte gli austriaci hanno fatto saltare a San Martino (elemento quadrangolare) di fronte alla chiesa, o meglio a quello che era la chiesa, una galleria, provocando, pare, danni gravi a la nostra linea e ferendo e uccidendo una trentina di uomini nostri. I più son rimasti schiacciati e sepolti nella galleria entro cui lavoravano col genio. Impressionato da la notizia e ancor più dai rumori sotterranei sempre più vicini, il Comando ha deciso di far saltare una – la più avanzata nei lavori – delle due gallerie che son sul fronte della mia compagnia, e precisamente la numero 5. 230 maggio 1916 Sant’Andrea / Štandrež odsek 9 231 Tutti sotto i ricoveri con l’orecchio teso e l’animo sospeso. Un tonfo sordo, un boato... la mina è saltata. Tre minuti dopo (bisogna riconoscere che il nemico è stato di una prontezza quasi inconce-pibile) su di noi una folata di granate. Il nemico infatti teme che al brillamento della mina segua, da parte nostra, un’irruzione; ma non ne abbiamo punto l’ordine. Si è dato corso al brillamento unicamente, come ho detto, nel dubbio di essere prevenuti da loro. Passato il breve intensissimo concentramento di fuoco, vado all’imbocco della galleria per vedere gli effetti dello scoppio. L’ingresso è ostruito da un disordine di travi, impalcature semi sfasciate, sacchetti rovesciati. Alla superficie del terreno, a circa mezza strada fra i nostri e i loro reticolati, una spaccatura di qualche metro; nulla più. Risultato meschino, del resto prevedibile. 9 maggio Altro spettacolo magnifico. Il 10° fanteria (brigata Regina) che tro-vasi a la nostra destra, ha fatto a sua volta saltare, verso sera, una mina. Noi di qui abbiamo veduto distintamente il cono di eruzione. Visione fantastica di gigantesco, improvviso schianto caotico schizzato a raggera (grossi blocchi di pietra, lamiere, materiale di blindamento fino a cento – centocinquanta metri di altezza); poi enorme colonna di fumo denso nero, stagnante su lo sfondo terso dell’atmosfera, già tutta intrisa e intenerita di tramonto. E pare fosse “matura” davvero la mina: dove essere scoppiata proprio sotto la linea nemica. Infatti parecchie ore dopo apprendiamo che un buon tratto di linea nemica, di fronte al 10° fanteria, è completamente distrutta. 232 maggio 1916 10 maggio, ore 3 del mattino Sporgendomi fra i sacchetti di un camminamento, assisto a un bombardamento superbo delle linee nemiche che stanno di fro te al tratto nostro sconvolto ieri l’altro da la mina fatta brillare da gli austriaci all’elemento quadrangolare. Le trincee austriache volano letteralmente in pezzi tra fiamme, rombi, fumo, sibili, scoppi. Un inferno anche veduto di qui. Peggio dello scoppio della vostra mina questo! sezione 9 233 Dante Chiasserini Prima la Patria poi la Morte, diario inedito, Comune di Pieve S. Stefano: Fondazione Archivio Diaristico Nazionale. Martedi 23 Le nottate diventano sempre più turbolente. Anche questa è piena d dolorosi episodi. Prima della mezzanotte la violenta fucileria che è solita tutte le notti nel S.Martino e nel “cappuccio” si è tra-sportata fino al nostro settore. Questa però, accortasi che non c'era nessun pericolo è durata poco. Intanto continua il reciproco lancio di bombe. Una di queste è scoppiata a qualche metro dal nostro tenente e lo si deve a un vero miracolo se non lo à mandato all 'altro mondo. Le artiglierie nemiche, a intervalli, hanno bersagliato i nostri camminamenti e le nostre seconde linee. Una palla di fucile à colpito alla testa il capitano dell'11ma compagnia Buono (Torin) e dopo poche ore passava all’altra vita. Verso le tre il nemico à fatto “brillare” una mina nella famosa “lunetta” non la convinzione di nuocere alla nostra linea; invece, fatalità delle cose, à fatto saltare i suoi reticolati e l'escavazione è stata occupata dai nostri che si son messi subito, sotto il fuoco e la rabbia dell’avversario, a fortificarli. Contemporaneamente al “brillamento” della mina il nemico à lanciato numerosi gas asfissianti i quali hanno intontito diversi soldati che nòn sono stati solleciti a far uso dell’apposita maschera. Portati prontamente al vicino posto di medicazione, dopo non poco tempo però, hanno riconquistato i sensi. Si “dice” che tra qualche giorno si faranno “brillare” le nostre “con-tromine” la profondità delle quali oltrepassa le trincee nemiche. 234 maggio 1916 Appena giorno si è ristabilita la relativa calma. A tarda ora si ha il cambio. E da rilevare, per capirci su questo cambio, che questa volta si è campiato sistema: si e stabilito che anche le sezioni mitragliatrici avessero il turno tra la prima e la seconda linea come lo hanno i battaglioni. Ogni sezione à diviso i suoi uomini dei quali metå stanno in, prima linea e metà in seconda. Questo provvedimento benchè come è noto, il pericolo della seconda linea non è minore – è giusto, perche fare venti o venticinque giorni in prima linea, come abbiamo sempre fattonoi, dove non si può nè riposare nè lavarsi un poʼ, son troppo lunghi. Di fatti ogni volta che si scendera dalla trincea eravamo irriconoscibili e sfiniti come uomini che avessimo lavorato in miniera. Invece cosi ci è possibile riposare un poʼ alla meglio e tenerci più puliti. Le trincee di seconda linea sono a poche centinaia di metri dalla prima e sono sparse quà e là per il monte ove si crede siano meno battute dalle artiglierie nemiche. Ora però, veduto che questa invulnerabilitå non esiste perche qua-ando incomincia un bombardamento un poʼ violento fa strage fra i soldati, si stanno costruendo numerose gallerie per mettersi al sicuro in caso di bisogno. La costruzione di queste gallerie in questo monte pieno di rocce e di sassi durissimi, è qualcosa di fantastico e potremmo quasi dire di soprumano. Si conducono da chilometri di lontananza grossi tubi di aria compressa ai quali si applicano speciali apparecchi che forano la montagna. Dove non arrivano questi si aggiunge il piccone e la dinamite sezione 9 235 e in pochi giorni si fanno buchi profondi dove possono trovare ricovero centinaia di individui. 236 maggio 1916 Josip Stanković Diario inedito, archivio del Kobariški muzej. Josip Stanković era sergente nel 96° Reggimento di fanteria Karlovac. Dopo un anno di esperienza sui campi di battaglia, nel maggio del 1917 la sua unità venne mandata sul Fronte dell’Isonzo nella Valle del Vipava. 14/V Tedio, tormento, noia, indifferenza, fiacca. È così che passano i giorni! Da ovest, invece, si sente un gran tambureggiamento dei cannoni. Gli italiani stanno martellando tremendamente. È iniziata una terribile offensiva italiana che fa tremare anche la terra. 19/V Siamo ancora a Vitovlje. I nostri carriaggi sono a Črniče. Il reggimento è in postazione sul monte Sv. Mark (M. San Marco). 28/V Nella notte c’è stato un terribile fuoco di artiglieria, tanto che anche i vecchi combattenti si sono alzati dalle tende per vedere bruciare tutto il fronte, dal mare fino a Tolmin. Io ho comunque dormito bene nella mia “Ankica” [Nota – così chiamava la sua baracca], senza contare il freddo. Ora sono le 9 e ¾ e le flotte aeree stanno combattendo sopra le nostre teste. 1/VI Al mattino un po’ di esercizio lanciando delle bombe a mano. Alle 10 c’è stata una feroce battaglia dei nostri piloti e di quelli italiani. Sparavano shrapnel, fischiava tutto. Uno dei nostri è stato abbattuto. Nel pomeriggio abbiamo pulito il campo e abbiamo ricevuto biancheria pulita. Per un po’ di tempo ci siamo sbarazzati sezione 9 237 dei pidocchi. È una vera benedizione indossare di nuovo biancheria pulita. 2/VI Di fronte a noi, a 10 km di distanza, dietro il monte Sv. Mark, si trova la città, la bellissima e magica città di Gorizia. Ti viene voglia di piangere nel vedere i mortai che la martellano. La splendida valle del Vipava, l’Isonzo, i campi fertili, i bei frutteti e vigneti curati, colmi di fichi e ortaggi del sud, anche questo è tutto distrutto, frantumato e ridotto in polvere. Che ardore questo sole benedetto! 3/6 Terribili combattimenti dei piloti. Un italiano abbattuto. Gli shrapnel hanno oscurato il sole [Nota – nuvole di fumo innalzatesi a seguito delle esplosioni di granate-shrapnel della difesa antiae-rea]. È domenica, ma non te ne accorgi nemmeno. Cibo cattivo da sopravvivere a malapena. L’ex mensa non c’è più! La notte scorsa i nostri hanno sferrato un attacco alle porte di Gorizia, respingendo gli italiani 300 passi indietro. Un fuoco tambureggiante forte ma breve e urrà! Tutto finito. 4/VI Stanno ancora martellando terribilmente. Un bel sole mat-tutino splende sulle trincee in fumo. È facile vedere dove cade ogni granata. Gli ortodossi se ne sono andati, probabilmente hanno qualche loro santo. Quei pochi cattolici rimasti sparano con i fucili. Coloro che sono al fronte per più di sei mesi hanno diritto al congedo. Ce ne sono pochi. Digo [Nota – a volte chiamava così gli italiani] li ha fucilati. 238 maggio – agosto 1917 5/VI Giornata splendida. Il sole è così forte che si riesce a malapena a stare all’aperto. Sto prendendo il sole. Inoltre, ho inventato un nuovo metodo per uccidere i pidocchi. Si posiziona il capo pieno di pidocchi sul suolo dove il sole brucia. Dopo cinque minuti non rimane più neanche un pidocchio vivo. “Entlausungsbad” [Nota – un bagno ovvero una procedura con cui nell’esercito si distrugge-va i pidocchi]. Grazie a Dio mi è rimasto un po’ di buon senso in questa guerra. 9/VI Primo giorno in postazione. Ieri notte la strada per raggiungere le postazioni è stata terribile. Pioveva, girovagavo per i boschi, sentieri spaventosi e tortuosi, un temporale, e gli italiani che sparavano. Siamo comunque riusciti ad arrivare. Abbiamo sostituito il 23° Reggimento dalmata. Un tempo le postazioni erano ottime, adesso, invece, sono pessime, in alcuni punti distrutte, fortemente esposte sul lato destro, perché gli italiani si trovano a quota 171, alla nostra destra [Nota – sopra Šempeter pri Gorici, sulla strada che porta sul monte Sv. Mark]. Nella sezione del mio plotone ci sono solo due guardie durante il giorno, gli altri sono nella caverna che si trova subito sull’ala sinistra. Due ingressi, uno posto davanti alla trincea, l’altro nel fossato di collegamento verso i nostri vicini, attualmente il plotone del tenente Güntner. In qualità di comandante del plotone, la mia postazione è nella caverna. È una caverna relativamente solida, ma tanto stretta per l’intero plotone e per la mitragliatrice situata direttamente al suo ingresso. Sono arrivato, ma solo ora vedo che sono tutto infangato, sporco fino alla cintura. sezione 9 239 La vista sui dintorni della caverna è triste. Un tempo qui c’erano boschetti, giardini e splendidi vigneti, ora, invece, ci sono ceppi dappertutto, tutto sterminato, tutto conficcato nel terreno, quasi non si vede nemmeno una foglia verde. Gli italiani si trovano un po’ più giù rispetto a noi, Gorizia si estende alle loro spalle. Una città bellissima in un ambiente mite e fertile, che ora fa venire da piangere. Con un bel panorama proprio da dietro le mie posizioni. Il fronte non è così tranquillo come lo era qualche giorno fa. I nostri sparano e gli italiani rispondono, ma io sono relativamente al sicuro nella caverna. Sembra che i nostri siano in procinto di fare qualcosa tra pochi giorni. Ho ispezionato tutte le posizioni delle truppe. Gli italiani ci minacciano alla grande dal fianco destro. Se si muovono solo un po’ in quota, per il mio plotone sarà la fine. Nessuno potrà scappare, nemmeno trasformandosi in un topo. E anche il mezzogiorno è passato, mi sono fatto preparare un caffè e mi sono rifocillato un po’. È proprio vero che l’uomo cambia completamente quando entra in trincea. Rimane senza emozioni, senza pensieri, senza particolari paure. Diventa un animale, una bestia che obbedisce in maniera meccanica ai comandi. L’unica cosa che gli provoca davvero una sorta di piacere è il semplice fatto di distruggere il nemico di fronte a sé, di ferirlo, di vendicarsi di lui, di ucciderlo e, in fin dei conti, di preservare sé stesso a tutti i costi. Quindi me ne sto qui, nella caverna, a comandare una grande sezione e una caverna. Anche due mitragliatrici sono subordinate a me. Il mio compito è dare ordini solo ai comandanti delle unità, eppure c’è lo stesso qualcosa che mi attira fuori per vedere da quale 240 maggio – agosto 1917 punto potrei fare più male a questo furfante e per capire dove si trova il mio punto più debole per poterlo consolidare. È proprio vero che l’uomo del XX secolo è una bestia, una terribile bestia che provoca distruzione e che deve distruggere le persone con cui invece potrebbe essere, in qualche modo commesso, così come si conviene. Ma sia noi che loro abbiamo lo stesso compito. 11/VI Siamo arrivati alle 4 e ½ del mattino. La nostra truppa è la riserva del battaglione. Si trova nella caverna “L. 17”. Molto grande, con tre ingressi o, se volete, uscite. Di giorno dobbiamo dormire, di notte, invece, dobbiamo portare alle truppe in trincea da mangiare, e poi una varietà di materiali, munizioni, filo spinato, assi per le caverne e molto altro. La nostra caverna si trova dalla parte posteriore del monte, di fronte al quale ci sono le trincee della 9a truppa. Dietro il monte c’è una bella vallata [Nota – Rožna Dolina/Valdirose/Rosenthal], cosparsa di bellissime ville goriziane. Ma come appare tutto questo adesso? Dio abbia pietà di noi! 20/VI È stato solo la sera che ho sentito di aver riportato a casa la pelle. Dalle 11 alle 20, si sono alternati sopra le nostre teste tutti i tipi di orrori. Le trincee più orribili sul fronte goriziano, ¤ 171, sono finalmente toccate anche alla 12a compagnia. Trincee sopra la quota, senza dubbio modeste, italiani lontani 10 passi. Colpiscono shrapnel, bombe a mano, tromboncini, bombe, mine e ogni sorta di diavolerie. Quando sei dentro e ti muovi, ti uccidono. Nelle immediate vicinanze si trova la caverna “L. 15”, l’unica salvezza. L’intera caverna ha cinque ingressi, ma due di questi sono in mani sezione 9 241 italiane. Metà della caverna è nostra, metà italiana, divisa da sacchi di sabbia con 5 guardie dalla nostra parte. È terribile starci dentro, si soffoca. Puzza, si caga e si piscia dentro perché fuori si continua a sparare. È orribile, non lo puoi sopportare, eppure devi farlo, perché fuori ti uccidono. Il rancio vero e proprio non poteva rag-giungerci, quindi mangiavamo sempre solo pesce puzzolente in scatola e pane. Orrori inimmaginabili, ma è comunque passato. 27/VI Battiamo un po’ la fiacca. La notte lavoriamo un po’ nei vari fossati di collegamento, di giorno, invece, riposiamo nelle caverne del comando del gruppo tattico. C’è abbastanza tempo per riposare ma non puoi mai riposarti davvero per via dei pidocchi così dan-natamente fastidiosi. Non cambiamo indumenti da tre settimane. Mordono come diavoli! Abbiamo un nuovo comandante di compagnia, il tenente Šuljak. L’uomo è del Landwehr, un croato del 27° Reggimento di fanteria della milizia teritoriale, un brav’uomo. 29/VI Il caldo è terribile e l’acqua scarseggia, e quella che c’è puzza. Nel pomeriggio c’è un po’ di brezza, quel tanto che basta per far riprendere fiato alla natura. 30/VI Cambio. Stanotte lasciamo il comando del gruppo per andare a Vitovlje. 4/7 Tutti gli ufficiali e i volontari del battaglione vanno sul campo di addestramento del reggimento per un addestramento generale. Bella giornata. Piccole nuvole alleviano il caldo torrido. Dal campo di addestramento c’è una bella vista sul monte Sv. Mark 242 maggio – agosto 1917 fino a Gorizia. Bellezza sì, ma vuota e distrutta. Come potrebbe non esserlo? 5/7 È arrivata la banda. Alle sedici suona tutto. Pensavo di trovarmi da qualche parte a Karlovac. 12/7 In trincea da diversi giorni. È dura, piove e i fossi sono pieni d’acqua. Un lavoro duro, mai pace. Il mio plotone è di riserva, il che è anche peggio per via del lavoro. È orribile. In tutto questo mi sento anche un po’ ammalato. Ho dolore al petto. Tossisco e starnutisco. Temo il peggio – la tubercolosi. È disgustoso. È insopportabile. Questo pazzo sta sparando all’ingresso. Oh, Dio, Dio, poni fine a tutto questo una volta per tutte! Fuori sta piovendo, gli shrapnel stanno martellando, le mine e le granate stanno scuotendo il monte San Marco, e io sono seduto nella caverna “Europlan Kaverne” e sto morendo di fame. Sto morendo di fame nel vero senso della parola. Non provavo queste sensazioni da molto tempo. E come potrebbe essere altrimenti? Il rancio sta peggiorando di giorno in giorno diventando sempre più scarso. Quel po’ d’acqua che ci danno una volta ogni ventiquattro ore non basterebbe nemmeno per il bestiame. Sento una fame totale. Sono stato travolto da tristi pensieri al ricordo di quei giorni meravigliosi tra i miei, nell’abbondanza di tutto. 26/7 Il terzo anniversario della guerra! Rispetto e gloria al S. Giovanni! Siamo tornati dalle postazioni cinque giorni fa. Ci troviamo a Vitovlje. Ogni giorno faccio il bagno nel torrente e prendo un po’ di sole. sezione 9 243 6 e ½ di sera. Sta piovendo a dirotto. Non ho mai visto un acquaz-zone simile. È proprio piacevole guardarlo dalla finestra. Guai a quelli nelle trincee. I forti torrenti trascinano persino pietre get-tandole sulla strada. La pioggia peggiore che abbia mai visto. Si sente il fuoco dei cannoni. È una consuetudine italiana, quando piove, sparano ancora più forte. Che pioggia. Brrr. È iniziato pure a grandinare. 4/8 Sta piovendo di nuovo in maniera micidiale. Fango e grossi problemi in trincea. Come faremo a uscire dalle posizioni. Qua e là qualche colpo di cannone. 17/8 Messa solenne. Discorsi! Premio speciale. Rancio migliore. ½ lt. di vino, tutto in onore del compleanno dell’imperatore. 18/8 La mattina presto sono stato svegliato da un terribile tambureggiamento sul fronte. L’undicesima dell’Isonzo è iniziata. 19/8 Fuoco terribile. Due volte più forte di ieri. Il 4° e il 2° battaglione sono andati nelle postazioni. Il 3° è ancora a Vitovlje. Gli italiani hanno preso d’assalto il monte Sv. Mark, ma sono sconfitti per via delle pesanti perdite. Molti sono stati catturati. 21/8 L’offensiva è ancora in pieno svolgimento. Si vive in maniera spensierata. 22/8 A poco a poco, l’entusiasmo degli italiani sta svanendo. 244 maggio – agosto 1917 23/8 Si va nelle postazioni, o nelle baracche nel bosco come brigata di riserva. Lasciamo la deserta Vitovlje. Tra pochi giorni lasceremo il fronte goriziano, forse andremo in Tirolo. Che Dio ce la mandi buona! sezione 9 245 Artiglieri britannici 246 nov no ember – december 1916, maj 191 v 7 ember – december 1916, maj 191 Hugh Dalton Con i cannoni inglesi. In: Isonzo, Caporetto e la ritirata. Bassano del Grappa : Collezione Princeton, 1996. Hugh Dalton era tenente dell’artiglieria reale della guarnigione, la Royal Garrison Artillery. All’inizio del luglio 1917, la sua unità fu inviata come rinforzo sul campo di battaglia italiano. Le postazioni della mia Batteria erano appena fuori del villaggio di Pec, abitato prima della guerra principalmente da contadini sloveni, ora scomparsi. Il villaggio era stato molto bombardato, prima dai cannoni italiani poi dagli austriaci, e non c’era casa che non fosse danneggiata, sebbene parecchie fossero state rabberciate e usate come accantonamenti e cucine per le truppe inglesi. Una delle nostre Batterie aveva i cannoni proprio in mezzo alle rovine del villaggio. Quelli della mia erano invece appostati lungo una stradetta incassata che portava al Vipacco. I cannoni erano nascosti in fitti boschetti di acacie, i cui rami erano stati tagliati qua e là entro l’arco di fuoco. Dubito che altre Batterie inglesi, anche in altri fronti, abbiano occupato una posizione do più grande bellezza naturale. /…/ Il mattino seguente mi svegliai al fragore della cascata del Vipacco, e quel giorno ebbi la mia prima impressione di quella parte del fronte italiano: la Batteria stava facendo tiri di aggiustamento. Nel pomeriggio andai col sottotenente a un Posto di Osservazione in cima al Nad Logem per controllare e correggere i tiri. Fu una lunga arrampicata su per l’alveo asciutto di un torrente, e quindi attraverso vecchie trincee austriache, ingegnosamente ricavate con esplosivo nella roccia e catturate dagli italiani l’anno prima. Il Nad sezione 9 247 Logem è parte della dorsale nord del Carso. Dal nostro Osservatorio si estendeva un grandioso panorama verso nord, est, ovest, con in primo piano il sinuoso Vipacco bordato di alberi. Mi fissai bene in mente i vari dettagli del paesaggio. Il gioco di luci e ombre in lontananza era meraviglioso. Il nostro obiettivo quel pomeriggio era un punto della prima linea austriaca proprio sotto di noi, ufficialmente noto come Quota 126. Alcuni giorni prima gli austriaci ci avevano fatto pervenire un ironico messaggio radio: “Abbiamo evacuato le Quote 94 e 126 per una settimana, per permettere alle Batterie inglesi di aggiustare i tiri.” Evidentemente erano al corrente di dove ci trovavamo e dei nostri piani! Al ritorno ci fermammo ai piedi di una collina su cui c’erano i ruderi del monastero bombardato di San Grado di Merna, una desolazione di rovine bianche sullo sfondo più scuro del Nad Logem. Qui si stava allestendo una nostra nuova postazione a soli trecento metri dalla prima linea austriaca, ma ottimamente protetta dalla configurazione del terreno. Vi stava lavorando un trapano meccanico italiano azionato da aria compressa, che ricavava buchi nella roccia per infilarvi le cartucce di dinamite. Con un’esplosione dopo l’altra venivano così tratte dalla viva roccia le piattaforme per i cannoni, le santabarbare e i ricoveri. /…/ La maggior parte dei nostri tiri diurni prestabiliti venivano seguiti da un Osservatorio situato in una casa rovinata di Sant’Andrea, sulla piana di Gorizia. Di qui si godeva una bella vista delle pendici sud del Tamburo e dell’intero bordo terminale del Carso, da Dosso Faiti allo Stoll. Su quelle colline e con quell’aria chiara, il compito di osservazione era stupendamente facile. Che universo di diffe-248 luglio – agosto 1917 renza tra questo paese, col suo meraviglioso sole senza nubi, e le lugubri terre piatte del Fronte Occidentale! “Questo è il paradiso degli artiglieri!” disse uno dei nostri uomini. Il 26 luglio la mia Batteria si mosse verso la sua nuova destinazione ai bordi del Carso. I cannoni furono trainati da trattori italiani. Tirar fuori i cannoni dalle loro postazioni fu un problema, perché c’era poco spazio per manovrare; e fu un problema ancor più grosso farli arrivare alle nuove postazioni, dopo averli staccati dai trattori e averli fatti scendere giù per un pendio con due curve ad angolo retto. Essendo troppo vicini al fronte, dovemmo fare tutto al buio, in una notte ancora più oscura del solito. Per ore, distaccamenti di artiglieri furono al lavoro con corde, mollando, guidando, tirando, e il grido monotono che ogni artigliere conosce bene – “Alle corde! Insieme! A tutta forza!” /…/ Questa nuova postazione era distante dagli austriaci solo trecento metri, con in mezzo il fiume Vipacco e una collina, uno sperone del monte su cui c’era il monastero bombardato di San Grado di Merna. Qui le trincee scorrevano su entrambe le rive del Vipacco. In questo posto, prima di noi, c’era una Batteria italiana di bombarde, ch’era stata spazzata via dalle granate, così si diceva. Ma le nostre posizioni, ricavate con esplosivo nei fianchi della montagna, erano quasi completamente protette dal fuoco nemico, a eccezione forse dai cannoni sul San Marco che, per un insieme di buona fortuna e buona mira, avrebbero potuto colpirci d’infilata. /…/ sezione 9 249 Sul pianoro dietro ai nostri cannoni c’era un frutteto, una piccola oasi di fertilità in quella terra desolata. Vi erano in giro croci di legno, che segnavano le tombe degli artiglieri italiani che ci avevano preceduti. Tutto intorno c’erano altre posizioni di Artiglieria da Campagna italiane, e durante la notte sparavano parecchio. Per le prime notti, con quei cannoni sempre in azione e le operazioni di brillamento di esplosivi a pieno ritmo, correva per quelle colline sassose un frastuono quasi continuo, tanto che mi faceva sognare ch’io stessi dormendo vicino a un mare in tempesta con onde che si frangevano senza fine contro la scogliera. Il brillamento di esplosivi in questo settore avveniva sia di giorno che di notte. /…/ Durante la nostra prima settimana qui, gli austriaci bombardarono parecchie volte una Batteria inglese a Rupa, a circa un chilometro e mezzo più indietro di noi, e una Batteria italiana che si trovava di fianco. Col tempo caldo e asciutto queste nostre Batterie erano state tradite dalle enormi nuvole di polvere che si alzavano allo sparo dei cannoni. /…/ Io feci il mio primo giro delle prime linee il 27 luglio, quarantott’ore dopo lo spostamento in avanti della nostra Batteria. Quel giorno, dal primo pomeriggio sin quasi la notte, visitai le trincee sul Volkovniak. Presi come guida un giovane artigliere napoletano che prima della guerra aveva lavorato come cameriere a New York. /…/ Dalla nostra Batteria seguimmo la strada oltre Quota 123, su per una stupenda valle i cui fianchi erano fittamente ricoperti di pini, che gradualmente si diradavano per la distruzione operata dalle 250 luglio – agosto 1917 granate austriache e per bisogno italiano di legno per uso militare. L’unica vegetazione rimasta era un’erba bassa ruvida. Sul lato sottovento di Quota 123, riparato da fuoco austriaco c’era un intero villaggio di baracche mirabilmente costruite, capaci di alloggiare parecchi Battaglioni. Al termine della valle, la strada, un ottimo lavoro del Genio, puntava decisamente su per il pendio garantendo tollerabili gradienti per mezzo di continui zigzag… tollerabili, cioè per uomini e muli, non per trasporti su ruota che non potevano procedere oltre. Fu un’ascesa rapidissima e sudai inzuppando visibilmente la giubba. A tre quarti della salita ci fermammo per una sorsata d’acqua da un fante ch’era a guardia a delle botti. /…/ Tutta l’acqua deve essere pompata da valle per mezzo di tubazio-ni, e nel posto dove sostavamo stavano riempendo delle botti che poi venivano portate su a mano o su slitte per il resto della salita. Acqua veniva pure portata su da soldati con dei fiaschi in cui generalmente in Italia si vende vino. Appena sotto la cresta entrammo nelle trincee, che qui erano tenute dalla Brigata Firenze. Erano ottimamente costruite, tutte tratte dalla viva roccia con macchine perforatrici ch’erano in funzione anche quando passamo noi. Qua e là, dove le trincee erano alquanto superficiali, erano protette con massi e sacchi di pietre. Uno dei mie obiettivi era di vedere da vicino le trincee austriache e i reticolati sul Tamburo, per rendermi conto, meglio che da qualsiasi altro Osservatorio, degli effetti dei nostri ultimi bombardamenti, e di verificare o smentire un rapporto secondo il quale durante la notte il nemico aveva eseguito certi nuovi lavori difensivi. Qui le nostre trincee erano più alte di quelle austriache. Il fondovalle tra il Tamburo e questa parte del Volkovniak era “terra di nessuno”. sezione 9 251 Lo erano anche un pendio relativamente corto sul Tamburo e uno più lungo sul Volkovniak. Di ritorno ci imbattemmo in una fila interminabile di muli che salivano carichi di vettovaglie e munizioni. Questo meraviglioso sistema di approvvigamento era sempre in funzione di sera, trionfando su tremende difficolta naturali. Incrociammo anche un gruppo di circa cinquanta uomini che trascinavano con corde un’enorme macchina perforatrice, in genere di lavoro che i gruppi di fatica inglesi, per loro fortuna, non conoscevano. /…/ Il 18 agosto mi alzai alle 4.30. C’era foschia nell’aria, che si dileguò con l’avanzare del giorno. Il grande bombardamento di quella che i giornalisti chiamarono l’Undicesima Battaglia dell’Isonzo incominciò alle ore 6 e continuò per tutto il giorno. Una volta incominciato, io non ebbi altro da fare che variare ogni tanto l’intensità del fuoco: lento, normale, vivace, celere e doppio vivace e rotazione. Passai la prima parte del giorno come responsabile della Sezione di Destra, quasi sempre seduto a un tavolo su una panca di legno sotto un telone in mezzo alle acacie. Avevo di fianco un telefonista ch’era collegato col posto di comandi della batteria, situato a circa quattrocento metri sulla sinistra, oltre alla Sezione di Sinistra. L’unica mia attrezzatura era un megafono, un taccuino, una matita e pipa. Ogni tanto mi alzavo e andavo vicino a uno dei cannoni, per controllarne il congegno di puntamento e vedere che rinculasse e tornasse in posizione senza troppa violenza. Bisognava anche guardarsi dalla nuvola di polvere che si alzava dai cannoni e che avrebbe potuto segnalare la nostra posizione al nemico. Per impedire questo, formammo ogni mezz’ora una catena di uomini per passarci secchi d’acqua dal fiume oltre la strada incassata a fissare la polvere delle 252 luglio – agosto 1917 piattaforme dei pezzi e lì attorno. Ma col sole italiano d’agosto presto si seccavano e la polvere tornava. Al di sopra delle innumerevoli fiammate dei cannoni inglesi e italiani, era una notte serena e stellata; ma le vampe erano acce-canti e sprizzavano in giro una pioggia di scintille rosse. Un lungo bombardamento è la cosa più noiosa che esista al mondo per via della monotonia, e perché uno strano modo quasi impercettibile, ora dopo ora, esso finisce per logorarti i nervi. /.../ Ma non avrei voluto essere un austriaco, ieri e stamattina. Nel nostro settore la Fanteria italiana attaccò alle 5,30. A quell’ora ci fu un tremendo crescendo di fuoco di artiglieria. Il maggiore mi diede il cambio al comando di Posto alle cinque e insisté perché andassi a dormire. Salii invece attraverso Pec a un Osservatorio sulla collina oltre la nostra, per vedere quel che si poteva vedere, ma il fronte era coperto di foschia, resa ancor più densa dal fumo sparato sa innumerevoli e fulminei lampi. Tutto intorno a noi migliaia di cannoni erano in azione riempendo l’aria di fragore assordante. /…/ Il bombardamento continuò il 19–20–21 agosto, con i cannoni che ora sparavano indipendentemente, ora a salve batteria, ora con cannoni singoli i cui tiri venivano aggiustati da qualche Osservatorio. Come sa poco, il soldato comune, di quel che succede in questa fase! Durante questi tre giorni ci giungevano informazioni di varia credibilità, voci di grande avanzate sia a sud che a nord. Ma nel nostro settore sapevamo che non era stata fatta alcuna avanzata permanente, perché continuavamo a sparare sulla vecchia “Zona15”, uno degli obiettivi del primo giorno, e sulla dannata Quota 464, il più importante dei primi obiettivi per la Fanteria. /…/ sezione 9 253 Il 22 agosto avemmo informazioni precise sull’avanzata italiana sull’Altopiano della Bainsizza. Il giorno era più caldo del solito e nel nostro settore non era stato fatto alcun progresso. Quota 464 era stata conquistata e persa tre volte nella mattinata; e più a sud, Quota 368 era pure stata espugnata e poi persa. Su quelle cime doveva essere avvenuta una spaventosa carneficina. /…/ Per il 24 agosto tutti i cannoni inglesi del nostro Gruppo bombardarono il San Marco e vicinanze. Le perdite inglesi e dell’Artiglieria Pesante italiana furono lievi, perché gli austriaci avevano pratica-mente concentrato tutto il loro fuoco dei cannoni e mitragliatrici contro la Fanteria, della quale ci fu un’incredibile ecatombe. Ma il mattino del 23, una granata austriaca uccise un sergente e due altri uomini di una delle nostre Batterie. /…/ Nella mia precedente Batteria, un colpo diretto fece saltare in aria quattrocento cariche di balistite, e subito dopo gli austriaci bombardarono il fumo dell’esplosione. Una granata anche vicino alla nostra baracca – mensa e uccise parecchi telefonisti italiani della porta accanto. Il 21 /ottobre/, il Maggiore ed io andammo al Deposito degli ap-provvigionamenti a Palmanova per comprarci vestiti per l’inverno. La città e le zone circostanti erano bombardate a intervalli da un grosso obice austriaco, che battezzammo “Mr. Pongo”. Una sgradevole bestiaccia, fummo d’accordo, che bisognava strozzare. Il giorno 22, dalla pioggia di proiettili austriaci era diventata ormai ovvio che un bel numero di nuovi pesanti obici erano presenti dietro le loro linee. Non pochi, senza dubbio, di quel Migliaio giunti dalla Russia! Sentendo sopra le nostre teste quel sibili, come treni rapidi, e il tonfo fragoroso degli scoppi fortunatamente distanti, 254 luglio – agosto 1917 ci si rendeva vividamente conto degli immediati effetti del collas-so russo. Quella sera apprendemmo che l’avanzata italiana non avrebbe avuto luogo. sezione 9 255 Jože Perpar Prva svetovna vojna 1914 – 1918 moji spomini, manoscritto, archivio di Dragotin Perpar. Arriva il giorno in cui durante il giro visite arriva il medico responsabile dicendo che non ho più bisogno di stare in ospedale... E nemmeno a Innsbruck sapevano dove fosse andato il mio 98° reggimento ceco. Mi mandano al punto di ritrovo a Ljubljana. /.../ Il mio 98° reggimento ceco ha lasciato il Tirolo per la Romania e io sono rimasto qui perché pensavo di ottenere un congedo, ma invece del congedo sono stato mandato nella compagnia di marcia. Eravamo in molti qui nel Sammelstelle, nel punto di ritrovo a Ljubljana, perché a Ljubljana venivano i soldati dagli ospedali di tutte le parti e tornavano al fronte, o al personale. Il nostro battaglione di marcia si mette in viaggio verso il campo di battaglia, si chiamava battaglione di marcia Novembre. Abbiamo preso il treno a Selzthal e poi la sera siamo andati verso l’ignoto, perché mica lo dicono ai soldati su quale fronte stanno andando. Alla partenza, oltre all’equipaggiamento bellico completo, abbiamo ricevuto anche dei bastoni da montagna (stockberg e ramponi da mettere sulle scarpe). Pensavamo di andare da qualche parte in montagna. Una mattina, dopo colazione, ci troviamo disposti in file in mezzo al villaggio, pronti per andare alle esercitazioni. D’un tratto esce dall’ufficio l’ufficiale vicecomandante Drnovšek con della posta in mano. Dice Perpar, ho della posta per te, un biglietto scritto da tuo zio Janez Perpar, alto funzionario di Cerkno, dice di essere stato decorato con la croce d’oro da cavaliere. Gli ufficiali che stavano 256 novembre 1916 – giugno 1917 lì accanto sono subito diventati attenti e curiosi. L’ufficiale Stel-lvertreter Drnovšek glielo ha riletto ancora una volta. Poi arriva il comandante di battaglione Oberleutnant [Nota – primo tenente] Stijasni e chiede loro cosa c’è di così interessante da meritare tanta attenzione. Questo comandante di compagnia, l’ufficiale Stellver-treter Drnovšek, dice al comandante di battaglione che tipo di posta ho ricevuto da mio zio, che mio zio era stato decorato con una croce d’oro da cavaliere. Glielo spiega in tedesco perché il comandante non conosceva lo sloveno. Da quella mia posta in poi, i miei superiori mi hanno guardato sempre con maggior rispetto. Arriva l’ordine di consegnare immediatamente i bastoni da montagna (bergstocks) e i ramponi che servono per andare in montagna e che si legano alle scarpe. Li consegniamo e così sappiamo subito che non andremo in montagna. Il giorno seguente ce ne andiamo da questo villaggio Narina avanti verso il fronte nel villaggio Škrbina. Questo villaggio è completamente vuoto, evacuato, perché si trovava già vicino al fronte e qui ogni tanto atterrava qualche granata italiana. Qui nel villaggio di Škrbina trovo Lisjak del villaggio di Artmanja vas. Era in un cortile a cucire una sella da cavallo perché lui portava il cibo a cavallo sul fronte, visto che qui nelle retrovie, a Škrbina, c’erano le cucine del nostro reggimento. Qui, nel villaggio di Škrbina, il nostro reggimento Gebirgsschützen 2 [Nota – 2° Reggimento fucilieri da montagna] si trovava per qualche giorno in licenza per riposarsi e per aggiungere dei rinforzi, essendo già fortemente decimato. Il nostro battaglione di marcia Novembre è stato diviso tra l’intero reggimento, il reggimento Gebirgsschützen 2, perché aveva 12 compagnie. Io sono stato assegnato alla 12a com-sezione 9 257 pagnia e la sera successiva siamo già partiti per il Fajtihrib [Nota – Dosso Faiti] nel Carso. Abbiamo sostituito il reggimento ungherese. Prima che lasciassimo Škrbina, avevano già deciso chi sarebbe andato direttamente tra le guardie in prima linea, e io ero uno di loro. Una volta arrivati nei nostri trinceramenti, scavalchiamo con cautela il nostro recinto di filo metallico in modo da trovarci in un certo senso a metà strada tra il nostro filo spinato e quello italiano. Quattro di noi sono andati di guardia, uno era la vedetta pochi metri più avanti e gli altri due sono andati con il capoguardia più al lato dove avevamo un piccolo riparo, un fosso scavato alla buona e con un mucchio di terra e pietre davanti. Visto che sul Carso era difficile trovare terra, si posizionavano davanti alla testa delle pietre, così come aveva fatto la vedetta davanti. La guardia di vedetta si dava il cambio di tanto in tanto per evitare di addormentarsi. La prima notte di guardia all’arrivo sul Fajtihrib, ha piovuto e nevi-cato un po’ durante tutta la notte. Non si vedeva un metro davanti a sé. Quando ero di guardia avevo gli occhi spalancati e avevo sempre la sensazione che qualcuno stesse venendo verso di me. Solo all’alba siamo tornati al rifugio, oltre il recinto di filo spinato, tutti fradici e infreddoliti. Avevamo appeso dei barattoli di latta vuoti sulle nostre reti metalliche. Quando di notte il nemico si avvicinava strisciando sul nostro filo spinato e lo scuoteva, i barattoli vuoti tintinnavano. La guardia al nostro filo sparava immediatamente, l’esercito si precipitava fuori dal rifugio e occupava rapidamente le trincee. Sparavano al nemico con fucili, mitragliatrici e mortai e il nemico si voltava subito e ritornava fuggendo al suo avamposto mostrandoci le spalle. Molti però erano rimasti immobili davanti al nostro recinto di filo spinato, morti. 258 novembre 1916 – giugno 1917 Siamo rimasti qui sul Fajtihrib per un bel po’ di tempo, forse tre settimane, poi è venuto un reggimento ungherese e ci ha sostituito. Il nostro reggimento Gebirgsschützen 2 va a riposarsi nelle retroguardie, appena dietro il fronte. Il primo battaglione si stabilisce nel villaggio di Kobiljaglava [Nota – Kobjeglava], il secondo e il terzo invece nel villaggio di Hruševca [Nota – Hruševica]. Questi villaggi erano vuoti ed evacuati perché troppo vicini al fronte. Il primo battaglione che si trovava nel villaggio di Kobiljaglava era stato trovato dall’artiglieria italiana pochi giorni dopo. Mentre a mezzogiorno veniva distribuito il rancio, una granata italiana era caduta proprio accanto al calderone con il pasto, uccidendo un soldato e ferendone molti altri. Dopo quanto accaduto, il battaglione era stato immediatamente trasferito nel villaggio di Kopriva. In quel villaggio c’erano ancora i suoi abitanti, la gente del posto. Qui a Hruševca siamo rimasti in congedo per un po’. Le perdite del reggimento sono state sostituite con dei nuovi soldati e poi siamo andati in trincea nella valle del Vipava. La linea di battaglia passava proprio sul nostro cimitero militare. Quando gli italiani ci sparavano addosso con i cannoni, le granate cadevano sul cimitero aprendo le tombe. C’erano ratti che pascolavano su quei cadaveri. Sono arrivati anche nei nostri rifugi, i ratti, e se non mangiavamo subito il nostro pane ce lo mangiavano loro, oltre a rosicchiarci anche i nostri zaini. Ci trovavamo nel Carso sulla linea di battaglia da molto tempo, quindi eravamo fortemente stremati e anche decimati. Molti sono andati in ospedale perché si erano ammalati di varie malattie, alcuni erano feriti, molti, invece, erano anche caduti. Una sera arriva a sostituirci il nuovo reggimento di tedeschi, mentre noi ci sezione 9 259 rechiamo nelle retroguardie per riposare e rimpolpare il nostro reggimento. Eravamo in licenza nel villaggio di Hrušovca. Il nostro comandante di compagnia porta la nostra compagnia fuori dal villaggio. Lì c’era una pianura abbastanza grande con una piccola collinetta. Il comandante ordina ai sottufficiali di allineare in riga tutta la nostra compagnia. Il comandante si reca su questo piccolo colle, ma prima ancora ci dice che quando sarà in cima alla collina alzerà la mano, tutta la compagnia si deve mettere a correre verso di lui sul colle. Chi arriva per primo, riceverà un pacchetto di sigarette. L’ufficiale alza la mano e tutta la nostra compagnia scatta in una corsa verso l’ufficiale sulla collina. E chi è stato il primo? Io, e l’ufficiale sorridendo mi ha dato il pacchetto di sigarette. Questa nostra corsa era lunga circa 500 metri. Non essendo fumatore, ho condiviso le sigarette tra i miei amici. Passa qualche mese e iniziano a selezionare tra le compagnie i soldati da assegnare al battaglione d’assalto (quelli che vanno all’attacco per primi) nell’offensiva. Chiedono chi fosse stato il primo ad arrivare sulla collina quando c’era la corsa. Io faccio finta di non sentire, ma nessun’altro risponde a questa domanda. Inizia la decima offensiva, il nostro reggimento Gebirgsschützen si trova nella valle del Vipacco. Gli italiani ci attaccano con tutte le loro forze. Ci vomitano addosso il fuoco da tutti i calibri di cannoni e da tutte le parti, pezzi di ferro sfrecciano da tutte le parti, e noi siamo rannicchiati nei rifugi. Così gli italiani spararono ininterrottamente per tre giorni e tre notti senza fermarsi, ma la nostra artiglieria non rimane con le mani in mano, li ri-cambia bene. La nostra linea di battaglia si trovava appena sopra un bel boschetto verde, ma dopo tre giorni di combattimenti di 260 novembre 1916 – giugno 1917 artiglieria, il boschetto è rimasto senza ogni ramoscello. Gli alberi sono stati completamente distrutti, non è rimasto altro che alcuni ceppi, tutti squarciati. Dopo tre giorni, la fanteria italiana sferra un attacco contro i nostri avamposti. Un po’ più in là, davanti al nostro avamposto, alla trincea, c’erano un paio di case e qui si radunava la fanteria italiana. Da quei rifugi assaltava a frotte il nostro avamposto, ma i nostri fucili, mitragliatrici, mortai e artiglierie di tutti i calibri tuonavano e mietevano il nemico facendo cadere tutto quello che incrociava. Gli italiani si girano e scappano per tornare al sicuro. Il nostro trombettista suona allegramente per la vittoria. Uno dei nostri soldati, Huzvička, un ceco, dalla gioia salta fuori dalla trincea alzando una borraccia piena di rum. Viene colpito direttamente alla testa da un proiettile nemico e rotola morto nel fossato. In questa decima offensiva sono stati catturati molti italiani, sani e feriti, e molti sono anche morti, pertanto i sanitari hanno avuto molto lavoro da fare per trasportare e seppellire i morti e per fasciare i feriti. I cadaveri venivano rimossi dal campo di battaglia solo di notte per non essere visti dal nemico. Durante le offensive, il nostro esercito riceveva l’acquavite come regalo, per rendere i soldati più coraggiosi e combattivi. Dopo quell’offensiva era necessario sistemare i trinceramenti distrutti dall’offensiva nemica. Al tramonto siamo andati a prendere il materiale per portarlo al fronte. Fino ad un certo punto si poteva portare tutto il necessario per il fronte in macchina. Ma poi i soldati dovevamo portare il materiale da soli. Quella sera abbiamo portato i cavalli di Frisia (una specie di filo spinato) da mettere davanti alle nostre trincee. sezione 9 261 Poco dopo arriva alla stazione sanitaria un militare con un piccolo carro sanitario su due ruote trainato da un piccolo cavallino. Questo carro aveva due posti letto, uno sopra l’altro. Mi caricano e mi portano al punto di ritrovo dietro il fronte. Un’auto sanitaria arriva sul punto di ritrovo e molti veniamo caricati e portati all’ospedale militare epidemico di Branica vicino a Štanjel [Nota – San Daniele del Carso]. Questo ospedale consisteva solo di baracche collocate su una dolce collina. Mi mettono in una stanza di una di queste baracche con un altro soldato. Quel soldato muore in quella stessa notte. Questo ospedale militare epidemico era recintato tutto intorno con il filo spinato. Giorno e notte c’era una guardia all’ingresso di questo spazio ospedaliero. Erano di guardia due soldati e non lasciavano entrare o uscire nessuno senza permesso. E anche tutto intorno al filo spinato c’erano soldati che sorvegliavano. In caso di maltempo avevano delle piccole baracche. 262 novembre 1916 – giugno 1917 Vladislav Pavliček Uspomene svjetskoga rata 1914 1918 1920, memorie inedite, archivio di Marinka e David Brezigar. NONA BATTAGLIA DELL’ISONZO San Grado di Merna [Nota – Mirenski grad] – Fajti hrib [Nota – Dosso Faiti] Dopo circa 4 settimane, la nostra 28ª Divisione fu trasferita proprio nella zona dove ebbe luogo l’ottava battaglia dell’Isonzo. Arrivammo sulla linea davanti a San Grado di Merna. Sopra un piccolo colle, in mezzo a un grande parco, giaceva questo castello, residenza di una sorta di marchese italiano. Il castello era già danneggiato. Nella nuova postazione furono ripresi gli intensi lavori di costruzione. Dopo 14 giorni, il nostro battaglione se ne andò in riserva, e dopo 3 giorni avremmo dovuto essere sostituiti da una nuova brigata arrivata dal campo di battaglia russo, ma che cosa successe. L’ultimo giorno, poco prima dell’alba, iniziò un terribile bombardamento, le esplosioni si susseguivano una dopo l’altra, il terreno sotto di noi tremava. Ci chiedevamo l’un l’altro se fosse iniziata una nuova offensiva. Purtroppo le nostre intuizioni furono confermate. Era iniziata la nona battaglia dell’Isonzo [Nota – 31/10/1916]. In quel momento mi trovavo in riserva, a 300 passi dalle prime posizioni. I feriti lievi arrivavano uno dopo l’altro, strappati, infan-gati e grigi dalle esplosioni, con gli occhi spalancati dalla paura. In una piccola sezione, non più grande di 1000 passi, in una sola giornata furono distrutti quasi interamente il I e il II battaglione. Alle 6 del pomeriggio, la nostra compagnia non era stata ancora sezione 9 263 buttata in postazione, giacevamo in un misero rifugio in attesa del nostro destino. Qua e là si udiva la preghiera silenziosa di qualche soldato, talvolta farfugliata da chi era più giovane. Questo ebbe un grande impatto su di me, ma non potevo farmi scoprire. Dovevo mostrarmi completamente calmo. Il rum e le sigarette mi aiutavano a mantenere il sangue freddo. Alle 8 di sera fui chiamato al comando del battaglione, dove ricevetti ordini e informazioni. Dovetti andare immediatamente in postazione con i miei uomini per occuparle fino all’arrivo del cambio. In un giorno le perdite della nostra 2a, 3a e 4a truppa furono enormi. Non trovai le postazioni. Grandi fosse scavate da granate e bombarde indicavano dove scorreva la linea delle trincee prima di quella mattina. Qua e là rimaneva qualche frammento di trincea conservata e integra, per metà coperta di pietre, alberi e cadaveri. Il bosco era quasi scomparso, c’erano solo ceppi malconci, fuligginosi e rotti che sporgevano nel cielo. Questo era ciò che rimaneva del boschetto. /.../ E poi c’era un soldato che se ne stava accovacciato, fissando in direzione del nemico con il fucile pronto, senza muoversi. Cosa c’era? Respirava forte, non rispondeva, il pover’uomo era impazzito, dovemmo portarlo via con la forza. Incontravi scene del genere ad ogni passo. Per un errore dell’aiutante del comandante della brigata (ma fortunatamente per noi), ci fu ordinato di andare a fare una breve pausa in un luogo a circa 20 chilometri dal fronte, gli altri nostri battaglioni, II, III e IV, invece, si distanziarono solo 5 chilometri dalle postazioni. Felici e contenti di esserci finalmente sbarazzati di quell’inferno, marciammo verso il luogo designato. Ogni momento che passava eravamo più lontani dal fronte. Nessuno può 264 novembre – dicembre 1916, maggio 1917 Vladislav Pavliček a fianco di una bomba da mortaio italiana cal. 240 mm odsek 11 265 immaginare quali fossero i nostri sentimenti. Era già l’alba, erano ricominciati gli spari, ma non ce ne importava e non sentivamo pietà per nessuno. Dopo quegli eventi, eravamo diventati dei com-pleti egoisti. Tutto ciò che potevamo udire era un tambureggiamento cupo, solo gli aerei ci disturbavano lungo il percorso, ma non prestavamo loro particolare attenzione. Quell’occasione era per me il cosiddetto battesimo di fuoco. Arrivammo nel luogo designato verso le 3 del pomeriggio. Più della metà dei soldati era crollata lungo la strada ed era rimasta indietro. Venivano in gruppi fino alle 6. Nemmeno i cosiddetti Nachzügler [Nota – retroguardie] erano riusciti ad arrivare, quando verso le 7 ci raggiunse precipitandosi a cavallo un soldato con il comando della divisione di ritornare immediatamente alle proprie postazioni, perché la nuova divisione arrivata dal fronte russo era completamente dispersa (non erano abituati a quel modo di combattere contro gli italiani che era del tutto diverso da quello in Russia). Era facile dire tornate indietro immediatamente, ma i soldati erano talmente stremati che era impossibile ubbidire al comando. E, per giunta, molti non erano ancora arrivati. Il comandante del battaglione decise quindi di rimanere sul posto fino alle 23 di sera, per dare ai soldati almeno un po’ di tempo per riposare e cenare per bene. Alle 11 ci dirigemmo di nuovo verso il fronte. Non c’era più voglia di scherzare tra i soldati. Lentamente ci stavamo avvicinando al fronte, si stava facendo giorno e il nemico aveva ricominciato il suo canto, un po’ diverso dal solito. Nessun “Trommelfeuer” [Nota – fuoco tambureggiante], ma solo spari disuguali, individuali, veloci, uno dopo l’altro. Questo significava qualcosa. I nostri cannoni non rispondevano, oppure lo facevano molto debolmente, a grandi intervalli. Questo ci 266 novembre – dicembre 1916, maggio 1917 diede la sensazione che qualcosa non andasse. Ad un tratto appare una batteria che si stava ritirando alla massima velocità. Ora sapevamo che i nostri, li avanti, si stavano ritirando. Poi incontrammo le cucine del nostro IIo, IIIo in IVo battaglione che tornavano con il cibo intatto. Raccontarono che chi non era morto e ferito, era catturato. Tutto il cibo venne distribuito tra i nostri soldati e quello che i nostri soldati non potevano mangiare, fu buttato via. Tanto i nostri non avevano fame – non presero molto cibo. Occupammo una nuova posizione, a circa 2 chilometri e mezzo da quella vecchia. Ora potevamo vedere quanto pochi eravamo. La distanza tra i singoli soldati era di circa 50 passi. E noi avremmo dovuto fermare il nemico che ci attaccava?! Non c’erano riserve da nessuna parte. Se avessero sfondato oltre la nostra linea, TRST sarebbe andata persa. I soldati erano così stanchi che nemmeno il pericolo li angustiava, per lo più dormivano. Davanti a noi c’era il FAJTI HRIB, e noi occupammo le cime circostanti più piccole. Tutti noi, senza eccezioni, eravamo sicuri che saremmo stati catturati. Dal comando di divisione ci fu affidato il compito di trattenere il nemico a tutti i costi per soli due giorni, perché nel frattempo sarebbero dovuti arrivare rinforzi dal fronte russo. Intorno alle 2 del pomeriggio, enormi colonne di italiani apparvero sul dosso Faiti. Per l’inquietudine avevamo quasi smesso di respirare ed eravamo in una frenetica attesa di cosa sarebbe successo. Avevamo solo 2 mitragliatrici, ma l’artiglieria? Era scappata, tornarono solo il giorno successivo. Si vedeva che avevano perso la testa. La colonna che veniva sopra di noi era composta da almeno 6.000 soldati e in un solo fiato ci avrebbero spazzato via come l’erbaccia. Potevamo già udire le voci e gli ordini dei loro ufficiali Avanti. Avanti. sezione 9 267 A v a n t i i i i i ... la distanza tra noi diventava sempre più piccola, i nostri capelli si rizzavano dalla paura, potevamo già distinguere i singoli soldati quando all’improvviso il nostro tenente Skrivan, comandante delle mitragliatrici, diede silenziosamente l’ordine Feuerbereit, Direktion ... Aufsatz 300, von linke nacht rechte streu-en, Fertig? /.../ FEUER. Non furono sparati nemmeno 1000 colpi quando gli italiani scom-parvero, si nascosero. La nostra situazione non era proprio brillan-te, loro sopra, noi sotto, ma per fortuna aspettavamo nel boschetto per vedere cosa sarebbe successo ora. Circa 500 valorosi italiani ci avrebbero fatto fuori senza problemi, tanto eravamo esausti e demoralizzati, tanto che alcuni soldati dormivano addirittura in piedi, appoggiati agli alberi. Se non sbaglio, ci ritirammo per un congedo più lungo a Reichen-berg [Nota – Branik], dove saremmo dovuti rimanere almeno tre settimane. Quando ci riunimmo tutti quelli del nostro reggimento, eravamo, compresi i carriaggi e il quartier generale del reggimento, un totale di 450 anime. Solo 8 giorni prima il nostro reggimento contava 3750 soldati. Durante il congedo arrivarono di nuovo i rinforzi, circa 2000 soldati. FAJTI HRIB Dopo tre settimane ritornammo alle posizioni, questa volta sul Fajti hrib. Non c’erano ancora trincee o fili difensivi, qua e là giaceva qualche cavallo di Frisia [Nota – barriera in filo metallico su travi di legno] e qualche filo spinato. I pali e le pietre mostravano come era tracciata la nuova linea. Gli italiani avevano una postazione 268 novembre – dicembre 1916, maggio 1917 migliore per il fatto di essere nei boschi sopra di noi. La nostra posizione era impostata in modo così privo di tattica che l’artiglieria nemica ci sparava alle spalle. Durante il giorno, a nessuno era permesso nemmeno di muoversi, perché l’artiglieria nemica avrebbe iniziato immediatamente a sparare. I primi giorni, finché non avevamo terminato gli scavi e le costruzioni dei cosiddetti Un-terstande [Nota – ripari], ci sdraiavamo semplicemente sul suolo, ci coprivamo con delle coperte e sopra ci buttavamo dei rami per mascherarci, a prescindere dal bel tempo o dal maltempo. Ognuno si può solo immaginare che aspetto avessimo, e questo era il motivo principale per cui ogni giorno gli uomini finivano ammalati negli ospedali. L’alcol che ci veniva mandato in enormi quantità ci aiutava tantissimo. Il cibo di solito arrivava freddo ma non ci era permesso di accendere il fuoco. La mia dieta quotidiana consisteva in un po’ di pancetta, pane e soprattutto cognac. Lo bevevamo per stordirci un po’ e perché la giornata passasse più in fretta e così tutti, senza eccezioni, passavamo in questo modo tutto il tempo in cui eravamo in postazione, fino a quando non avevamo finalmente terminato i nostri nascondigli. Adesso era comunque un po’ più facile, di notte e durante il giorno potevamo accendere una candela e riscaldare il nostro cibo in questo modo. Per quasi tutto il tempo in cui eravamo nelle postazioni non potevamo lavarci, non avevamo acqua a sufficienza e il villaggio molto sotto di noi, OZRENJ, aveva tutte le cisterne rotte. Quando finivo l’acqua durante il giorno, spesso mi lavavo le mani nel caffè nero, che, per fortuna, non scarseggiava. Il ricovero (Unterstand) in trincea era in qualche modo finito, al riparo solo dalla pioggia, un’asse di circa 70 cm mi serviva come letto. Ma nel ricovero si riusciva a malapena a stare seduti. Il mio sezione 9 269 attendente, di nome CIMBURA, dormiva con me. A circa tre passi dal mio rifugio iniziammo a costruire una caverna. Era scavata così lontano da poter nascondere quattro uomini, ma non era ancora “Granatzicher” [Nota – al sicuro dai colpi di granata]. Una mattina inizio una forte pioggia scrosciante, mi rannicchiai sulla mia tavola coprendomi con la coperta, buttai sopra il telone della tenda e continuai a dormire così. Non mi importava cosa stesse succedendo intorno. Questo ricovero me l’avevano costruito in modo strano. Mentre dei piccoli rivoli scorrevano lungo la mia tavola, me la prendevo con il mio attendente perché non aveva costruito bene il nostro rifugio, e così pian piano mi riaddormentai. Avevo dovuto dormire tanto, quando all’improvviso qualcosa mi cadde in testa, non era stato proprio “ein zartes erwachen” [Nota – un dolce risveglio]. Ma cos’era? In un primo momento non sapevo cosa fosse. Poi finalmente mi tolsi la coperta dalla testa e in quel momento iniziò a piovere dritto sul mio viso. Stavo guardando il cielo. Il terreno dalla parte posteriore, inzuppato d’acqua, era crollato e così dovetti aspettare in quella posizione scomoda che facesse notte affinché potessero sistemarmi il rifugio. Dopo 7 giorni tutto il nostro reggimento si recò in riserva poco distante da Villa Opicina. Ora sapevamo che non saremmo più tornati in quel posto. È qui che ebbe inizio una vita leggermente migliore per noi; almeno vivevamo come persone, puliti, vestiti e riposati. Da Opicina, che distava mezz’ora da noi, partiva un tram per Trieste, che per noi rappresentava una ricompensa per quei tormenti e disagi che avevamo dovuto sopportare. 270 novembre – dicembre 1916, maggio 1917 Tutte le sere andavamo a Trieste ai concerti, al cinema, ma soprattutto al cabaret, e anche le belle triestine erano il motivo per cui andavamo in città e così lentamente ci dimenticavamo che c’era una guerra. Li c’era vita, ognuno di noi aveva soldi a palate, qui ognuno viveva a modo suo. Tutti, indistintamente, vivevamo solo alla giornata, del domani non ci importava. Ora potevamo vedere come vivevano i signori ufficiali, i piloti e quelli della Abwehrbate-rie [Nota – batterie di difesa costiera]. Per loro il fronte significava Trieste. Li odiavamo. Erano delle marionette, soltanto vestite con il Waffenrock [Nota – giubba militare] e così via. KOSTANJEVICA e HUDI LOG La nostra vita comoda, felice e spensierata non durò a lungo. Ci richiamarono di nuovo alle posizioni, stavolta a Kostanjevica. Il mio compito era occupare Strauch 32 [Nota – sezione 32 – normal-mente si usava il termine Sektion] (la linea del fronte era divisa nei cosiddetti Strauch per via della nostra artiglieria). Il nemico era a circa 150 passi da noi, e a cinquecento passi dalla mia sezione. Così il fronte si snodava in modo non uniforme, a sinistra della mia posizione c’era la posizione di “Sack von Hudilog”, Staruch 27 – 26 – 25, la parte peggiore del fronte in tutto il tratto da Gorizia [orig. - Gorica] fino al mare. In quel punto il nemico sparava da tutti e quattro i lati. La famosa guardia di campo (Fel-dwache) n. 10 si trovava proprio in questa zona. Qui ci trovavamo in una situazione abbastanza spiacevole, la morte ci osservava da tutte le parti, era in agguato, e noi, che non dovevamo stare fuori in trincea, vivevamo solo sottoterra. La nostra sezione 9 271 fortuna era quella di avere caverne grandi e robuste. Se non ci fossero state, non ci sarebbe stato nessuno capace di resistere lì. Sebbene ci fosse abbastanza spazio nella caverna, c’erano ancora soldati che costruivano piccoli ricoveri (Unterstand) proprio all’ingresso. Quando aveva piovuto per tre giorni di seguito, la caverna era rimasta completamente asciutta, il quarto giorno, invece, l’acqua aveva già superato uno strato di 4–7 metri sopra di noi. Ora gocciolava nella caverna da almeno 6 giorni, anche se fuori il tempo era bello già da tanto. L’aria umida non era proprio piacevole. I ventilatori avevano molto da fare in quel periodo. Ma i ventilatori servivano anche per rimuovere il gas tossico dalla caverna se ce ne fosse stato bisogno. Per via del gas, in quella parte del fronte erano state adottate le misure più severe. Erano disposti tutt’intorno nelle postazioni dei soldati speciali che davano segnali (Allarm) in caso di pericolo, e anche in ogni ingresso della caverna c’era una di queste guardie. Fortunatamente, eravamo sempre stati in grado di individuare bene il gas, cosa che però alla fine del 1918 non avvenne più perché fu inventato un gas tossico nuovo, completamente invisibile. Una granata atterra all’esterno, ma non esplode. All’inizio pensi che si tratti di un “Blindgänger” [Nota – “colpo inesploso”, una granata che fa fiasco], ma lì, dopo pochi secondi, inizia a uscire un fumo grigio-giallastro o grigio-verdastro, che non sale verso il cielo, ma il venticello lo porta al suolo e si eleva ad un massimo di 2 metri da terra. In quella zona non avevamo il permesso di fare un solo passo senza la maschera antigas (Gasmaske) e nelle caverne dormivamo con maschere antigas intorno al collo. Trattandosi di una di quelle terribili armi da guerra, alle unità furono assegnati 272 novembre – dicembre 1916, maggio 1917 degli ufficiali speciali che avevano il compito di controllare queste maschere antigas ed eventualmente di sostituirle al soldato se erano difettose. In quella parte del fronte il servizio era quasi insopportabile. Gli ufficiali ci davamo il cambio ogni quattro ore. Di notte si poteva fare bene o male ma durante il giorno era poco conveniente. Quando ero di servizio di giorno, avevo sempre tre soldati con me. Uno aveva il compito di osservare cosa stava succedendo alla nostra sinistra, l’altro alla nostra destra e il terzo proprio di fronte a noi. Questi erano gli ordini per motivi di sicurezza a causa del pericolo delle bombarde. Alle granate non si poteva far attenzione. Dipendeva dalla fortuna, perché uno se ne poteva accorgere soltanto quando esplodeva sotto di lui, ma allora era ormai troppo tardi. Con le mine era diverso. Le batterie delle bombarde non erano a più di 300–600 passi da noi, e quando ci venivano lanciate addosso, potevamo sentire un suono tambureggiante, come se provenissero dal sottosuolo (le mine erano interrate nelle doline), e la bombarda si poteva vedere benissimo quando volava nell’aria e nella prima metà del volo eravamo già in grado di prevedere bene dove sarebbe caduta. Correvamo avanti e indietro nei trinceramenti cercando di schivare le bombarde. A circa 25 passi di distanza c’era di nuovo una dolina chiamata “Kalaš doline”. Anche in essa c’era una batteria, ma aveva un sistema completamente diverso, il cosiddetto Luft Minenwerfer [Nota – lanciamine pneumatico], calibro 15 cm. Questi erano assai migliori perché le mine venivano lanciate a una distanza di circa 600 passi ed erano difficili da rilevare, anche quando sparavano sezione 9 273 durante il giorno. Le mine venivano lanciate con aria compressa in modo che il rombo fosse quasi impercettibile. Il nostro generale di brigata RADA (ora [Nota – 1923] è anche un generale attivo nell’esercito ceco) veniva sulle postazioni almeno due volte alla settimana, sempre di mattina. Durante il servizio parlavo spesso con lui in ceco. Durante la nostra permanenza in prima linea, non ci era permesso neanche toglierci le scarpe, figuriamoci toglierci i vestiti. Una sensazione molto spiacevole, ma uno ci fa l’abitudine. Di notte, i nemici ci lanciavano addosso granate e bombe incendiarie. Sapevano che le nostre trincee erano piene di soldati impegnati a costruire postazioni di battaglia. Quando una tale bomba esplodeva (la detonazione era minima), migliaia e migliaia di scie luminose volavano a un’altezza di circa 5 metri, poi cadevano a terra in parabole e si lasciavano dietro nell’aria un sottile fumo che mostrava il percorso di ciascuna scia luminosa. Poi apparivano a terra migliaia di piccole fiamme, dando fuoco a tutte le cose combustibili in vicinanza. E così ci guardavamo intorno e osservavamo le mine volanti quando notammo volare dalla parte nemica qualcosa dalla forma allun-gata che rotolava nell’aria come un bastone lanciato. Cosa poteva essere? Di che diavoleria si trattava? Cadde a circa 30 passi da noi e all’improvviso un soldato gridò “Decken” [Nota – “Copertura”]. Fuoriusciva del fumo, noi ci sdraiammo e nello stesso momento tuonò una terribile detonazione, e una pioggia di terra e una grandine di sassi cadde su di noi. Avevamo orecchie e bocche piene di sabbia e polvere. Non proprio una colazione piacevole. Questo evento durò solo un attimo. 274 novembre – dicembre 1916, maggio 1917 Successivamente scoprimmo che si trattava dei cosiddetti “Spren-gröhren” [Nota – tubi esplosivi], che da quel giorno ci vennero inviati molto spesso, quindi un pericolo in più. Nonostante il pericolo regnasse ovunque, si poteva ancora assistere a qualche scenetta divertente qua e là. Vorrei citarne una. Di fronte alla sezione “27” accadeva quasi ogni giorno. La mattina gli italiani prendevano il caffè e in quell’occasione quasi puntualmente litigavano e si spingevano, e noi vedevamo bene cosa succedeva, perché eravamo a soli 60 passi da loro. Avremmo potuto causare loro enormi perdite in quelle occasioni, ma non lo facevamo. Per ogni bomba che avremmo mandato, ce ne avrebbero restituite dieci. Dal punto di vista tecnico erano significativamente più forti di noi. Allora ricevevamo sempre più spesso visite degli aerei nemici, ci sorvolavano tutto il giorno, esploravano le riserve e dirigevano il fuoco dei cannoni pesanti italiani. Sentivamo che qualcosa si stava preparando di nuovo. Arrivavano anche i nostri piloti, ma erano più deboli. Gli apparecchi italiani erano molto più veloci, il che significava tanto. Erano più forti anche in questo. Ma ai nostri piloti questo non faceva rabbia. Andavano al campo di battaglia al mattino o a tarda sera, raramente durante il giorno, per il resto restavano nelle retroguardie dedicandosi alle feste e alla vita spensierata. DECIMA BATTAGLIA DELL’ISONZO! Kostanjevica – Hudi Log – Hermada – Medeazza Il giorno 9/V/1917, verso le 4 del mattino, fummo svegliati dal sonno da un forte fuoco di artiglieria italiana che non si placava. Era qualcosa di insolito. Di solito si sparava per poco tempo, questo sezione 9 275 invece non si placava. Proprio il contrario. Stava diventando sempre più forte, il che doveva di nuovo significare qualcosa. CADORNA ci stava preparando una bella sorpresa. La nostra artiglieria rispose in un primo momento molto nervosamente. Era ovvio che anche loro erano sorpresi, perché tutti ci aspettavamo che l’offensiva cominciasse tra circa 14 giorni. Per tre giorni interi fummo colpiti incessantemente dal fuoco nemico, dal mattino presto fino a tarda sera. Caverne piene di feriti. Partivano la notte stessa quando gli spari si interrompevano per un po’. La presenza dei soldati feriti non ci era gradita, solo lamenti e gemiti. E così ebbe inizio la Decima battaglia dell’Isonzo. Di notte, quando gli spari cessavano, arrivavano i rinforzi, ma noi, depressi, sfiniti e indeboliti dalle pesanti perdite, non venivamo sostituiti. La divisione non contava più su di noi/intendo come unità, anche se sulla carta era segnato Abschnit Hudi Log, Inf. Reg. No. 11. [Nota – Sezione Hudi Log, reg. fant. num. 11], ma quante anime rappresentasse il nostro reggimento, non gliene importava. Quel reggimento che era in postazione quando iniziò l’offensiva fu sacrificato. Non venne sostituito per così tanto tempo fino a quando non fu quasi completamente distrutto. Questo è quello che successe anche a noi. Il quarto, quinto e il sesto giorno gli spari si fecero sempre più forti. Non riesco a trovare i termini e le parole per descrivere quell’inferno. La terra tremava e bruciava come se si fosse aperto un vulcano sotto di noi. Noi sciagurati, che per caso non avevamo niente da fare, sedevamo rannicchiati nella caverna e aspettavamo di correre in trincea al suono dell’allarme da un momento all’altro. Non dormivamo in quei giorni. 276 novembre – dicembre 1916, maggio 1917 Eravamo a circa 75 passi dal nemico e finché sparava eravamo al sicuro. Finché durava il suo fuoco di artiglieria, lui stesso non poteva uscire, perché vista la grande vicinanza neanche lui era al sicuro dalle sue stesse granate. Vorrei elencare solo alcune scene. Le esplosioni erano così potenti da rendere difficile il respiro, in particolare a noi, che ci trovavamo per caso nella caverna. Il movimento dell’aria causato dalle singole esplosioni produceva nella caverna un rumore simile a quello che si sente quando si appoggia una conchiglia all’orecchio, i vestiti indossati tremavano, il fumo della sigaretta si allontanava improvvisamente di circa 30 cm dalla sigaretta e poi ritornava al suo posto. Prima di sera la sparatoria si placò un po’, io e i tre ufficiali uscimmo davanti all’ingresso della caverna per vedere come appariva la situazione fuori. Un’immagine completamente nuova apparve davanti a noi. L’intero posto era diventato grigio per la polvere del pietrisco. Il “Trommelfeuer” era durato 5 giorni senza che il nemico fosse passato all’offensiva nella nostra sezione. Il sesto giorno, il bombardamento raggiunse il suo apice. Ora sapevamo che stava arrivando il momento decisivo. Esattamente alle 15 e ¾, la sparatoria si interruppe improvvisamente, come se fosse stata spezzata. Nello stesso momento sentimmo Alarm Alarm (ancora oggi mi chiedo come sia stato possibile che, nonostante un fuoco del genere, siano sopravvissute alcune persone in trincea). Con i bastoni e i revolver cacciammo i soldati fuori dalle caverne verso le posizioni. Il nemico non aveva nemmeno raggiunto i suoi ostacoli quando noi avevamo già aperto il fuoco. I razzi rossi volavano in aria uno dopo l’altro, il segnale per la nostra artiglieria “Sperrfeuer” [Nota – fuoco di sbarramento], cosa che fecero anche loro immediatamente. Qua sezione 9 277 e là qualche nostra granata cadeva su di noi. I razzi verdi che sparammo successivamente in aria segnalarono ai nostri che stavano sparando anche contro di noi. Da parte nostra, centinaia e centinaia di bombe a mano volavano in aria verso il nemico. L’intera area era coperta di fumo, non si vedeva nulla, il vapore usciva dalle mitragliatrici come da una macchina a vapore. Con tutto il tram-busto non si sentiva altro che Feuer, Feuer, Feuer [Nota – fuoco]. Io stesso lanciai 30 bombe a mano in pochissimo tempo. Il nemico fu sorpreso da un tale fuoco (pensava che fossimo tutti distrutti). Con terribili perdite, iniziò a fuggire ritirandosi. L’Oberschaft [Nota – parte in legno della canna] dei fucili stava già bruciando. Dovemmo strappare il fucile dalla faccia di quasi tutti per farli smettere di sparare, ma la migliore medicina per loro furono le granate nemiche che avevano ricominciato a lanciarci addosso dopo il fallimento. Ora i nostri stavano scappando di nuovo nelle caverne. In quest’occasione devo menzionare che anche 2 velivoli corazzati del sistema Caproni ci sorvolarono e ci spararono con le mitragliatrici da un’altezza di circa 200 metri. Fummo fortunati che non sparavano con precisione. Potete immaginare la situazione in cui ci trovavamo – ferro, piombo, gas e fuoco ci venivano lanciati addosso da tutte le parti. Il 17/V/1917 quei pochi rimasti in vita del nostro reggimento furono sostituiti perché stremati e incapaci di combattere. Dopo una lunga marcia (26 km) dalle 11 di sera alle 5 del pomeriggio (del giorno successivo) arrivammo ad Aurisina. Qui aspettammo 5 giorni per i rinforzi (Marschbatalion) [Nota – battaglione di marcia] che sarebbero dovuti arrivare dal nostro battaglione rimpiazzi (Ersatzbatalion) da Gyula. 278 novembre – dicembre 1916, maggio 1917 La posizione sul fronte era critica. Migliaia e migliaia di uomini andavano ogni giorno negli ospedali. I sentieri che portavano al fronte erano pieni di soldati leggermente feriti che erano di ritorno dal fronte. Il nemico avanzava costantemente, passo dopo passo, verso l’”Hermada” [Nota – Grmada – così nel prosieguo], l’unico monte che ci era di supporto. Se perdiamo questo, perderemo Trieste. Potete immaginare i nostri come avessero difeso dispe-ratamente Grmada. Il 24/V/1917 arrivò il nostro generale di brigata Rada e così deboli dovemmo proseguire per occupare Grmada come riserva, addirittura la 5a linea, la cosiddetta “Gelbe linie” [Nota – linea gialla]. Da questa linea si vedeva Trieste sullo sfondo. Se la perdiamo, perderemo sicuramente Trieste. Mentre avanzavamo verso Grmada durante il giorno e c’erano aerei nemici che volavano sopra di noi, dovevamo andare in copertura del terreno uno per uno. Tutta la nostra brigata, prima B. H. 7 [Nota – 7o reggimento bosniaco], I. R. 47 [Nota – 47o reggimento di fanteria “della Stiria”] e infine il nostro 11° reggimento, come un serpente lungo quasi 3 km ci avvicinavamo sempre di più a Grmada che era quasi completamente oscurata dal fumo delle esplosioni di granate. Non eravamo nemmeno a 1000 passi dalla riva del mare. Il fuoco davanti non si placava. In quell’occasione ci si offriva una vista alquanto sgradevole. In mare aperto, a circa 1500 passi dalla riva, se ne stavano tranquille tre navi da guerra italiane. Avevano il Grmada sotto tiro, della nostra flotta e dei nostri sottomarini, invece, non c’era traccia. Mi sedetti dietro una trave, presi in mano una mappa e scrissi una nota al comandante, quando improvvisamente una granata sezione 9 279 colpì non lontano da noi. Fu questione di un attimo, qualcosa mi strappò la mappa dalle mani e avvertii un forte dolore al dito. Un piccolo frammento aveva trafitto la mia mappa ferendomi a un dito. Lo avvolsi immediatamente in un fazzoletto e tornai di corsa nella caverna dal comandante. Avevo adempiuto al mio compito, ora nessuno poteva più comandarmi, qualunque cosa accadesse. La ferita non era grande, però l’osso era rotto. Ora quei signori non avevano altra scelta che far venire qualcun’altro al posto mio. Mi invidiavano perché era il “Eintausendgulden-schuss” [Nota – un colpo da mille monete d’oro che ti salvava dai campi di battaglia]. Mi fasciarono la ferita e mi diedero del rum per calmarmi e rafforzarmi. Ah, che sensazione piacevole, nonostante la ferita che bruciava, non dover andare più nel fuoco. Aspettai fino a sera per poter tornare dal nostro medico di reggimento per un controllo. Continuavano ad arrivare costantemente i miei uomini feriti. Arrivai sul posto di medicazione del reggimento già verso le 10. Dopo che il medico mi aveva visitato, mi mandò nelle retroguardie: “Sbrigati. Qui ho poco spazio e c’è il nemico che spara anche qui”. Non avevo bisogno d’altro. Molti salimmo sul mezzo e ci recammo a Opicina – SÌ! all’ospedale della divisione. Lungo la strada ci inseguivano gli aerei con le bombe. Non era piacevole, ma ce l’avevamo fatta. A Opicina ci controllarono di nuovo, mi fecero un’iniezione contro il tetano e insieme fummo portati sul treno ospedale dell’Ordine di Malta, pronto per il viaggio verso Ljubljana. 280 novembre – dicembre 1916, maggio 1917 Giuseppe Manetti Maledetta Guerra. Diario di un contadino al fronte (10 Febbraio 1917–5 Luglio 1918). Firenze: Pagnini Editore, 2008. 5 Giugno 1917 La notte scorsa circa le ore 11 e venuto uno aeroplano o due austriaci e principiato un foco sopra ad’essi tanto di cannoni come mitragliatrice e due dei nostri aeroplani a farli la caccia pareva l’inferno io ero in baracca e mi sono messo a diacere e mi sono raccomandato alla mia protettrice alle ore 2 dopo mezzogiorno sono sul fiume Isonzo, a fare il bagno che bel fiume, che acqua limpida? azzurra E qui vicino ci anno fatto un cimitero quante vite giovani ci sono sepolte se le famiglie sue potessero vedere forse sarebbe finito la guerra 6 Giugno 1917 Sono andato sopra ha una collina ghiamato monte cappuccio non posso ne so descrivere l'effetto che mi a fatto si tratta di vedere trincee distrutte, ricostruite, piante delle spessore anche di 50 centimetri troncate buche fitte alla distanza di pochi metri l'una dall'altra che profonde mezzo metro e che anche due metri poi più qua e più in la si trova croci di legno fatte cosi provvisorie e quelle segnano un morto e sopra a tante di queste tombe ci sono delle ossa di gambe di braccio dei denti il teschio o rimaste in sepolte o scavate da qualche granata e a queste croci ci è scritto ‘sconościuto’ chi potrà riconoscerlo se una granata lo a preso in pieno? povere madri quanto vi pentireste di aver dato la vita a un sezione 11 281 figlio se voi vedeste ciò che vol dir la guerra, e vedeste a che paure e a che disagi in questa guerra i vostri figli anno dovuto affrontare e ancora l’effetto della vera guerra non l’o veduto ma pur troppo bene che tardi sia arrivato mi toccherà la mia parte 13 Giugno 1917 Viene l'ordine di partire per andare a raggiungere la trincea e si parte alle ore 18 si cammina fino a 1 del 14 ci fanno fare alto e ci si mette a dormire all'aria aperta quando ci si sveglia ci vediamo circondati in mezzo a due cimiteri uno dei nostri ed uno austriaco e dire che non ci a fatto almeno a me niente impressione /.../ il posto dove siamo si chiama il vallone di Doberdò bisognerebbe vedere quante baracche che ci sono quanti ricoveri quanti lavori di offesa e di difesa qua si è creato un altro nuovo mondo trasformato tutto dalla natura di un terreno civile in una natura artificiale bellica poveri omini tutti i vostri studi come male li ai adoprati! io sono qui e posso essere nelle ultime ore di vita edamiei bambini cosa li lascerò? altro che della fame perché tutto ciò che noi, ei nostri padri avevano prodotto siamo venuti a distruggerli quà su distruggerli sopra a questi monti quanto siamo in civili! La strada che abbiamo passato per venir qua e tutta parata come quando ci e una festa in modo dà non essere scoperti dal nemico ma si tratta per dei chilometri si trova dei paesetti che fanno piangere anche i sassi per che non ci e rimasto un muro che sia alto più di due metri ma poi in che condizioni povere famiglie che ci abitano e si combatte per la civiltà? io non so quale siano le barbarie. 282 giugno – agosto, ottobre 1917 17 Giugno 1917 Siamo sempre nel solito posto ed’è chiamato dolina buccę a sinistra di castagno vizzo [Nota – probabilmente si riferiva a Kostanjevica] ieri sera a principiato il solito foco che paura che impressione io per venir via tutto accetterei perché chi non a provato la trincea non può in maginare ciò che e se all'inferno ci si stesse male così se o la fortuna starei tutti i giorni in ginocchio 3 ore il giorno sopra i sassi pur che quando io moio non avesse da subire una pena come questa e qua se ci si salva non si deve che a una fortuna e a una forza maggiore che ci protegge anche per questo se torno faro il possibile di fare più che posso, anche verso la religione no essere bigotto ma osservarla di piu di quella che nei tempi passati ò osservato. io sono qui sotto una caverna come un cane svogliato e impaurito mentre le mie donnucce saranno a lavorare accanitamen-te ma se non posso aiutarle con il braccio ma col pensiero le seguo sempre ed’è per questo che mi sento tanto più peso il sagrificio la sera seguita il solito bombardamento per credere e per sapere che cosa e bisognerebbe essere qui questo non lo auguro a nessuni. Si passa atri due giorni poi il giorno 20 Giugno 1917 Viene l’ordine di sciendere in riposo che consolazione! ma che mi da pensiero è quello che abbiamo da fare circa 4 chilometri di strada tutta battuta dalla artiglieria austriaca bisognerebbe vedere gesta strada pare un campo vangato e come è tutta buche e poggi dalle granate che ci è cascato e pur bisogna farla siamo partiti alle ore 3 del mattino e si è dovuto portare addosso i pezzi che si lancia le torpedini ma bene che si era carichi di tutta la nostra roba e di questi pezzi questa strada l’abbiamo fatta quasi tutta di corsa siamo arrivati nel vallone Vicentinaa circa le ore 5 non si aveva più sezione 11 283 fiato io credo che se mi avesse visto la mia famiglia li avrei fatto quasi ribrezzo o per meglio dire gran compassione vedere nelle condizioni che sono arrivato qui. /.../ 6 Luglio 1917 La sera verso le ore 5 due areoplani nostri e tre austriaci e princi-piano una lotta con mitragliatrici dopo pochi minuti di questa lotta si vede uno dei nostri areoplani volare sopra a uno dei suoi e dopo pochi secondi si vede esplodere l’areoplano austriaco e precipitare a picco che effetto che mi a fatto mi sono sentito serrare il quore bene che fosse nemico pensando a quelle due creature che si trova dentro ed’ precipitato a poca distanza da noi. 26 Luglio 1917 O chiesto il permesso di andare a trovare mio fratello adamo non me lo anno concesso al soldato non si può dare nessuna soddisfazione solo quella di andare in linea. questo mi a fatto molto dispiacere. 30 Agosto 1917 Si va a fare istruzioni come da coscritto ancora siamo qui sempre sulla bilancia non si sa se si resta qui o se si va a riposo come dicono. Si passa così qualche giorno ma non si marcia mai il giorno sette viene l’ordine di partire per la linia quello però non è stato come l’altra notizia questa si avvera subito il giorno 8. 9. 17 alle ore 4 antimeridiane ci fanno disfare tutte le tende e si rattraversa l’Isonzo che li avevo detto addio, si arriva al vallone 284 giugno – agosto, ottobre 1917 Vizzentini si fa sosta fino a buio e poi ci si incamino per la solita strada per la 4a volta i reggimenti di fanteria fanno come la pellicola di un cinematografo ogni 10 o dodici giorni passano di sotto al foco come la pellicola di faccia alla luce e tutte le volte ce ne si lascia Si torna in giù e ce li rendono come se fosse merce e ci fosse delle fabbriche che fabbricano li omini! e non costassero altro che della fatica per fabbricarli e delle materie che si possono comprare su un mercato come si compra tutta l’altra merce. questi, della stampa che esaltano tanto la guerra o per meglio dire liela fanno esaltare vorrei che venissero dove si va noi per vedere se poi avessero il coraggio di esaltarla ancora io credo che quando ci fossero stati tre giorni non solo esalterebbero più la guerra ma cercherebbero di concludere la pace al più presto perche non è questione di morire, la morte di per se stessa non sarebbe niente ma il vedersi la morte tutti i minuti passare colla sua spettra falce a mezzo centimetro dalla gola e peggio ancora e la vita che facciamo non dirro tanto per il mangiare e bere che tante volte ne soffriamo ma e il riposo che non si sogna per cosi dire mai dormire si tratta in una tana come fanno i toppi e li quando piove ci piove come ad esser fori e non ci e mezzo di asciugarsi fino che non sorte fori il sole e poi i nostri cari giornalisti esaltano la guerra. 27 Ottobre 1917 Circa alle ore 7 si difonde la vocie che li austriaci anne sfondato la linia dalla parte del monte Nero ma io per il primo non ci credo pe la prima dissi con i miei compagni può essere ma la seconda o la terza come sarebbe questo è impossibile! specie in sezione 11 285 cosi poco tempo. più tardi le voci diventano più difuse al fine del giorno realtà perché anche a noi viene l’ordine di ripiegare e abbandonare la linia. circa alle ore, 19, sull’imbrunire si vede più qua, e più la scoppiare come vampe di foco formidabili sul principio si crede a delle granate incendiare ma più tardi di pole capire di che si trattava. 11 Omissione nel manoscritto. in faccia a noi, sulle pendici del vallone Doberdò ci avevano rizzato un'infinità di baracche per ricoverare tutti soldati tutte di legno, nellandare della notte queste baracche un ciuffo prima e uno dopo si vedeva una gran vampa di foco che faceva luce per delle diecine di chilometri di circonferenza e in seguito a questo bruciare, le baracche, per cosi dire non si trattava di bruciare le baracche ma pareva che prendesse foco tutte quelle colline pareva essere in mezzo all’Inferno da ogni parte da ogni luogo si vedeva di questi incendi più tardi ancora si innalza delle nove vampe ancora più grandi accompagnate da un rombo e da una scossa del terreno quasi da buttarti per terra ci levava il fiato per 10 secondi ci faceva salire il cuore alla gola, per quanto questi rombi e fiamme si vedessero alla distanza di 2, o più chilometri circa nessuno si poteva fare in idea di cio che fosse perche granate anche da 420 non potevano fare un tal rumore e più non si sentivano venire si passa cosi 5 o 6 ore si può dire in mezzo all’inferno (peggio ancora non so spiegarmi. /.../ qui in cima a questa collina ci eunaltra linea di resistenza tutta in cemento armato anche questa tutta incavata nella roccia quanto 286 giugno – agosto, ottobre 1917 lavoro quanto sudore ci resta su queste colline oltre a tutta la gioventù e tutto il sangue e tutti i sagrifici sopportati in due mesi di guerra, eppur per quanto sia antiguerriero per natura mi era tanto dolore abbandonare tutto quello, si seguita il cammino accompagnati dalla pioggia. Si arriva ad un paesetto chiamato Reddipuglia /…/ sezione 11 287 Paolo Caccia Dominioni II Ronchi di Monfalcone 12 agosto 1917 In una casa diroccatissima nel paese diroccato sta il comando della compagnia, col deposito del materiale e del liquido infiammabi-le. Le cinque sezioni in questo momento sono tutte in linea sul Carso, e il comando è come il centro di un settore di cerchio in collegamento con cinque punti dell’arco. Qui si respira vera aria di guerra. Aria di fantaria. /.../ Io devo salire domani a Castagnevizza dove prenderò la 4a, comandata interinalmente da Cicognani. /…/ 13 agosto Giornata afosa e pesante. Qualche filo d’erba nel terreno rossiccio, tra le pietre. Un paio di alberelli achitici con la corteccia scorticata dai denti de muli. Un’immensa distesa di cenci puzzolenti, di barattoli vuoti, di bucce di limone, di escrementi, su cui volteggiano nuvole di mosche. Mucchi di baracchini sconquassati a ridosso dei pendii, tende sbiadite e squarciate, rivendite di vivandieri: e croci, croci, croci di ogni forma. Colonne di autocarri, di prolunghe di salmerie, formicolio umano su due strade parallele e polverose, gridio multidialettale. Questo è il Vallone di Doberdò a Devetaki, dove ci sono le cucine della mia sezione. Qui preparano il rancio, che poi i due muli, di notte, portano su a Castagnevizza. Forte mi accompagna su. Ci avviamo per la saIlta sbuffando nel caldo atroce, sudati fino alla giubba. Alla fine della salita ci si spalanca davanti il desolato altopiano. A sinistra cinque o sei cime spelacchiate in iscala montante, Nad Logem, Veliki, Faiti: poi le tre cime verdi di Monte Stol, e in fondo le Porte di Ferro. Di fronte 288 agosto, ottobre 1917 l’orizzonte movimentato e collinoso di Novelo e Temnica: a destra un’infinità di colline pelate e riarse, quasi tutte nostre. Questo è il Carso atroce e micidiale. Non un albero che non sia mutilato, non un muretto che sia intatto, e ancora rottami e cenci e croci. Il terreno è crivellato da buche di granate. Residui di trincee e di reticolati e di ossa: avanzi umani che forse furono sepolti ma che la granata è venuta a ricercare sotto terra per riportarli al sole. Tutte le strade sono mascherate con stuoie e con frasche alla vista del nemico. Spreco di fili telefonici, per terra, su pali, attorno a cartelli indicatori; tubi ammaccati e contorti dell’acqua potabile. Nei bivi e nei crocicchi, dove le soste delle colonne notturne sono inevitabili, il terreno è sconvolto dal bombardamento che non ha tregua: e le buche che squarciano la strada sono ricolmate sommariamente, subito per non fermare il passaggio. Ma il traffico scompare man mano che ci si avvicina alle linee. L’alto piano, se non ci fosse qua e là il fumo delle esplosioni, apparirebbe abbandonato come se la vita fosse stata soppressa di colpo; ma quale febbrile agitazione sul fondo delle doline! La dolina è ospedale, cimitero, mensa, comando, ufficio. In dolina si telefona, si canta, si bestemmia; ci si muore. /…/ Loquizza, Segeti, scheletri di paesi: Pecinka, altro capolavoro di squallore. Qui la strada si biforca, a destra per Oppacchiasella, a sinistra per il Faiti e Castagnevizza. Dopo dieci minuti nuovo bivio: a sinistra per il Faiti, a destra per Castagnevizza. Ancora un paio di chilometri; la strada da questo punto, che chiamano Bivio della Morte, non ha più mascheramento. (Dice Forte che ogni tanto cominciano a farlo, ma che il tiro non permette il lavoro.) Quindi di giorno non si passa più, a meno di essere isolati e di evitare i tratti presi d’infilata dalla mitragliatrice di Quota 251, colle a destra sezione 11 289 Trincea austro-ungarica vicino al tunnel meridionale, a San Giovanni del Timavo / Štivan, dopo l'Undicesima Battaglia dell'Isonzo. 290 di Castagnevizza. Davanti a noi c’è una gran depresione che mette ancora più in evidenza la nostra mèta, altura rossa cosparsa di qualche macchia bianca, tracce sinistre del villaggio che un tempo vi stava appollaiato: altura simile a un vulcano sempre fumante sotto la pioggia dei proiettili nostri e loro. /…/ 14 agosto Ma questo maggiore è simpaticone. Mi dice che l'azione è attesa tra cinque o sei giorni: che le truppe d’assalto sono quelle stesse che ora presidiano la linea: e che io cominci ugualmente il mio lavoro. Approva gli appostamenti scelti, dove farò costruire le tane per riparare apparecchi e liquido. Questa protezione delle mie armi è assolutamente necessaria. Se ci picchia dentro un proiettile rischiamo di prender fuoco noi e quelli che ci sono vicini. Quindi metteremo nella tana di volpe i serbatoi ai quali vanno applicate le bombole d’aria compressa a 150 atmosfere. L’aria spinge il liquido (petrolio e catrame) in un tubo flessibile di gomma lungo parecchi metri. All'estremità del tubo c'è una lancia di rame che dirige il getto e che viene collocata nella feritoia sul parapetto della trincea. Abbiamo degli apparecchi Schilt piccoli che possono servire anche per l’assalto: hanno la capacità di circa trenta litri e il getto di una trentina di metri. Uno stoppaccio acceso all’imbocco della lancia trasforma il liquido che esce in colonna incandescente. Agosto Ho pensato che gli uomini basta farli lavorare di giorno. Non c’è gran fretta, perché la vicinissima azione modificherà certamente sezione 11 291 l’andamento della linea. E poi possono dormire la notte e conser-varsi per la battaglia. Era un po’ che non dormivo per terra. Eppure si riposa benissimo, specialmente dei raffinati come Cicognani e come me, adattan-dosi alle sinuosità del suolo e integrandole con quattro sacchi a terra vuoti. Se poi ci si mette sul viso (a difendere dalle mosche, dal puzzo, dai topi) un fazzoletto impregnato d’acqua di colonia, la beatitudine è completa! /.../ Ogni tanto siamo svegliati da ma-stodontici topacci di trincea che fanno la consueta escursione su di noi, fermandosi sulle mani e sulla faccia. O da un granatone vicino che ci fa rimbalzare sul terreno sussultante, tra una gran pioggia di schegge e di pietre. 18 agosto Ritorno a Dolina Rancio a preparare sei apparecchi, sui dodici che ho in dotazione, da portare avanti. In mancanza di appostamenti li piazzereme allo scoperto. Mando due uomini di collegamento alla divisione. Dice il maggiore Azzarone, a proposito degli “ordini ulteriori”, che bisogna provocarli. Io non provocherò un bel niente. Posso fare il pazzo per conto mio, se ne ho voglia, ma non muoverò un dito per cacciare i miei uomini nell’inevitabile e inutile carneficina. 19 agosto I bersaglieri si sono buttati fuori con molto slancio e sembra che le cose vadano bene. I feriti dicono che il paese è preso. Ora il ca-sino è nel suo parossismo. Nella Dolina Lecce Bassa si è formato un pandemonio terribile: torme di feriti cenciosi affluiscono da 292 agosto, ottobre 1917 tutte le parti: il posto di medicazione rigurgita di barelle e gente insanguinata. Lo sbarramento picchia sodo sulla prima linea e la dolina è già piena di morti. Intravedo il sergente dalle tre ferite che se ne va tutto contento, con un braccio sconquassato: e quattro! Ora tocca a me. Devo saltar fuori col caporale Gallinella e trovare un posto utile per le mie armi, che piazzerò avanti anche senza aspettare l’ordine. Trovo un capitano dei bersaglieri colla barba nera e una ferita al collo: è in grande orgasmo; urla ordini a destra e a sinistra. Mi presento e gli chiedo dove devo andare: “Cerchi la quinta compa gnia”, grida, “che è già in paese: è il posto che fa per lei: vada su, bravo” e mi stringe la mano, ritto tra due cadaveri. Usciamo. Il camminamento d’approccio è tappezzato di morti: rampiamo su di loro aderendo il più possibile, perché pochi centimetri sopra le nostre teste una mitragliatrice nemica sta rigando l'aria, vicinissima. Ma prima di arrivare, sempre ventre a terra, al reticolato, una granata ci rovecia indietro in una nuvola di fumo e di terra. Mi ritrovo in fondo a una buca, tutto dolorante, con Gallinella e un paio di feriti. Restiamo un po' a riprender fiato poi tentiamo di nuovo. “Dove cribbio volete andare?” chiede uno. “Alla 5a compagnia”, rispondo; “dov'è la 5a compagnia?” La confusione è indescrivibile. Ma una sola cosa mi appare chiara; gli austriaci sono li a pochi metri, dopo aver imbottigliato gli assa-litori nella loro trincea di resistenza. La granata che ci ha travolti aill'uscita ha impedito, forse, la nostra cattura: eppure pochi minuti fa il paese sembrava in mano nostra! sezione 11 293 29 agosto Abbiamo definitivamente organizzato il servizio di prima linea. Cicognani ed io, con mezza sezione per volta, ci scambiamo per quarantotto ore in trincea e a Dolina Rancio. Divieto, in linea, di pronunciare la parola “lanciafiamme”. Il nemico potrebbe intercettare: guai se riesce a individuare gli appostamenti, saremmo fritti e se ci pigliassere prigionieri ci farebbero la festa senz’altro, noi che usiamo le più temute armi inventate dalla guerra. II Comando Supremo, cui è preziosa la nostra salute, non ci ha mai concesso di portare sulla manica sinistra il distintivo del corpo, un drago che vomita fuoco. Ronchi di Monfalcone, 24 ottobre Arriviamo alle sette di mattina. Sbucando in piazza abbiamo destato la curiosità di alcuni ufficiali, elegantissimi, fermi presso una grossa automobile. Già alzati a quest’ora? cosa sono? Telegrafisti? Comando Supremo? Servizio informazioni? Essi considerano lo strato di fango rosso e solido che ci ricopre dalle scarpe all’elmetto, le barbacce terrose e gli strappi che nessuno ha pensato a rammendare lassù. La sola vista di questi profumati “mannequins” della guerra mi dà un senso violento di ribellione. Per amor di Dio non mi dicano che sono necessari quanto noi! Ben più alto sta il nostro soldataccio miserabile, che una oscura disciplina inchioda al suo posto di immensa pena: quanto sento di esscire più vicino a lui che a questi colleghi verniciati e lustri, preoccupati da speroni, fregi e nastrini. 294 agosto, ottobre 1917 Andiamo a spidocchiarci. La 4a sezione ha meritato le docce calde: la casa della 2a lanciafiamme ci accoglie, sforacchiata e ospitale. Ma anche Ronchi, l’estrema mèta del nostro desiderio (chi osa pensare a Cervignano, a Udine?) è battuta con furiosa frequenza dai 152 ad alto esplosivo. Il giardino davanti alla casa è già alla sua settima buca da ieri. Se allungano il tiro ci fregano. Bel risultato, aver camminato tutta notte per incontrare ancora delle cannonate. sezione 11 295 Jožef Grilc Kako sem doživljal 1. svetovno vojno, Dnevnik 26. 7. 1914–24. 5. 1918. Archivio del Muzej novejše zgodovine Slovenije (Museo di Storia contemporanea della Slovenia). OTTOBRE 1916 Il 1° ottobre del Santo Rosario ci siamo alzati alle tre del mattino, ci siamo riuniti e siamo partiti. Abbiamo attraversato Rihenberk e poi nella notte abbiamo raggiunto Volčji grad, dove ci hanno dato il rancio e ci siamo accampati. Il 2 ottobre ho ricevuto per posta 30 corone da mia moglie. In serata il battaglione è partito da Volčji grad, a mezzanotte noi guide dei cavalli da tiro e al mattino la cucina. Il battaglione era di stanza in un bosco vicino a Vojšica [Nota – Vojščica], mentre noi e il traino eravamo di stanza in bosco vicino a Temnica. Il 9 e 10 ottobre gli italiano sono diventati così audaci da iniziare a sparare granate contro il nostro fienile. La sera abbiamo portato il rancio sul fronte con i cavalli. Abbiamo fatto ritorno solo al mattino. NOVEMBRE 1916 Il 1° novembre Ognissanti, di nuovo aeroplani come corvi. Alle undici di sera ci viene ordinato di portare le munizioni nelle trincee. Il percorso attraverso Kostanjevica è stato terribile, era quasi impossibile riuscire a passare, era tutto di traverso. Però questo si 296 ottobre – dicembre 1916 poteva ancora sopportare. Solo un’ora dal villaggio di Kostanjevica, invece, volavano sulla strada tante granate e shrapnel che la gente aveva paura, quindi dovevamo correre con i cavalli, ma siamo comunque riusciti a farcela. Il 2 novembre Tutti i fedeli defunti, noi guide di cavalli, Traktor-führer, ci siamo trasferiti da Zagrajec a Vojšica di sotto. La sera abbiamo di nuovo portato le munizioni in trincea, ma questa sera il trasporto era tutta un’altra storia rispetto alla scorsa sera. Questa sera, già su questa parte del villaggio di Kostanjevica, stavano non lanciando, ma versando a pioggia granate e shrapnel sulla strada principale e su quelle intorno. Questo perché gli italiani sapevano che la strada veniva percorsa di notte da molti carri, persone e cavalli. DICEMBRE 1916 8 dicembre Immacolata Concezione. Dovevamo portare i cavalli del comando della Divisione, era festa ma non per noi. Mi sono messo a rimuginare: Ho tre figli a casa, ma se qualcuno di loro dovesse trovarsi in questo dannato reggimento come me, preferirei vederli tutti sul catafalco oggi stesso. E finché avrò modo di aprir bocca maledirò sempre questo dannato Landver [Nota – Landwehr, esercito di difesa territoriale austriaca]. sezione 11 297 Vittorio Mascherini Memorie del Tenente Colonnello Vittorio Mascherini 1894–1959, Archivio Vittorio Mascherini.14 MONFALCONE Luglio – Settembre 1916 I l nostro Reggimento 155° Fanteria, giunse a Monfalcone alla meta’ del mese di Luglio. Facevo ancora parte del 3° Battaglione, comandato dal Maggiore Bosco, comandavo il 1° plotone della 9a Compagnia, comandata dal Capitano Sala Francesco. Quota 85, era stata perduta e il nostro Battaglione aveva il compito di riconquistarla essendo questa un caposaldo di grande importanza. Durante un micidiale fuoco di artiglieria, che batteva la trincea conquistata dal nemico, cominciammo, a ordine sparso l’avvicina-mento alla postazione da attaccare. Sull’imbrunire la postazione era riconquistata data la tempestività dell’attacco, e l’azione di artiglieria che non avevano dato tempo al nemico dell’afflusso di rinforzi e del consolidamento a difesa della posizione. Noi della 9a Compagnia con la 10a eravamo in prima linea e le altre due Compagnie di rincalzo, ci mettemmo con gran lena a rinforzare la posizione e munirla di cavalli di frisia, poiché era certo che il nemico sarebbe venuto al contrattacco. Le prime ore della sera trascorsero calme, ma verso le ore 22, fu segnalato da una pattuglia, dei movimenti del nemico e così a distanza di poco, i primi spari delle pattuglie e conseguentemente il ripiegamento di queste nella posizione. Trascorso pochissimo tempo il contrattacco si sviluppò con molta irruenza, in un primo 14 http://www.archiviomascherini.org/vita.html 298 luglio – settembre 1916 tempo trattenemmo il nemico con nutrito fuoco di fucileria, mitragliatrici e bombe a mano. Intervenne l’artiglieria nostra e loro con tiro rasente, ma l’impeto degli attaccanti era irruento e in gran forze, fu gioco forza porre in azione i lanciafiamme, il vento era favorevole a noi e in pochi istanti gli Austriaci cominciarono ad arretrare e iniziò il loro ripiegamento inseguito dal fuoco delle nostre armi, ma in un istante il vento si fece a noi contrario e il nostro ridottino fu una sola fiamma. Era l’inferno, eravamo battuti dalla loro artiglieria alle spalle e dalla nostra di fronte. Sebbene il contrattacco costò a noi varie perdite, ma quelle del nemico furono assai rilevanti. /…/ Durante tutta la notte non fummo più disturbati e alla prime luci del giorno si presentò ai nostri occhi una scena terribile: il terreno antistante alla nostra trincea era punteggiato da molti cadaveri tutti bruciati dai lanciafiamme. Questi furono sotterrati. Nei giorni dopo furono tentati altri attacchi, ma tutti furono respinti e la nostra posizione ormai era posta a completa difesa e l’avere respinto il primo contrattacco rimase leggendario e il nostro fu chiamato “Battaglione di ferro”. Il compito assegnatoci l’avevamo assolto ed avemmo gli elogi dai Comandi superiori. Effettivamente Q.85 poteva considerarsi il caposaldo di Monfalcone poiché da li si dominava tutta la pianura fino al mare, la ferrovia che portava a Trieste e tutte le altre Quote che andavano a decrescere di altezza fino a giungere a piccoli rialzi di terreno vicino al mare. Ottobre 1916 Ultimate le istruzioni ai nuovi venuti delle armi con le quali si combatteva in trincea, lancio di bombe a mano, funzionamento sezione 11 299 dei lanciafiamme, finti assalti alla baionetta, ecc, ecc; i primi di Settembre giunse l’ordine di partire per l’Altopiano Carsico. Così ci mettemmo in marcia! Attraversato il Vallone di Doberdò, cominciammo a salire per quella tremenda sassaia che è il Carso. Durante una sosta un portaordini mi recò una lettera. La notizia? Stupenda! La mia Compagnia doveva essere la prima ad attaccare la posizione per la conquista di Oppacchiasella. /.../ “Venga, venga con noi Mascherini,” – mi disse il Colonnello Guerra – “andiamo dietro quel muretto, parleremo con più comodità. E così mi posero in mezzo a loro. Giunti al luogo indicato ci mettemmo a sedere, mentre sulle nostre teste fischiavano le traiettorie delle granate in un duello delle artiglierie contrapposte.” “Vede Mascherini,” – cominciò il Colonnello Guerra – “la sua Compagnia è la più affiatata e più in gamba, perciò abbiamo stabilito, al Comando di Brigata e di Divisione, di dare questo incarico per il primo urto, al suo reparto. Lei ha i migliori Aiutanti di Battaglia del Reggimento, i soldati lo seguono ovunque, dunque a Lei questo onore!” “Signor Colonnello! Non è per me che mi permetto fare delle osservazioni, ma per il Reparto. A Monfalcone in sei giorni di battaglia, la mia bella 9a Compagnia è stata decimata, dei vecchi Aiutanti me ne sono rimasti due soli, Valenti e Riganelli, cinquanta dei vecchi soldati sono ancora a riposo, degli altri solo venti sono presenti, il rimanente sono tutti nuovi di questi centottanta. Come già mi sono reso conto, nel visitare la posizione da prendere, Sig. Colonnello, l’azione è rischiosa e non vorrei sacrificare tanti soldati, ci sono le altre Compagnie del Battaglione che ancore non hanno mai saputo ciò che vuol dire, la prima ondata, perciò crederei opportuno /.../ 300 luglio – settembre 1916 “Fare una volta per uno” – intervenne il Ten. Col. Ferrari – “ma Lei deve comprendere che i Superiori Comandi, sono a conoscenza dei reparti sui quali potersi fidare, perciò, desidererei, che essendo questa azione assai importante, ora che fa parte del mio Battaglione, facesse onore a questo, e fare apprezzare la sua 1a Compagnia, come Lei e la sua 9a Compagnia si sono fatti onore a Monfalcone”. “In questa azione verranno sperimentate le nuove bombarde, vedrà che le perdite di uomini si ridurranno al minimo, lei sa fare sfruttare il terreno e prenderà la posizione di sorpresa.” “E la dolina che prenderà si chiamerà “Dolina Toscana” – intervenne il Colonnello Guerra “Fiorentino lei Lucchese io, perciò Toscana si dovrà chiamare! Dopo l’azione le daremo un congruo riposo al suo Reparto.” “Siamo d'accordo Mascherini?” Alle ore 10 iniziò un bombardamento infernale. Il compito della Compagnia era il seguente: Obbiettivo minimo Castagneivizza, medio Udilok, massimo Lukatich. Erano piccoli agglomerati di case sparsi sull'Altipiano Carsico. Il terreno era una completa pietraia e formato da continue Doline adatte per ripari ed ulteriori scatti in avanti, ma insidiose per le sorprese che il nemico poteva riservar-ci. Effettivamente i boati delle nuove bombarde erano terrificanti. Alle ore 12 le artiglierie allungarono il tiro e alla testa dei primi due plotoni scattai all'assalto. Arrivammo ai margini della prima Dolina e fummo accolti da raffiche di mitragliatrici. Mentre noi attaccammo alla baionetta, il 3° e il 4° plotone avan-zavano alle ali e ben presto potemmo avere ragione del nemico ed avanzare oltre Castagneivzza e conquistare la Dolina che fu chiamata “Toscana”. Era ampia e profonda l’ideale per piazzare sezione 11 301 le bombarde. Effettivamente la sorpresa delle nuove di armi “le bombarde di grosso calibro” terrorizzavano talmente il nemico, il quale scappava o si arrendeva. Ancora qualche scontro a corpo a corpo e con bombe a mano, per snidare il nemico dai ricoveri ed alle ore 16 la Compagnia si era attestata oltre Udilok. Perdite da parte della Compagnia una ventina di uomini fuori combattimento, fra i quali un Ufficiale e due soldati morti. /…/ Alle ore 21 giunse il rancio. Il Comando di Reggimento fu molto largivo, inviò alla Compagnia molti viveri di conforto, vino, caffè, cognac, anaci e tabacco, con la raccomandazione di far buona veglia. 302 luglio – settembre 1916 Francesco Orlandi II La Domenica 24 Dicembre doveva aver luogo la S. Messa in un campo a Cassions di Mure con la premiazione degli Arditi, ma per la forte pioggia la funzione non ebbe luogo. Alle ore 20 ci mettemmo a cenare in una lunga tavolata frammez-zati alle donne di casa e vicine, le quali fra noi si trovavano come pesci fuor d’acqua. Verso le ore 21 avemmo la gradita visita del Sottotenente Ciccanti col suo mandolino. Fu pregato di suonare e la comitiva divenne allegra fra canti e suoni, inni guerreschi ed anche - - - - l’inno dei lavoratori! lo facevo la voce bianca, con meraviglia dei presenti, data la mia abituale serietà ed il mio carattere poco ciarliero. Che volete, ram-mentavo gli anni passati in quella serata, e le feste successive che passavo allegramente e cercai di allontanare il pensiero dello stato in cui mi trovavo e mi sforzai di essere allegro e spensierato. Dopo la partenza del Ciccanti mi ritirai in ufficio da solo, per rispondere ai molti auguri pervenutimi dall’interno e da ultimo e leggere i giornali, da poco arrivati, nei quali si parlava delle pressioni fatte ai belligeranti dagli Stati Uniti, per intavolare trattative per la pace. /.../ Verso le ore 17 però, venne divulgata la triste novella che era giunto l’ordine di recarci tutti a Polazzo per il giorno seguente onde ritornare a occupare il vecchio posto di prima linea nella Quota 208 Sud. /…/ Salimmo in ventuno per ogni camion per Cervigliano, Villa Vicentina, Turriaco, Ronchi, Selz, e Doberdò, ci dirigemmo verso il fronte. Ammirai la strada che io ben conoscevo per averla fatta sezione 11 303 spesso a piedi. Rividi le magnifiche nuove trincee di Villa Vicentina in cemento armato, quelle sfasciate a muretto di Ronchi e Selz, Doberdò con i fabbricati sfondati in ogni dove, le gallerie scavate nel sasso contenenti molti autocannoni da 110 mm. Dopo breve sosta, in un pianoro antistante Doberdò, indrappellati per Compagnia, cominciammo a marciare nel fango. In certi punti la strada era completamente allagata e noi guaz-zavamo come tante anitre. Sotto di noi vedevamo lunghe catene di grossa e media artiglieria, mascherata con rami secchi, che si stendevano sul ciglio della collina dominante il Vallone. /…/ Il 2 Gennaio 1917 lo dedicai alla ricerca delle tombe dei miei amici Galloni Enrico e Poli Celestino. Col piantone Viola andammo all’infermeria in fondo al Vallone dal Cappellano Pasanali sig. Um-berto, che ci fornì di un lasciapassare per il mesto pellegrinaggio. Visitammo cosi tutti i cimiteri del Vallone. Sotto Oppacchiosella potemmo ammirare moltissimi pezzi d’artiglieria pesante con deposito di proiettili. La strada era fangosa e rendeva maggiormente pesante la nostra marcia. Visitammo molti cimiteri Austriaci ben ordinati, simmetrici e con belle diciture. Nei nostri cimiteri vi erano tombe di Ufficiali con lavori artistici in cemento, ma di già dete-riorati, oltrechè dal térreno poco sodo anche dal cattivo materiale messo in opera. Giungemmo in poco tempo dove presumevamo fossero le tombe dei miei amici, ma non trovammo tracce del 30° Reggimento Fanteria. Mi inoltrai ancora con Viola nella zona dove il lasciapassare più non valeva e fui fortunato perché non ebbi molestie dai Carabinieri, tanto rigidi ed esigenti sui militari a zonzo, anche nei cimiteri! Difatti nel villaggio di Devitag (Devetachi), in un vallone grandis-304 dicembre 1916 – gennaio 1917 simo, un poʼ distante dalla linea stradale, trovai tre cimiteri. Dopo molte ricerche, nel piò grazioso e bello, potei finalmente trovare le tombe dei miei due carissimi amici. Misi a fianco delle loro croci alcuni rami sempreverdi e tolsi dalle zolle della tomba del Poli, l’unico filo d’erba e strappai un piccolo ramoscello da una pianta cresciuta sulla tomba del povero Galloni. Questi due ricordi li inviai, poi, alle loro spose. Erano stati seppelliti due per ogni fossa colla variante che il Poli si trovava sopra l’altro, mentre il Galloni era sotto. Mi rivolsi ad alcuni cementisti che stavano costruendo tombe artistiche per Ufficiali, perché avrei voluto anch’io far fare qualche piccolo lavoretto sulle tombe dei miei amici, ma essi mi risposero che non potevano fare lavori estranei ai loro reparti e non potevano soddisfare il mio desiderio. /…/ Giunsi tardi al mio rifugio e molto stanco, ma contento di aver trovato le tombe dei due carissimi amici Bolognesi coi quali avevo condiviso pericoli, fatiche e speranze. sezione 11 305 Albin Mlakar Dnevnik 1914–1918 Kobarid: Turistična agencija K. C. K., d. o. o. 1995. 14 luglio [1916] Ho fatto il bucato. L’ho fatto “alla buona” perché avevo poca acqua. Nel pomeriggio alle 5 siamo andati da Sant’Egidio (a Sveto o Suto) attraverso Komen fino ad Nabrežina (Nota – Aurisina) Lì ci siamo riposati per un’ora e mezza. Mentre si marciava verso Nabrežina, l’intera batteria era avvolta da una nuvola di polvere stradale. Sem-bravamo più dei mugnai che dei soldati. Alle 9 ½ di sera abbiamo attraversato Sesljan [Nota – Sistiana] fino all’avamposto che si trova a mezz’ora dalla suddetta località vicino al mare Adriatico. 15 luglio Abbiamo scavato tutta la notte. Non molto lontano verso destra c’è stato un forte attacco, nemico o amico, non ho potuto giudicare. Abbiamo finito il lavoro alle 7 del mattino. Alle 4 ci hanno portato il caffè. Ora non ci daranno più nulla fino a notte perché durante il giorno nessuno può venire qui da noi. Gli italiani sparano a chiunque vedono passare sulla strada. Abbiamo dormito fino alle 5 del pomeriggio. Poi siamo andati al secondo avamposto, dove verranno posizionati altri tre cannoni, tra cui il mio. L’avamposto si trova ad ovest del castello (Castello di Duino [Nota – Devin]) proprio sulle rive del nostro mare. Spa-reremo solo in mare se succedesse qualcosa, ma spero che non ci sarà bisogno di sparare. Mi piace molto questo posto. Sono molto contento di essere qui. 306 luglio 1916, aprile – maggio 1917 San Giovanni al Timavo / Štivan e castello di Duino / Devin 307 17 luglio Quando finiremo il lavoro? Più lavoriamo, più il lavoro aumenta. Abbiamo dovuto abbattere il bosco che chiudeva la vista sul mare e poi abbiamo “piantato” gli alberi lì dove serviva. Abbiamo ribaltato tutto. Abbiamo iniziato a scavare le coperture. Si prevede molto lavoro. 20 agosto 1916 La giornata è trascorsa in pace. Pioggia al mattino. Nel pomeriggio sono andato ad abbuffarmi di uva e fichi. Ho mangiucchiato così a lungo che mi sono strofinato le labbra fino a far uscire il sangue. Come questo possa succedere, non lo so; forse perché l’uva è ancora acerba. Ieri sera ho visitato i compagni caduti che sono sepolti nel giardino del castello di Duino. La lapide è davvero bella. 12 novembre Ho esplorato i dintorni della nostra batteria. A circa 10–20 passi dalla copertura del sesto cannone (all’inizio mio, ora in disuso) ho trovato due granate da 15 cm inesplose. Granate dei francesi o degli inglesi, a giudicare dalle chiare differenze di lavorazione. Questi tipi di granate, quelle che sono esplose, hanno lasciato delle buche profonde, da poterci seppellire dentro tre cavalli. Anche le nostre coperture, seppur forti e robuste, non sarebbero servite contro queste granate. Tutto è pieno di grotte, tutto è dissestato, devastato. Le grotte sono a pochi passi dalle coperture. La baracca del primo cannone è distrutta. Fortunatamente, non c’era nessuno all’interno in quel momento. Anche la baracca del II cannone è stata colpita. La baracca del IV cannone è completamente distrutta. La terza è 308 luglio 1916, aprile – maggio 1917 stata particolarmente fortunata finora, anche se le granate avevano colpito a soli quattro o cinque passi da quest’ultima. 13 novembre Al mattino è venuto in batteria il nostro comandante di reggimento, il tenente colonnello Ledochowski. Ha visitato l’avamposto ed è rimasto soddisfatto di noi tutti. Mi ha chiesto quale fosse il mio nome, da dove venissi, come fosse il rancio, quale fosse la mia nazionalità. Ho risposto: Buono, di Divača, a volte buono, a volte no, sloveno. Di lì a poco ho saputo che non ce ne saremmo andati da qui. All’improvviso, tutto si è fermato. La sera ero deciso di andare con i miei uomini al castello di Duino, dove si trovano due dei nostri cannoni. Mi piace andarci. Me ne starò lì vicino al mare. Vicino anche ai nostri compagni caduti che sono sepolti nel parco del castello. 30 aprile [1917] Al mattino, i nostri hanno sparato con un obice da 38 cm (con Barbara) su Gradisca. Hanno sparato 21 colpi. La granata gigante è stata accompagnata da un ululato orribile che non si può descrivere. L’atmosfera agitata non si è calmata per un intero minuto. 26 maggio All’una e mezza del mattino, mi ha svegliato dal dormiveglia un terribile botto, e allo stesso tempo qualcosa mi ha colpito con grande forza sul fianco sinistro. Era un sasso lanciato da una granata esplosa, o forse da una bomba di aereo caduta a 30 metri da me. Qui, naturalmente, non c’è alcuna copertura. Ho dormito all’aperto. sezione 11 309 All’inizio pensavo di essere stato raggiunto da un pezzo d’acciaio, ma quando ho guardato nel punto dove faceva male, ho notato una grande macchia dal colore nero rossastro. Mi faceva e mi fa ancora molto male. Sono andato a dormire, ma ho dormito per un’ora a malapena, poi mi hanno svegliato. Sono dovuto andare in un nuovo osservatorio che si trova sopra un’alta terrazza sul mare, a circa 200 m sopra Duino, che era stato già quasi raggiunto dagli italiani, prima che si fossero nuovamente ritirati. L’osservatorio è una fortezza naturale. Resistiamo accovacciati tra le crepe della roccia tutto il giorno, così da sentire dolori dappertutto. Non avevo niente da mangiare con me, quindi ho digiunato di nuovo. Il sole era cocente ed io avevo così tanta sete che per un bicchiere d’acqua avrei dato tutto quello che io avevo da poveraccio. Non era possibile andare a prendere l’acqua, perché lì nulla poteva muoversi, altrimenti eravamo perduti. Tuttavia, dovevo recarmi dal comandante della quarta batteria con un comando. Ho strisciato a pancia in giù per terra come un serpente. Mi sono strappato sia i vestiti che la pelle sulle rocce affilate del Carso. Mentre mi arrampicavo ti ho perso, compagno mio – diario mio. Ti ho cercato a lungo e alla fine ti ho trovato. Mi sarebbe davvero dispiaciuto per te. Nel pomeriggio abbiamo ricevuto altre granate da 15 e 30 cm. Trovandoci quasi sul precipizio, alcune di esse sono cadute in mare, esplodendo con voce cupa. Poi si alzava dal mare un pilastro d’acqua alto 100 m. La sete mi tormentava terribilmente. La sera, quando stavamo tornando alla batteria, sarei quasi crollato. Con nostra grande gioia, a Sistiana abbiamo ricevuto acqua fresca dai nostri “marinai”. Oh, non so se avevo mai bevuto qualcosa di meglio di quest’acqua. Mi sono sentito rinvigorito e ho potuto proseguire con facilità il “pellegrinaggio”. 310 luglio 1916, aprile – maggio 1917 Pietro Ferrari II 1917 4 settembre Verso le ore 10 si parte, lungo la strada vedeva nei fossi asciutti molti caricatori di cartucce gettate là da soldai di passaggio, passiamo per Ronchi a arrivati in piazza al paesetto di Selz, prendiamo la via a destra. Il paese è tutto diroccato e dove biforcano le strade si conosce che è una piazza e che rimane ancora in piedi una grossa pianta, di vero il grosso tronco, perché i rami sono tutti stroncati e contorti dalle cannonate. Costeggiamo il lago di Pietrarossa e circa alle due pomeridiane arriviamo alle trincee blindate del Velechi Debeli. Ci fanno entrare lungo questa trincea che si stendeva a ridosso della bassa collina tutta pietre e rovi. Alla sera arriva il rancio che non avevamo potuto mangiare prima della partenza, venne distribuito e così possiamo mangiare. Io mi corico lungo la trincea e guardo se posso dormire perche ero stanco. Quando, verso la mezza notte sento che mi chiamano, vedo che distribuiscono le bombe a mano delle quali me ne danno 4, due ballerine e due sipe. Poi scendiamo la trincea e in fila ad uno ad uno procede ancora per la strada e arriviamo alla Dolina dell’Acqua. Qui sento un odore di morto che faceva rivoltare lo stomaco. Riuniti cosi alla meglio ci fanno prendere un caminamento sul fianco della collina, che dalla nostra sinistra era tutto riparato con un muri-sezione 11 311 ciolo fatto a greca per riparare i soldati dalle granate che austriaci continuamente sparavano di fronte. Questo caminamento l’hò faccio a salti da un angolo all’altro, muo-vendomi ad ogni scoppio di granata, questa strada è seminata di feriti e morti. Incontro lungo questo caminamento dei prigionieri Tedeschi che tranquillamente se n’andavano indietro. Tutto trafelato, sudato, e dolente arrivo ad una dolina, dove vi era una galleria o grande grotta dove medicavano i feriti, e fuori vi erano dei morti alineati sulle barelle pronti per essere portati al cimitero. Li guardo con mestizia e penso che forse, chi sa /…/ fra poco /…/ potrei] essere anchio lungo disteso sulla barella come loro. Ci fermiamo qualche minuto. Credevo che fossimo giunti a posto, ma invece, si va ancora avanti. Si riprende a salire la montagna, l’Ermada, brutta e squallida e vederla di notte gettava ombre sinistre che facevano ribrezzo. Si andava per un caminamento tutti sconvolto dalle granate e per l’oscurità perdiamo il collegamento. Ci fermiamo qualche minuto per orrisontarci e ripreso il collegamento proseguiamo. Che orrore! Caminando in questo caminamento più volte distrutto dalle granate, due o tre volte misi il piede sul ventre di poveri soldati morti e sepolti dal franamento della terra smossa e rimossa dalle continue granate che ivi scoppiavano. Sotto il peso della mia persona essendo un po’ che erano morti, da vari giorni, scoppiavano e la marcia schizzava sulla faccia lasciandomi adosso un fettore insoportabile. Al termine del caminamento abbiamo dovuto fare una corsa perche si era allo scoperto e arriviamo ad un piccolo rialzo della montagna, dove vi erano delle piccole capanelle di legno e pietre. 312 settembre 1917, novembre 1918 Ci fermiamo qui qualche minuto, ed io già mi faceva il proposito di passare la notte lì sotto, dicendomi fortunato di essere un po’ ricoverato e riparato. Un bisbiglio e delle voci appena percettibili ci dicono di andare avanti. Cosi facciamo e fatto un po di corsa troviamo dei soldati appartenenti al’89o Fanteria, che appena giunti noi prendevano le loro robe, e dicendoci che avevano il cambio ritornavano indietro. Cosi mi accorgo di essere in prima linea. /.../ È sempre scuro e noi facciamo fuoco, ma non si vedeva nessuno. Sento uno che grida, è il mio Tenente Sign Giuffrida che comanda la compagnia. Si ferma vicino a me con la rivoltella in alto e grida: Sparate sparate ragazzi che sono gli Austriaci. Appena detto queste parole una granata di grosso calibro le scoppia vicino. Il tenente manda un grido e cade a terra. Io vengo gettato a dosso ai miei compagni tutto tramortito con la testa pesante e un ronzio che mi impediva di sentire bene quello che succedeva dintorno a me. Le pietre balzate in aria dallo scoppio della granata mi cadevano a dosso facendomi delle piccole ferite in varie parti. Tuttavia cerco di farmi forza, il pensiero del dovere; mi sforzo ad aprire gli occhi pieni di terra per lo scoppio. Sento gridare: urra, urra e mi vedo d’avanti gli Austriaci. Cosi nella penombra vedo che sono circa 5, con delle faccie barbute e stravolte con occhi torvi e diviza stracciata, tengono delle bombe sul braccio. Uno ne getta alcune che per una mia mossa mi cadono dietro scoppiando con grande fragore. sezione 11 313 Allora un altro con lo stile tenta darmi una stillettata, allora io vistomi perduto grido loro: No per amor di Dio. Un austriaco mi prende forte pel braccio facendomi cadere il fucile a datomi uno spintone mi getta a terra. Tutto questo successe nello spazio di 10 minuti circa. Mi trovai cosi prigioniero degli Austriaci./…/ Vedo dei soldati austriaci che avanzano carichi di sacchi pieni di bombe e munizioni e nel parosismo che mi trovavo gli lanciavo baci dalla bocca con la mano. Il cuore mi batteva forte, era un martellamento furioso, do modo che ad un certo punto svenni, cadendo a terra privo di sensi. /…/ Quando rinvenni il sole lanciava i suoi primi raggi. Un aria fresca faceva svanire dalla fronte l’angoscia provata in quei lunghi minuti che rimasi svenuto. Un soldato austriaco dai lunghi baffi se ne stava in piedi fermo, guardandomi. Istintivamente gli chiesi da bere sentendomi la bocca arsa, e questo soldato mi diede la sua boraccia piena di caffè caldo. Dopo averne bevuto alcuni sorsi che mi ristorano tanto, feci modo di rendergli la boraccia, ma lui mi fece cenno di tenermi la sua boraccia ed in cambio volle la mia boraccia, che era vuota e di legno. Lo ringraziai e lui con la mano mi indicò pressappoco la strada che dovevo fare andando verso un punto di ritrovo dei prigionieri. Mi voltai indietro e vidi che sull’Ermada i nostri aeroplani facevano cadere delle bombe, rendendo quella montagna come un vulcano. 314 settembre 1917, novembre 1918 V rapaci e sentivo lo scroscio dei colpi di bombe che parevano venire da sotterranei, tanto era cupo il loro rumore. Per l’aria fischiava altresì i proiettili della Marina Italiana, che in unione alle forze di terra rintuzzava l’attacco che fecero contro di noi nella notte appena passata. [Sentire] Questi proiettili della Marina Italiana era /…/ come sentire dei treni per aria, e dove cadevano era fragore ed un disastro. Una granata di queste scoppiò a circa cento metri davanti [a me] sulla strada che doveva percorrere. Rimasi fermo all’istante, come inebetito d’avanti allo squarcio diabolico che fece cadendo. In questa scialba aurora si vedeva qua e là altri prigionieri fatti in questa notte, do modo che lungo la via ci siamo trovati in circa quarantina. 1918 12 novembre Alle ore 8 si giunge a Trieste, il treno entra nel grande porto e qui si scende. A gruppi ci portano al comando dove vengo assegnato alla 125a Centuria comandata da Capitano Giovanni Raimondi di Crema. Ci portano poi lungo una banchina del porto e ci lasciano. Il tempo è freddo, il vento è forte e noi siamo allo scoperto, esposti a tutte le intemperie. Dei prigionieri siamo già in tanti ed ogni treno che arriva depone il doloroso fardello ed accresce di più il numero dei ricoverati e la confusione nel porto. /…/ Figurarsi: la fame il freddo. Si tenta di uscire dal porto per comprare qualche cosa da mangiare, ma le cancellate e le porte sono sezione 11 315 chiuse e sorvegliate da cordoni di bersaglieri con appostate delle mitragliatrici come se fossimo dei malfattori. Mai mi immaginavo di essere trattato cosi al nostro ritorno in Patria. 316 settembre 1917, novembre 1918 Karl Paulin II Così qui [Nota – nel campo di concentramento per i prigionieri di guerra a Cassino] è passato il mese di luglio e con l’inizio di agosto c’è stato un piccolo cambiamento nel cibo. Gli italiani hanno iniziato a darci caffè nero per colazione, non era molto, ma era molto buono, dolce e ce l’hanno dato fino a quando siamo tornati a casa. Il 2 agosto [Nota – 1919] è stato organizzato il primo trasporto costituito dai tedeschi austriaci, che sono partiti lo stesso giorno verso casa, così com’erano. Per anticipare la salvezza dalla prigionia, alcuni jugoslavi si sono uniti a loro, pensando che bastava arrivare in Austria – poi in qualche modo avrebbero oltrepassato il confine con la Jugoslavia e sarebbero arrivati a casa. Davanti alla porta hanno di nuovo chiamato ciascuno per nome, ci hanno contato e finalmente la pesante porta del campo si è aperta e la libertà ci ha sorriso. Abbiamo lasciato il campo di concentramento per sempre. Davanti alla porta, varcando la soglia del campo di concentramento, mi sono ricordato di tutti i miei compagni di sventura che sono rimasti nel campo e di tutti quelli che sono morti e sono rimasti sepolti in terra straniera. Eravamo novantuno prigionieri rilasciati, tutti Primorci, sloveni del Litorale, e cinque italiani di guardia. Ci siamo incamminati verso la città di Cassino fino alla stazione ferroviaria, che distava circa un’ora di cammino dal campo di concentramento. Siamo saliti sui carri bestiame e siamo partiti per Roma. In ogni punto in cui ci fermavamo nelle stazioni principali, ci davano il pane dai magazzini militari e, inoltre, venti centesimi a testa, sezione 14 317 tranne che a Roma. A Bologna non volevano darci il pane, perciò ci siamo lamentati con il comandante dei trasporti. È andato con noi al magazzino della stazione ferroviaria e ha fatto sì che ci dessero subito il pane. /.../ Siamo ripartiti nel pomeriggio e siamo arrivati a Trieste verso le cinque, alla stazione sud di Sant’Andrea, dove dopo tanto tempo ho messo piede sulla mia terra di casa. Era una domenica bella e soleggiata. Fuori dalla stazione, sulla strada vicino all’edificio della stazione, ci hanno messo in fila per quattro e abbiamo aspettato un po’. Dato che era una bella giornata, i cittadini passeggiavano accanto a noi e ci guardavano. Alcuni si fermavano vicino a noi e ci chiedevano da dove venissimo, dove stessimo andando e dove fossimo di casa. Tra loro ce n’erano alcuni che conoscevano la gente del posto perché erano di casa vicino a Trieste. Poco dopo è apparsa da un’altra strada un’intera compagnia di bersaglieri con penne di cappone sul cappello, avvicinandosi a noi a passi veloci. Quando ci hanno raggiunto si sono distribuiti tutt’intorno a noi, ci superavano di numero. Sono intervenuti come rinforzo per aiutare le guardie. Si è udito un comando stridente: “Baionetta in canna!” Dopo lo sferraglio ci siamo messi in marcia attraverso la città in compagnia delle baionette, sotto gli occhi di tutti quelli che se ne stavano a passeggio. Ci hanno portato per la città – come banditi – fino al “Castello di San Giusto”, dove c’erano già circa duecento prigionieri e civili – internati che erano stati incarcerati dagli italiani come sospetti politici – gli sloveni troppo coscienti quindi. Anche qui c’erano prigionieri di varie nazionalità che erano scappati ma che poi erano stati catturati vicino al confine e imprigionati. 318 agosto 1919 Non passava giornata senza che l’italiano entrasse nelle stanze con un bigliettino in mano, lo riconoscevamo già dalla voce. Poi un pomeriggio appare in silenzio sulla porta della stanza e comincia a leggere i nomi. C’era silenzio ed era tutto tranquillo mentre ascoltavamo i nomi dei chiamati. C’ero anch’io tra loro. Quella volta hanno chiamato contemporaneamente quaranta persone, solo prigionieri, nessun internato, solo quelli che provenivamo da Cassino. Si percepiva una gioia culminante e io non sono stato mai così felice nella vita come allora. Ci hanno tolto tutti gli indumenti e altre cose militari, quindi siamo usciti dal castello senza niente. Ho portato con me solo un cucchiaio sul quale c’è inciso il mio nome e l’anno. Ancora oggi mi piace mangiare con questo cucchiaio, anche se rappresenta l’amaro ricordo di un terribile passato. Grazie a Dio, dopo tanto tempo e tanta sofferenza, ho lasciato la prigionia che non volevo più e che non auguravo a nessuno. Alcuni sono andati direttamente sul treno per andare a casa, altri dai parenti. Io sono andato a trovare mio zio e mia zia in via Santo Spiridione. Sono rimasto da loro da mercoledì a sabato. Ho visitato alcune volte la città e Roiano, dove viveva la mia madrina. Era sabato, una bella giornata d’autunno, quando ho messo piede sulla terra di casa mia a Kobarid, che avevo lasciato il 26 ottobre 1914. Così, dopo cinque anni di sofferenza, sono tornato felice-mente a casa. Sono tornato nel mio paese natale – pochi di noi sono tornati, molti sono rimasti sui campi di battaglia, nei campi di prigionia e i loro corpi stanchi sono sepolti in tutto il mondo. Che il loro ricordo sia di benedizione! sezione 14 319 320 321 Autori delle storie e chiarimenti alle loro testimonianze Chiarimenti generali Il mosaico delle narrazioni qui esposte è costituito da brani di annotazioni più estese in cui i partecipanti hanno descritto il campo di battaglia del Fronte dell’Isonzo, gli eventi che si sono svolti sia direttamente sul campo di battaglia che nelle retroguardie, i loro sentimenti e pensieri. Fra i trenta autori c’è solo un ufficiale superiore, dieci sono sottoufficiali, soprattutto tenenti, il resto sono soldati. Tutti, compresi i sottoufficiali, hanno vissuto da vicino gli orrori della guerra. I racconti che coprono il periodo fino alla fine della guerra testimoniano che almeno otto di loro sono stati fatti prigionieri di guerra. Alcuni erano poco o per niente istruiti, ma hanno comunque impiegato molta perseveranza e impegno nel testimoniare per iscritto ciò che stavano vivendo. Si erano imposti un compito assai difficile, considerando il fatto che anche nella scrittura di persone letterariamente più ambiziose viene ribadita di continuo l’incapacità di trovare le parole giuste per descrivere gli eventi vissuti. In un’area relativamente ristretta, il Fronte dell’Isonzo ha mostrato delle immagini e dei corsi degli eventi molto svariati. Anche gli escursionisti che intraprenderanno il Sentiero della Pace potranno rendersene conto. In un terzo del campo di battaglia a nord si svolse-ro i combattimenti in montagna o addirittura in alta montagna, come narrato dalle testimonianze riguardanti le sezioni I, II e IV. Alcune caratteristiche del combattimento di montagna erano presenti anche nella fascia pedemontana che partiva dalla testa di ponte di Tolmino fino a raggiungere le colline sopra Gorizia, nelle sezioni V, VI e VII. 322 Si trovarono in tutt’altra situazione i soldati presenti nella zona di Gorizia, nella sezione VIII, per non parlare della grande peculiarità che rappresentava l’altopiano carsico, fino al mare. Nonostante le suddette differenze e particolarità che dipendevano dalla morfologia della superficie e dalle diverse condizioni meteorologiche, gli eventi furono per molti versi molto simili. Ai soldati italiani fu affidato il ruolo degli aggressori, il che richiedeva un’adeguata preparazione morale, maggiori perdite e la convinzione che in una guerra di logoramento il nemico sarebbe stato senza dubbio sconfitto. Ma la preparazione morale era alquanto insolita già all’inizio della guerra e, con il progredire dei combattimenti, si era rivelata sempre più inefficace. Nelle prime battaglie, i cap-pellani militari avrebbero dovuto tenere una predica per i soldati dicendo quanto segue: “Bisogna tutti morire. Il soldato lo sa... Solo il modo ne è diverso... Qui in battaglia, la vittima non cade sola... Sono molti, sono cento, sono mille, che offrono a Dio il sacrificio della vita a difesa della patria ... E questo sacrificio si svolge e si consuma sotto lo sguardo amoroso di Dio, sotto un cielo di zaffiro, in un’onda profumata di luce, su un terreno consacrato dal sangue nobile e generoso dei figli d’Italia”. 15 I soldati capirono ben presto che in alcuni luoghi non sarebbero stati in grado di avanzare di un singolo passo. A nord i nomi famigerati erano: Rombon, Sleme, Mrzli vrh e la testa di ponte di Tolmino. Più a sud, dopo la presa di Gorizia, diventarono tali il monte San Marco, Castagnevizza, Grmada e molti altri. Dalla parte austro-ungarica era più facile spiegare ai soldati quale fosse il loro compito nella difesa della patria, ma i loro diari, di 15 Brevi discorsetti ai soldati Vicenza: Societa Anonima Tipografica 1915 323 regola, non rivelano particolari tracce di zelo. Si distinguevano un po’ gli sloveni per la loro consapevolezza di combattere nel proprio cortile e per la propria patria, ma anche loro odiavano altrettanto la guerra. Questa differenza influenzava anche le decisioni relative ai tra-sferimenti delle unità. La permanenza troppo lunga delle truppe italiane nelle zone del fronte dove non c’era speranza di avanzare, ebbe un effetto devastante sul morale dei soldati. L’unico problema era che altrove la situazione non era solitamente migliore. Il comandante della divisione che combatteva sul Mrzli vrh nel 1915, constatava dopo soli cinque mesi di guerra: “Ufficiali e truppa parlano, per giustificazione, dei diuturni disagi e delle perdite subite. Ma i disagi, alla guerra, sono inevitabili ed in quanto alle perdite, se ve ne furono delle sensibili, mai hanno raggiunto cifre veramente impres-sionanti. Mancava forse in taluni la nozione esatta di che cosa fosse la guerra: non vi avevano preparato né la mente né il cuore: da qui la loro attuale tiepidezza, per non dire peggio. Scomparsi in gran parte i migliori, quelli che giungono dall’interno del paese per sostituirli, non sono tutti, pur troppo, animati. Non si esiti ad usare le armi, ed anche il fuoco dell’artiglieria, contro quei riparti che si mostrano recalcitranti ad impegnarsi.” 16 I difensori, al contrario, mantennero molte unità nello stesso punto del campo di battaglia per tutti i 29 mesi. Grandi spostamenti si fecero solo nella primavera del 1916, in occasione dei preparativi per la grande offensiva sul campo di battaglia tirolese, e furono realizzati nelle situazioni di crisi per “spegnere gli incendi” durante le offensive italiane. 16 Archivio del Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito. 324 I lettori potrebbero avere l’impressione che si ripetano troppe parole dedicate all’artiglieria, ma in realtà non si tratta affatto di una scelta. Si ripetono puntualmente in tutti gli scritti. La potenza dell’artiglieria, soprattutto quella italiana, cresceva di giorno in giorno e nel 1917 raggiunse delle proporzioni incredibili. Non riuscendo a sfondare oltre le trincee o neanche nel sottosuolo, i generali decisero di anticipare gli attacchi della fanteria sul campo di battaglia con il “martellamento” dell’artiglieria, davanti al quale i soldati si sentivano del tutto impotenti. L’impatto più devastante sul morale lo aveva il “fuoco tambureggiante” in cui le esplosioni di migliaia di granate si fondevano in un unico tambureggiamento, e il cosiddetto “fuoco amico”, gli spari dell’artiglieria che raggiungevano le schiene, le trincee e gli ingressi dei rifugi dei propri soldati. Le ragioni per cui questo fatto avveniva quotidianamente sono state spiegate chiaramente nel diario del comandante P. A. Gagliani. Le posizioni di entrambi erano semplicemente troppo vicine. La Decima e l’Undicesima offensiva italiana portarono la devastazione verso una nuova dimensione. Il potere distruttivo dell’artiglieria aveva sorpreso e sbalordito i membri di entrambi gli eserciti, il che risulta evidente in tutti i loro racconti. La sopravvivenza andava cercata sottoterra, e ciò era ampiamente sfruttato dai difensori, con la maggior parte degli uomini che erano schierati lì in attesa dell’attacco della fanteria italiana. Questa tattica viene illustrata dai dati riguardanti il breve attacco italiano sul Mrzli vrh durante l’Undicesima offensiva. Le truppe italiane persero circa 2600 uomini, tra cui 1000 morti. Quattro battaglioni avevano subito una perdita del 50%. La 3a Brigata da montagna austro-ungarica perse 554 uomini (16,5 %), il che può essere riconducibile all’esteso siste-325 ma di rifugi sotterranei. I comandanti italiani descrissero l’evento come una piccola operazione dimostrativa volta a “intrattenere” la brigata da montagna nemica. Dopo quanto descritto e le terribili perdite subite, è del tutto su-perfluo domandarsi del morale dei soldati nelle battaglie del 1917. Molti vedevano nel nemico un compagno di sventura e nei loro scritti non si percepisce odio accanto alla parola “nemico”. Decide-vano in egual modo della vita e della morte sia le granate proprie che quelle del nemico – e, naturalmente, coloro che mandavano i soldati a morire. I lettori scopriranno che entrambi, indipendentemente dal colore dell’uniforme, ripetevano le stesse parole: marcia, carico, fatica, sonno, cibo scadente, fame, sete, acqua, rocce, fango, pioggia, freddo, caldo, artiglieria, granate, devastazione, cadaveri, amici caduti ... e anche prigionia. Contrariamente a quanto sopra, oggi si offre ai visitatori un’immagine completamente diversa dell’ex campo di battaglia. Ammi-rando le bellezze della natura, si allontanano gradualmente dalla coscienza i pensieri legati ai grandi eventi storici che fecero affluire inimmaginabili masse di gente in questi luoghi. Spero che la lettura di queste testimonianze possa aiutare a conservarne la memoria e che possa renderci consapevoli che noi discendenti viviamo in un mondo più bello di quello dei nostri antenati. 326 Autori dei racconti Antonio Budinich (1878 – 1972) A giudicare dal luogo di nascita, Veli Lošinj (Lussingrande), e dal suo cognome, i suoi antenati erano di origine croata, ma la famiglia parlava italiano già da diverse generazioni. Si sentiva italiano, ma studiò storia a Vienna e lì si laureò. Fino allo scoppio della guerra era stato professore di lettere a Trieste. L’esercito austro-ungarico era composto da soldati di nazionalità italiana che provenivano del Litorale austriaco e dall’Alto Adige e che, descrivendo le loro esperienze belliche e pubblicando successivamente questi racconti, fecero conoscere ai lettori italiani l’opera dell’esercito austro-ungarico. Nelle sue memorie menziona più volte anche i prigionieri di guerra russi. Uno dei registri dei soldati deceduti e dei prigionieri di guerra russi da lui menzionato, in cui i dati erano stati inseriti dal furiere Sussich, è conservato presso l’Archivio regionale di Nova Gorica. I prigionieri russi che avevano costruito la strada attraverso Vršič, il passo della Mojstrovka, avevano costruito una chiesa commemorativa sul lato del passo rivolto verso Kranjska Gora. Ne parla la Guida al Sentiero della Pace nelle descrizioni del primo tratto iniziale del sentiero. La descrizione degli eventi sul monte Ravelnik presso Bovec (Plezzo) offre un quadro completamente diverso da quello vissuto da Giuseppe Garzoni alla fine del settembre 1915 durante l’attacco fallito. L’anno seguente, infatti, i comandi italiani fermarono la sequenza dei disperati attacchi a queste postazioni consolidate nei pressi di Bovec. Il diario è stato scritto dall’autore per i suoi figli, per questo le descrizioni dei luoghi e delle persone sono quasi etnografiche. 327 Giuseppe Garzoni (22 ottobre 1888 – 10 dicembre 1965) Giuseppe Garzoni nasce nel 1888 nel borgo di Buja nel Friuli. Frequentò la scuola solo per due anni perché già a soli nove anni si ritrovò in esilio a lavorare nei mattonifici in Germania. Da adulto lavorava come fuochista, ma, prima dello scoppio della guerra, nel giugno 1914, dovette rientrare a casa insieme a migliaia di connazionali della sua stessa zona. La sua madrelingua, il friulano, non esisteva all’epoca in forma scritta, e la lingua ufficiale, l’italiano, gli era straniera. Non è stato possibile tradurre il suo diario in lingua slovena restando completamente fedeli alle particolarità della sua scrittura, tanto è vero che anche i curatori del libro hanno dovuto aiutare i lettori italiani con numerose spiegazioni e note che sono incluse in questa traduzione come nel libro. In una certa misura è possibile comprenderlo solo attenendosi alla semplicità del linguaggio e alla traduzione relativamente letterale. Scriveva la parola bersagliere sempre con la lettera maiuscola, esprimendo chiaramente in tal modo l’orgoglio di appartenere a questo ramo dell’esercito. Simili peculiarità ed errori ricorrono spesso ma con la sua immediatezza e onestà, il testo rimane perfettamente comprensibile e prezioso. Tra i tanti dati che ci fornisce, vale la pena riflettere su quelli che riguardano il peso del carico, delle armi e dell’equipaggiamento che dovevano portare durante le marce. Si trattava di quasi cinquanta chilogrammi che, per gli standard odierni, significano due sacchi di cemento, ed era più o meno comune ad entrambi gli eserciti. Nel contempo non dobbiamo trascurare la cattiva ali-mentazione e la mancanza di acqua, che mettevano a durissima prova i soldati più deboli. L’altezza corporea minima stabilita per i coscritti nell’esercito italiano era di 154 centimetri, ma, a causa 328 delle grandi perdite e della carenza di soldati, fu ridotta nel 1917 di altri 4 centimetri. Nei diari dei soldati italiani si trovano spesso notizie false che venivano riassunte da diverse fonti. Garzoni credeva che la località assediata di Caporetto fosse tutta minata. Stando ai racconti di Mirko Kurinčič, nei primi giorni dell’arrivo dell’esercito italiano il parroco di Drežnica avrebbe incitato le ragazze a nascondersi nei boschi sopra i villaggi. L’accenno alle spie menzionate dal Garzoni, che avrebbero ucciso nei boschi paramedici e ufficiali, si basava su fatti immaginari. La stampa aveva riferito addirittura che le donne di Caporetto andavano sul campo di battaglia e con le falci tagliavano le teste e gli arti dei soldati italiani feriti. Durante la guerra, dopo l’agonia passata a Bovec, raccontò di aver vissuto la peggiore esperienza durante la prigionia e i lavori forzati in Serbia. Giuseppe Rudello (3 settembre 1896 – 1975) Fu arruolato in guerra il 23 novembre 1915 e iniziò a scrivere il diario nell’agosto 1916. Prima della pubblicazione del suo diario sotto forma di libro, l’editore aveva apportato numerose correzioni al racconto, correggendo nomi geografici, parole mancanti, sostituendo espressioni in dialetto ecc., cercando comunque di conservare il più possibile le caratteristiche del racconto. Come centinaia di migliaia di soldati italiani e austro-ungarici, anche Rudello aveva provato anche la sofferenza della prigionia ma fu estremamente (!) fortunato ad averla trascorsa in modo molto civile negli ultimi due mesi. Le storie di prigionia, ripor-tate da quasi tutti gli scritti, sono di solito talmente crudeli che 329 i soldati – prigionieri solo in prigionia avevano iniziato a odiare davvero i loro nemici. Fu liberato dalla prigionia il 27 novembre 1918, ma tornò a casa solo nel dicembre dell’anno successivo. Virgilio Bonamore Nessuna informazione è nota su Virgilo Bonamore oltre a quella fornita dal suo diario. La trascrizione termina con l’indicazione che fu inviato all’addestramento per sottufficiali. Si distingue per un linguaggio molto fine e per una narrazione letteraria del racconto, cosa sorprendente per un soldato che non era nemmeno un sottufficiale. Ciò indica un certo livello superiore di istruzione. Le sue capacità evidentemente non rimasero nascoste e dopo i combattimenti di agosto gli fu affidato dai comandanti il conteggio delle perdite (!) che il suo reggimento aveva subito sui pendii sotto il monte Sleme. Sotto lo Sleme, i comandi avevano schierato grandi unità che furono indirizzate in attacchi senza speranza sui ripidi pendii erbosi. I peggiori combattimenti avvennero nel 1915, nei primi giorni di giugno, nella seconda metà di agosto e nella seconda metà di ottobre. Nei tre attacchi avvenuti fra il 14 e il 19 agosto, tre reggimenti dell’aggressore subirono su questo versante le seguenti perdite tra caduti, feriti e dispersi: 12° Reggimento bersaglieri: ufficiali: 22 soldati: 826 42° Reggimento brigata Modena 26 811 41° Reggimento brigata Modena 14 548 330 Le peggiori perdite contate da Bonamore furono proprio quelle subite dal reggimento bersaglieri. Le brigate Modena e Salerno persero in sei mesi 9000 uomini sullo Sleme e sulle pendici del vicino Mrzli vrh. La sua descrizione di quanto accaduto è molto accurata e comprende anche le sue sensazioni personali, quindi merita un passaggio più lungo in questa selezione di storie. Descrive vividamente il decorso degli attacchi durante i combattimenti sulle montagne che con terribili perdite, non avevano portato alcun risultato nell’Alto Isonzo, ad eccezione della presa del Krn (M. Nero). Insieme al diario di Giuseppe Garzoni, il conteggio dei giorni di maltempo registrati a giugno e luglio ci dà la somma di 26 giorni di pioggia e temporali più altri tre temporali ad agosto, in un clima notevolmente più freddo rispetto a quello di oggi. Alice Schalek (21 agosto 1874 – 6 novembre 1956) Collaboratrice dell’Ufficio stampa militare (Kriegspressquartier, KPQ), giornalista, scrittrice e fotografa, era considerata una porta-voce della propaganda di guerra austriaca e sosteneva l’entusiasmo di massa per la guerra, che considerava un motore della moder-nizzazione. Iniziò la sua carriera di corrispondente di guerra sul fronte tirolese, dove aveva lavorato al riparo del fuoco diretto, ma la situazione cambiò con il suo secondo incarico da giornalista sul campo di battaglia meridionale in Serbia e in Montenegro, dove arrivò nell’autunno del 1915. Visitò Belgrado dopo l’occupazione austriaca – tedesca e la descrisse come una città di provincia di classe inferiore che sarebbe rimasta per sempre in mano austriaca. Nel dicembre 1915, visitò assieme ad un gruppo di giornalisti dell’or-331 ganizzazione KPQ la base di guerra a Boka Kotorska, dove rimase incantata dall’atmosfera tranquilla e rilassata e dai colorati costumi tradizionali. Il successivo incarico da reporter portò Alice Schalek sul Fronte dell’Isonzo, prima sulla testa di ponte di Gorizia dal comandante dell’esercito isontino Svetozar Borojević de Bojna, che l’aveva incoraggiata a scrivere soprattutto della squadra di uomini e del loro impegno nella guerra. Il Fronte dell’Isonzo rappresentò una sfida particolare per la corrispondente di guerra che dovette affrontare i grandi orrori della guerra, per cui trovava difficile scrivere solo di eroismo, ma soprattutto trovava difficile continuare a incoraggiare l’entusiasmo bellico. Nel 1916 pubblicò a Vienna il famoso libro “Am Isonzo. März bis Juli, 1916, Wien 1916” con i suoi reportage di guerra e utilizzò il suo ricco materiale fotografico in più di venti conferenze in varie città della monarchia. Per la sua opera fu insignita nel 1917 della Croce d’oro al merito con la Corona (Goldenes Verdienstkreuz mit der Krone). Un critico inesorabile del suo lavoro giornalistico fu lo scrittore, giornalista e antimili-tarista Karl Krauss, che vedeva nella giornalista tutto ciò che non andava nei media austriaci durante la guerra, ma la criticava anche in qualità di giornalista donna. Anche il tenente sloveno Vladimir Bregar17 ricordava Alice Schalek con grande disapprovazione nelle sue lettere, dicendo che in occasione della sua visita del fronte a Plave il 16 e 17 giugno 1916, ella avrebbe riferito solo quanto sentito dagli ufficiali e in modo parziale, poiché non avrebbe mai potuto vedere il fronte da così vicino, perché non vi lasciavano entrare nemmeno i suoi colleghi maschi. Ma questo non corrispondeva 17 Tomaž BUDKOVIČ, S Turudijevim bataljonom na soškem bojišču. Iz pisem poročnika Vladimirja Bregarja. Celovec: Mohorjeva založba 2009, pagg. 136 – 138. 332 all’esperienza reale di Alice Schalek. Dopo la guerra continuò a viaggiare e a scrivere e, dopo il suo arresto nel 1939 da parte della Gestapo, emigrò a New York e cessò la sua attività lavorativa. Ivo Brlić (28 settembre 1894 – 26 aprile 1977) Le lettere alla madre erano estese e scritte in forma di diario. In ogni lettera proseguiva con la descrizione di ciò che stava accadendo in diversi giorni consecutivi. Era membro di una famiglia distinta con una parentela influente e forse proprio per questo venne arruolato in un’unità di artiglieria non così esposta al pericolo rispetto ai membri della fanteria. Tuttavia, non nascondeva a sua madre gli occasionali eventi pericolosi, il che ci dà una certa garanzia che anche le altre descrizioni rappresentino gli eventi con verosimiglianza. Spicca-no le descrizioni dell’inverno e delle condizioni meteorologiche avverse, importanti per comprendere la guerra in alta montagna. Nel 1916 scrisse di un cibo molto buono, ma bisogna considerare che si trattava di un’unità relativamente piccola che non si trovava direttamente sul campo di battaglia, ma si potrebbe anche presumere che gli ufficiali ricevessero cibo migliore. Ivan Volarič Proveniva da Sužid, vicino a Kobarid, e proprio come Karl Paulin si trovava vicino a casa, che però era invasa dagli italiani fin dal primo giorno di guerra. Quando le condizioni lo permettevano, poteva guardare il suo paese dalla cima della montagna. Arrivò sul fronte dell’Isonzo da Lubiana, dove il 16/2/1915 fu trasferito dal 97° Reggimento fanteria – 3a Compagnia di complemento a Tolmino, alla 2a Compagnia del 155° Battaglione dell Landsturm 333 milizia territoriale. Il congedo non lo rendeva felice come gli altri soldati che provenivano dall’interno della monarchia, e la fine della guerra rappresentò per lui, dopo tutte le sofferenze subite, l’occupazione italiana e, subito dopo, il governo fascista. Scendendo dal Mrzli vrh o dallo Sleme nella valle della Tolminka, verso la chiesa di Javorca, gli escursionisti potranno ricordare le sue parole con le quali raccontava che i soldati facevano lo stesso percorso solo per poter fare il bagno lì, nelle tinozze o nelle botti di legno, per poi risalire di nuovo sulla montagna. Chissà quante volte? Karl Paulin nato nel 1894 visse a Kobarid e lavorò presso l’ufficio delle imposte a Tolmino. Francesco Orlandi Al momento del reclutamento nel 1901, in quanto figlio di una vedova, fu inserito nella terza categoria dei coscritti, tra i riservisti. A seguito delle grandi perdite subite dall’esercito italiano nel 1915, fu arruolato nell’esercito solo nel febbraio 1916. Avendo allora già un’età matura, 35 anni, ed essendo abile nella scrittura, fu nominato furiere della compagnia e quello stesso anno prese parte ai combattimenti sul Carso. Nel gennaio 1917, dopo una lunga marcia, il 155° Reggimento fanteria venne trasferito nell’area del Mrzli vrh. Già nel 1919 aveva redatto il proprio diario, dedicandolo ai suoi figli. Negli anni del dopoguerra andò a cercare il suo ex comandante, il tenente Vittorio Mascherini, riuscendo a incontrarlo a Firenze solo nel 1934. Successivamente gli consegnò una trascrizione dei suoi racconti sul periodo trascorso insieme sul campo di battaglia. Salta all’occhio il fatto peculiare di aver annotato tutti i cibi e tutte 334 le bevande che andavano oltre il solito rancio militare, e di aver seguito quotidianamente sui giornali le notizie che riportavano gli sforzi dei negoziati di pace. Giuseppe Cordano (17 settembre 1890 – 24 gennaio 1986) Soldato del 160° Reggimento fanteria della Brigata Milano, traspor-tatore di feriti, caporale, furiere, aiutante di battaglia del quartier generale – così fu la sua carriera nell’esercito in cui l’obbedienza era una delle più grandi virtù. Era cresciuto lavorando sodo e in condizioni difficili. La guerra lo raggiunse nel momento in cui aveva già in mano il biglietto per la nave a bordo della quale sarebbe emigrato in Argentina. Era molto coerente e preciso nelle sue descrizioni degli eventi, e chi visiterà il museo all’aperto sul Mrzli vrh potrà verificarlo di persona guardando i pannelli informativi. Il suo diario fornisce una panoramica delle condizioni meteorologiche per ogni singolo giorno, diverse da quelle che sperimentiamo oggi. Dopo il campo di battaglia tirolese, visse in prima persona il famigerato Mrzli vrh, i famigerati Vodice e il Monte Santo, il fangoso campo di battaglia tra Grčna e Solkan, nella Dodicesima battaglia Castelmonte sopra Cividale e la prigionia. I soldati tedeschi gli tolsero tutto, ma trascurando, fortunatamente, le annotazioni del diario. Nel 1970 si recò in pellegrinaggio in Terra Santa, adempiendo al voto che fece nel 1915 di visitarla se fosse sopravvissuto alla guerra. Nel 1972 pubblicò il suo diario. Giuseppe Pozzobon (1882 – 1953) Era membro del 67° Reggimento fanteria della Brigata Palermo e venne inviato sul Fronte dell’Isonzo nel novembre 1915, vivendo in 335 prima persona gli infruttuosi tentativi di conquistare il Monte San Michele (Debela griža) durante la Quarta battaglia dell’Isonzo. Nei mesi di febbraio e marzo dell’anno successivo si era ritrovato in condizioni simili alla testa di ponte di Tolmino, vicino al paese di Volče, e sulle pendici del colle Santa Maria (Mengore). A seguito di un deciso attacco dei difensori austro-ungarici, il comando italiano decise di ritirarsi addirittura alla periferia dei villaggi di Volče e Čiginj, a un passo dal confine di stato, nelle posizioni occupate dalle unità fino alla battaglia di Caporetto. La sua convinzione dell’inutilità di una simile guerra venne riconfermata sul terzo famigerato campo di battaglia sulle pendici del Mrzli vrh e del Vodel. Si presume che nel 1917 abbia redatto le sue annotazioni quotidiane nella forma finale. Sandro Locatelli (nato nel 1898) Sandro Locatelli era notaio e membro di un’importante famiglia borghese bergamasca. La sede dell’unità dove lavorava come corriere e motociclista si trovava a Borjana. Ogni giorno ritirava la posta nel villaggio di Robič, dove era di stanza il Comando del genio del IVo Corpo d’armata. Il comando del corpo si trovava nel vicino villaggio di Kred. Ai primi di ottobre 1917, fu trasferito nella IVa Unità della 42a Sezione mezzi pesanti a Cividale. Nelle settimane successive, in attesa dell’offensiva da parte delle divisioni austro-ungariche e tedesche, il comando italiano cercò di stabilire all’ultimo minuto una difesa che potesse fermare gli aggressori. Il 24 ottobre iniziò l’offensiva. Il libro contiene 212 sue lettere dal fronte che fino alla pubblicazione erano state conservate in una ricca biblioteca privata della famiglia. 336 Bartolomeo Piguzzi Fino alla Dodicesima battaglia dell’Isonzo, negli ospedali di Cividale i medici italiani curarono i membri di entrambi gli eserciti, dopodiché, invece, subentrò per un anno il personale sanitario austro-ungarico che si occupò, tra gli altri, anche di Bartolomeo Piguzzi. Non si sa quale sia stato il percorso del suo taccuino con gli appunti e come sia finito nel dopoguerra nel fondo dei documenti censurati dell’Archivio Centrale di Stato di Roma. Sarà stato per via della descrizione del decorso della battaglia di Caporetto che in quel momento non corrispondeva alle interpretazioni accettabili degli eventi. Tre anni dopo, come molte altre madri di soldati caduti, anche sua madre ricevette una medaglia di gratitudine nazionale. Rudyard Kipling (30 dicembre 1865 – 18 gennaio 1936) era un poeta e scrittore inglese. Era un affermato scrittore e giornalista già prima della guerra mondiale e nel 1907 ricevette il Premio Nobel per la Letteratura. Fu un sostenitore della guerra e grazie alla sua influenza riuscì a inserire anche suo figlio nelle unità sul campo di battaglia occidentale, che però era in realtà incapace di svolgere il servizio militare a causa della scarsa vista. Il figlio cadde nei combattimenti del settembre 1915 e il suo corpo non fu mai ritrovato nonostante gli sforzi. Aveva rifiutato a lungo l’iniziativa della diplomazia di visitare il campo di battaglia italiano e di contribuire al consolidamento dell’alleanza con i suoi reportage, ma poi accettò comunque dopo un anno. Il paesaggio lungo il fiume Isonzo gli ricordava i luoghi dell’India dove era nato e aveva vissuto per decenni. Dedicò cinque articoli di giornale alla guerra dell’Isonzo che pubblicò come Five articles 337 Daily Telegraph and the New York Tribune: The Roads of an Army (6 giugno 1917), Podgora (9 giugno 1917), A Pass, a King, and a Mountain (13 giugno 1917), Only a few steps higher up (16 giugno 1917), The Trentino Front (20 giugno 1917). Ogni giorno scriveva alla moglie dal fronte e le lettere sono pubblicate nel quarto libro della sua raccolta di lettere The Letters of Rudyard Kipling.18 Pietro Ferrari (nato nel 1881) Il suo percorso sul campo di battaglia del Fronte dell’Isonzo iniziò nella regione dell’Alto Isonzo e lo portò davanti all’invincibile testa di ponte austro-ungarica di Tolmino, davanti al colle Santa Maria (Mengore) e Santa Lucia. Non incontrando alcun abitante pensò di trovarsi in un territorio liberato (!). Ma la maggior parte dei soldati italiani si era trovata in un fraintendimento simile in quella zona. Nella zona di Caporetto l’errore si era trasformato in stupore perché lì non c’erano fratelli italiani da dover liberare a costo della propria vita. Anche le persone più colte erano rimaste sorprese, come il giornalista, politico e allora bersagliere Benito Mussolini, che già lungo il fiume Natisone in Italia si era reso conto di non capire un’acca della lingua parlata dalla gente del posto. Ferrari raccontò l’esperienza del Fronte dell’Isonzo nel primo qua-derno del diario. Nell’Undicesima offensiva italiana, l’ultima, fu fatto prigioniero sotto il Grmada e descrisse questo periodo nel secondo volume, aggiungendo infine delle poesie in cui descriveva le sue esperienze. 18 The Letters of Rudyard Kipling, Volume 4, 1911-1919. Thomas Pinney, ed..Iowa City: University of Iowa Press, 1999. 338 Karl Sovre Appuntava il diario su un piccolo taccuino e per mancanza di spazio utilizzava alcune abbreviazioni. Nel manoscritto sono presenti anche degli errori. Per i soldati sloveni è tipico usare termini militari tedeschi negli scritti originali. Nella successiva trascrizione dei diari e degli scritti commemorativi, questi termini furono per lo più sostituiti da quelli sloveni e le annotazioni furono estese in testi più lunghi per facilitarne la lettura. Il suo diario non ha subito modifiche ed è qui presentato nella sua forma originale, poiché le innumerevoli note potrebbero addirittura scoraggiare il lettore dal continuare la lettura. In questo tratto del percorso il decorso degli eventi è perfettamente comprensibile sulla base delle descrizioni fatte da G. Cordano e G. Rudello e, naturalmente, dell’ampia letteratura che presenta il decorso della Decima e dell’Undicesima battaglia dell’Isonzo. Paolo Caccia Dominioni (14 maggio 1896 – 12 agosto 1992) Era di discendenza aristocratica, figlio dell’ambasciatore italiano in Francia, Austria-Ungheria, Tunisia ed Egitto, successivamente anche partigiano e scrittore. Si presentò come volontario al servizio militare, come molti altri studenti del resto. Dal testo integrale del diario si evince che volesse partecipare a un grande evento storico, pur non esprimendo opinioni politiche specifiche al riguardo. Ma ben presto, soprattutto dopo la morte del fratello minore nei combattimenti in Alto Adige, si rese conto della dura realtà della guerra e divenne critico nei suoi racconti. Stando alle sue costatazioni, il fatto che si trattasse di un “mattatoio inevitabile e senza senso” e la sua evidente avversione nei confronti degli ufficiali – “manichini della guerra”, le parole usate per preparare i soldati alla guerra suo-339 nano davvero assurde. Una citazione dal libro menzionato riporta nelle spiegazioni generali: “Il vestito del soldato si chiama uniforme. Si chiama uniforme, perché è uguale per tutti. Ricchi e poveri, nobili ed anche proletari, tutti indistintamente sono vestiti della medesima foggia ... Ed è giusto... Il reggimento è una numerosa famiglia, che ha una madre comune: la patria... I soldati sono tutti fratelli, tenuti agli stessi obblighi, con i medesimi diritti. Fra loro deve regnar la vera e sana eguaglianza e fraternità; perciò nel cibo, nell’uniforme, negli esercizi, nelle fatiche, nei pericoli, non vi deve essere preferenza, distinzione”. La realtà, ovviamente, era diversa. Pasquale Attilio Gagliani (1867 – settembre 1923) era membro del comando di artiglieria del XIII e del XII Corpo d’armata, fu comandante di varie unità di artiglieria del VI Corpo d’armata e del 6° Reggimento artiglieria pesante, fu promosso fino al grado di colonnello.19 Piero Leoni era sottotenente e si trovò per la prima volta nelle trincee di battaglia presso San Martino del Carso il 14 gennaio 1916. Dante Chiasserini (18 aprile 1890 – Monte San Michele/Debela griža), 29 giugno 1916) era volontario nella “Legione Garibaldi” prima dell’entrata in guerra dell’Italia nelle Foreste dell’Argonne. Dopo l’entrata in guerra dell’ Italia tornò in patria e si presentò per andare sul fronte italiano.20 19 https://espresso.repubblica.it/grandeguerra/index.php?page=autore&id=118 20 https://sansepolcro.wordpress.com/2019/06/28/104-1916-il-29-giugno-dante-chiasserini-quello-a-cui-fu-dedicata-una-via-cadde-sul-san-michele/ 340 Giuseppe Pozzobon Nei brani dei loro diari, i suddetti autori descrivevano gli eventi sul margine occidentale del Carso di Doberdò nel 1915 e nel 1916, prima della Sesta battaglia, la presa di Gorizia e della parte gorizia-na del Carso. Gli eventi furono vissuti in diversi modi – Gagliani come alto ufficiale di artiglieria, dalla distanza di sicurezza degli osservatori, Leoni, ufficiale di fanteria da vicino, e Chiasserini e Pozzobon come “carne da cannone”. Jože Perpar Redasse e trascrisse il suo diario con una bellissima calligrafia che viene qui presentata senza correggere i piccoli errori e le note perché la narrazione è perfettamente comprensibile. Il 2° reggimento fucilieri da montagna prettamente “sloveno” aveva svolto un ruolo importante nella difesa della sezione del campo di battaglia dal Dosso Faiti al fiume Vipacco. Anche Hugh Dalton e Vladislav Pavliček scrivono dei combattimenti nella stessa area. Josip Stanković La calligrafia e il modo di esprimersi a volte difficili da leggere suggeriscono che il diario fosse dedicato al suo successivo ricordo personale della guerra, non ad altri lettori. Alcune parti sono pensieri intimi e quasi illeggibili, ma è proprio questo libretto che conserva meglio il periodo presentato. 341 Hugh Dalton (16 agosto 1887 – 13 febbraio 1962) era un economista e un politico britannico del partito laburista, nonché membro del Gabinetto militare di Churchill durante la Seconda guerra mondiale. All’inizio del 1917, il generale Luigi Cadorna, temendo una possibile offensiva nemica, chiese agli Alleati di inviare ben venti delle loro divisioni sul campo di battaglia italiano. Essi risposero solo con un aiuto simbolico, mandando 64 cannoni britannici e 35 francesi. Il 18 agosto, questi si unirono a un totale di 5182 cannoni e mortai degli aggressori. Entro la fine dell’Undicesima battaglia dell’Isonzo, circa 3 milioni di granate furono sparate contro i difensori. Anche il tenente Dalton si ritrovò sul campo di battaglia italiano in qualità di membro della fanteria. Nei giorni antecedenti all’inizio dell’ultima battaglia, non era l’obice Škoda calibro 30,5 cm e gittata 11 chilometri a sparare nei dintorni di Palmanova e su altri bersagli più lontani. La “sgradevole bestia” di cui parlava Dalton era il cannone navale ‘Sankt Georg’ della Škoda, dal calibro di 35 cm e una gittata di 31 chilometri. Aveva alla sua portata l’intera laguna di Grado, Palmanova, Manzano, e nei giorni precedenti alla battaglia ciò costrinse il comando della 2a Armata italiana a spostarsi da Cormòns verso Cividale. Nella postazione vicino a Mavhinje, dietro il Grmada, la bestia godeva della compagnia dell’obice ‘Gertrud’, calibro 42 cm, che poteva sparare su Ronchi dei Legionari, Sant’Andrea, Vrtojba, ecc. Una delle granate sparate da quest’obice si trova oggi davanti all’ingresso del Museo di Caporetto. Entrambe le terribili armi ebbero un grande impatto psicolo-gico che si può percepire anche dai diari scritti da Giuseppe 342 Cordano e Paolo Caccia Dominioni. Hugh Dalton fu insignito della medaglia di bronzo al valor militare, un riconoscimento militare italiano. Vladislav Pavliček Prima della guerra aveva vissuto a Sremska Mitrovica, sulla riva sinistra della Sava, dove la sua famiglia ceca possedeva una fabbrica. Fu arruolato nell’11° Reggimento fanteria “ceco” e trascorse sei anni di guerra e del dopoguerra in uniforme. Nel 1923, a Osijek, curò e trascrisse a macchina i racconti del diario, in lingua croata. Estratti più lunghi sono stati pubblicati da Vasja Klavora nel libro “Fajtji hrib”.21 L’ultimo giorno di guerra si trovava in una posizione dominante sulle montagne sopra Feltre ed era in dilemma se aprire o no il fuoco sull’unità italiana che si stava avvicinando. Per telefono ricevette il divieto di azione. Diventò così prigioniero di guerra. Dopo l’umiliazione e il trattamento vergognoso che era stato riservato ai prigionieri, si pentì della sua decisione. A differenza degli sloveni, ebbe la fortuna che gli italiani, essendo ceco, lo classificarono tra i “bravi ragazzi”, lo vestirono da alleato con la nuova divisa delle legioni ceche e poté così godersi i giorni eufori-ci della grande vittoria. Il soldato sloveno scrisse che in prigionia venivano trattati peggio da quelle guardie che non avevano affatto sperimentato la guerra, il miglior alleato era invece un soldato italiano che aveva vissuto lui stesso la prigionia. 21 Vasja Klavora, Fajtji hrib. Bojišče na Komenskem Krasu 1916–1917. Celovec: Mohorjeva založba, 2014. 343 Giuseppe Manetti (1884 – 1974) Un “semplice” contadino, nato sulle colline intorno a Firenze come quinto figlio in una famiglia numerosa in cui nacquero altre dieci sorelle e fratelli dopo di lui. Per via dell’epidemia, il giovane perse la madre e quattro fratelli maggiori e, raggiunta l’età di vent’anni, rimase anche senza il padre. Dovette assumersi la responsabilità e lavorare duro per la famiglia numerosa e i parenti stretti, una ventina di persone in totale. Poco prima della guerra si sposò, divenne padre un anno dopo e seguì in guerra quattro suoi fratelli che si trovavano già sul campo di battaglia. Rimase analfabeta poiché non c’era stato tempo per l’istruzione ma da adulto convinse un insegnante locale a fare con lui qualche ora di lezione di scrittura e lettura. In qualità di editore del presente libretto, mi sono concesso la libertà di mettere tra virgolette la prima parola perché non c’era niente di semplice nella sua vita, tanto meno nel suo diario. Il racconto del suo diario è presentato senza correzioni per mostrare quanti sforzi ha profuso nella descrizione della sua esperienza e della sua visione della guerra. È sconvolgente perché voleva aiutare i suoi, molto ragionevole nelle sue riflessioni, ma impotente quando si ritrova nel ruolo di “carne da cannone”. Benché non avesse ricevuto nemmeno un’istruzione di base e con il rischio rappresentato dalla scrittura critica, espresse con molta chiarezza che l’irrazionalità, l’opportunismo e la corruzione erano responsabilità di coloro che prendevano decisioni sulla guerra e che poi la portavano avanti. 344 Vittorio Mascherini (7 settembre 1894 – 7 febbraio 1959) fu un interventista prima della guerra e nel dopoguerra antifascista e organizzatore del movimento ribelle toscano. Negli anni maturi raccolse e redasse molto materiale scritto e fotografico sulla sua vita e sulla partecipazione alle due guerre. Comprendeva la descrizione dei combattimenti sul Carso e la partecipazione al movimento di resistenza nella Seconda guerra mondiale. Vi incluse parte del diario del suo furiere della compagnia Francesco Orlandi perché egli aveva descritto le vicende sul campo di battaglia durante il periodo trascorso insieme. 345 Pensieri conclusivi Željko Cimprič Durante i miei tre decenni di lavoro al Museo di Caporetto ho avuto il privilegio di poter ascoltare molte storie dei visitatori. Di sentire storie che rimarranno sconosciute al pubblico. Di conoscere persone che ricordano con emozione i loro antenati o si sforzano di conoscere e capire coloro che non hanno incontrato mai. Ho visto che potevo aiutarli anche con le storie di altre persone che avevano preso parte a quella guerra che aveva portato sì tanto orrore, ma allo stesso tempo anche cameratismo, aiuto agli indifesi, miseri-cordia e buone azioni dei singoli individui. Durante le visite all’ex campo di battaglia ho potuto assistere al loro stupore e meraviglia, quando, con l’immagine generalizzata della guerra che avevano, non riuscivano a crearsi la vera idea di ciò che era accaduto lì, in quella bellissima natura. Li ho aiutati raccontando le storie e spesso ho pensato che delle pubblicazioni come la presente potessero essere benaccolte. La selezione delle narrazioni contenute in questo libro è solo una delle innumerevoli possibilità tra cui era possibile scegliere, ma questa offre uno sguardo particolare ai momenti importanti nella vita di queste persone. Il mio amico Mitja Juren mi ha aiutato a compilare questo mosaico per la parte carsica del campo di battaglia con i racconti dei soldati italiani e gliene sono particolarmente grato. Ricordo l’occasione in cui ho condotto una visita guidata per cinquanta professori di storia e presidi di scuole italiane sul Ravelnik, vicino a Bovec. Soffiava un vento freddo, pioveva, l’inverno non voleva ancora andarsene. Una manciata di loro aveva deciso di 346 rimanere sull’autobus, la stragrande maggioranza, invece, si era diretta al museo all’aperto. Dal punto di osservazione indirizzavo il loro sguardo sulle cime circostanti e sull’area vicina, raccontando loro storie che, nonostante il tempo inclemente, avevano evidentemente per loro un grande significato. La risposta è stata molto buona e ne sono stato molto lieto. All’epoca non conoscevo ancora il diario scritto da Giuseppe Garzoni. L’episodio che lui raccontava si era svolto su un prato proprio sotto di noi, a distanza di un tiro con la fionda. Rannicchiato con le ginocchia sotto il mento se ne stava in una buca poco profonda che di notte aveva scavato con una pala. Al mattino si era trovato in una situazione disperata. Quanto effetto avrebbero avuto quel giorno queste sue righe, scritte con grande fatica. Righe che meritano una lettura molto lenta! Ma sono convinto che questo modesto libricino possa offrirne molte altre di letture del genere. 347 Walk of Peace dalle Alpi all’Adriatico Una storia di guerra e di pace La pace che oggi ci accoglie lungo il percorso dalle Alpi all’Adriatico un tempo per questi luoghi non era una cosa scontata. Il corso della storia e dell’Isonzo, uno dei più bei fiumi alpini al mondo, è turbolento e imprevedibile. A distanza di cent’anni dalla Grande Guerra stiamo collegando il patrimonio storico nel Walk of Peace dalle Alpi all’Adriatico. Tra Italia e Slovenia, dalle Alpi Giulie, attraverso il Goriziano, il Collio, la valle del Vipava e il Carso fino a giungere al mare Adriatico, plachiamo il ritmo del tempo, invitando al relax o alla riflessione. Qui troviamo un territorio ideale per vacanze attive nella natura e per passeggiate immerse in un paesaggio stupendo, che scoprendo la storia diventano ancora più emozionanti. Qui, tra le alte cime, le strette gole, le grotte carsiche e gli estesi vigneti, la natura e i vostri pensieri giocano con la luce e l’oscurità. L’acqua, elemento fondamentale della vita, vi accompagna durante il viaggio dalla sorgente dell’Isonzo fino al suo sfociare in mare. L’eredità della guerra, che ha segnato le persone e l’ambiente, è impossibile da ignorare. Ora è collegata nel Walk of Peace dalle Alpi all’Adriatico e diffonde un messaggio di amicizia tra i popoli. I luoghi segnati dalla guerra un secolo fa sono oggi messaggeri di pace che conservano monumenti commemorativi, trincee, caverne e altre “ombre” della guerra. Walk of Peace attraversa il territorio di Italia e Slovenia ed è contrassegnata in modo omogeneo. L’accesso ai luoghi di interesse maggiori è possibile anche in auto e in autobus. Guardando i panorami dalle più alte cime della Slovenia al Golfo di Trieste in Italia potrete, anche leggendo questo libro, ricordare e riflettere sulle sorti dei vostri predecessori e delle loro battaglie. Come studiosi di storia o come escursionisti e ciclisti attivi sarete pervasi dalla bellezza della natura e da un lascito di importanza universale. Oltre alla centrale storia transfrontaliera del fronte dell’Isonzo, che i visitatori vengono a conoscere sul Walk of Peace dalle Alpi all’Adriatico, vale la pena di visitare anche luoghi ed aree che non si trovano immediatamente sul percorso, ma sono importanti per capire la storia qui presente e fanno perciò anch’essi parte di Walk of Peace: Šebrelje, Idrija, Logatec, Pivka, Ragogna, Timau, la Val Canale, il corso inferiore del fiume Piave e Venezia. Ulteriori contenuti sul Walk of Peace dalle Alpi all’Adriatico, informazioni per programmare escursioni e le offerte attuali si trovano sul sito www.thewalkofpeace.com e nella guida Walk of Peace. Seguendo i luoghi della Grande Guerra. 349 Caratteristiche del percorso • itinerario escursionistico a lunga percorrenza lungo più di 500 km • suddiviso in 30 tappe • comprende più di 300 punti del patrimonio della Grande Guerra • il percorso è di difficoltà impegnativa • il punto di partenza è Log pod Mangartom (Slovenia) • il punto d’arrivo è Trieste/Trst (Italia) • il punto più alto è il monte Krn (Monte Nero) 2245 m • il punto più basso è Trieste/Trst (2 m) • 19.130 m di salite, 20.170 m di discese Da sezione a sezione I resoconti seguono il percorso di Walk of Peace dalle Alpi all’Adriatico da Log pod Mangartom fino a Trieste, seguendo la successione delle singole tappe, talvolta un singolo racconto si sposta da una tappa a un’altra. Il più delle volte ciò accade per via dello spostamento delle unità tra le retrovie e il campo di battaglia. Nei combattimenti di montagna, negli scontri per conquistare le cime, dopo il successo iniziale dell’esercito italiano sulla catena del Krn (Monte Nero) la linea del fronte non si è più spostata e Walk of Peace non si ramifica, come accade invece a sud. Tra Tolmin e Plave il racconto si svolge sulla sponda destra dell’Isonzo, poi invece segue le tappe su entrambe le sponde del fiume. Da Gorizia a Trieste i resoconti coprono l’ampia area tra le retrovie e il campo di battaglia, anche per effetto dello spostarsi del fronte durante i 29 mesi di combattimenti. Dopo gli spostamenti delle proprie unità gli autori si sono ritrovati in diverse aree del campo di battaglia, ma i brani del loro racconto si succedono da nord verso sud, indipendentemente dalla successione cronologica degli avvenimenti. Villach Beljak Tarvisio Trbiž Kranjska Gora Kranjska Log pod Gora B-KG 1-2 Mangartom Tappe del Walk of Peace Trenta Bovec Bled Alpi Giulie Soča 2 K-B 1-3 Bohinjska 3 Kobarid Bistrica 4 Tolmin K-C 1-6 San Pietro al Natisone 5 Špietar Kambreško Kanal Slovenia Cividale del 6 Friuli Čedad B 6a anjš ( k B a 7a a Šmartno i p n l 7 s a B i n r z o C d Sabotin z t o a a a l ) li Italia o 8 Nova Gorica Gorizia Gorica Šempeter pri Gorici 9 it 9 si 10 it Miren Renče Redipuglia Redipulja 10 si 11 it Komen Monfalcone 11 si Tržič 12 it Malchina Iso Mavhinje nz Duino o Devin K 13 it C r a a r s so Miramare Jad Miramar ra 14 M ns a k r o e m A o 351 d r r je iatico Trieste Trst Koper Capodistria Viri fotografij 32 Archivio Marinka e David Brezigar 43 Kobariški muzej 61 Kobariški muzej 65 Kobariški muzej 88 Guido Aviani 117 Gianluca Lodetti 147 Museo Civico del Risorgimento Bologna 158 Kobariški muzej 178 Kobariški muzej 211 Kobariški muzej 231 Archivio Marinka e David Brezigar 246 Museo Civico del Risorgimento Bologna 265 Archivio Marinka e David Brezigar 290 Archivio Marinka e David Brezigar 307 Archivio Marinka e David Brezigar Fotografia di copertina: Kobariški muzej 352 LO SVILUPPO SOSTENIBILE Questo progetto è supportato dal Programma di cooperazione Interreg V-A Italia-DEL PATRIMONIO DELLA PRIMA Slovenia, finanziato dal Fondo europeo di sviluppo regionale. Questo progetto mira a mantenere, esplorare e promuovere il patrimonio materiale e immateriale di GUERRA MONDIALE TRA LE ALPI E straordinario significato storico della PGM come patrimonio condiviso dell’area di L’ADRIATICO programma nell’ambito del marchio principale della destinazione particolare del Sentiero della Pace fra le Alpi e l’Adriatico. Incoraggiare l’integrazione, l’aggiornamento e lo sviluppo di una nuova offerta turistica sostenibile e culturalmente orientata, basata su presentazioni coinvolgenti del patrimonio della PGM e su percorsi tematici. www.ita-slo.eu/WALKofPEACE CAPOFILA: Posoški razvojni center; PARTNER: Regione del Veneto, Ustanova “Fundacija Poti miru v Posočju”, GAL Venezia Orientale, Znanstvenoraziskovalni center Slovenske akademije znanosti in umetnosti, PromoTurismoFVG, Mestna občina Nova Gorica, Ente Regionale per il Patrimonio Culturale della Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia, Javni zavod za upravljanje dediščine in turizem Pivka, Comune di Ragogna. Storie sul Walk of Peace Annotazioni dal fronte dell’Isonzo Storie raccolte e redatte da: Željko Cimprič Autori delle introduzioni: Petra Svoljšak, Željko Cimprič Autore dei chiarimenti generali e del capitolo Autori delle storie: Željko Cimprič Redazione del libro: Petra Svoljšak e Tadej Koren Revisione dei testi: Mihael Uršič e Jaka Fili Traduzione in italiano: Janja Zavrtanik Traduzione in italiano dei contenuti su Walk of Peace: Peter Crisetig Elaborazione grafica e impaginazione: Matic Leban e Urška Alič Editori: Istituto storico Milko Kos ZRC SAZU e Ente »Fundacija Poti miru v Posočju« Per gli editori: Petra Svoljšak, Maša Klavora Pubblicato da: Ente »Fundacija Poti miru v Posočju« Edizione elettronica, e-book Ljubljana–Kobarid, 2022 ................................................................................. Per la variante on-line a libero accesso valgono le norme della licenza internazionale Creative Commons CC BY-NC-ND 4.0. L’opera è stata pubblicata nell’ambito del progetto WALKofPEACE: Lo sviluppo sostenibile del patrimonio della prima guerra mondiale tra le Alpi e l’Adriatico. Programma Interreg V-A Italia-Slovenia 2014–2020 ed è reperibile all’indirizzo: www.thewalkofpeace.com/it/study-centre/#publications Kataložni zapis o publikaciji (CIP) pripravili v Narodni in univerzitetni knjižnici v Ljubljani COBISS.SI-ID 142034435 ZRC SAZU, Zgodovinski inštitut Milka Kosa ISBN 978-961-6730-22-8 (PDF) Ustanova »Fundacija Poti miru v Posočju« 354