ost 73/74 IZ VSEBINE: NN MEMORIALI BIAGIČKMARfN DALL'ÌNDICE: 18&1 - 1985 \ \ PER LTN^A MODERNA CULTUR. Dl FRONTIERA \ ZA SODOBNO KULTURONOB MEJI INTERVJU Z MARKOM POZZEqTOM ob\omembneivNmednarod\m PRIZNANJU \ \ INTERVISTA CON MARCO POZZETTO. IN OCCASIONE Dl UN IMPORTANTE RICONOSCIMENTO INTERNAZIONALE N ¡AMA O LUMPENREVOLUCI, LUMPEN RIVOLUZIONE STALINISMO» E DINTORNI STALINIZEM« IN NJEGOVA OKOLICA CHERCHER TRIESTE REQUIEM PER NN AMORE ¡EKVIEM ZA LJUBEZEN UREDNIŠKI ODBOR: Gino Brazzoduro, Aleš Lokar, Jolka Milič in Vladimir Vremec (odgovorni urednik). Za podpisane prispevke odgovarja avtor. Registrirano na sodišču v Trstu s številko 6/64 RCC dne 25. maja 1964. Uredništvo in uprava: 34136 Trst, Cedassamare 6 - Italija. Cena izvodu 4.000 lir, letna naročnina vključno poštnina 9.000 lir, plačljiva na poštni tekoči račun 11/7768 A. Lokar, Salita Cedassamare 6 - Trst; za inozemstvo 10 dolarjev. Oprema: Studio CLAK - arh. Marino Kokorovec in Ruggero Ruggiero. Tisk: Tiskarna Villaggio del Fanciullo. Poštnina plačana v gotovini. I. semester 1986. COMITATO Dl REDAZIONE: Gino Brazzoduro, Aleš Lokar, Jolka Milič e Vladimir Vremec (direttore responsabile). L’autore risponde degli scritti firmati. Registrazione al tribunale di Trieste con ¡1 numero 6/64 RCC del 25 maggio 1964. Redazione ed amministrazione: 34136 Trieste, Salita Cedassamare, 6 - Italia. Prezzo del fascicolo: 4.000 lire, abbonamento annuale, compresa la spedizione: 9.000 lire, pagabile su c/c postale 11/7768 A. Lokar, Salita Cedassamare, 6 - Trieste; per l’estero 10 dollari. Copertina ed impostazione grafica: Studio CLAK - architetti Marino Kokorovec e Ruggero Ruggiero. Stampa: Tipografia Villaggio del Fanciullo. Sped. in abb. postale, Gr. IV, I semestre 1986. VSEBINA INDICE Gino Brazzoduro str. 2 - IN MEMORIAM BIAGIO MARIN 1891-1985 Valeria Sisto Cornar pag. 2 - Gino Brazzoduro Pag. 4 - PER UNA MODERNA CULTURA DI FRONTIERA - Qualche riflessione di attualità a proposito dell’IRREDENTISMO ADRIATICO di Angelo Vivante str. 12 - ZA SODOBNO KULTURO OB MEJI Nekaj aktualnih misli o Vivantejevem JADRANSKEM IREDENTIZMU (povzetek) Rudolf Wurzer str. 16 - LAUDATIO ZA PROF. MARKA POZZETTA pag. 20 - LAUDATIO PER IL PROF. MARCO POZZETTO Vladimir Vremec str. 23 - INTERVJU Z MARKOM POZZETTO OB POMEMBNEM MEDNARODNEM PRIZNANJU pag. 31 - INTERVISTA CON MARCO POZZETTO IN OCCASIONE DI UN IMPORTANTE RICONOSCIMENTO INTERNAZIONALE Srečko Kosovel pag. 40 - POESIE E INTEGRALI Nel sessantesimo anniversario della morte str. 40 - POEZIJE IN INTEGRALI Ob šestdesetletnici smrti Alojz Ihan pag. 51 - POESIE Andrej Blatnik str. 54 - MIKROPROZE pag. 57 - MICROPROSE Taras Kermauner str. 60 - DRAMA 0 LUMPENREVOLUCIJI pag. 93 - LUMPENRIVOLUZIONE (riassunto) Gino Brazzoduro pag. 108 - «STALINISMO» E DINTORNI A proposito del saggio di T. Kermauner str. 114 - »STALINIZEM« IN NJEGOVA OKOLICA Razmišljanje o Kermauner j evem eseju (povzetek) G. Br. Pag. 116 - CHERCHER TRIESTE str. 118 - CHERCHER TRIESTE (povzetek) pag. 119 - REQUIEM PER UN AMORE Via Rossetti e dintorni str. 122 - REKVIEM ZA LJUBEZEN Ulica Rossetti in bližnja okolica (povzetek) in memoriam Magio marin 1891-1985 Gino Brazzoduro Valeria Sisto Cornar SLOVO OD BIAGIA (26.12.85) Na bregu je tvoj čoln pripravljen. Rahlo se ziblje na majhnem valu. Vzdigni modro zvezdasto jadro. Odplovi. Napeto je jadro našega spomina. Spremlja te še malo zvesta galebja perut. Nato se samotno izgubi v veliki Daljavi v silnem vetru Večnosti. Addio a Biagio (26.12.85) Sulla riva / la tua barca è pronta. / Oscitla leggera / sulla piccola onda. / Alza la vela / azzurro stellata. / Salpa. / E' gonfia la vela / del nostro ricordo. // Solo per poco ancora ti scorta / l’ala fedele del gabbiano. / Poi solitaria si perde / nel gran Lontano / nel gran vento del Sempre. PESNIKOVA SMRT Bel kot lahka nevesta v belem vetru v letu proti ljubezenski noči. Tvoje petje nas zapušča zdaj. Nevidna krila ima tišina. Prevedla Jolka Milič La morte del poeta Bianco / come sposa leggera nel vento / bianco / in volo verso la notte amorosa. // Il tuo canto / ora ci abbandona. // Invisibili ali / ha il silenzio. CANZONE PER BIAGIO (26 dicembre 1985) Adesso dorme Biagio e sale adagio adagio dall’isoletta d’oro un desolato coro. Son pianti di sirene di asterie e di murene. E' un murmure sottile che sfiora l'arenile. Ecco le reti appese ecco le nuove attese. La sabbia è priva d’orme adesso Biagio dorme. Valeria Sisto Cornar per una moderna cultura dì frontiera qualche riflessione di attualità a proposito dell’irredentismo adriatico di angelo vivante Gino Brazzoduro «Irredentismo Adriatico» è l'opera forse più importante e significativa del socialista triestino Angelo Vivante. Fu pubblicata nel 1912; tre anni dopo — il primo luglio del ’15 — l’autore moriva suicida. La pubblicazione di questa nuova edizione — la quinta — rappresenta senza dubbio una lodevolissima iniziativa, un avvenimento importante nella vita culturale di Trieste, in quanto mette a disposizione del pubblico un documento meritevole ancora oggi della più attenta riflessione. Il testo originale è accompagnato da un pregevole studio di Elio Apih sulla genesi del libro e sulle vicissitudini della sua prima pubblicazione a Firenze. A questo studio Apih fa seguire una raccolta di lettere inedite di Vivante, scritte fra il 1907 ed il 1914, indirizzate a uomini di cultura italiani, nelle quali egli tratta della problematica politica della Trieste del tempo. Queste lettere completano il testo principale e ci fanno conoscere meglio la personalità dell’autore, il suo profilo intellettuale e la sua figura morale. I pregi del libro sono diversi: la salda struttura complessiva dell’opera, la ricchezza ed il rigore scientifico veramente esemplare della documentazione su cui poggia ogni enunciazione, la chiarezza con cui si svolge il filo logico del pensiero. Non ultima però la lezione di moralità offerta da queste pagine, tese ad opporre al devastante profluvio di vacua e viscerale retorica nazionalista degli «irredentisti» — sia quelli della Venezia Giulia, sia quelli dell'allora regno d'Italia — una coerente visione storica della reale struttura dei problemi concreti. Siamo di fronte, dunque, ad una lezione di metodologia storiografica di profonda onestà intellettuale che dà forza al presupposto ideale che ispira queste pagine: un ideale di convivenza attiva — che non è precaria, passiva coesistenza — produttrice di valori umani, fra le diverse componenti etniche della regione. Ed è soprattutto per questo che il libro ci pare interessante ed attuale ancora oggi per tutti. Le lesi di Vivante e del movimento socialista, ispirate dal pen- siero austromarxista, risultarono perdenti e finirono travolte dalla prima guerra mondiale. Nel dopoguerra il demone di quelle forze irrazionali potè scatenarsi liberamente su queste terre fino al giorno del «redde rationem» che non poteva non essere causa di altri dolori, lutti e tragedie. Non tenteremo qui di riassumere il libro, che presenta una esauriente panoramica ed una valutazione critica della storia civile, politica, economica e sociale della regione e delle sue componenti etniche — separatamente per i distretti di Trieste, del-l’Istria e del goriziano — con particolare attenzione per i fatti che si succedettero a partire dall’800. E' storia nota, che qui troviamo puntigliosamente documentata in dettaglio e con acribia da una messe di dati e informazioni: censimenti, risultati elettorali, volume e qualità dei traffici marittimi e terrestri da e verso le diverse aree geografiche; politica scolastica, vita culturale, stampa, religione, partiti politici, associazioni, ecc. Costante attenzione è sempre rivolta all’impatto delle grandi trasformazioni tecnologiche sui fatti economici (avvento del vapore e dell’elettricità, sviluppo dell’ingegneria civile nelle ferrovie e nella costruzione di canali, ecc.). E’ anche sempre ben presente il contesto geopolitico, la complessa interazione fra coste e «hinterland». Ma dall’insieme dell’intricata problematica locale emerge un punto centrale, un perno intorno al quale in definitiva ruotano le que- BANCA DI CREDITO DI TRIESTE S.p.A. TRŽAŠKA KREDITNA BANKA TRIESTE - VIA FABIO FILZI 10 - TELEFONO 61446 TELEX 46264 AGENZIA: DOMIO 227 - TELEFONO 831131 Accettiamo depositi a risparmio di ogni tipo Offriamo cr' diti var, quali: 0 Crediti di contocorrente e di sconto, prestiti cambiari ed artigianali (ESA), prestiti ipotecari quinquennali £ Servizi bancari vari, assegni circolari - cassa continua cassette di sicurezza - pagamento delle tasse, ACE - GAT, SIP, ecc. ^ Vendita ed acquisto di valute estere al cambio giornaliero 0 L’Istituto è abilitato a svolgere servizi valutari e merceologici con l’estero con l’appellativo «BANCA AGENTE» CORRISPC NDENTI IN TUTTA ITALIA stioni scottanti connesse ai rapporti etnici fra italiani e slavi: esso è rappreentato dall’idea di assimilazione, più o meno «spontanea» o forzata che, secondo gli irredentisti, avrebbe dovuto risolvere il problema, essendo data per scontata l’annessione di tutta la regione al regno d’Italia per ottenere confini geografici e militari considerati necessari (la teoria delle «chiavi di casa nostra»). Da ultimo perfino Mazzini — «l’apostolo delle nazioni» — acconsentì a che il regno includesse ad est tutto il Carso sloveno e la regione di Postumia, ed a nord il Tirolo. Si può dire che l’implicito presupposto dell’assimilazione, intesa come «italianificazione» degli slavi, giustificata quale «logica» conseguenza dell’egemonia culturale e socio-economica della etnia italiana, rappresenta la vera causa scatenante del conflitto nazionale. Differenze ci potranno essere, anche in futuro, solo nel modo di intendere questa assimilazione, se, appunto, solo «naturale», graduale, ma comunque ineluttabile, oppure accelerata e forzata, imposta brutalmente come in effetti si cercò di fare subito dopo il ’18. Vivante però documenta anche posizioni molto diverse di eminenti uomini politici italiani, fra i quali Cavour, La Marmora ed altri, consapevoli dell’impraticabilità e dei gravi rischi di una politica assimilatrice, anche perché essi erano guidati da una prospettiva politica a lungo raggio di amicizia e di intesa con gli slavi del sud. Naturalmente la tendenza assimilatrice contrastava ancor più con la visione di un Tommaseo che auspicava una Trieste «anello di fiducia e di intelligenza», o del Vaiassi che vede una «Trieste... portofranco delle nazioni e delle opinioni. Punto di contatto di tre grandi razze»; a questi si potrebbero aggiungere figure come Ascoli, Cantù ed altri uomini di cultura e politici italiani sia del regno che della Venezia Giulia. La svolta decisiva che determinò un’intensificazione dell’irredentismo è rappresentata dalla proclamazione del regno d’Italia e dal distacco del Veneto dall’Austria nel 1866. Con esso gli italiani della Venezia Giulia avvertirono la separazione dai connazionali come un senso di isolamento; contemporaneamente acquistavano un punto di riferimento esterno nel nuovo stato nazionale che prima non esisteva. Gli slavi della regione invece potevano guardare agli altri popoli consanguinei che gravitavano entro l’orbita del sistema statale austriaco, diventato «duplice» dopo i moti ungheresi e che non era improbabile potesse evolversi successivamente in senso «tria-lista». D'altra parte nel nuovo stato italiano andavano formandosi gruppi di pressione e interessi economici che mostravano una crescente propensione ad acquisire sbocchi commerciali e territoriali secondo due direttrici: l’Africa (Massaua, Adua, Tripoli) e la regione balcanica (non solo la Venezia Giulia, ma la Dalmazia e l’Albania). Si trattava della tipica politica imperialistica delle cosiddette «sfere d’influenza», da guadagnare eventualmente esigendo adeguati «compensi» per iniziative espansionistiche altrui. I più accesi reclamavano perfino Tunisi, Malta, Nizza ed il Canton Ticino. E’ questa tendenza espansionista, rivelatasi vincente, che porterà agli effimeri trionfi in Etiopia, all'annessione prima dell’Albania e poi allo smembramento del regno di Jugoslavia, con le tragiche conseguenze a tutti note. Se questa fu l’infausta parabola del nazionalismo e dell’irredentismo, c'è da chiedersi come mai queste tendenze poterono prevalere ed affermarsi segnando la sconfitta della ragione. In queste pagine Vivante erige una costruzione logica e coerente che però risultò impotente ad agire su quello che lui stesso definisce uno «stato d’animo superficiale, tumultuario, prevalentemente retorico...». Uno stato d’animo che rappresentò però un fondo comune per ceti diversi e fra loro magari in conflitto per altri aspetti, orientamenti ideali e interessi. Questi ceti erano cementati da «un bizzarro impasto in cui l’inconscio, il cosciente e il subcosciente si mescolano». Per questi «piccoli e medi ceti borghesi... l'anima nazionale rappresenta quasi il sostitutivo dell’anima religiosa». Vivante stigmatizza il «disprezzo del cittadino per il villano parlante per di più un aspro linguaggio ignoto, il linguaggio della fatica e della miseria». Nel regno si andava affermando uno stato d’animo che spingeva verso un’azione politica sempre più lontana dalla realtà effettuale, aliena da una visione equilibrata dei fatti, e sempre più incline verso «la ripugnanza alla realtà, l’accarezzare il confuso, l’evanescente, l’indefinibile», soggiacendo fatalmente al perverso «influsso fuorviatore della fraseologia dei politicanti giuliani». Si tratta di uno «stato d’animo... più grigio che mai», inesorabilmente portato a «materiarsì d'ignoranza, di confusioni, di equivoci», al quale Vivante profeticamente attribuisce un esito «che può condurre alle grandi sorprese ed anche alle grandi catastrofi». Si realizza così una strana e contradditoria convergenza di irredentismi repubblicani e sabaudi, clericali e liberali, mal ricoperti da una patina di mediocre letteratura: si resuscita: «lo spirito classico, la tradizione di Roma... Augusto e la decima regione italica... Aquileia». L’irredentismo ha una «visione collerica» del risveglio slavo, del quale «dissimula e sottovaluta le cause centrali». Non accetta lo scandalo che lo slavo si ostini a sentirsi tale e rifiuti la assimilazione e l’assorbimento. Nella sua analisi storico-politica e socio-economica, Vivante accenna, come abbiamo visto, ad elementi psicologici ed emozionali che gli appaiono come materia estranea alla sua analisi razionale: sono elementi che solo più tardi verranno pienamente accolti dalla metologia storiografica più avanzata proprio per consentire una comprensione più completa dei fatti storici, comprensione cui non è più sufficiente un’analisi puramente «razionale», quantitativa, ma deve includere anche quei fenomeni apparentemente «inafferabili» che circolano nel sottosuolo dell’immaginario collettivo, dove si agitano flussi affettivi, correnti irrazionali e rimozioni della realtà che vive in superficie. Già nella prefazione Vivant e dichiara di volersi tenere «fuori d’ogni peste retorica e di ogni lue pseudo-letteraria, col minimo di passione» per attenersi ad «una cernita e un'esibizione di fatti e di dati». Ma, c’è da chiedersi oggi, fermarsi ancora al di qua dell'affermazione che l’irredentismo è «nato e vissuto in un’atmosfera di sogno e di passione... tenuto poi, ad arte, lontano dalle correnti aspre e rudi della realtà», non rivela forse un limite per la comprensione piena del fenomeno, un’insufficienza della metodologia tradizionale? Deprecare e denunciare non basta. Certo, Vivante è impregnato di cultura razionalista, positivista ed anche marxista, ma avvertiamo che, in fondo, quelle metodologie sono ancora inadeguate se vogliamo cogliere tutta la complessa e multiforme realtà dei fenomeni storici, ai quali mai sono estranee anche pulsioni irrazionali e motivazioni inconsce. Come l'individuo, anche i gruppi sociali non sfuggono a sollecitazioni di impulsi che provengono dagli strati profondi e dalle zone d’ombra e di penombra della psiche. I sogni, i miti, le passioni e tutte le pulsioni irrazionali sono, in definitiva, fatti che agiscono nella realtà non meno degli altri fatti economici, politici, militari, sociali, ecc. Non si può ignorare che la realtà umana — individuo o società — è un impasto di due nature che si manifestano attivamente sempre a due livelli, quello conscio e quello inconscio, nessuno dei quali può essere trascurato o sotto-valutato. E’ proprio per questo che le più recenti discipline della psicostoria e della psicopolitica hanno ampliato i mezzi d’indagine tradizionali della storiografia e della politologia classiche, finora basati quasi esclusivamente sull’analisi e sull’interpretazione di dati e di strutture essenzialmente quantitative (rapporti di produzione, criteri di distribuzione della ricchezza, ecc.). Oggi, accanto agli strumenti dell’analisi marxiana si utilizzano metodologie di origine freudiana, in modo da pervenire ad una rappresentazione più esauriente degli atteggiamenti e dei comportamenti umani. E questo, si badi, in primo luogo per essere in grado di orientare nel modo più produttivo l’azione culturale per un’efficace soluzione dei problemi che la storia passata ci ha lasciato in eredità e che abbiamo l’indeclinabile responsabilità di affrontare ed avviare a soluzione mirando giusto. Nell'individuo sono operanti archetipi metastorici radicati nel profondo della psiche individuale e dell’immaginario collettivo. Que- sti elementi affiorano ed agiscono in superficie spesso come istinti irrazionali, come pulsioni inconsce. Si tratta di strutture psichiche caratteriali interne che tendono inevitabilmente ad affermarsi svolgendo un loro ruolo autonomo ed interagendo con le sollecitazioni economiche, sociali, politiche, ecc. secondo una «logica» che sfugge ad un'analisi puramente quantitativa. Nell’uomo moderno sono ancora riconoscibili sedimenti prestorici, archetipi affettivi che ne influenzano in maniera insospettata ma determinante Vagire storico collettivo secondo meccanismi che risultano chiaramente leggibili da parte dell’analisi psicostorica e psicopolitica. Basti pensare, p. es. alla questione fondamentale dell’aggressività umana (e ricordiamo qui solo la risposta di Freud ad Einstein, nel 1932, sulla causa delle guerre), all’antagonismo degli impulsi di eros e thanatos, all’azione conflittuale dei codici della famiglia «interna» (padre, madre, fratelli) che si proiettano nella famiglia «esterna», cioè nella società, come afferma Pomari («La lezione freudiana» e «La malattia d’Europa», ed. Feltrinelli). QUALE COMPITO PER UNA MODERNA CULTURA DI FRONTIERA? Ma il problema più concreto per noi, «hic et nunc», è il seguente: quale compito per una moderna cultura di frontiera- La frontiera è un «topos» di discontinuità per tutte le variabili del comportamento umano; una faglia ai margini della quale si accumulano tensioni di varia natura e si concentrano differenze di valori. Si genera cioè un «campo di forze» che mette in gioco atteggiamenti e comportamenti determinati anche da energie latenti del profondo, da strutture emotive sublimali che si riversano poi nella realtà «razionale». L’inserimento di queste strutture psichiche interne primarie nella realtà esterna è stato assimilato a «personaggi in cerca di autore» (Fornari) che si calano nei ruoli dell’azione scenica sociale adottandone il linguaggio e le vesti. Oggi l’analisi è perfettamente in grado di «smascherare» questi «personaggi» e di decodificare il loro linguaggio per riconoscerli e identificarli e risalire alle loro motivazioni originali che urgono dal profondo. La cultura di per sé non ha il potere di eliminare le contraddizioni né di esorcizzare i conflitti: del resto ogni rimozione e repressione non potrebbe che essere pericolosa e inopportuna. Ma proprio la consapevolezza di questo «sottosuolo» consente alla cultura di agire in positivo, analizzando la natura e l’origine di quelle pulsioni, accettandone per quello che sono e cercando di deviarle ampliando la sfera di azione della coscienza, della libera responsa- bilità della ragione. Compito della cultura sarà quindi quello di riscattare l’inestimabile valore di ogni «differenza» intesa come fonte di creatività di valori e stimolo di innovazione, promuovere rapporti di inter-fecondazione rinunciando sia alla repressione/oppressione, sia alla pretesa omogeneizzatrice di ogni autentica identità. In sostanza è necessaria una cultura della differenza; anzi, una cultura per la differenza: perché ogni «differenza» è forza motrice vitale di avanzamento. Solo per questa via sarà possibile superare gli impulsi dell’aggressività che dormono al fondo di ogni individuo e gruppo, e spezzare l’antica, tragica equazione: straniero = diverso — perverso = nemico apportatore di morte e quindi da sopprimere. Solo la cultura può — e deve — indurci ad accettare lo straniero/diverso, a conoscere e ad accogliere i suoi valori, insegnarci a padroneggiare la conflittualità radicata nel primitivo che alberga in ciascuno di noi, indirizzandola verso finalità non distruttive di morte; farci riconoscere in ogni differenza un momento positivo, un’opportunità che ci rende più completi e più ricchi. Allora la frontiera non sarà intesa come «gabbia», come rigida separazione che soffoca la nostra libertà creativa ma diverrà luogo di contatto, occasione di scambio e di simbiosi. Impareremo ad essere veramente liberi quando usciremo dall’isolamento egocentrico ed autarchico, senza sopraffare gli altri e senza annullare la nostra identità. Questo può essere un ragionevole obiettivo etico e civile, non utopistico: capire meglio se stessi attraverso gli altri e riconoscere gli altri in sé. TRIESTE - «CROGIOLO» Un’ultima osservazione ancora in merito alla questione della assimilazione. A Trieste questa tendenza più o meno esplicita e consapevole a ridurre il problema etnico in termini di assorbimento, ha trovato un’espressione che è diventata luogo comune: quella di Trieste - «crogiolo». Ebbene, una delle intelligenze critiche più lucide che questa città ha espresso alla cultura non solo italiana, ma europea, Roberto Bazlen, ha demistificato questo luogo comune («Intervista su Trieste» in «Note senza testo», Adelphi): «Trieste è stata tutto meno che un crogiolo... a Trieste... un tipo fuso non s’è mai prodotto, o un tipo con caratteristiche costanti... c’erano possibilità di... dialoghi... di molti incontri, di accostamenti tra elementi che normalmente non si avvicinano... figure mai compieta-mente definitive... Gente con premesse diverse, che deve tentare di conciliare gli inconciliabili... Trieste... è stata un’ottima cassa armonica, è stata un città di una sismograficità non comune...». Nelle stesse pagine Bazlen smitizza con pochi tratti e con un’arguzia impietosa questa borghesia che in un eccesso di enfasi nazionalistica ricorre « a un frasario retorico ottocentesco» ed ostenta tutta la sua superiorità sugli sloveni, fino al disprezzo. Sono brevi pagine che dovrebbero essere occasione di salutare riflessione critica. La più genuina identità di Trieste, la sua funzione — oseremmo dire la sua vocazione più ambiziosa — è altra cosa dall'essere un «crogiolo» nel quale avviene una fusione indistinta, omologatrice e livellatrice delle sue componenti più autentiche e reali. Trieste è luogo di intersezioni, di contatti, di scambi, di osmosi; matrice di pluralità di valenze e di preziose «differenze». E’ luogo di asperità che sarebbe stolto voler levigare e spianare snaturandole, perché è proprio da queste irriducibili incongruenze che si aprono spiragli e interstizi altrove impossibili e che offrono stimoli di feconda creatività: è proprio da «quello screzio, da quella incrinatura, da cui sorgono la malsicurezza e il dubbio, padri dell’osservazione, dell’introspezione, primo passo, unica premessa per l'interesse «psicologico’» (ancora Bazlen, «Prefazione a Svevo» in «Note senza testo»). Come sempre, il problema è in definitiva eminentemente culturale, riguarda una cultura di ricerca, libera, non strumentalizzata e banalizzata da finalità di dominio, non piegata a giustificazione di appetiti e di interessi inconfessabili. Vivante auspicava una cultura che favorisse l’affermazione di «forze e ideologie interessate o trascinate al compromesso nazionale e non... spinte a volere il conflitto o.. a trovare in esso un rincalzo al proprio potere economico e politico». Egli aveva intuito che «basta che cada la ragione psicologica del conflitto... (e) la lotta perderà il suo carattere anticivile, rimarrà gara di energie economiche e politiche». La cultura italiana — ed europea — di Trieste ha tradizioni e valori che le consentono di presidiare questa posizione di frontiera con spirito di iniziativa e lungimiranza. E l’esperienza del confronto col pluralismo delle voci, è la comunicazione con culture diverse che può tracciare il profilo di un'identità originale: tanto più autentica e creativa, quanto più chiara sarà la coscienza che nessuna vera difesa è possibile oggi al riparo di un confine-baluardo. La difesa della propria identità si attua costruendola ogni giorno, dinamicamente nella dialettica, in campo aperto. I confini attraversano ogni comunità, ogni singolo. La frontiera che separa è solitudine; è già sconfitta. za sodobno kulturo ob meji nekaj aktualnih misli o vivantejevem jadranskem iredentizmu Gino Brazzoduro Angelo Vivante je še pred prvo svetovno vojno razpoznal posebnost vozlov in težav, s katerimi se moramo soočati še mi danes na tem obmejnem področju. S svojimi razmišljanji je močno prehiteval svoje sodobnike. Pred kratkim so se s tem vprašanjem ukvarjali pisatelji in kulturniki iz obmejnih dežel in drugih evropskih pokrajin na srečanju v Portorožu, kar dokazuje, da je tematika meje in njenih protislovij še zmeraj aktualna. Tudi Slovenci smo imeli človeka, ki je tako kakor Angelo Vivante na prelomu stoletja v dokajšnji meri prehiteval svoje sodobnike. To je bil Henrik Tuma, kulturnik, politik in prosvetni delavec, ki je nadrobno opisal družbeno strukturo tedanje Avstrije in prikazal usodne posledice narodnostnih bojev na področju, kjer so se narodnosti deloma še konstituirale in si urejale prostor pod soncem. Razmišljanja o teh dogodkih v preteklosti nam omogočajo iskanje in izbiranje novih poti, ki bodo pokazale smer iz današnjih težav. V pričujočem eseju nam Gino Brazzoduro prikazuje občečloveškost obmejenega položaja in njegovo širšo naravo, kar je predpogoj za premagovanje apriorizmov in predsodkov, ki ovirajo možnosti polnega razvoja novih oblik in vsebin, ki jih nudijo špranje in vrzeli obmejnih različnosti. »Jadranski iredentizem« je najpomembnejše delo Angela Vi-vanteja, ki je tri leta po izidu knjige naredil samomor (1915). Za ponovno izdajo (založba Italo Svevo, Trst 1984) je zgodovinar Elio Apih napisal uvod in dodal zbirko še neznanih Vivantejevih pisem, ki so nastala med leti 1907 in 1914, v katerih obravnava tedanje politične razmere v Trstu. Tako še bolje spoznamo intelektualne in moralne poteze pisca. Vivante se je s to knjigo skušal zoperstaviti nacionalistični retoriki v takratni Julijski krajini pa tudi v tedanji kraljevini Italiji. Z njo je hotel pokazati na resnično ozadje in okolnosti takratnih političnih problemov. Iz knjige veje vera v mirno sožitje, ki ni nikoli pasivna toleranca in prav zategadelj lahko rodi nove človeške vrednote v odnosih med različnimi narodno-stimi skupinami. Zaradi tega je knjiga aktualna še danes. Vivante izhaja iz avstromarksizma, ki pa je bil poražen od tistega iracionalizma, ki se je po vojni še bolj razbohotil, nato zakrivil mnogo trpljenja, sejal smrt in s tem sprožil še nove tragedije. Vivante raziskuje takratno šolsko, kulturno, gospodarsko in politično resničnost, pri čemer podčrtuje pomen ve- likih tehnoloških sprememb kot tudi razmerje med mestom ob morju in njegovim zaledjem. Avtor omenja tudi stališča nekaterih takrat najpomembnejših politikov, recimo Cavourja, La Marmoro, ki sta se zavedala nevarnosti politike asimilacije in se zavzemala za zbliževanje z južnimi Slovani. Vivante v Trstu ni bil čisto osamljen. Pred njim je že Tom-maseo govoril o Trstu kot o »členu zaupanja in pameti« in Va-lussi si je predstavljal »Trst... kot prosto cono narodov in mnenj. Stičišče velikih ras«. Iredentizem in politika ozemeljske in gospodarske ekspanzije sta sovpadala s takratnimi močno ukoreninjenimi pogledi o »vplivnih območjih« in prinesla pozneje nekaj uspehov v Etiopiji, priključitev Albanije in razkosanje jugoslovanske kraljevine, z znanimi tragičnimi posledicami. Že sam Vivante je v svoji jasno in dosledno izpeljani analizi tega pojava omenil vlogo, ki jo odigrava čustveno stanje, ko je zmes površnosti, zaletavosti in retorike, ki pa je bilo skupno različnim družbenim slojem in pri čemer se mešajo in prepletajo podzavestne prvine. Pomembna je Vivantejeva ugotovitev, da »za malomeščanske in srednje sloje so narodnostna čustva nekakšno nadomestilo za izgubo verskih«. Taka miselnost pelje neizogibno v čustveno stanje, kjer prevladuje nevednost, zmešnjava in vse to bo pripeljalo do »velikih presenečenj in tudi velikih katastrof«. Nič čudnega, če so se zbližali iredentizmi raznih vrst, od republikanskih do monarhističnih, od klerikalnih do liberalnih, in se hranili s povprečno literaturo, ki je omamila cele rodove s svojim klasičnim duhom, rimsko tradicijo... Avgustom in deseto italsko regijo... Akvilejo«. Iredentizem po njegovem reagira kolerično na vse, kar je v zvezi s Slovani in tako zmanjšuje pomen slovanskega prebujenja, čigar poglavitne vzgibe ne jemlje v obzir in jih podcenjuje. Noče se sprijazniti z dejstvom, da sme biti Slovan to, kar je in da se ne pusti asimilirati in posrkati od večinskega okolja. V svoji zgodovinsko-politični analizi Vivante jemlje v poštev tudi psihološke in čustvene prvine, ki pa se mu zdijo kot tujki v racionalno izpeljani analizi: gre pa za sestavine, ki jih je zgodovinska znanost sprejela mnogo pozneje in lahko bistveno dopolnjujejo zgolj racionalno, količinsko analizo, saj so prisotne kot neločljiv element v množični podzavesti. V le-tej se neurejeno gibljejo globinski čustveni tokovi, iz katerih prihajajo impulzi iracionalnosti in s tem povezano odrinjanje vsakodnevne resničnosti. Vivante rad poudarja, da se ne želi vplesti v psevdo- literarna in podobna razmišljanja, saj se hoče ves podrediti dejstvom in podatkom. Vprašati se pa moramo, ali ne predstavlja tak pristop oviro k popolnemu razumevanju pojava? Že dolgo ni dovolj samo ožigosati in odklanjati določene pojave. Vivante je ves predan racionalistični, pozitivistični in marksistični kulturi, ki pa ne zadostuje za razumevanje zapletene in raznovrstne resničnosti zgodovinskih dogajanj. Nič drugače kot posameznik tudi družbeni sloji in skupine podlegajo vzgibom iz podzavesti in globinskih plasti. Na dlani je, da so v sodobnem človeku še vedno predzgodovinske usedline, čustveni in mišljenjski arhetipi, ki vplivajo tudi na odločilen način na zgodovinsko skupinsko vedenje in delovanje na osnovi mehanizmov, ki jih psihozgodovinska in psihopolitična analiza zna točno razbrati in opredeliti. Naj v tej zvezi navedemo Freudov odgovor Einsteinu, Fomarijeve »Freudove lekcije« in »Bolezen Evrope« (Feltrinelli). Kakšna naloga za sodobno kulturo ob meji? Iz povedanega je tudi razvidno, kako pristopati k problematiki meje, kjer se sproščajo različne sestavine človeškega ravnanja in vedenja. Kultura nima sama moči, da bi preprečila spopade. Toda prav zavest o tem »podzemlju« omogoča kulturi, da deluje očiščevalno in razkriva zapletenost človekovih vzgibov in čustev in jih zato lahko tudi sprejema kot take, zavedajoč se jih v polni meri. Vsekakor je poglavitna naloga kulture, da pomaga odkrivati neizmerno bogastvo, ki izvira iz razlik in različnosti, da postane vir ustvarjalnosti in spodbuda k iskanju novega, ki se hrani in oplaja iz različnosti in torej ne sili v represijo in nasilje z zahtevo po poenotenju in izbrisanju posamezne istovetnosti. Kultura ob meji je kultura različnosti, pravzaprav za različnost, vir življenjskih energij, ki vodijo naprej. Na ta način bomo lahko premagali težnjo po napadalnosti, ki čemi na dnu vsakega posameznika in skupine in tako pretrgali starodavno enačbo: tujec = drugačen = perverzen = sovražnik = prinašalec smrti, ki ga je treba prav zato ugonobiti. Samo kultura nam lahko pomaga sprejeti tujca kot pozitivno različnost in tako obvladovati navzkrižja, ki so ukoreninjena v primitivnih usedlinah in jih usmerjati k ciljem, ki ne prinašajo uničenja in smrti. Takrat tudi meja ne bo več »kletka«, ki nas ostro ločuje, ampak kraj in prostor srečanja, priložnost izmenjave in sožitja. Na koncu, v zvezi s težnjami k asimilaciji, ki zadobiva v Trstu prav posebno negativno moč, kaže opozoriti na misli Ro- berta Bazlena v zapisu »Intervista su Trieste« (Intervju o Trstu, izšel je v knjigi Note senza testo - Opombe brez besedila - pri založbi Adelphi): »Trst je vse prej kot topilnica... v Trstu... ni bilo nikoli res pretopljenega človeka ali človeka, ki bi se ga dalo prepoznati po značajskih posebnostih... vedno je bila v njem priložnost za... razgovor... za mnogovrstna srečanja, za zbližanje prvin, ki po navadi ne gredo skupaj... liki, ki niso nikoli dokončni... Ljudje različnega izvora, ki se morajo potruditi, da združijo nezdružljive... Trst... je bil odličen ojačevalnik, mesto kot nenavaden seizmograf«. V isti knjigi Bazlen demitizira tržaško meščanstvo, ki uporablja izrazje iz 19. stoletja in se baha z razkazovanjem svoje večvrednosti nad Slovenci. Italijanska — in evropska — kultura v Trstu ima torej tudi tako tradicijo in vrednote, ki ji omogočajo, da plodno razvija položaj ob meji z razpoložljivostjo do novih pobud in z daljnovidnostjo. Kultura, ki ločuje, je samota; je že poraz. Povzel: V.V. BANCA Dl CREDITO Dl TRIESTE S.p.A. TRŽAŠKA KREDITNA BANKA TRST • UUCA FABIO FILZI 10 • TELEFON 61446 - TELEX 46264 AGENCIJA: DOMJO 227 - TELEFON 831131 Sprejemamo vsakovrstne hranilne vloge Nudimo raznovrstne kredite, kakor DOPISNIKI PO VSEJ ITALIJI Kontokorentni in eskomptni krediti, menična in obrtniška posojila (ESA) in hipotekarna petletna posojila $ Raznovrstne bančne storitve, krožni čeki -neprekinjena blagajna - varnostne skrinjice - plačila davkov, ACEGAT, SIP itd. £ Kupoprodaja tujih valut po dnevnem tečaju 0 Zavod je usposobljen za blagovno in devizno poslovanje s tujino z nazivom -BANCA AGENTE» laudatio za marka pozzetta Rudolf Wurzer Laudatio prof. dr. Marku Pozzettu - univerza v Trstu ob priliki podelitve medalje Johann Joseph Ritter von Prechtl dne 2. decembra 1985 v slavnostni dvorani Tehniške univerze na Dunaju. Spoštovane gospe in gospodje! Cenjeni gospod kolega dr. Pozzetto! Medalja Johann Joseph Ritter von Prechtl je najvišje priznanje, ki ga podeljuje naša univerza od leta 1950 dalje za življenjsko raziskovalno delo na samostojnem delovnem področju. Odlikovanje pomeni hkrati poklon univerze spominu svojega ustanovitelja Johanna Prechtla, ki je izdelal izjemen ureditveni statut in čigar veliki sposobnosti za uresničevanje načrtov in zamisli se imamo zahvaliti, da se je iz nekdanje Cesarsko - kraljevega politehniškega inštituta razvila poznejša Tehniška visoka šola in današnja Tehniška univerza. Slednja je navkljub mnogim globokim spremembam ne samo obdržala že 171 let, ampak tudi vedno znova potrdila svoj položaj. V tem trenutku je moja naloga, da Vam, cenjene gospe in gospodje,obrazložim, zakaj sta nagradna komisija in akademski senat soglasno sklenila podeliti Prechtlovo medaljo prof. dr. Marku Pozzettu, docentu (professore associato) za zgodovino arhitekture na univerzi v Trstu, za življenjsko delo. Prej pa je umestno opozoriti, da je bilo mesto Trst usodno povezano z življenjsko potjo tako direktorja Prechtla kot profesorja Marka Pozzetta. Prechtl se je rodil leta 1778 v Bischofs-heimu na Bavarskem, leta 1801 je prišel na Dunaj in tu opravil prakso na državnem sodišču, vendar je potem juristično kariero opustil in se posvetil z vsemi svojimi močmi, in to zelo uspešno, študiju fizike, matematike in kemije. Cesar Franc I. mu je zato leta 1809 poveril vodenje in ureditev nove Pomorske akademije v Trstu. Prechtl se je sicer zaradi posledic Schonbrunnskega miru vrnil leta 1810 spet na Dunaj; s precejšnjo upravičenostjo smemo reči, da je Cesar Franc I. poveril Prechtlu nalogo, da ustanovi takrat tretji najstarejši politehniški inštitut na svetu, prav zaradi njegovega delovanja v Trstu. Na povsem drugačen, nič manj usoden način je Trst vplival na življenjsko delo Marka Pozzetta. Rojen v Ljubljani leta 1925 je tam in v Splitu obiskoval gimnazijo in nato študiral arhitekturo v Benetkah in v Turinu. Od leta 1969 do leta 1978 je Marko Pozzetto poučeval zgodovino arhitekture na turinski Visoki tehniški šoli in je od tedaj profesor na Inštitutu za arhitekturo in urbanistiko na tržaški univerzi. Njegovo raziskovalno delo poteka po treh tirih: — ugotovitev in obdelava deležev Dunaja za sodobno arhitekturo, posebno v nasledstvenih državah donavske monarhije; — preučevanje osebnosti, ki jih je »splošno zgodovinopisje pozabilo« in; — raziskovanje proporcev in modulov v arhitekturi. Neizogibno so v raziskovalnem delu prof. Pozzetta dobili mednarodno priznanje tisti dosežki, ki so povezani s tako pomembnimi arhitekti kot Otto Wagner, Jože Plečnik in Maks Fabiani. K temu je prof. Achleitner zabeležil sledeče: »V Avstriji smo se navadili na okoliščino, da prihajajo pomembne vzpodbude na področju raziskovanja arhitekture iz Italije in da so se mnoge teze porodile najprej tam«. Tako je Marko Pozzetto že leta 1966 v Gorici objavil knjigo o Maksu Fabianiju, ki je od leta 1910 deloval na naši visoki šoli kot redni profesor okrasnega risanja. 1968 je sledila knjiga o Jožetu Plečniku in šoli Otta Wagnerja, ki je izšla v Turinu, 1976 je izšla knjiga »Otto Wagner in sodobna arhitektura« in leta 1979 v Trstu »Wagnerjeva šola/Zamisli Nagrade Natečaji«. V nemškem jeziku je to pomembno delo izšlo leta 1980 na Dunaju in v Miinchnu. Za zdaj zadnja, pomembna knjiga prof. Pozzetta je izšla 1983 na Dunaju in se — prav tako suvereno kot tudi temeljito in prodorno — ukvarja s celotnim ustvarjalnim delom Maksa Fabianija. Fabiani ni bil samo pomemben arhitekt, pač pa tudi zelo uspešen urbanist. Njegovi vzorni urbanistični načrti za Ljubljano, za Karlov trg na Dunaju, ureditveni načrt za Bielsko in regionalni načrt ureditve Posočja in krajev oz. občin na tem področju, posebno pa urbanistični načrt za Gorico niso bili dosti znani v strokovnih krogih. Prof. Pozzetto je izpolnil vrzel na tem področju na prepričljiv način; sedaj bomo morali nadaljevati njegovo delo, raziskovati oz. ugotoviti vezi med Maksom Fabianijem na eni in Karlom Mayrederjem, Eugenom Fassbenderjem, Franzom Ritterjem von Gruberjem kot tudi med Camillom in Siegfriedom Sittejem na drugi strani. Kdor si pozorno prebere Pozzettovo knjigo o Maksu Fabianiju — »in pri tem skuša brati tudi med vrsticami« — dobi ne-kolikokrat vtis, kot da bi avtor in glavna oseba bila ena oseba. Tako je Pozzetto med drugim zabeležil: »Fabianijevo poreklo je bilo italijansko, njihova vzgoja avstrijska, družinsko okolje trojezično: nemško, italijansko, slovensko« . Podobno velja tudi za Pozzetta samega, saj je po materini smrti preživel nekaj let pri Izidorju Cankarju, ustanovitelju slovenske umetnozgodovinske šole. Cankar je bil učenec Karla Dvoraka, ki je bistveno oblikoval dunajsko umetnozgodovinsko šolo. Prof. Pozzetto tako opisuje Cankarjev vpliv: »Prepričan sem, da sem takrat takorekoč vsrkal... mnoge probleme in pojme — kot tudi sposobnost kombiniranja — Komaj desetletja pozneje sem se zavedel, kako je moj način mišljenja podoben tistemu Dunajske šole...«. Tako je Marko Pozzetto s svojim slovensko-italijanskim poreklom in vzgojo, prav tako s svojim globokim razumevanjem kulturnega pomena Dunaja za nasledstvene države donavske monarhije kot malokdo naravnost poklican, in to preko državnih in jezikovnih meja, priklicati v spomin mnogoterost v enotnosti srednjeevropske kulture in pokazati na njeno oblikovalno moč in vpliv na mišljenje. Zato se prisrčno zahvaljujemo Vam, cenjeni gospod profesor, kot tudi Vaši ženi, Vaši družini in Vaši univerzi... Vi ste to, kar je svojčas Johann Joseph von Prechtl naredil za Trst, širokosrčno in bogato povrnili. Zahvaliti se Vam moramo tudi zato, da ste nas na zelo plemenit način spomnili, da bi morale biti pobude Tehniške univerze Dunaj — kljub vsem razlikam politične in družbene narave — še bolj kot doslej usmerjene na jug, jugovzhod in na vzhod, če hočemo to mnogoterost v enotnosti srednjeevropske kulture ne samo obdržati, ampak iz nje narediti silo, ki naj bi nas oblikovala tudi v prihodnosti. To je velika naloga, ki jo moramo skupno rešiti. laudatio marco pozzetto Rudolf Wurzer LAUDATIO per il prof. dr. Marco Pozzetto - Università di Trieste nell’occasione del conferimento della medaglia Johann Joseph Ritter von Prechtl - 2 dicembre 1985 - Sala delle feste, Università Tecnica Vienna. Gentili Signore e Signori, Illustre Collega dr. Pozzetto! La Medaglia Johann Joseph Ritter von Prechtl è la più alta onorificenza che — dal 1950 — la nostra Università può assegnare per premiare l’opera scientifica in un campo di attività autonomo. Con quest’onorificenza però l’Università vuole anche ricordare il suo fondatore Johann Prechtl, al cui geniale statuto organizzativo e grande abilità si deve essere grati se il già Imperialregio Istituto Politecnico, poi Scuola Tecnica Superiore ed ora Università Tecnica — malgrado sostanziali modifiche — da 171 anni non soltanto riesca a mantenere le proprie posizioni, ma anche a confermarle in continuazione. Il mio compito ora, gentili Signore e Signori, è quello di spiegarvi perché la Commissione per le Onorificenze e il Senato accademico hanno deciso all'unanimità di premiare con la Medaglia Prechtl l'opera del prof. dr. Marco Pozzetto, Professore Associato di Storia dell’Architettura dell’Università di Trieste. Sarà opportuno accennare prima al fatto che, come per il Direttore Prechtl a suo tempo così per il prof. Pozzetto ora, Trieste ha segnato un destino importante. Prechtl, nato nel 1778 a Bischofs-heim in Baviera, venne nel 1801 a Vienna dove fu praticante al Tribunale Aulico dello Stato. Poi rinunciò alla carriera legale per dedicarsi con intensità e notevole successo allo studio di matematica, fisica e chimica. Poi nel 1809 l’imperatore Francesco I lo trasferì a Trieste, assegnandogli il compito di organizzare e dirigere la nuova Accademia Nautica. Invero, Prechtl tornò a Vienna nel 1810 in seguito alle decisioni della Pace di Schdnbrunn; si può peraltro supporre con buona probabilità che senza l’esperienza triestina l’imperatore Francesco I non avrebbe incaricato Prechtl di fondare — nel 1814 — quello che allora fu il terzo Politecnico del mondo. In tutt’altra maniera, ma non meno segnata dal destino, Trieste ha influenzato l’opera di Marco Pozzetto. Nato nel 1925 a Lubiana, frequentò là e poi a Spalato le scuole medie, per studiare successivamente l’architettura a Venezia e a Torino. Dal 1969 al 1978 Marco Pozzetto insegnò storia dell’architettura al Politecnico di Torino ed è ora attivo presso l’Istituto di Architettura e Urbanistica dell’Università di Trieste. Le sue ricerche sono orientate in tre direzioni: — contributi viennesi all’architettura moderna, in particolare, negli stati eredi dell’impero danubiano; — studio dei personaggi dell’architettura moderna, trascurati dalla storiografia corrente; — problemi inerenti le proporzioni e la modularità nella storia dell'architettura. E’ ineluttabile che tra le ricerche del prof. Marco Pozzetto raggiungessero notorietà internazionale quei contributi relativi a così importanti architetti come Otto Wagner, Jože Plečnik e Max Fabiani. Il prof. Achleitner ha osservato in proposito: «In Austria ci siamo ormai abituati al fatto che gli stimoli importanti per la ricerca architettonica vengano dall'Italia e che anche molte tesi viennesi siano affrontate prima nella Penisola». Già nel 1966 Marco Pozzetto pubblicò a Gorizia un libro su Max Fabiani, attivo dal 1910 come professore ordinario di disegno ornamentale nella nostra Università. Seguì un libro su Jože Plečnik e la scuola di Otto Wagner, apparso a Torino nel 1968; nel 1976 uscì il volume su Otto Wagner e l'Architettura Moderna e nel 1979 a Trieste quello su La Scuola di Wagner, Idee premi concorsi. Questo importante volume ha avuto un’edizione in lingua tedesca nel 1980, pubblicata a Vienna e a Monaco. L’ultimo, per ora, importante libro del prof. Pozzetto è uscito a Vienna nel 1983. Esso affronta l’opera omnia di Max Fabiani padroneggiandola, allargandone le problematiche e approfondendo nello stesso tempo i singoli aspetti. Poiché Fabiani non era solo un architetto importante, ma anche un urbanista di successo. Le sue esemplari pianificazioni di Lubiana, quella di Karlsplatz di Vienna, il piano di Bielsko nonché le pianificazioni regionali e comunali per la ricostruzione dell'Isontino e, in particolare, i piani urbanistici per Gorizia non erano noti neppure agli specialisti. Il prof. Pozzetto ha riempito tali lacune della conoscenza ed ora sarà compito nostro proseguire i suoi lavori con la ricerca di quei collegamenti laterali che possono ancora essere messi in evidenza tra Max Fabiani d’una parte e Karl Mayreder, Eugen Fas-sbender, Franz Ritter von Gruber nonché Camillo e Siegfried Sitte dall’altra. Leggendo attentamente il libro su Max Fabiani di Marco Pozzetto e tentando di interpretare ciò che sta «scritto tra le righe» si ha talvolta l’impressione che l'attore principale e l’autore del libro siano una sola persona. A proposito Pozzetto osserva: «I Fabiani sono di origine italiana, la loro educazione era austriaca, l'ambiente familiare trilingue: tedesco, italiano e sloveno». Qualcosa di simile vale anche per Marco Pozzetto che, dopo la morte della madre, da bambino visse alcuni anni con Izidor Cankar, fondatore della scuola slovena di storia dell’arte. Cankar fu allievo di Max Dvorak, uno dei protagonisti della scuola viennese di storia dell’arte. Il prof. Pozzetto così descrive l'influenza subita da Cankar: «Sono persuaso che allora avevo, per così dire, assorbito problemi e concezioni, ma anche la facoltà di combinazione... Soltanto decenni appresso mi sono accorto quanto il mio modo di pensare fosse simile a quello della «scuola viennese». Per la sua origine ed educazione italo-slovena come anche per la sua profonda comprensione dell’importanza culturale di Vienna per gli stati eredi della monarchia danubiana Marco Pozzetto appare quasi predestinato a dover ricordare — oltre i confini degli stati e delle lingue — la molteplicità nell’unità della cultura centro-europea e richiamare altresì l’attenzione ai solchi profondi che essa ha impresso. Per questo dobbiamo esserLe cordialmente grati egregio Professore Pozzetto, ma anche a sua moglie, alla sua famiglia e alla sua università. Lei ha ricompensato con generosità e ricchezza ciò che a suo tempo Johann Joseph Ritter von Prechtl aveva fatto per Trieste. Dobbiamo però ringraziarLa anche perché ci ha ricordato con grande signorilità che le iniziative dell'Università Tecnica dovrebbero venir indirizzate — nonostante le diversissime condizioni politiche e sociali — e più di quanto non accade ora — verso il Sud-Est e verso l’Est se la molteplicità nell'unità della cultura centroeuropea non ha da essere soltanto conservata come una preziosa eredità, ma servire anche per strutturarne l’avvenire. Ma questo è un compito grosso che dovremmo risolvere insieme. intervju z markom pozzettom ob pomembnem mednarodnem priznanju Prechtlova nagrada, ki je najvišje priznanje dunajske tehniške univerze — doslej so jo podelili samo peterici — je po Plečnikovi nagradi (leta 1975) priznanje za življenjsko delo na področju zgodovine arhitekture, zlasti za proučevanje dežel stare Avstrije. Plečnikovo medaljo sem dobil leta 1975 za monografijo o arhitektu Jožetu Plečniku in šoli Otta Wagnerja, ki je izšla leta 1968 v Turinu in je prva na Zahodu; knjiga je zbudila gotovo zanimanje za našega arhitekta, ki je končno pristal v Beaubourgu, se pravi na modernem Olimpu. Dunajska Tehnična univerza mi je lani podelila Prechtlovo medaljo za življenjsko delo; očitno je vsaj del mojega opusa za Dunaj precej značilen, ker ne verjamem, da bi me v nasprotnem slučaju počastili s tem res izredno redkim odlikovanjem. Zdaj torej lahko izjavim, da so moji spisi pomembni za zgodovinski oris (majhnega) dela celotne evropske arhitekture. Odkrivanje deleža raznih narodnosti pri razvoju moderne dunajske arhitekture in posredno v nekdanjih avstrijskih deželah je bržkone odsev Tvojega narodnostno mešanega porekla in torej izraz posebne občutljivosti. Ta ima gotovo pomemben delež pri Tvojem delu. K mešanemu poreklu bi prištel še šolsko in rodbinsko vzgojo. Slovenska in hrvaška gimnazija sta bili pred drugo svetovno vojno narodno zelo zavedni, študijski programi pa so bili še močno naslonjeni na stare koncepte poučevanja in učenja, ki so bili izbrušeni v avstro-ogrski monarhiji; informacij je bilo verjetno polovico manj kot v današnjih šolah, a tiste, ki so bile dane, so bile res bistvene in verjetno še danes oblikujejo osnovo mojega načina mišljenja. Na takšno gimnazijsko podlogo sta se potem stratificirali študij na beneški univerzi s humanističnim poudarkom in na turinski fakulteti za arhitekturo, kjer je bila dana večja teža tehnologijam. Pri mnogih drugih rodbinskih težavah sem imel kot otrok srečo, da sem živel v formativnih letih pri Izidorju Cankarju, ter takorekoč srkal njegove neverjetno napredne ideje filozofije umetnosti, ki so mi šele desetletja kasneje odprle obzorja in me privedle do kulturne neodvisnosti, kar je predpogoj za napredovanje, za izbiro in za kombinacijo strateških dejavnikov, za kariero pa seveda ne. Samo po sebi se mi zdi umevno, da sem se v takih pogojih moral poglobiti predvsem v probleme, ki jih je današnje zgodovinopisje prezrlo, oziroma sploh opustilo. Kar zadeva bivšo av-stro-ogrsko monarhijo in sosedne dežele — tudi Italijo — sem iskal predvsem prispevke nenemških osebnosti in skupin. Lahko bi rekel, da marsikatero mojo intuicijo pridno preizkušajo na Češkem, Madžarškem, Hrvaškem, v Bosni, v sami Italiji, v Sloveniji in seveda v Avstriji. In vendar Tvoja življenjska pot ni bila vedno posejana z rožicami, kot se temu pravi. Okusil si tudi dobo, v kateri je bil človek zreduciran na zgolj politično bitje. Si še kdaj občutil posledice gledanja, kjer je vse zamejeno s političnimi računi? Reciva, da je bila moja življenjska pot skoraj vedno obkrožena z rožami, ki so cvetele previsoko: sem jih sicer občudoval, a hodil sem po trnih... Zdi se mi, da je med dobo, ko je bil človek zreduciran na zgolj politično bitje, in današnjimi časi ena sama bistvena razlika: nekdaj so te ustrelili, če se jim je le posrečilo, danes uporabljajo bolj subtilne tehnike, da te prisilijo k molku; če si dosti prožen, lahko tudi protestiraš (če mi ne verjameš, poglej italijanske založnike mojih knjig!). Bržkone velja to tudi za Italijo? Ne verjamem, da je v Italiji veliko drugače kot za mejo, vsaj ko nameravaš hoditi svojo pot v stroki kot je moja, ki je vedno skrajno politizirana. Ne bom citiral Platona, ki govori o nevarnosti umetnosti, ker bi zašel predaleč; moram pa spomniti na Mussolinija, na Stalina, na Hitlerja in na Maa Zedonga ter epigone, ki so hoteli svoje sisteme ovekovečiti z arhitekturo. Slednja, če je dobra ali slaba — kar ne zavisi od sistema, marveč od arhitekta — zahteva veliko investicij, s katerimi v našem sistemu v bistvu upravljajo birokratski ali, pravilneje, strankarski interesi in tako se krog zaključi. Vrniva se k arhitekturi v obmejnem prostoru: Tvoj oris zgodovine tržaške arhitekture, ki je izšel v reviji Parametro štev. 132 - dec. 84, skuša osvetliti različne komponente pri nastajanju modernega Trsta. Ali so prejšnji poskusi orisa del raznih tržaških arhitektov oziroma tržaške arhitekture zanemarjali to komponento? Na področju arhitekture ne poznam nobenega celotnega orisa tržaške zgodovine; veliko bolj natančno je obdelana zgodovina urbanizma in predvsem urbanističnih predlogov do prve svetovne vojne. Dejstvo je, da Tržačani še danes plačujemo tiste poizkuse začete v devetnajstem stoletju, ki naj bi dokazali kontinuiteto Trsta kot zgodovinsko važnega mesta, v katerem sta zadnji dve stoletji le kratka faza, doseljenci več ali manj brezpomembni, Slovenci prisotni le kot ročni delavci, služkinje in podobno. Z druge strani bi bilo treba upoštevati tudi oba exodusa tega stoletja, ko se je izselilo približno sto tisoč ljudi, ki jih je zamenjalo skoraj enako število naseljencev s kulturnim izročilom, ki je bistveno drugačno od tistega, ki so ga imeli izseljenci leta 1919, ali pa leta 1954; naj omenim le čisto drugačne zgodovinske korenine in psihološke poteze istrskih izseljencev... In končno, skoraj vse tržaške umetnike so odkrili in ovrednotili zunaj Trsta, od Rakovca do Pertscha, da se pri literaturi niti ne ustavim. Svoj prispevek sem napisal v bistvu z željo, da bi se overovile nekatere dane hipoteze. Kako ocenjuješ delež Rakovnika (Radkersberga), Cosmaza, Costaperarija in Fabianija? Za Vida Kosmača (Vito Cosmaz) vem le, da je zgradil prvotno cerkev Sv. Antona in nekaj stanovanjskih hiš. Kolikor lahko presodim po načrtih in risbah je bila cerkev dobra. Od drugih gradbenikov so znana le imena in nekaj zgradb. Videti je, da tržaških Slovencev ta bistveni del zgodovine ne zanima, kar velja tudi za kasnejše generacije, za Turka, Fabianija, Costaperarijo, za Kosovela, Laha in Ukmarja in, če hočeš, koga od danes delujočih arhitektov, osebnosti, ki so obogatile slovensko in italijansko kulturo in so, vsaj deloma, evropskega pomena. Če bi se hotel sam lotiti iskanja biografskih in drugih podatkov, bi mi ne preostalo časa za drugo, a zame se že bliža doba, ko se moram lotiti sintez. Iz natančne raziskave dela Rakovca, ki jo je objavil »Most«, izhaja, da je bil eden najnaprednejših načrtovalcev v zgodovini Trsta. Tudi za to ugotovitev se moramo zahvaliti Damjanu Prelovšku, ki ni Tržačan! Kateri so globlji vzroki, da ni prišlo do Fabianijeve razstave, ki bi lahko postala dogodek evropske razsežnosti v letu 1984 in bi še dodatno ovrednotila delo vsestransko ustvarjalnega »arhitekta monarhije«, obenem z razkošno monografijo, ki je skoraj istočasno izšla pri dunajski založbi Tusch? V matičnih zapiskih dunajske Tehnične univerze beremo, da se je Maks Fabiani v prvih šestih semestrih študija imel za Slovenca: Nationalität - slowenisch, v zadnjih štirih semestrih je narodnost postala italienisch, kar se mi zdi precej značilno. Ko je bil na prelomu stoletja na Dunaju in so ga imeli za enega najnaprednejših arhitektov tistega časa, je Slovencem zgradil Narodni dom v Trstu in Gospodarski dom v Gorici, stavhi, ki spadata med vrhunce svetovne arhitekture. Njegovo regionalno planiranje v prvih povojnih letih je zajemalo slovenske in italijanske pokrajine (le da zadnje pripadajo Furlaniji), imel pa se je takrat le še za Kraševca. Videti je, da njegovo delo, ki je pomembno za svetovno arhitektonsko in urbanistično kulturo, za Trst ni dovolj mikavno, verjetno zato, ker je povezano s Slovenci in Furlani. Nedvomno ga tudi nekateri sodobni urbanisti še smatrajo za tekmeca; kot jaz osebno, so tudi drugi primerjali Fabianijeve šestdeset let stare načrte z današnjimi... Zakaj se je o tem tako malo govorilo? S sredstvi deželne uprave je tržaška občina 19.3.1982 odločila, da se pripravi razstava urbanističnega in regionalnega načrtovanja Maksa Fabianija, kot kulturni prispevek delovni skupnosti Alpe-Jadran. V jeseni istega leta so tiskali štirijezični program razstave. Koncem marca 1983 je bilo gradivo v bistvu pripravljeno, začele pa so se težave, ker nisem hotel privoliti, da me pri dokončnem študiju in pripravi razstave — ne postavitvi — zamenja uradnica mestne občine. Šlo je za način trošenja javnega denarja, ki je bil na razpolago, ter za mojo moralno odgovornost za usodo splošno nepoznanega, a kljub temu izredno važnega gradiva, ki so mi ga brezplačno dale na razpolago, skupno z pomočjo in nasveti, ustanove in posamezniki iz Šlezije, Češke, Avstrije, Slovenije, Hrvaške in Italije. Dodal bi le, da me je pri aferi »branil« le odvetnik Comelli, ki je bil tudi predsednik pro tempore delovne skupnosti Alpe-Jadran; citiram nekaj vrstic iz pisma, ki ga je poslal takvatnemu tržaškemu županu Cecoviniju in odborniku Agnelliju: »(...) La Regione, nell'affidare al Comune di Trieste il compito di allestire la mostra, ha valutato anche la garanzia scientifica legata alla presenza, sin dalla fase preparatoria, del prof. Pozzetto. (...) Si dà conferma altresì che la Regione intende assicurare l’ulteriore sostegno finanziario alla mostra (...)«. Tudi to ni pomagalo, verjetno, ker sem vrnil občini petmilijonski ček — plačilo za delo, ki ga nisem napravil in tudi nisem imel namena, da ga napravim, ker bi spačilo Fabianijevo osebnost in delo. Trenutno je gradivo razstave spravljeno, Fabianijevi teoretski spisi v štirih jezikih niso izšli, čeprav je bila knjiga vnaprej plačana korigirani krtačni odtisi pa oddani založniku že meseca marca 1983. Celo zadevo rešuje sodišče z običajno sodnjisko počasnostjo. Ali ni vse to v tesni zvezi s poznejšimi dogajanji okoli razstave Trouver Trieste? Na vprašanje ne morem neposredno odgovoriti. Ko je tržaški mestni svet oktobra 1983 določil, da se skliče strokovna komisija za Fabianijevo razstavo (odlok štev. 767 z dne 14.10.83, 50 prisotnih, 43 za, 6 belih volilnic in 1 neveljavna), je še izgledalo, da bo prišlo do razstave. A ko se je izkazalo, da sem le jaz v stanju pripraviti gradivo, je zgoraj omenjena uradnica izjavila, da Fabianijeve razstave ne bo (sic!), pač pa se bo pripravila razstava tržaškega urbanizma. Kako se je zodeva razvijala naprej, ne vem. Danes imam le eno precej bridko zadoščenje. Kot se morda še spomniš, sem leta 1979. pripravil razstavo o Wag-nerjevi šoli, ki je v obeh izdajah — gradiva in kataloga — stala mestno občino točno 56 milijonov lir. Razen Trsta, je razstava doslej obiskala Rim, Gradec, Zagreb, Osijek, Beograd, Sarajevo, Čakovec, Reko, Ljubljano, Maribor, Bologno, Dunaj, Innsbruck, München, Salzburg in Prago; imela je nekaj več kot 190.000 obiskovalcev, na Dunaju pa so izdali katalog kot knjigo, ki jo je založba Schroll omenila v posebni častni publikaciji kot »eno izmed stotih knjig svoje stoletnice«. Kljub temu, da ni bilo nobenega tiskovnega urada, številni časopisi so pisali o občutljivosti tržaških oblasti za kulturo od »Svenska Dagbladet«, »Neue Zürcher Zeitung« do »Giornale di Sicilia«, od beograjske »Borbe« do praškega »Rude Pravo«, da o strokovnih revijah niti ne govorim. Trouver Pariš — ne gre za lapsus — je stala doslej 1896 milijonov, vse tri razstave je videlo 131.000 ljudi, katalog je ostal več ali manj »neprodan« (»Piccolo«, 16.3.1986, Itti Drioli), a posledica, mislim, je le globoka frustracija vseh sodelavcev, tudi Slovencev, ki jih ni bilo zraven, ker jih je pripravljalni odbor še enkrat prezrl. Po mojem mnenju bi bilo treba odgovoriti na preprosto vprašanje: kaj si lahko dovoli tržaška kultura na širših nivojih? Kakšne so neposredne in posredne posledice zanemarjanja oziroma odklanjanja večnacionalne preteklosti in seveda sedanjosti Trsta? Precej enostavno: iz svetovno pomembnega pristaniškega, trgovskega in finančnega središča, bomo postali majhno, nepomembno mesto, ki bo imelo svoj visokokulturni geto v raznih središčih for advanced studies, predvsem fizikalnih in bioloških ved. Gre za pobude, ki sicer prinesejo visok prestiž: — predvsem tujcem — a že po svoji naravi ostanejo odtujene mestu. Tako vzdušje more škodovati ambiciji Trsta, da postane pomembno znanstveno središče? Vprašanje bi obrnil. Gre za ambicijo mesta ali za ambicijo državnih oblasti, da bi na kakršen koli način nadomestile tisto, kar so mestu vzele strateških razlogov? Splošnih kulturnih pobud je verjetno preveč, da bi se jih dalo uresničiti. Kdo pripravlja lestvice prioritet? Nekoč so jih pripravljali muzeji, ki jih je očitno »politika« prisilila k molku, da pripravi prostor diletantizmu najnižje vrste; bojim se, da se bo že v bližnji bodočnosti to zopet potrdilo. Posledica je pač ta, da sponsorji kopnijo kot sneg na soncu! Prav gotovo sta v marsičem oba dnevnika kazalca kulturne in splošno občutljivosti nekega okolja. Če se omejimo na področje arhitekture, lahko rečemo, da bi »Piccolo« brez Tvojih prispevkov skoraj ne beležil tega področja, kar se dogaja »Primorskemu dnevniku«, ki žal nima specializiranega časnikarja ali takega sodelavca. Temu stanju bi se dalo opomoči z večjo vnemo strokovnih združej in posameznikov, mogoče tudi z drugačnimi časnikarskimi prijemi? Ne vem kakšna strokovna združenja si zamišljaš. V Trstu ni niti italijanskega niti slovenskega združenja »Prijateljev arhitekture«. Videti je, da je za tržaške kulturnike zgodovina arhitek- ture bolj ali manj pojem osebnega spomina. Privatnikov ni lahko vključiti v tako delo, razen tega je pa tudi problem poguma, kot se je videlo pri debatiranju o mostu čez kanal. Ali ne bi bilo umestno tudi za slovensko javnost razviti diskusijo o podobi mesta in kvaliteti bivanjskega okolja in ne samo o razlaščanju in o gradbenih omejitvah, tudi z intervjuji po telefonu ali s kako rubriko? Tekoče probleme bi se verjetno dalo obdelati z enostavnimi sredstvi, o katerih govoriš. Menim pa, da bi bilo treba pripraviti teren s stalno rubriko, ki naj bi med ostalim obdelala tudi zgodovinske pojave, pomembne osebnosti in podobno. Predolgo se je namreč govorilo, da Slovenci razen Krasa nimajo ničesar, tako da je prepričanje nekako prešlo v kri. Če bi Slovenci namenili približno petnajsti del svoje splošne kulture arhitekturi in njenim problemom, bi bila debata o kanalu neprimerno bolj živahna! Ali ne bi kazalo okrepiti zanimanje tudi za širši prostor okoli Trsta, na primer za zaščito objektov, ki so pomembni za zgodovino Istre in torej zanimajo italijansko skupnost v Istri? Nič se namreč ni pisalo v slovenskem zamejskem časopisju o načrtu, ki utegne za vedno pokvariti podedovani videz puljske arene! Seveda bi kazalo okrepiti zanimanje za širši prostor okoli Trsta, vendarle mislim, da bi bilo treba premostiti nekatere kulturne in šovinistične predpostavke z ene in z druge strani meje. Veliki istrski arheološki spomeniki so bili v bistvu restavrirani s prispevki Unesca in torej v popolnem soglasju z mednarodnimi zahtevami in predpisi. Gre za Evfrazijevo baziliko v Poreču in za Areno v Puli, o kateri se je zadnje čase pisalo veliko netočnega. V čisto drugačnem stanju so manjši spomeniki, ki se jih pri današnjem finančnem položaju obeh sosednih republik ne more pravilno vzdrževati. Razen tega je Hrvaška odgovorna tudi za celo Dalmacijo do Dubrovnika, z drugimi besedami, za približno 60% jugoslovanskega arhitekturno-zgodovin-skega premoženja. Morda bi kazalo v tržaškem časopisju obdelati vsak mesec en konkretni slučaj... Kako ocenjuješ napore skupine arhitektov Kras, ki prirejajo vsakoletna srečanja o arhitekturi v Portorožu? Na raznih sestankih se mnogo govori o funkciji Trsta — mostu med severom in jugom, vzhodom in zahodom. Miramar- ski Center za teoretsko fiziko je brez dvoma tak most, visi pa previsoko, da bi imel kakšno posledico na krajevni ravni. Prijatelji arhitekti Skupine Kras pa so dejansko zgradili nekakšen most v stroki in seveda z druge strani meje. Od leta do leta postaja portoroški simpozij važnejši, tako za tematike, ki jih obravnava, kakor za strukturo simpozija samega in za ravnovesje med teorijami, zgodovino in osebnimi prizadevanji, oziroma strokovnimi napori udeležencev, ki so bili lani že precej na evropski višini, spomnimo se na prispevke ljudi kot Oriol Bohi-gas, Gino Valle, Friedrich Achleitner, Boris Podrecca, ali če hočeš Stane Bernik o slovenski arhitekturi tridesetih let. Će bodo arhitekti Skupine Kras zdržali, kajti težave imajo ogromne, in ne samo finančne, bo portoroški simpozij postal ena obveznih postojank evropske razprave o arhitekturi. 60. letnica je mejnik v ustvarjalnem naporu vsakega človeka. Česa se pa Ti ni posrečilo narediti? Če pomislim, kaj sem z lastnimi močmi — in s pomočjo žene — doslej dosegel in napravil, postanejo tudi obvezni neuspehi popolnoma nepomembni. Kakšen je Tvoj recept za vzgojo in pripravo arhitekta, ki naj bi bil kos nič kaj enostavnim problemom bivanja v prostoru in okolju? Delo, študij, razmišljanje, ščepec dvoma o zveličavnosti lastnih posegov in nobene oholosti. Kaj pa tvoj recept, da bi posodobili občinske strokovne službe, ki prav gotovo krojijo v dobrem in slabem podobo nekega mesta in prostora? Edini recept bi bil: prave ljudi na prava mesta, hierarhija odgovornosti in v naprej določene sankcije. Zdi se mi, da prva predpostavka deluje v približno 80%, druga nikakor, tretja je preganjana kot zločin. Pogovor bi se lahko precej podaljšal, pa bi verjetno zgubil na konciznosti. Ljubše mi je, da me smatraš za nazadnjaka, kot da bi se šel psevdosociologijo... Pogovor pripravil Vladimir Vremec intervista con marco pozzetto in occasione di un importante riconoscimento internazionale Recentemente hai ricevuto, dopo la «Medaglia Plecnik» nel 1975, imo dei più alti riconoscimenti scientifici dell’Università Tecnica di Vienna, la medaglia Prechtl, che ti è stata conferita per l’opera scientifica e di ricerca nel campo della storia dell’architettura negli stati successori dell’Impero asburgico. Ricevetti la «Medaglia Plecnik» nel 1975 per la prima monografia sull’architetto, uscita nell’Occidente («loie Plecnik e la Scuola di Otto Wagner», Albra, Torino 1968); il volume ha suscitato qualche interesse per il nostro architetto, che ora è finalmente approdato al Beaubourg, vale a dire all’Olimpo moderno. L’anno scorso, invece, l'Università Tecnica di Vienna volle conferirmi la «Medaglia Prechtl» per tutta l’opera; evidentemente almeno una parte di questa sembrerebbe piuttosto importante per la cultura viennese, poiché non credo che in caso contrario mi avrebbero onorato con questo premio, in verità estremamente raro. Posso dunque dichiarare che i miei scritti sono significativi per la descrizione storica di una (piccola) parte dell'architettura europea. Sulla tua attività scientifica di ricerca del contributo delle diverse nazionalità in questo particolare settore ha influito certamente la particolare sensibilità ed espressione di uomo di frontiera dalle origini etniche miste. All’origine mista vorrei aggiungere ancora l’educazione scolastica e familiare. Prima della seconda guerra mondiale i licei sloveni e croati che avevo frequentato davano una notevole impronta nazionale, ma i programmi d’insegnamento si basavano concretamente su antichi sistemi di apprendimento, che si erano cristallizzati nella monarchia austrounagrica; rispetto ai tempi attuali, veniva fornita circa solo una metà delle informazioni che vengono impartite ora, ma quelle date erano fondamentali, tali da formare a tutt’oggi la base del mio modo di pensare. Su tali fondamenti si stratificarono successivamente lo studio all’Università di Venezia dove l’accento fu umanistico, ed alla Facoltà di Architettura di Torino, dove il peso maggiore era posto sulle tecnologie. Accanto alle svariate difficoltà di ordine familiare ho avuto, da bambino, la fortuna di vivere negli anni formativi con Izidor Cankar, da cui potevo, per così dire, assorbire idee avanzate sulla filosofia dell'arte, idee che solo decenni più tardi mi avrebbero aperto gli orizzonti, portandomi a quell’indipendenza culturale, che è il presupposto per l'avanzamento della conoscenza e per la scelta e la combinazione dei fattori «strategici», ma, evidentemente, non per la carriera. Va da sé, che in tali condizioni, dovetti approfondire soprattutto quei problemi che l’attuale storiografia trascurava o aveva del tutto abbandonato. Per quanto concerne l'ex monarchia austroungarica ed i territori confinanti — anche l’Italia — cercai soprattutto i contributi delle personalità e dei gruppi non tedeschi. Potrei confermare che svariate mie intuizioni sono attualmente oggetto di verifica in Boemia, in Ungheria, in Croazia, in Bosnia, nella stessa Italia, in Slovenia e, naturalmente, in Austria. Certo, resistenza di uomo di frontiera non è sempre circondata da rose. Nel periodo bellico e nei tempi immediatamente successivi hai sofferto per i pesanti condizionamenti politici, come pure a causa della grettezza umana. Anche dopo? Diciamo che la mia esistenza era quasi sempre circondata dalle rose, ma queste fiorivano un po’ troppo in alto perché io le potessi raggiungere; a dire il vero, le ho sempre ammirate, camminando sulle spine... Ritengo che fra i tempi in cui «l’uomo venne ridotto al puro essere politico» e quelli odierni esiste una sola, fondamentale differenza: in quei tempi ti sopprimevano se solo avevano la possibilità di farlo, oggi usano tecniche più sottili per costringerti al silenzio. Se sei sufficientemente «elastico» puoi permetterti di protestare (se non mi credi, guarda i nomi degli editori italiani dei miei libri!). Ciò vale anche per l’Italia? Non credo che in Italia le cose stiano molto diversamente che oltre confine, almeno se intendi percorrere vie proprie in una disciplina come la mia, sempre estremamente politicizzata. Non scomoderò Platone allorché parlava della «pericolosità dell'arte», perché si andrebbe troppo lontano; debbo peraltro ricordare Mussolini, Hitler, Stalin, Mao Zedong e i loro epigoni che vollero eternare i propri sistemi con l'architettura. Quest’ultima — buona o cattiva che sia — non dipende dal sistema, ma dall'architetto e richiede sempre grandi investimenti che, nel nostro sistema, sono gestiti dalle burocrazie o, meglio, dagli interessi politici, con cui si chiude il cerchio. Torniamo all’architettura nelle zone confinarie: la tua storia dell’architettura triestina, pubblicata nel dicembre 1984 sul n. 132 della rivista «Parametro», mette in luce anche il contributo delle diverse componenti nello sviluppo della Trieste moderna. Come mai i precedenti tentativi non hanno messo in evidenza tali elementi? Nel dominio dell’architettura non conosco nessuna descrizione completa della storia triestina. Con molta maggiore attenzione sono state trattate la storia dell’urbanistica e la storia delle idee urbanistiche, fino alla prima guerra mondiale. Il fatto è che noi triestini ancor oggi stiamo pagando quei tentativi del diciannovesimo secolo che volevano dimostrare la continuità di Trieste come città storicamente significativa. Di conseguenza, gli ultimi due secoli rappresentano soltanto una breve fase, per cui gli immigrati non ebbero grandissima importanza, gli sloveni erano presenti solo come mano d'opera, donne di servizio e così via. D’altro canto dovrebbero essere considerati anche i due esodi di questo secolo, in cui circa centomila abitanti sono stati sostituiti con nuovi immigrati con bagaglio culturale diverso da quello degli emigrati del 1919 o del 1954; citerei soltanto i tratti storico-psicologici degli esuli istriani... E infine, quasi tutti gli artisti triestini sono stati «scoperti» e valorizzati fuori della città, da Radkersberg a Pertsch, per non soffermarmi neppure sulla letteratura. Ho scritto il mio contributo con il desiderio della verifica di alcune ipotesi di lavoro. Come valuti il contributo dei vari Rakovnik (Radkersberg), Co-smaz, Costaperaria e Fabiani? Di Vito Cosmaz conosco poco. Egli fu il progettista dell’originaria chiesa di Sant'Antonio e di qualche casa d'abitazione. La chiesa fu dì notevole valore, stando ai disegni e alle stampe dell'epoca. Degli altri architetti si conoscono i nomi e qualche edificio. Sembrerebbe che gli sloveni di Trieste non sono interessati a questa parte importante della loro storia. Ciò vale anche per le generazioni successive di architetti come Tureck, Fabiani, Costaperaria, Kossovel, Lah, Ukmar, e se vuoi, per qualche architetto odierno, personaggi che in fondo hanno arricchito la cultura italiana oltre che slovena e, in parte, quella europea. Se volessi dedicarmi alla ricerca dei dati di costoro, non mi rimarrebbe il tempo per altro e per me si sta avvicinando il periodo in cui occorre affrontare le sintesi. Dall’attenta ricostruzione dell'opera di Radkersberg, pubblicata sul «Most», risulta che egli era uno dei pianificatori più «progressisti» della storia di Trieste. Anche per questa costatazione dobbiamo ringraziare Damjan Prelovsek che triestino non è. Come mai non è stata realizzata la mostra su Fabiani, che poteva essere, nel 1984, un avvenimento di portata europea, contribuendo a valorizzare il tuo lavoro per il poliedrico «architetto della monarchia», edito poco prima dall'editore Tusch di Vienna? Dai registri dell’Università Tecnica di Vienna si apprende che Max Fabiani si considerava sloveno nei primi sei semestri dello studio: Nationalität slowenisch, a differenza degli ultimi quattro semestri in cui la nazionalità divenne italienisch, la qual cosa appare piuttosto atipica. Tra i due secoli, quando fu unanimamente considerato come uno dei più progressivi architetti del tempo, costruì per gli sloveni il Narodni Dom a Trieste e il Trgovski Dom a Gorizia, edifici da annoverarsi d’interesse mondiale. La sua pianificazione regionale tra il 1917 e il 1922 comprendeva territori italiani e sloveni; i primi appartengono al Friuli. Fu il periodo in cui cominciò a considerarsi soltanto come «uomo del Carso». Sembrerebbe che la sua opera, di qualche interesse per la cultura architettonica e urbanistica in generale, non sia abbastanza attraente per Trieste, verosimilmente perché legata agli sloveni ed ai friulani. Senza dubbio egli viene ancora considerato come concorrente da alcuni urbanisti: come me, anche altri hanno confrontato i progetti di Fabiani di ses-sant'anni fa con quelli odierni... Perché se ne è parlato così poco? Il Comune di Trieste aveva stabilito, il 19 marzo 1982, di allestire con finanziamento regionale, una mostra sulla pianificazione urbanistica e regionale di Max Fabiani, come contributo culturale alla Comunità di Lavoro Alpe-Adria. Nell’autunno di quell’anno è stato stampato in quattro lingue il programma della mostra. Alla fine del mese di marzo 1983, allorché il materiale era quasi pronto, iniziarono le difficoltà, perché non volevo permettere che nello studio finale e nella preparazione — non allestimento — della mostra mi sostituisse un’impiegata del Comune. Oltretutto si trattava del problema della spesa di denaro pubblico disponibile e della mia responsabilità morale per il destino dei materiali sconosciuti, quanto importanti, fornitimi assieme a consigli e aiuti vari da istituzioni e privati della Slesia, Boemia, Austria, Slovenia, Croazia, Italia. Debbo ag- giungere che in tutta la «querelle» -fui difeso soltanto dall’avvocato Antonio Comelli, presidente «prò tempore» della Comunità di Lavoro dell’Alpe-Adria; cito alcuni passi da una sua lettera inviata all’allora sindaco Cecovini e all’assessore alla cultura Agnelli: « (...) la Regione, nell’affidare al Comune di Trieste il compito di allestire la mostra, ha valutato anche la garanzia scientifica legata alla presenza sin dalla fase preparatoria, del prof. Pozzetto. (...) Si conferma altresì che la Regione intende assicurare l’ulteriore sostegno finanziario alla mostra (...)». Ma, neppure ciò è servito, probabilmente perché ho voluto restituire al Comune un assegno di cinque milioni, onorario per un lavoro che non ho fatto, né intendevo fare, perché avrebbe snaturato la personalità e l'opera di Fabiani. Attualmente il materiale è immagazzinato, gli scritti teorici scelti di Fabiani — in quattro lingue — non sono usciti, benché il libro fosse pagato anticipatamente e le bozze corrette fornite all’editore, già nel mese di marzo 1983. Tutta la questione verrà risolta dal tribunale, naturalmente con i consueti tempi dei procedimenti giudiziari. Sbaglio, o vi è un certo legame con quanto è successo dopo con la mostra Trouver Trieste? Non posso rispondere direttamente su questo quesito. Quando il Consiglio comunale nell’ottobre '83 decise di costituire una commissione scientifica per la mostra di Fabiani (delibera 161 del 14 ottobre 1983: presenti 50; favorevoli 43, schede bianche 6, schede nulle 1), sembrava ancora che la manifestazione potesse essere fatta. Ma quando è stato chiarito — in sede di commissione — che sono il solo ad essere in grado di approntare i materiali, la già nominata impiegata dichiarò che non si sarebbe fatta la mostra di Fabiani (sic!), in compenso però si sarebbe potuto approntare una mostra sull’urbanistica di Trieste. Ignoro gli sviluppi ulteriori, per cui oggi ho una sola magra soddisfazione. Forse ricordi che nel 1919 feci una mostra sulla «Scuola di Wagner» che, nelle due edizioni della mostra e del catalogo, è costata al Comune esattamente 56 milioni di lire. Oltre che a Trieste, la mostra ha sostato — fino ad ora — a Roma, Graz, Zagabria, Belgrado, Osijek, Sarajevo, Lubiana, Čakovec, Maribor, Fiume, Bologna, Vienna, Innsbruck, Monaco di Baviera, Salisburgo e Praga; è stata visitata da oltre 190.000 persone. A Vienna il catalogo è uscito sotto forma di libro che l'editore Schroll ha citato nell’apposita pubblicazione del centenario della casa editrice come «uno dei cento libri per i cento anni» assieme ad alcuni tra i più prestigiosi libri della storia dell'architettura del periodo moderno. Pur senza «ufficio stam- pa», hanno parlato della «sensibilità delle autorità triestine per i problemi della cultura» moltissimi giornali, dalla «Svenska Dagbla-det» e «Neue Ziircher Zeitung» fino al «Giornale di Sicilia», dalla «Borba» di Belgrado fino al praghese «Rude Pravo», per non citare neppure le riviste specializzate. Trouver Paris — non è un lapsus! — è costata fino ad ora 1.896 milioni, le tre mostre sono state visitate da 131.000 persone, il catalogo è rimasto più o meno invenduto (Itti Drioli, «Il Piccolo» 16.3.’86) e la conseguenza, credo, è soltanto una profonda frustrazione dei collaboratori, ivi compresi gli sloveni che non c'erano, perché il comitato generale ha ignorato ancora una volta la loro presenza. Sono del parere che sarebbe innanzitutto da rispondere ad una domanda piuttosto semplice: che cosa può permettersi la cultura triestina a livelli più vasti? Quali sono le conseguenze dirette e indirette dell’atteggiamento che cerca di minimizzare o rispettivamente rifiutare il passato plurinazionale ed il presente di Trieste? Piuttosto semplice: da centro portuale, commerciale e finanziario a livello mondiale, diverremo una piccola non importante città, dotata dei «ghetti» di alta cultura, rappresentati dai vari centri «for advanced studies» delle scienze fisiche e biologiche soprattutto. Si tratta di iniziative che portano altissimo prestigio — soprattutto agli stranieri — ma che rimangono, per la loro stessa natura, estranee alla città. Può questo clima particolare ostacolare l’ambizione di Trieste tesa a diventare un importante centro scientifico? Girerei la domanda. Si tratta dell’ambizione della città a dell’ambizione delle autorità dello stato di restituire in qualsiasi modo alla città ciò che per ragioni strategiche le è stato tolto? Le iniziative culturali generali sono certamente troppe per concretizzarle tutte. Chi prepara la scala delle priorità? Nel passato, questo era il compito dei musei, costretti ormai al silenzio dalla «politica», per far posto al dilettantismo di quart’ordine. Temo che nel prossimo futuro ne avremo qualche nuova conferma. La conseguenza è che gli sponsor si dileguano come la neve al sole. Evidentemente i due quotidiani rispecchiano molto bene la generale sensibilità e in particolare quella culturale di un certo ambiente. Limitandoci al settore dell’architettura, possiamo dire senz'altro che «Il Piccolo» senza i tuoi articoli sicuramente ometterebbe di seguire questo settore. Il «Primorski dnevnik» invece, tra i suoi giornalisti o collaboratori, non ha nessuno che sia in grado di seguire i problemi relativi all’architettura ed all’urbanistica. Tale lacuna si potrebbe colmare con un maggiore impegno delle associazioni di categoria o con l’aiuto di singoli, forse anche con un’attività giornalistica più varia? Non so quali associazioni t'immagini. A Trieste non esistono gruppi sloveni o italiani degli «Amici dell’Architettura». Sembrerebbe che per gli uomini di cultura triestini l’architettura e la sua storia siano soltanto un problema della memoria personale. Non è facile includere i «laici» in questo lavoro e poi esiste anche il problema del coraggio, come si è visto nel dibattito sulla questione del ponte sul Canale. Non ti pare che sarebbe proficuo anche per l’opinione pubblica slovena sviluppare un dibattito sulla questione della qualità dell’ambiente urbano invece di seguire quasi esclusivamente temi legati agli espropri ed ai vincoli di edificazione? Ciò potrebbe essere fatto anche mediante mezzi semplici come, ad esempio, con interviste telefoniche o con speciali rubriche? I problemi correnti potrebbero essere trattati coi mezzi semplici a cui accenni. Sono peraltro del parere che si dovrebbe preparare il terreno con una rubrica stabile che, tra l’altro, dovrebbe trattare anche vicende e personaggi storici. Per troppo tempo è stato sostenuto che gli sloveni non hanno nulla oltre il Carso, perché la convinzione non entrasse un po' nel sangue. Se gli sloveni dedicassero la quindicesima parte della loro cultura generale all'architettura e connessi, anche i dibattiti come quello sul Canale diverrebbero decisamente più vivaci e generalizzati. Mi sembra opportuno sviluppare un maggiore interesse per i territori contermini, ad esempio, rimanendo nel campo dell’architettura, per la tutela dei monumenti che sono importanti per la storia dellTstria e che pertanto interessano la comunità italiana in Istria. Nei giornali sloveni di qua del confine si è scritto poco o niente del progetto che potrebbe snaturare l’Arena di Pola! Con i mezzi di comunicazione si dovrebbe forzare un po’ l'interesse per /’hinterland triestino, anche per superare alcuni preconcetti e sciovinismi dall’una e dall’altra parte del confine. I grandi monumenti archeologici istriani sono stati restaurati con i contributi consistenti dell’Unesco e sono quindi perfettamente in linea con le istanze e le regole della cultura internazionale. Mi riferisco alla Basilica eufrasiana di Parenzo e all’Arena di Fola, su cui sono state scritte recentemente molte inesattezze. In situazioni molto diverse versano i monumenti minori che — allo stato attuale della situazione finanziaria di entrambe le repubbliche vicine — non possono essere conservati in modo soddisfacente. La Croazia è responsabile anche della Dalmazia fino a Ragusa, vale a dire, di circa il 60 per cento del patrimonio storico-architettonico della Jugoslavia. Forse sarebbe da trattare nei giornali triestini ogni mese un caso concreto dell’architettura di oltre confine... Come valuti gli sforzi del gruppo di architetti Kras che organizza ogni anno dei seminari di architettura a Portorose? In vari convegni si è discusso molto sulla funzione di Trieste come ponte fra il Nord e il Sud, fra l’Est e l’Ovest. Il «Centro di Fisica» ha certamente questa funzione, in un ambito troppo alto perché possa avere conseguenze a livello locale. Gli amici del «Gruppo Kras» hanno di fatto costruito una specie di ponte nella nostra disciplina, naturalmente, sull’altro lato del confine. Il convegno di Portorose sta diventando di anno in anno più importante, per i temi che tratta, per la struttura del convegno stesso e per Vequilibrio fra la teoria, la storia e gli sforzi personali, ossia le fatiche operative dei partecipanti. Lo scorso anno furono presenti personaggi ben noti a livello europeo: basterebbe citare i contributi di Oriol Bohigas, di Gino Valle, di Boris Podrecca, di Friedrich Achleitner o, se si vuole, di Stane Bernik sull’architettura degli anni Trenta in Slovenia. Se gli architetti del Gruppo Kras re sisteranno — viste le difficoltà che debbono affrontare e non soltanto a livello economico — credo che il convegno di Portorose potrà diventare una delle tappe obbligate del dibattito architettonico europeo. Arrivare a sessantanni significa raggiungere un certo limite nella vita creativa di un uomo. Cosa ad esempio non sei riuscito a fare? Se considero ciò che sono riuscito a fare ed a raggiungere fino ad ora con le mie sole forze — e l’aiuto di mia moglie — anche i necessari insuccessi non hanno significato alcuno. Esiste una ricetta per migliorare la formazione degli architetti affinché questi siano in grado di affrontare i complessi problemi dell’abitare nello spazio, come pure quelli ambientali? Lavoro, studio, meditazione, un pizzico di dubbio sulla correttezza del proprio lavoro e nessuna arroganza. E che cosa ci puoi dire riguardo alle possibilità di ammodernamento degli uffici tecnici comunali, che indubbiamente hanno un peso, nel bene e nel male, suH’immagine di una città e di un territorio? La sola ricetta dovrebbe comprendere uomini adatti per i singoli posti, una gerarchia delle responsabilità e le sanzioni predeterminate. Il primo presupposto, credo, funzioni nell’ottanta per cento dei casi, il secondo in nessun modo, il terzo viene combattuto, quasi fosse un delitto. La discussione potrebbe continuare, ma perderebbe in concisione. Preferisco che tu mi consideri retrogrado, piuttosto di fare la pseudosociologiu. Intervista fatta da Vladimir Vremec poesie e integrali nel sessantesimo anniversario della morte poezije in integrali ob šestdesetletnici smrti Srečko Kosovel BREZZE NEI CAMPI Sussurrano le brezze nei campi, lievi ondeggiano le erbe e il sole irradia la dolina, che importa se tu sei lontana! Le campane suonano a festa, l’eco si disperde nel vento e nei campi tutto solo me ne sto. Chi vuol tristezza? Io gliela do. Vetri v polju V etri v polju šumijo, / trave mehko valovijoi / sonce v dolino blešči, / kaj, če si daleč ti! // Zvonovi svečano zvonijo, / njihovi glasovi se v vetru gubi jo, / in sredi polja sem čisto sam. / Kdo hoče žalost? Jaz mu jo dam. PINI Pini, pini in cheto orrore, pini, pini in muto orrore, pini, pini, pini, pini! Pini, pini, tetri pini come guardie sotto il monte lungo lande dirupate gravi e stanchi sussurrate. Quando si china l’anima malata oltre i monti in una notte serena, sento suoni soffocati e non riesco più a dormire. «Pini immersi in penosi sogni, forse muoiono i miei fratelli, è mia madre in fin di vita o mio padre che mi chiama?» Senza risposta, ahimè, stormite come oppressi da sogni angosciosi, come se stesse morendo mia madre e mio padre mi chiamasse e malati fossero i miei fratelli. Bori Bori, bori v tihi grozi, / bori, bori v nemi grozi, / bori, bori, bori, bori! // Bori, bori, temni bori / kakor stražniki pod goro / preko kamenite gmajne / težko, trudno šepetajo. // Kadar bolna duša skloni / v jasni noči se čez gore, / čujem pritajene zvoke / in ne morem več zaspati. // »Trudno sanjajoči bori, / ali umirajo mi bratje, / ali umira moja mati, / ali kliče me moj oče« // Brez odgovora vrčijo / kakor v trudnih, ubitih sanjah, / ko da umira moja mati, / ko da kliče me moj oče, / ko da so mi bolni bratje. SE SOLO SAPESSI Se solo sapessi, vi canterei il fruscio luminoso dei pioppi, il sole del Carso nel fresco settembre, i bianchi valloni di grano saraceno. Se solo sapessi, vi canterei, vi canterei una ragazza; e non la do per nulla, nulla al mondo. Pa da bi znal Pa da bi znal, bi vam zapel / o svetlo šumečih topolih, / o kraškem soncu / v hladnem septembru, / o belih ajdovih dolih. // Pa da bi znal, bi vam zapel / o enem ,o enem dekletu; / tako rad jo imam / in je ne dam / za vse, za vse na tem svetu. DIO BENEDICA Dio benedica queste mani bianche che carezzevoli toccavano i miei capelli, e questi occhi che mi baciavano quand’ero stanco. Che squallore desolante ci opprime, queste case e torri e ponti grigi, si attenua la luce nelle notti nere, umidi venti alitano sul ponte. Dio benedica queste mani bianche che mi han nascosto questo tempo nero, erano buone come la morte, hanno sfiorato il più triste volto. Bog blagoslovi Bog blagoslovi te bele roke, / ki so se mojih las dotaknile / in jih pobožale, te oči, / ki so me trudnega poljubile. // Kako je strašno sivo nad nami, / te sive hiše, stolpovi, mostovi, / v črne noči se luč topi, / preko mostu vlažni vetrovi. // Bog blagoslovi te bele roke, / ki so mi zakrile ta črni čas, / kakor smrt so bile dobre, / šle so čez najžalostnejši obraz. I SOGNI MUOIONO I sogni muoiono — non come la gente — oh, hanno ancora gli occhi aperti, oh, ancora batte il cuore alla gente, la ragazza che ho sognato vive ancora. Ma tutto si allontana nelle vaste sale dei tuoi ricordi; e ciò che hai amato nei sogni, diventa gelida statua, e il palpito del cuore impietrisce. Sanje umirajo Sanje umirajo — ne kot ljudje — / o, še imajo odprte oči, / o, še bije ljudem srce, / dekle, ki sem sanjal jo, še živi. // A vse se pomakne v prostranost dvoran / tvojih spominov; in hladen kip / postane, kar ljubil si sredi sanj, / in srcu okameni utrip. DAVANTI A UNA TOMBA L’aria è limpida, tranquilla la tua tomba in mezzo ai campi come una chiesa, una bianca chiesa in mezzo ai campi. Na grobu Prosojen je zrak, / pokojen tvoj grob / sredi polja / kakor cerkev, / bela cerkev / sredi polja. NO, NON VOGLIO MORIRE ANCORA No, non voglio morire ancora, in fondo ho un padre, una madre, ho fratelli, sorelle, l’amata, gli amici; no, non voglio morire ancora. No, non voglio morire ancora, in fondo il sole dorato splende ancora e la spavalda giovinezza mi accompagna, ho ancora mete davanti a me; no, non voglio morire ancora. Ma quando non ci sarà nessuno, né genitori né fratelli né sorelle né amata né amici — e il languido sole d'autunno brillerà, brillerà sul Carso, quasi partecipe del mio dolore — allora non avrò certo paura di morire, perché mai vivere solo? Ne, jaz nočem še umreti Ne, jaz nočem še umreti, / saj imam očeta, mater, / saj imam še brate, sestre, / ljubico, prijatelje; / ne, jaz nočem še umreti. // Ne, jaz nočem še umreti, / saj še sije zlato soncet / saj mladost me drzna spremlja, / saj so cilji še pred mano; / ne, jaz nočem še umreti. // Kadar pa ne bo nikogar, / staršev ne, ne bratov, sester, / ljubice, prijateljev — / in jesensko tiho sonce / bo čez Kras, čez Kras sijalo, / kot bi z mano žalovalo — / res, ne bom se bal umreti, / kaj mi samemu živeti? BALLATA DEL POPOLO Radici fragranti sotto fresche rugiade, iridescenti rugiade sui rami, dov’è la tua forza, dove il tuo orgoglio? Popolo, parla! La campagna s’indora, s’imporporano le colline, su intere generazioni sorge il giorno, quali incubi opprimono la tua anima? Scuotiti dai sogni! Dall’estero son tornato in patria e sosto a fianco dei boschi, albeggia su intere generazioni, tutto si risveglia e rinasce, ma il popolo, il popolo, il popolo? Tace. Balada o narodu Korenike dehte pod hladom ros, / mavrične rose bleste sredi vej, / kje je tvoja sila, kje je tvoj ponos? / Narod, povej! 11 Vsa polja zlatijo se, bregovi rde, / nad vsemi rodovi vstaja dan, / kakšne sanje ti dušo teže? / Vstani iz sanj! // Vrnil sem se iz tujine domov / in se naslonil ob bok gozdov, / nad vsemi rodovi se dani, / vse se prebuja, da zaživi, / a narod, narod, narod? U Molči. MALINCONIA DELLA FAME Nel solido muro rode la fame. L’uomo non è più uomo. La grigia pietra è la sua compagna, la grigia fredda pietra. Cadi, cadi, fresca pioggia, fresca pioggia autunnale, cadi, cadi, mite pioggia, cadi sulle tombe! Melanholija gladu V trdem zidu grize glad. / Človek ni več človek. / Sivi kamen je tvoj drug, / sivi, j mrzli / kamen. // Padaj, padaj hladni dež, / hladni dež jesenski, / padaj, padaj, tihi dež, / padaj na gomile! SECOLO DI MORTE Muto e terribile sorge un secolo di morte con in fronte la bianca aurora come una monaca. Ribellatevi alla morte! Alla morte! Alla morte! Sto annegando. Mrtvo stoletje Mrtvo stoletje vstaja / z belo zarjo na čelu / kakor redovnica. / Strašno in tiho. / Uprite se smrti! / Smrti! / Smrti! / Potapljam se. AD UN COMPAGNO DI VIAGGIO Se sei entrato nel buio più fondo non accendere la luce — io detesto i tuoi occhi curiosi, i tuoi occhi maliziosi! Lascia le cose così come stanno, tenebrose e sconvolte! Preferisco chi mi passa accanto a testa bassa, con mente torpida. Non penetrare in me senza paura — di oscuro coraggio mi sto inebriando — temi i miei tetri sogni! Sopotniku Če si stopil do temnih globin, / ne prižigaj luči — / jaz sovražim tvoje zvedave, / tvoje lokave oči! // Pusti, naj bo, kakor je, / temno in razrito! / Bolj ga ljubim, ki gre mimo / sklonjen, z mislijo ubito. // Ne hodi vame brez / bojazni — pogum teman / je, ki ga pijem, boj / se mojih temnih sanj! CULTURA PROSTITUITA Vecchi cinici che si vendevano ed erano ciò che non volevano essere. Tre volte al giorno mi dispero e maledico me stesso e l’universo. Napoleone va in Russia. Guarda come si spengono questi rossi fiori autunnali. Ma che ti piglia, sei matto per piangere con le foglie al vento? Questo è il tuo vero viso, puro come il sole d'autunno che si specchia in occhi colmi di lacrime. (Le lacrime sembrano d’oro!) Lui, lo scià nero, vuole avere una doppia faccia. Domani: partenza per Parigi. Prostituirana kultura Blazirani starci, ki so se prodajali, / ki so bili, kar niso hoteli biti. / Trikrat na dan obupujem / in kolnem sam sebe / in vesoljstvo. / Napoleon gre v Rusijo. / Glej, kako ugašajo J te rdeče jesenske rože. / Ali si norec ali kaj, / da jokaš z listjem v vetru? / To je tvoj pravi obraz, / čist kot sonce jesensko, / ki odseva v solznih očeh. / (Solze so kakor zlate!) / On, črni šah, hoče imeti / dvojni obraz. / Jutri: odhod v Pariz. APRITE I MUSEI Aprite i musei! Aprite i musei! L’Europa è già infestata da fantasmi - idee. Aprite i musei per il nazionalismo, per le idee morte. Aprite i sepolcri! R.I.P.! Odprite muzeje! Odprite muzeje! / Odprite muzeje! / Po Evropi že strašijo / mrliči — ideje. / Odprite muzeje / za nacionalizem, / za mrtve ideje. / Odprite grobnice! / R.I.P.! KONS Un europeo stanco contempla tristemente l’aurata sera che è ancora più triste della sua anima. Carso. La civiltà è senza cuore. Il cuore è senza civiltà. Lotta massacrante. Evacuamento di anime. Arde il fuoco della sera. Morte dell’Europa! Pietà! Pietà! Signor professore, capisce la vita? Truden evropski človek / strmi žalostno v zlati večer, / ki je še ialostnejši ) od duše njegove. / Kras. / Civilizacija je brez srca. / Srce je brez civilizacije. / Izmučena borba. / Evakuacija duš. / Večer peče kot ogenj. / Smrt Evrope! / Usmiljenje! Usmiljenje! / Gospod profesor, / razumete življenje? I SEGNATI Camminano con la morte nel cuore. La morte veglia nei loro occhi. L'automobile schizza fango. Senza energia curvano le teste. Una pioggerellina molesta cade negli occhi. La lava dello sfinimento. Delirium tremens. Fame. Una fame rabbiósa, canina. Oh, le tue mani bianche. Frusciante come un sogno passi oltre! Zaznamovanci Hodijo s smrtjo v srcu. / Smrt bdi v njihovih očeh. / Avtomobil škropi blato. / Brez energije klonejo glave. / Droben dež zla pada v oči. / Lava trudnosti. / Delirium tremens. / Lakota. / Glad, glad. / O tvoje bele roke. / Kot sanja šumeča greš mimo! DISTRUZIONI O menzogna, menzogna, menzogna europea! Solo la distruzione può sopprimerti! Solo la distruzione. E le cattedrali e i parlamenti: menzogna, menzogna, menzogna europea. E menzogna la Società delle Nazioni, menzogna, menzogna europea. Demolire, demolire! Tutti questi musei di faraoni, tutti questi troni d’arte. Menzogna, menzogna, menzogna. O Sofia, o cattedrale. O cadaveri che salverete l’Europa. O bianchi cadaveri a guardia dell’Europa. O menzogna, menzogna, menzogna. Demolire, demolire, demolire! Milioni di uomini muoiono, ma l’Europa mente. Demolire. Demolire. Demolire! Destrukcije O lai, lai, evropska lai! / Samo destrukcija lahko te ubije! / Samo destrukcija. / In katedrale in parlamenti: / laž, lai, evropska lai. / In Društvo narodov laž, / lai, evropska lat // Rušiti, rušiti! / Vse te muzeje faraonov, / vse te prestole umetnosti. / Lai, lai, lai. / O Sofija, o katedrala. / O mrtveci, ki boste rešili / Evropo. O mrtveci / beli, ki straiite Evropo. / O lai, lai, lai. II Rušiti, rušiti, rušiti! / Milijoni umirajo, / a Evropa laie. / Rušiti. Rušiti. Rušiti! LA BOTTIGLIA IN UN ANGOLO Costruiscono una casa. La bottiglia in un angolo dice più di una raccolta di rime insulse. Naturalismo stereotipato. Il realismo sa d'intonaco. Sulla veranda guardo la verde campagna. Le nuvole sopra i campi sono grigie come a novembre un cimitero. Steklenica v kotu Hišo zidajo. / Steklenica v kotu / pove več kakor / zbirka praznih rim. / Stereotipni naturalizem. / Realizem diši / po ometu. / Na verandi / gledam na zelena / polja. / Oblaki nad polji / so sivi / kakor novembrsko / pokopališče. KONS: MAS La nostra gatta ha occhi verdi come malachite, occhi lucenti come il cielo limpido di ima sera invernale. Ohé. Ohé! La mia amata ha una cintura verde come una lucertola e capelli d’oro e occhi verdi e un vitino sottile. Ah ah, e io la porto in braccio. Kons: mas Naša mačka / ima zelene oči / kot malahita, / svetle oči / kot zimsko / večerno nebo čisto. // H e ja. Heja! / Moja ljubica / ima zelen pas / kakor kuščarica / in zlate lase / in zelene oči / in vitek stas. // Ha, in njo nosim / v naročju jaz. LA TUA VOCE E’ SOAVE La tua voce è soave. Sei bella come una ridente Madonna sotto i verdi castagni. Il sole perché mai illumina il tuo viso? Perché io lo veda? Non dovrei vederlo, ma solo intuirlo. Sotto i verdi castagni brilla il sole. Le foglie piovono nella mia anima, le foglie di bei sogni. Dimmi, perché hai sollevato davanti a me il tuo bellissimo velo? Tvoj glas je mil Tvoj glas je mil. / Lepa si kakor / smehljajoča se Madona / pod zelenimi kostanji. H Zakaj sije sonce / v tvoj obraz, / da ga vidim? / Ne smel bi ga videti, / slutiti bi ga moral jaz. // Pod zelenimi kostanji / sije sonce. / Listje pada v moji duši, / listje lepih sanj. / Povej, zakaj si odstrla / pred menoj / svoj lepi pajčolan? TUTTO IL MONDO E’ COME Die graue Welt ist blau und griin. Tutto il mondo è come immerso nell’azzurro, tutto il mondo è azzurro e verde. Io sono la luce che sorride a una vita nuova. Non conosco vecchi e giovani, in me c’è tutto. Vecchi e giovani dentro di me hanno un unico viso. (Nell’azzurro sfolgorìo della silenziosa primavera). Vivere, vivere! Ves svet je kakor (Die graue Welt ist blau und griin). Ves svet je kakor / v modrino potopljen, / ves svet je / moder in zelen. // Jaz sem smehljajoča se luč / novemu življenju. / Jaz ne poznam starih / in mladih, / vse je v meni. / Stari in mladi, / vsi so v meni / z enim obrazom. / (V sinjem lesketu / od tihe pomladi.) / Živeti, živeti! L’ORA DEL DOLORE Il vecchio mondo sta morendo in me. L’ora del dolore s’awicina. Dorata e smagliante arriva una mistica nuova. La mistica dell’uomo. Un fuoco magico risplende dal suo cuore. I suoi occhi brillano come — il radio nella notte. La morte è distacco dalla vita. La morte è gioia. Ura žalosti Stari svet umira v meni. / Ura žalosti prihaja. / V zlatem sijaju prihaja / nova mistika. / Mistika človeka. / Magični ogenj mu sije iz srca. / Njegove oči svetijo kakor — / radij v noč. / Smrt je umikanje življenju. / Smrt je veselje. Traduzioni di Jolka Milič. poesie Alojz Dian NOTICA O AVTORJU Alojz Ihan se je rodil leta 1961 v Ljubljani. Študira medicino (četrti letnik) in poleg študija se veliko ukvarja s pesništvom in z raziskovalno dejavnostjo na med. področju. Dobil je študentsko Prešernovo nagrado za raziskavo. Prejel je tudi nagrado Goran za pesniško zbirko Srebrnik, ki je junija lani že izšla v srbohrvaškem prevodu (izid v prevodu je namreč del nagrade). Izvirnik je izšel pred kratkim. Objavlja v večini slovenskih revij in tudi drugje. Izvirnike pričujočih prevodov je moč dobiti v ljubljanskem štiridnajstdnevniku Naši razgledi z dne 2!. junija 1985. Lani je prejel tudi nagrado festivala jugoslovanske poezije v Titovem Vrbasu NOTE BIOGRAFICHE Alojz Ihan è nato nel 1961 a Lubiana. Studia medicina (quarto anno) e oltre allo studio si dedica intensamente alla ricerca in campo medico e alla poesia. Ha vinto il premio studentesco Prešeren per la ricerca. Ha vinto anche il premio Goran per la raccolta di poesie Srebrnik (Moneta d’argento). Questa raccolta, tradotta in serbocroato, è uscita l'anno scorso a giugno (la pubblicazione era inclusa nel premio). L’originale sloveno è uscito recentemente. Colla-bora a varie riviste slovene e anche nel resto della Jugoslavia. Gli originali delle presenti traduzioni sono stati pubblicati nel periodico quindicinale labacese «Naši razgledu del 21 giugno 1985. L’anno scorso a Titov Vrbas ha vinto anche il premio del festival della poesia jugoslava. IL CONFESSORE Il vecchio confessore curvo esce per strada e compra un giornale. Poi, davanti al ristorante cerca un tavolo libero, ordina il solito caffè e legge; legge della guerra in Iran e in Cambogia, legge delle stragi in Libano, legge di un attentato terroristico alla stazione ferroviaria; legge dei misteriosi assassinii, legge della fame in Etiopia, legge dei disagi dei minatori; legge e cerca di trovare almeno un peccato, lo cerca fra tutte le bestemmie che una volta ha perdonato, cerca di trovarlo tra i pensieri indecenti, tra gli amori incontinenti, tra le parole offensive; cerca di trovarlo tra gli invidiosi, tra i maldicenti, tra i ladri; cerca, ma non ricorda, non ricorda difetto umano che potrebbe chiarire una sola notizia giornalistica, non rammenta il vecchio ed esperto confessore, lui che conosce l’anima, lui che conosce ogni debolezza, non si ricorda; il sole picchia la sua stanca nuca, il giornale pian piano gli scivola dalle mani, i clienti ai tavoli vicini cominciano a conversare sottovoce e il cameriere sa di dover camminare solo in punta di piedi. LA VOLPE Solo in un modo la volpe può salvarsi con certezza: Deve scavare una tana più in fretta di quanto i cani siano capaci d’ispezionar la. E quando i cani delusi abbandonano la tana deserta e continuano a seguire le sue tracce, la volpe deve scavare già un’altra tana. O una terza. Così la distanza aumenta di continuo e a volte diventa così grande che la volpe potrebbe sdraiarsi tranquillamente e riposare senza correre rischi, potrebbe accoppiarsi, partorire i piccoli, vivere senza preoccupazioni. Però è interessante che questa specie di volpe continua a scavare, e lo fa sempre più in fretta e con crescente foga, prestando attenzione anche alla posizione delle tane e scegliendo scrupolosamente le loro forme; diviene gradualmente un'esperta dello scavo nella dura terra, nella marna, nel granito, nel calcestruzzo e nel ferro, attraversa i fiumi, rode le montagne, conquista i mari... E ad un tratto i cani segugi si sentono addosso una strana inquietudine, come se qualcuno si fosse messo a braccarli. IL VOLO Mi fanno pena gli uccelli. Nessuno li avverte che volano. Nessuno svela loro i pericoli delle altitudini. Che è possibile precipitare. O essere inchiodati alla terra. O perfino restare immobili per sempre. Mi fanno pena gli uccelli. Nessuno li avverte che volano. LA PAROLA INCOMPRENSIBILE Questa parola si ripete. La senti due, tre volte, per te non significa niente, ma dopo ti accorgi che la grida un soldato mentre si scaglia sulla sua vittima, che la sussurra una donna nell’ebbrezza, dei sensi, che la vagisce un bimbo smarrito e un giorno ti sorprendi di averla inaspettatamente mormorata anche tu, provando un gran sollievo. Dopo la pronunci una seconda e una terza volta, ti diventa sempre più familiare, e infine ti rendi conto che è proprio indispensabile. OCCULTAMENTO E' strano che tu nasconda. E speri di scoprire solo al buio palpando con le dita. A volte fai la conta. Oppure gratti e dopo annusi la punta dell'unghia. Infine dimentichi. Però se riesci lo stesso a ricordare qualcosa, dici: «è un sogno». Subito diventi attento a un ricordo d’infanzia. Puoi anche inventartelo. In ogni caso però lo sviluppi fino a trarne una spiegazione. Dopo dici: «Tutto è chiarito. Adesso posso dimenticare». E' strano che tu nasconda. RICERCA DI CONCHIGLIE Il peggio è che non sai. E cerchi. Dopo aver percorso tutta la spiaggia, ricominci da capo. Ma stavolta capovolgi i sassi. Cacci le dita nella sabbia, ti riempi le mani e ti cospargi di rena il ventre e le cosce per percepire con la pelle. Qualche volta mordi la terra e assaggi con la bocca. Poi ti forgi degli arnesi e ti metti a scavare. Penetri sempre più in fondo, le tue macchine diventano onnipotenti e sembra che non ci sia forza capace di fermarti. Ignori solo che in questo mare le conchiglie non esistevano mai. Il peggio è che non sai. Traduzioni di Jolka Milič mikroproze Andrej Blatnik NOTICA O AVTORJU ANDREJ BLATNIK je rojen leta 1963 v Ljubljani. Študira primerjalno književnost in je tik pred diplomo. Sodeluje v številnih revijah, zlasti v Sloveniji, a tudi drugje po Jugoslaviji. Je eden od urednikov ljubljanske revije Problemi. Leta 1983 je izdal zbirko kratkih proz »Šopki za Adama venijo« in je zanjo prejel leta 1984 nagrado ZLATA PTICA. Dobil je tri druge nagrade za kratke zgodbe in radijske igre. TA SVET JE SIT Ta svet je sit. Zjutraj, ko stopaš na mestni avtobus, ko se prikrivajo grozo, ko nihče ne prebira jutranjega časopisa, ko se gospodinjam iz cekarjev kotrljajo rejeni krompirji in stežka prikrivajo grozo, ko nihče ne prebira jutranjega časopisa, ko površno naličena dekleta spregovarjajo o sinočnjih ljubljenjih z nevznemirjenim glasom, ko se nihče ne smeje in jokajo samo otroci, ki jih matere nestrpno potegujejo za roke, ko ni izrečeno ničesar razen pomikanja proti izhodu, tedaj veš. Ta svet je sit. Je ta svet? Je kakšen drug? APOLOGIJA In kaj, reče On, kdo me sodil bo za zmoto? ZNAMENITI ZADNJI TRENUTKI Še zadnjič si prokurat ponovi svoje opravičilo, še zadnjič se stežka prisili v vzvišeno mirnost in poizkuša utajiti zmednost, skorajda strah pred neomajnostjo človeka, ki stoji pred njim. Moški se ne odzove, ne z besedo ne z dejanjem ne da slutiti, da bi hotel ugovarjati svoji obsodbi. Pontius Pilatos stisne ustnice, odstopi za korak in pomigne, naj se prične. Za hip je tiho na Golgoti, tiho in tesno kakor pred obličjem neke nepoznane in nedoumljive volje. Da bi tesnoba dosegla vrhunec, Ješua Kristos v trenutku, ko kladivo prvič udari, zagleda svojo prihodnost, svojo zgodbo, izgovarjano iz neštetih ust, raztroseno po neštetih papirjih — in razlikujočo se do nespoznavnosti. V istem hipu pomisli: je mogoče, da sem res bil, ali sem le izmislek nekoga, ki si ga je popolnosti ironije v zadoščenje izmislil spet nekdo drug, in tako v neskončnost? Nihče mu ne odgovori, kladivo znova udari. ZGODBA O ČASU Desetletja so minila hitro kot komaj kaka sekunda, osuplo ugotavlja, ko fantiči, s katerimi je nekdaj poganjal žogo, v zateglem brisu postajajo obledeli starci. In meje, ki si jih vseskozi videval neizmerljivo široke, so ti z vsakim dnem ožje in že ti grozijo, da te stisne, se milo kara. In z roko zamahne, da bi pregnal te ožine; poglejte, otroci, pokaže vzgojiteljica v dvojice nanizanim vedoželjnim malčkom, ta prijazni starček v pozdrav vam maha. Poj demo k njemu? LEGENDA O VOJNI Legenda pripoveduje, da je poveljnik poražene vojske podal poveljniku zmagovalcev obe polovici na kolenu prelomljenega meča z besedami: »V tej bitki smo izgubili več, kot ste vi dobili. Zato vendarle mislim, da ste vi poraženci in mi zmagovalci«. Njegov poslušalec je pripisoval te nasprotujoče si besede zmedenosti oficirja, ki ga je strl poraz. Zgodovina je skrbno zabrisala njuni imeni, zabrisala je čas in deželo, naši odločitvi je prepuščena razsodba, ali se je vrli vojak motil. SIZIF Kako sva gladila, Sizif, tvojo skalo v milino! NEDELJSKA KOSILA Nekoč, še pred vojno, so k moji babici, tako se spominja, hodili na kosilo generali, dobri prijatelji mojega deda. Ti časi so minili, dosti časa je minilo. Današnji generali se ne menijo za družabna nedeljska kosila, sedijo v pisarnah in dvigajo telefone, zdi se, da sploh ne vedo za mojo babico in njeno znamenito polnjeno raco. Razumljivo je, da ob taki ignoranci moja babica ne more brezskrbno pričakovati naslednje vojne. IKAR Da, višave so nižje, kot si upal. NJENA ZGODBA Ko se ji zazdi, da že vsi spijo, se zazre v ogledalo. Meglico z njega izbriše. Nek obraz jo tiho, zresnjeno gleda. Zdaj je, kar je, si reče. Ta vlak ne ustavlja na postajah, da bi človek izstopil, in ne spreminja smeri, vsak ima svojo karto, svoj sedež, tudi tisti, ki mislijo, da se skrivajo pred kondukterjem. Ko prideš, pač prideš, držimo se voznega reda. cassa di risparmio di trieste GLAVNI SEDEŽ IN RAVNATELJSTVO V TRSTU Ulica Cassa di Risparmio 10, tel. 7366, telex 46053 Tricassa 46403 Estcassa AGENCIJE V MESTU IN OKOLICI PODRUŽNICE V GRADEŽU, TRŽIČU, MILJAH IN SESLJANU- DEVINU NABREŽINI Tržaška Hranilnica izvršuje na področju, kjer je pristojna, osnovno in nenadomestljivo funkcijo in sicer tako glede zbiranja krajevnih sredstev kot glede kreditne podpore, ki jo nudi gospodarskim operaterjem, javnim ustanovam ter privatnim državljanom. S “Kreditom na delo” nudi uslužbencem in profesionistom posebne kreditne ugodnosti v razmerju z dohodkom in po možnosti tudi s prihranki pri naši ustanovi. S “Specialno karto” deluje v prid odjemalcem, širi bančni ček in razvija podjetništvo. microprose Andrej Blatnik NOTE BIOGRAFICHE ANDREJ BLATNIK è nato a Lubiana nel 1963. Studia letteratura comparata e sta per laurearsi. Collabora a numerose riviste, specialmente in Slovenia, ma anche nel resto della Jugoslavia. E’ uno dei redattori della rivista Problemi di Lubiana. Nel 1983 ha pubblicato una raccolta di prose brevi, e cioè «Sopki za Adama venijo» (I mazzolini per Adamo stanno appassendo), testo vincitore del Premio ZLATA PTICA (Uccello d’oro) nel 1984. Ha vinto altri tre premi per racconti brevi e radiodramma. QUESTO MONDO E’ SAZIO Questo mondo è sazio. Di mattina quando sali sull’autobus, quando guardi furtivamente la gente negli occhi, quando sulla tua bocca si formano appiccicose membrane, quando grosse patate cadono dalle sporte delle casalinghe che a stento nascondono lo spavento, quando nessuno legge il giornale del mattino, quando ragazze truccate alla buona si raccontano tra loro con voce pacata le schermaglie amorose della sera prima, quando nessuno ride e piangono soltanto i bambini trascinati per mano da madri impazienti, quando nulla si manifesta tranne il progredire verso l’uscita, allora sai. Questo mondo è sazio. Esiste questo mondo? O qualche altro? APOLOGIA E con questo, Egli dice, chi mai mi giudicherà per eresia? I FAMOSI ULTIMI ISTANTI Per l’ultima volta il procuratore ripete tra sé la sua difesa, per l’ultima volta si sforza di mantenere la sublime calma e cerca di simulare il turbamento, per non dire la paura, di fronte alla fermezza dell’essere che ha davanti. L’uomo non reagisce, né a parole né a gesti lascia trasparire la sua intenzione di contestare la propria condanna. Pontius Pilatos stringe le labbra, arretra di un passo e fa segno di procedere. Per un istante sul Golgota è silenzio, silenzio e angoscia come al cospetto di una volontà sconosciuta e incomprensibile. Affinché l’angoscia giunga al culmine, quando il martello colpisce per la prima volta, Jeshua Kristos vede il suo futuro e la sua storia pronunciati da una moltitudine di bocche, sparsi su una marea di fogli, e così diversi da parere irriconoscibili. Nello stesso istante pensa: è possibile che io sia realmente esistito o sono solo l'invenzione di qualcuno che è stato inventato per colmo d’ironia da un terzo e così via, all’infinito? Nessuno gli risponde, il martello picchia un’altra volta. STORIA DEL TEMPO I decenni sono passati in fretta come qualche istante, constata stupefatto quando i ragazzini coi quali un tempo giocava al pallone, con un prolungato colpo di spugna, diventano dei vecchi sbiaditi. E i limiti che di continuo vedevi smisuratamente larghi ti sono ogni giorno più stretti e già minacciano di comprimerti, si rimprovera dolcemente. E fa un gesto con la mano per impedire tanta angustia e liberarsene; ecco, bambini, indica la maestra d’asilo ai piccoli curiosi allineati per due, quell’affabile vecchietto vi fa cenni di saluto. Andiamo da lui? LEGGENDA BELLICA Dice la leggenda che il condottiero dell’armata sconfitta consegnò al vincitore tutti e due i pezzi della spada spezzata sul ginocchio, con queste parole: «In questa battaglia noi abbiamo perduto più di quanto voi abbiate vinto. E per questa ragione penso che i vinti siate voi e noi i vincitori». Il suo interlocutore attribuì queste parole contradditorie alla confusione mentale dell'ufficiale, distrutto dalla sconfitta. La storia ha cancellato con cura i loro nomi, ha cancellato il tempo e il luogo, sta a noi giudicare se il prode guerriero avesse ragione o meno. SISIFO Con quanta dolcezza, Sisifo, abbiamo levigato la tua roccia! PRANZI DOMENICALI Una volta, ancora prima della guerra, venivano a pranzo da mia nonna, così ricorda, dei generali, amici intimi del nonno. Questi tempi sono trascorsi, è trascorso ormai molto tempo. Ai generali d’oggi non importa nulla dei socievoli pranzi domenicali, siedono negli uffici e di continuo chiamano e rispondono al telefono, a quanto pare non conoscono affatto mia nonna e la sua famosa anitra ripiena. E’ naturale che, di fronte a tanta ignoranza, mia nonna non possa aspettare senza trepidazione la prossima guerra. ICARO Sì, le altitudini sono più basse di quanto speravi. Quando le sembra che tutti stiano già dormendo, si guarda allo specchio. Pulisce il vetro appannato. Una faccia seria la fissa in silenzio. Ormai non c’è niente da fare, dice fra sé. Questo treno non si ferma alle stazioni per far scendere i viaggiatori, e non cambia direzione, ognuno ha il suo biglietto, il suo posto, anche quelli che pensano di nascondersi al controllore. Quando arrivi, arrivi, rispettiamo l’orario. Traduzioni di Jolka Milic cassa di risparmio di trieste FONDATA NEL 1842 SEDE CENTRALE E DIREZIONE GENERALE IN TRIESTE Via della Cassa di Fìisparmio 10, tei. 7366, telex 46053 Tricassa 46403 Estcassa AGENZIE IN CITTÀ E NEL CIRCONDARIO FILIALI A GRADO, MONFALCONE, MUGGIA E SISTIANA DUINO-AURISINA La Cassa di Risparmio di Trieste svolge, nella zona di sua competenza, una funzione primaria insostituibile per quanto riguarda sia la raccolta delle risorse locali sia il sostegno creditizio offerto agli operatori economici, agli enti pubblici ed ai privati cittadini. Con il “Credito al lavoro" offre a lavoratori dipendenti ed a professionisti particolari facilitazioni creditizie in proporzione al reddito ed eventualmente al risparmio effettuato presso l’Istituto. Con la “Specialcarta” opera in favore della clientela per la diffusione dell’assegno bancario e per lo sviluppo degli affari. drama o lumpenrevolucijF* Taras Kermauner Še se bo pisala zgodovina, in ne bodo je pisali najeti pisarji... Z zločinom doseči višjo moralno raven človeštva je himera. In danes mi vse diši po zločinu... Konkretna slovenska socialno politična revolucija iz let 1941-1945, a tudi iz kasnejše dobe, ker se je še podaljševala — po svoje se podaljšuje še danes — je dobila v slovenski dramatiki več odtisov. Ker pišejo zgodovino tako zmagovalci kot poraženci, je razumljivo, da imajo pristopi k obravnavi revolucije različne vrednostne predznake: od povzdigovalnih do odklonilnih; tu v vmesnem prostoru je polno različic. Resnice kot take o revoluciji ni in ne more biti. Je pa — in bo — neomejena vrsta resnic o revoluciji, izhajajočih iz različnih časov, drž, ocen, načrtov, ideologij, grup, oseb. Vsaka od teh poskuša odkriti svoj vidik, svojo resnico. Kompletne objektivne resnice o zgodovinskem ni. V odprtem nizu diskusije med posameznimi resnicami-podoba-mi se bodo soočala različna stališča; govorila bodo z umetniškimi argumenti, ki imajo svoj socialno politični in ideološki ko-relat. Drama Stanka Majcna Revolucija je ena takih podob. Ne nameravam jo presojati glede na svojo predpostavljeno resnico o revoluciji, resnico, ki sem si jo osvojil s preučevanjem konkretne revolucije. Sem zgodovinar slovenske dramatike in zavesti. Se pravi, odkrivam tokove resnic, kakor se oblikujejo v dogajanju slovenske dramatika; ugotavljam, kakšne podobe revolucije se nizajo, zamenjujejo, popravljajo v preteklega skoraj pol stoletja. Tudi Majcnovo Revolucijo presojam glede na ta snop resnic, ki pa ni zgolj zunanja vsota različnih resnic; podoba revolucije ima svojo notranjo zgodovino, ena drama odgovarja drugi — v tej odprti diskusiji. Tudi Majcnova odgovarja na nekatere, ki so bile, preden je bila napisana, že objavljene; vsaj verjetno je, da odgovarja na Zupanovo Rojstvo, na Borove Raztrgance, na Miheličeve Svet brez sovraštva itn., ker je bila najbrž napisana v začetku 50. let. A če ne odgovarja na konkretne drame, odgovarja na ideološkega duha, ki se je v imenovanih dramah izrazil in ki je totalitarno obvladoval slovenski (*) Tekst predavanja, ki sta ga 13. januarja letos priredila Kulturno Združenje Most in Društvo Slovenskih Izobražencev v Peterlinovi dvorani v Trstu. duhovni prostor v prvem povojnem desetletju. Svojo metodo lahko še radikaliziram in zapišem, da tudi marsikatera kasneje napisana drama odgovarja Majcnovi, čeprav Majcnove do danes razen zelo redkih nihče ni poznal. (Ohranila se je v zapuščini Marje Boršnikove, kateri je Majcen prepustil svojo literarno zapuščino. Predlanskim je bila celo v okvirnem repertoarnem programu Celjskega gledališča). Drame si ne odgovarjajo zgolj empirično posamezno. Vsaka uteleša nek možen odgovor, neko ideološko strukturo, ki izhaja iz zgodovine in iz človeka; to strukturo zmerom lahko reduciramo na ideološko shemo. Dramatiki takšne sheme in strukture predpostavljajo. Zato se večkrat zgodi, da pride čez čas na dan pogrešani vezni člen, drama, ki jo kasneje napisane že predpostavljajo. Takšne vezne člene bi bilo mogoče celo za nazaj dopisati. Imenovane drame, Rojstvo itn. so eroike, so narodno osvobodilna in revolucijska apologetika; so tudi agitke za revolucijo — posebno zato, ker so bile napisane med vojno in tik po nji. Drame z nedeljivo pozitivnim odnosom do narodno osvobodilne vojne se pišejo še danes; lani je izšel neke vrste himnični oratorij Zločin v Frankolovem avtorice Vere Remčeve; tekst je poetična apoteoza, napol obreden spomin na mrtve tedanjih časov, po svoje podoben Knjigi lirike, ki jo je Bogomil Fatur izdal tik po vojni. Vendar zavzema večina sodobnih dram kritičen odnos do revolucije; recimo Partljičeva Rdeče in sinje, Ruplov Job itn. Vprašati se je, na koga se vežejo te današnje kritične drame, če se himna Remčeve veže recimo na Boža Voduška dramski prizor Žene. Revolucija je le ena med dramami, ki so vzpostavile drugačen odnos do revolucije. Prve, vsaj dozdaj znane, so Mrakove; te gledajo iz ideološko nevtralnega vidika, iz politično sredinskega, vendar človeško globoko prizadetega, tragiškega. Mislim na Marata, ki je izšel že leta 1944, in na celotno Revolucijsko tetralogijo, pa tudi na Slovensko tetralogijo, posebno na Rdečo mašo, ki tematizira slovensko revolucijo, in na zaključno iz cikla o Rimljanovini, na Razsulo Rimljanovine. Maša je bila napisana že med vojno, Razsulo tik po nji, vendar sta obe drami izšli šele v začetku 70. let; prej sta bili znani le ozkemu krogu; morda tudi Majcnu, saj je realni model za Fedjo, za glavni lik v Maši, ista konkretna oseba kot za model Vanje, glavnega lika Revolucije', to je Majcnov sin, ki se je odločil za domobrance in bil po koncu vojne z drugimi domobranci vred ubit. Analitična primerjava obeh literarnih likov pokaže, da se med sabo razlikujeta, kakor se razlikujeta odnosa do sveta njunih avtorjev. Drugi dve drami z drugačnim odnosom do revolucije, ki pa na Revolucijo najbrž nista vplivali, saj sta bili napisani kasneje od Majcnove in sta od te manj radikalni — čeprav je njuna velika zasluga, da sta bili igrani in sta tako v živo spreminjali uradno razlago téme — sta Torkarjevi Pisana žoga in Delirij. Tako Maša kot loga imata za predmet likvidacijo, ki jo zagrešijo partizani. Približno ob istem času kot Torkar je napisal dramski tekst, ki podaja revolucijo, čeprav v psevdoantičnem ogrinjalu, Zupan z Aleksandrom praznih rok; gre za leti 1954-55. Ta drama ni mogla ne iziti ne biti igrana v 50. letih, čeprav je bila že režijsko zamišljena (Stupica); izšla je šele v Perspektivah slabo desetletje kasneje. Zelo pomemben vmesni — pogrešani — člen je Pirjevčeva drama Ljudje v potresu, napisana 1947. leta, še do danes neobjavljena in le omenjena. Pirjevec enako kot Zupan in Torkar izhaja iz partizanske plati, vendar jo odznotraj problematizira. Najdlje je segel v tej smeri Primož Kozak z Dialogi, v katerih nastopa sicer internacionalno poimenovana druščina, kar bi lahko veljalo za sovjetski stalinizem, a si v Ljubljanski Drami vendar teksta niso upali uprizoriti; tudi ta je izšel šele v Perspektivah, čeprav je bil napisam tik po madžarski revoluciji 1957. leta. Zaključek prve dobe problematiziranja revolucije sta Smoletova Antigona, napisana 1959. leta, in Kozakova Afera iz 1960. leta. Antigona potegne zgodovinski enačaj: oba brata dvojčka, Eteokles in Polinejkes, sta enakovredna; s stališča Kreona enakonevredna, ker sta osebno nedo-bra, s stališča Antigone navzlic vsem njunim značajskim karakteristikam vendarle njena brata, to je človeka; kot mrtveca, kot pobita v medsebojni vojni, ju je svet dolžan spoštovati in oba enako pokopati. Do obeh je zavzeta ekvidistanca. S tem se odpre druga faza povojnega obravnavanja revolucije, dosežena je drža, ki je zunaj-ideološka, zunaj opredeljevanja za ta ali oni tabor. Je pa ta drža implicirana že v Maši. Ne pa v Revoluciji', Majcnova drama se postavlja izrazito na stran mladega domobranca. (V tem pregledu še ne upoštevam dram o revoluciji, ki so bile pisane v emigraciji, tam tudi izšle in imajo verjetno negativen odnos do revolucije. Posel čaka. Odločil sem se, da bo sledil šele analizi Revolucije). Revolucija ni realističen tekst; ni psihološko veristična, zvesta, objektivna podoba realnih dogodkov. Dramatik ji je v podnaslov zapisal: »krvava komedija v petih dejanjih«. Poudarek je na obojem: na krvava, gre za vrsto tragičnih prvin, tudi za Vanjino — a ne le za Vanjino — smrt; in na komedija. Če bi jo brali zgolj kot krvavo in zgolj kot tragedijo, bi jo narobe razumeli. Majcen sicer nadaljuje svoj nekdanji osebni slog, znan iz Apokalipse, iz Zamorke, iz Kasije, iz Dedičev nebeškega kraljestva, ne pa iz Mater, ki so nastale proti koncu vojne in po- menile idilično obnovo nekdanjega slovenskega sveta, izpred prve svetovne vojne, časov, v katerih revolucija ni mogla do izraza, čeprav se je, v liku lumpenproleterskega cestarja, silila. Matere so visoka pesem krščanski ljubezni kot solidarnosti, kot usmiljenju, kot razumevanju bližnjega, ki je v stiski; a so postavljene v arhaično slovensko vas, v katero nista udarila niti svetovna politika niti fašizem niti njegov tekmec-dvojnik stalinizem. Matere so nostalgična podoba nekdanjega sveta, ki se ga je stalinizem namenil — kot eno svojih prvih nalog — razbiti, streti. Majcnova socialno ideološka drža je tako v Materah kot v Revoluciji izrazito konservativna. Ne kaže razumevanja za tisto, kar je bila verjetno zgodovinsko najpomembnejša točka programa OF: sprememba slovenskega značaja iz ponižnega, to je hlapčevskega, pokornega oblastem, neavtonomnega v emancipirani subjekt nacije, gibanja, ljudstva, posameznikov, ki si sami ustvarjajo — še zmerom ne do kraja doseženo — lastno državo; pogoj za takšno avtohtono samodoločanje je revolucija, čeprav s tem nikakor ni rečeno, da mora biti ta revolucija stalinistična ali fašistična. Angleška, posebno pa holandska in ameriška, so bile drugačne. Pogoj je vojna, ki jo mora pokorjeni ali hlapčevski narod izbojevati zoper vse, ki ga ne priznavajo za enakopraven subjekt. Majcnu je kot radikalnemu kristjanu vojna kot vsako nasilje tuja. Terja urejeno, civilizirano, kulturno birokratsko družbo, v kateri se more posameznik opredeljevati po svoji vesti; in nad katero je Bog, je večnost. V tosvetni družbi v skladu z evangeliji Majcen ne vidi rešitve; vidi le zločin, če ni urejena v mirno funkcioniranje. Nima posluha za vojno oz. iz lastnega izkustva prve in druge vojne ga odbija realiteta vojne; a brez vojne in revolucije ni avtonomnih držav, brez boja, ki je v osnovi zmerom vojščaški, človek sočloveku ne prizna enakopravnosti. Takšna je logika tega sveta, različna od krščansko evangeljske ljubezni-solidarnosti. Kdor noče pristati na logiko tega sveta kot aktivno odgovoren, pristane po sili kot trpni predmet drugih, fašistov, stalinistov. Vanja, ki je na začetku simpatiziral narodni odpor Slovencev zoper okupatorje, preide k brambovcem, to je domobrancem, ker se mu upro stalinistični zločini. A se pusti s tem potisniti v sodelovanje z okupatorjem, odpove se revoluciji, preide h kontrarevoluciji, ki krepi in aktivira slovenski značaj na način, katerega neavtonom-nost je bila bistveno bolj očitna kot podrejenost stalinistov ko-mintemi in narodnih revolucionarjev stalinistom, kominterna sama pa se še ni jasno kazala kot izvajavka stalinskega zločinstva. Oziroma: vse to se je dalo videti in marsikdo je videl, vendar je bila SZ daleč, njenim obljubam je bilo lažje verjeti, kot pa se sporazumevati z realiteto fašističnega okupatorja, ki je Slovence dejansko razkosal in skušal raznaroditi. Naj je šlo tudi za optično prevaro, za samoslepitev, za nasedanje stalinskim obljubam, in v glavnem je šlo za to — bila je doba velikega samozapeljevanja —, je ta samoprevara pomagala Slovence emancipirati (vsako aktiviteto vodi kaka vešča varljivka); ko se je prevara razkrila, se je končala tudi ta oblika emancipacije; začelo se je, kot kaže slovenska dramatika, novo hlapčevstvo, vendar na drugačni, ne več na konservativni osnovi srednjeveškega hlapčevstva. Srednjeveško slovensko hlapčevstvo je bilo ponotranjeno, moralizirano, kristjanizirano (v Materah), suženjstvo pod stalinizmom odzunaj vsiljeno, iz lastne prevare porojeno, nelegitimno, zgolj nasilno; kolikor je popuščalo, toliko se je razbohotevala pod njim avtonomija posameznikov, čeprav, žal, zaenkrat še kot privatistična korupcija, le na ravni telesne osvoboditve, cinično, lumpenstilno. A bistveni prelom je bil izvršen: Slovenci so si izborili (z)možnost, da poiščejo vrednote, tudi Boga kot najvišjo sami, iz sebe, zato pristno in sodobnemu svetu ustrezno, medtem ko so prej ponotranjali resnice, ki so jim jih zapovedali gospodarji. Danes gospodarje le trpijo, ker vedo, da se jih še niso zmožni otresti s tilnika; a dokončna emancipacija je le stvar empirične zgodovine, ne več prehoda čez oslovski most. Danes so Slovenci po svojem bistvu že avtohtoni, avtonomna lastna nacija-država. Majcen bi mogel konstruirati dramo, v kateri gre za revolucijo, tudi za totalitaristično (stalinistično ali fašistično, vseeno, saj je večina znakov pri obeh enaka), ne da bi podal zvezo upornikov, to je tistih, ki niso hoteli pristati na podrejanje stalinizmu, z okupatorjem; okupatorja bi mogel povsem odstraniti kot neeksistentno kategorijo. Podal bi le boj stalinistične revolucije z brambovci starega sistema, to je s kontrarevolucijo; izraz kontrarevolucija je v primeru kosovske revolte leta 1981 povsem neustrezen, ker so Kosovčani, ki se bore za priključitev matični državi Albaniji ali za republiko Kosovo, tipični revolucionarji, morda stalinistični, morda meščanski, morda celo le znotrajjugoslovanski, medtem ko je pozicija Vanje in domobranstva tipično kontrarevolucionarna: upira se revoluciji kot taki. Majcen je dejansko to tudi storil oz. poskušal storiti. Vendar je tako konstrukcijo povezal s slovensko zgodovinsko reali-teto; drama se ne dogaja v abstraktnem prostoru ali zamišljenem prihodnjem času. Drama govori konkretno o Slovencih, o drugi svetovni vojni, omenja — sicer z drugimi imeni, a na prvi pogled prepoznavno — dejanske likvidacije, profesor teologije Torkar je Ehrlich, bankar Hace je Praprotnik, Petranov študent je Župec ali Kibelj; podatki iz opisa Torkarjeve osebnosti in dejavnosti so istovetni z opisom Ehrlicha. Omenjana so imena slovenskih krajev; tudi lokacija drame je takoj prepoznavna: hiša, v kateri je Majcen med vojno stanoval; poudarjeno je, da meji na eni strani na Dramo SNG, na drugi na vrt (na Mundov vrt). Povsem nemogoče je dramo brati kot povest o nekem drugem, izmišljenem ali rekonstruiranem času; vsakdo jo bo bral kot dramo o konkretni slovenski revoluciji. Ker pa v tej drami ni okupatorja oz. brambovstvo ni podano v povezavi z okupatorjem, čeprav je namignjeno, da mora pač vzeti pomoč od tam, kjer jo dobi, če se hoče obdržati pred revolucijskim nasiljem, smo upravičeni sklepati, da gre za hoteno ali nehoteno dramatikovo slepo pego. Točke sodelovanja z okupatorjem, ki je v celotni konstelaciji domobranstva najbolj problematična, ne zna razrešiti; zato jo da v oklepaj. A s tem se odreče tudi analizi Vanjinega lika kot aktivnega borca zoper revolucijo. Pove, da se je Vanja odločil za oborožen boj zoper revolucijo, da je vzel puško, ko je zapustil Ljubljano in se priključil drugačnim — verjetno ti. plavogardistom, mihajlovičevcem ali pristašem stare jugoslovanske ureditve; od drugih zvemo, da se je v teh vrstah dejavno vojaško boril zoper revolucijo. S tem je postal bistveno drugačen kot Mrakov Fedja, ki se noče odločiti za nobeno nasilje, ki ljubi vse živo in pade kot trpna žrtev pod silo nerazumevajočih revolucionarjev; ti poznajo eno samo logiko: kdor ni z nami, je zoper nas, kdor pa je zoper nas, zasluži strel, ker je v imenu Zla zoper Dobro. Mrak ni bil dolžan pojasnjevati zveze domobrancev z okupatorjem, ker Fedja ni brambovec; živi le v mistično meditativnem objemu z vesoljno Naturo; je skoraj zen budist. Odklanja vsako nasilje, tudi obrambo samega sebe. (Enako njegov dvojnik v drugi Mrakovi medvojni drami, v Talcih; ti so izšli sicer leta 1947, a tako popravljeni in obse-kani — Borko jih je le na ta način mogel objaviti —, da ne morejo veljati za Mrakov avtentičen tekst). Majcen pa ravna, kot da teče boj med revolucijo in kontrarevolucijo (izraz ni Majcnov) zunaj razmerja z okupatorjem, ki je v empiriji dejansko odločalo o slovenski usodi, tudi o konkretni usodi vrnjenih domobrancev in o usodi slovenske državnosti po vojni. Če se bi kontrarevolucionarjem posrečilo vzdržati se brez povezave z okupatorjem, bi bila njihova pozicija povsem drugačna, pa čeprav bi bili v konkretni vojni z revolucionarji poraženi in pobiti. Danes bi imali čistejšo preteklost; ne bi jih težila oznaka narodnih izdajavcev oz. njihovega politično vojaškega ravnanja kot narodne izdaje. Naj si mislimo o stalinistih kar koli, naj vemo, da so delovali v veliki, če ne v odločilni meri po direktivah kominterne oz. SZ (Stalina), leto 1948 je tako pomembno ne zato, ker bi se tedaj stalinizem nehal (dejansko se je še zaostril), ampak zato, ker se je — vsaj v jugoslovanskem okviru — odločno nacionaliziral; medvojna revolucija se je potrdila ali izoblikovala kot nacionalna. (To pa še ne velja za dokončno nacionalizacijo slovenske revolucije, ker je še zmerom vezana na druge nacije; slovenska vojska je bila leta 1945 razformirana). Revolucija je sem in tja celo surrealistična farsa; čeprav slogovno povezana z zgodnjim Majcnom, z ekspresionizmom, ki je drugi obraz surrealizma, je obenem izjemno inovativna. V začetku 50. let, v verjetnem času nastanka Revolucije, je bil ekspresionizem demodiran, čeprav ga je Zupan (z Ladjo brez imena, v zaporu napisano meditativno filozofsko dramo) po svoje obnavljal in je Torkar pisal dramatizirane basni (v zaporu napisana Pravljica o smehu, ki obravnava stalinizem kot diktaturo karizmatične osebnosti in njene despotske, policijske, ova-duške itn. okolice). Revolucija je farsa, polna grenkega sarkazma, mestoma pretresljivo tragičnega, mestoma poenostavljeno karikaturalnega, ki ustreza socrealizmu, poenostavljanju, kakršnega so si privoščili Bor, Torkar in drugi v slikanju belogardistov. Revolucija je po formi direktni predhodnik Božičevih črnih grotesk, ki sta jih kasneje nadaljevala Lužan in Rudolf. Njena komičnost je obešenjaški smeh iz groze. Nikjer nobenega humorja; niti distance. Sama prizadetost. Točneje: manjka distanca do snovi, do revolucije. Revolucija je podana hiperkri-tično, brez rezerve odklonilno, brez razumevanja; avtor se ni v ničemer vživel v njene akterje, kot se ni Bor v svoje nasprotnike; (se je pa v revolucijske akterje vživel recimo Kozak). Odsotnost distance je isto kot pretiranost kritike, kot absolutna negacija. Odtod karikaturalni momenti, ki deformirajo farso v pamflet (lik zdravnika profesorja kirurga dr. Štrucarja, notranjega ministra revolucije pa tudi Sodnika, služkinj, študenta Sekirnika itn.). Vendar je za razliko od Borovih ali od Torkar-jevega pamfleta (Velika preizkušnja — slikanje duhovščine itn.) Majcnov izrazito nelahkoten. Torkar piše s stališča absolutnih zmagovalcev, ki si vse dovolijo; zato s stališča lumpenbirokra-tov, lumpenmilitaristov, lumpendespotov. Premaganec je zanje ničen, predmet nizkega posmeha. Majcen piše s stališča premagancev, ki jim ostane le še moralni protest; moralna drža jim je vsiljena, čeprav so bili, ko so se še nadejali zmage, enako lahkotno posmehljivi do nasprotnika; tu ne mislim na Majcnovo dramo, ki je pisana iz tragične drže, ampak na časnikarski ton Slovenskega doma med vojno. Vendar daje glavno tragično — črno groteskno — težo Revoluciji lik Vanjinega očeta, profesorja Stvarnika, zgodovinarja, univerzitetnega delavca. Raztrgani, spačeni, mestoma izumetničeni, mestoma pa krvavo razkosani Majcnov slog in jezik nista le znamenje zgodovinske kontinuitete z ekspresionizmom — v vmesnem času Majcen namreč skorajda ni pisal; prej sta eksistencialni izraz dramatikove avtokritike, ki je poleg Vanjine usode glavna téma igre. Izražanje, ki je delno premaknjeno, dvoumno, poetizirano, feljtonizirano, polemično, spakljivo, ni le odsev razkroja dela nacije, ki ga je revolucija poteptala, s tem — s stališča tega dela — razkroja cele nacije, ampak je obenem direkten odzven grozljivo mučnega spoznanja, da stara generacija, ki bi po vseh pravilih tradicije morala kazati mladini pot, tega ni bila zmožna. En njen del je vodil mladino v zlo; to je njen aktivno zločinski del — dr. Štrucar. Drugi del tega aktivizma — stalinizma — ni razumel, se ni znašel, se je umikal v teorijo, v zgodovinska razglabljanja, v nevtralnost; po stari civilni logiki dobrih vzgojiteljev je mladini prepuščal, naj se odloča sama, pri tem pa se objektivno izvzel iz morivskega konflikta, si dejansko pilatovsko umival roke, se izgubljal v oblakih, torej deloval neodgovorno do terjatev časa, nebogljeno, bedno. Zato je kriv. Kolikor je Vanja ne povsem razvidna figura, ker izhaja iz agitacijske pristranosti, čeprav je lep v svojem nravno čistem prizadevanju po pošteni človečnosti, čeprav ravna iz volje do ohranitve čiste vesti, a ni razvit kot vojak, to je kot človek, ki po objektivni logiki ne more imeti več čistih rok, je Stvarnik izjemno zadeta, nazorno oblikovana, sijajna literarna figura človeka, ki se ni znašel in je zato objektivno podpiral zlo. Torkar je v dramah, s katerimi se je obrnil zoper svoj začetni socrealizem in stalinizem, izdelal lik krivca brez krivde; na vsak način ga hoče očistiti subjektivne krivde, a tudi objektivne. To so liki ljudi, ki so bili na strani revolucije, a jih je ta nedolžne kaznovala. (Dramatik zagovarja sebe, svojo usodo — glej Jetniške sonete). Miheličeva je poskušala biti pravična do anglofilov, političnih nasprotnikov revolucije, do starih slovenskih strankarskih voditeljev; priznala je njihovo objektivno krivdo — trudila se je le razumeti jih, pokazati jih v njihovem subjektivnem duševnem funkcioniranju. (Lik senatorja v Ognju in pepelu, ki ga lahko iz njene avtobiografije razberemo kot lik avtoričinega strica, dr. Kramerja; v Uri je podan s skrajno simpatijo, tudi brez objektivne krivde). Majcen, tako si drznem sklepati, kritizira v Stvarniku sam sebe — v Vanji oblikuje svojega sina — in si nravno tenkočutno pripiše hudo krivdo. Miheličeva skuša v Ognju rešiti, kar se znotraj revolucije rešiti da; spomina ljubljenega človeka, zoper katerega politično linijo se je sama odločila, ne umazati; pragmatično in za tiste čase spodobno stališče. Torkar ohranja stalinistično ali klerikalno strukturo, čeprav pride s konkretnim stalinizmom v ekskluzivni spor; on sam je zmerom nedolžen, njegovi nasprotniki ali tisti, ki se z njim povsem ne strinjajo, zmerom krivi, slabi, nepošteni, lažnivi itn. Torkar ohranja to ekskluzivistično manihejsko strukturo še v čas, ko se ji sami stalinisti že odrekajo; le da jo prenese v območje morale; zato je slep moralist, samovšečen egocentrik, moralističen mali despot. Majcen ravna drugače — v skladu z Zupanom in Pirjevcem, ki odkrivata v Ljudeh in Ladji lastne pomote, napake, grehe; ki iščeta predvsem lastno krivdo, krivdo v gibanju, ki mu pripadata (Aleksander), gre za obračun s samim seboj. Zupanov je rahlo patetičen in sentimentalen, Pirjevčev podrobno analitičen, Majcnov pa je najhujši od mogočih: sam sebe osmeši. Posmeh sebi si izbere kot naj hujšo možno kazen. V tem je Revolucija komedija. A začnimo podrobnejšo in konkretnejšo analizo drame s tistim njenim delom, ki je mišljen v naslovu in do katerega zavzema dramatik polemično odklonilen odnos. To sta revolucija in ljudstvo. Revolucija je tu pojmovana v enem samem mogočem pomenu: kot lumpenrevolucija, kot totalitarno nasilje ulice nad ljudmi vesti, nad kulturo, nad božjim in človečanskim redom; kot maščevanje, kot kaos, kot prevrnitev dozdajšnjih mer: kot preobrat, v katerem zasede nizko(tno)st mesto plemenitosti. Revolucijo izvede ljudstvo. Ljudstvo ni več nekdanja levstikov-ska idealna kategorija, ki doživi vrhunec, največjo počastitev in spoštovanje ravno v enobejevskih dramah, v Rojstvu, Svetu, Cajnkarjevi Za svobodo. Majcnovo ljudstvo je plebs, je mestna kloaka, skrivajoča se po rovih in kleteh, obvladujoča ulico, nekultivirana, antikulturna, sovražna do vsega prefinjenega in lepega; je novodobno barbarstvo. Je direktno nadaljevanje Mrakovega pojmovanja ljudstva iz Marata in Razsula. Je besneča množica, iz katere se rekrutirajo bojni vojaški in pobijavski oddelki, SA. Je negacija nekdanjega visokega Ljudstva, v katerem je bil predpostavljen duh Naroda in Človeštva. Ljudstvo je v Revoluciji lumpenproletariat. — Velik del slovenske povojne dramatike daje prav Mraku in Majcnu, ne enobejevski drami. Od Antigone, v kateri je ljudstvo ocenjeno kar najniže, do Lainščkovih Samorastnežev, ki dramatizirajo totalni bankrot upornega proletarskega in kmetiškega razreda, prek Joba, Božičeve Avguštinove vrnitve, Rudolfovih dram itn. Ljudstvo se je skazalo za bedasto rezervo despotov; štiri desetletja se je obnašalo, kot se obnaša v Revoluciji: ker mu je bilo obljubljeno, da bo na koncu zavladalo; ker sme že ves čas vladati, ko gre za uničevanje resničnih elit, ko sme torej svobodno razbijati, kar je vredno; ker je korumpirano v svoji najslabši točki, zapeljevano in spretno manipulirano (odnos dr. Štrucarja in Sodnika do ljudstva); ker dobiva drobtine z despotove mize, ostaja zvesto gospodarju, ki ga hrani, zadovoljujoč potrebe po svobodi kot potrebo po nevezanosti na kakršno koli vrednoto, in ker ne potrebuje avtonomije, ta terja zvestobo svobodno izbranim načelom, mu zadošča telesna razbrzdanost (vse to so poteze slovenskih nižjih srednjih slojev, ki se ne zavedajo svoje evropske narave — duh 70. let); zato ljudstvo sodeluje z gospodarjem, ki ni več odgovorna oseba, ampak podel hudič, katerega cilj je tiransko gospodovanje, samovolja in pobijanje vsega, kar je drug(ačn)o. Med tako degradiranim ljudstvom in aziatiziranim gospodarjem nastane naravna simbioza, uperjena zoper evropsko kulturo in krščansko tradicijo. Ljudstvo lahko obstaja brez dela ali z minimalnim delom, gospodar najde v zahvalo in v zameno, da ljudstvu pušča prosto podivjanost, v njem pokorno sredstvo, s katerim lahko neomejeno vlada. Natančno to podobo je razkrila Goljevščkova v burki Zelena je moja dolina. Natančno ta podoba je nosilna v Revoluciji. Rojstvo, Svet, Raztrganci itn. so eroika ljudstva. Lik, Mihe in posebno Marijane, delavca in postrežnice, služkinje, posprav-ljalke v tovarni, — iz Rojstva — se v Razsulu pokaže kot lik podivjanih natakaric, ki se obrnejo zoper svojega bivšega, a kantorjevsko nasilnega, drobnoburžoaznega, malokapitalistične-ga gospodarja Bešnarja, v Revoluciji pa kot lik služkinj, ki se upro svojim delodajavcem. Prva, Mirna, Stvarnikova služkinja, gospodarja le zapusti; kot katoliški ženski se ji zmede, saj se med propagando revolucionarjev in zvestobo gospodarju ne znajde več. Druga, hišnica hiše, v kateri se Revolucija godi, Kristina, je vztrajnejša, postane glavna ovaduhinja, pomemben člen varnostno obveščevalnega kadra; vendar ko zve, da ji je v taborišču umrl mož, jo bolečina zlomi; dejansko znori. Ko jo pokličejo, da bi kot predstavnica ljudstva sodila Vanji oz. dala sodbi njeno ljudsko zaledje, njen ljudski smisel, ne glasuje za smrtno kazen; v nji zmaga človečansko usmiljenje — a za ceno norosti. Kar pomeni, da se ljudstvo samo v sebi razkraja. Vaba, da bo postalo gospodar, je tako velika, da ne zmore več ostati, kar je bilo — plast služkinj in hlapcev, brezobzirna nesramnost, s katero postaja barbarska sila, pa ga vseeno preveč obremenjuje, saj je bilo krščansko vzgajano in se njegova nova vloga bije s staro naravo. V precepu med obojim se dezintegrira, se pravi, dopolni in radikalizira kaos, v katerega se je razvezalo. Močna in delujoča ostane le Dora, Štrucarjeva služkinja, njegova desna roka; ta postane surova oblast. Revolucijska oblast ie kombinacija lumpenproletariata (služkinj) s tirani, to je z demagogi, ki v časih kriz s pučem ali z vojaško akcijo vržejo aristokratske in demokratske, a na relativno svobodnih volitvah izvoljene predstavnike polisa, jih nadomestijo kot obljuba idealne družbo in lepše prihodnosti, kot karizmatične osebnosti (od atenskih tiranov do Mussolinija in njegovih manjših posnemovalcev). Revolucija je odgovor na Cankarjeve Hlapce in njihovo nadaljevanje; lahko bi nosila naslov Služkinje. Nadaljevanje je v liku Vanje, ki je svojstven dedič Jermana. Bori se za evropejstvo, zoper rdeči klerikalizem, za razsvetljenost in vest, za kulturo in avtonomijo duha, za solidarnost in lepoto, a ob sporu s starši — tokrat z očetom, mati je pred kratkim skočila skoz okno, ker je v obupu predvidela temačni razvoj revolucije — ne popusti, ne opusti boja, ne odide na Goličavo, se ne pusti določati od župnika, od Štrucarja; upre se, stori, kar levsti-kovska tradicija — Tugomer — pričakuje od junaka, vzame orožje v roko in z njim brani svojo držo pred ljudmi, ki jih ima za zločince. Tudi pred sodiščem ne odneha; odkloni ponujeno golo življenje, dosmrtno ječo v rudnikih, odloči se za častno smrt, za moralno zmago. V tem je Vanja in z njim Revolucija skladna s strukturo enobejevske dramatike, z likom Krima, Špelce in sorodnih; kot ti postane tudi on vojščak iz prepričanja, da se zgolj brani in da ima pravico — dolžnost —, da se brani pred tistimi, ki mu hočejo vzeti njegovo naravo, tudi z orožjem. Vanja postane moralni in vojaški aktivist iz upravičenega odpora — čeprav to ni odpor zoper okupatorje, ampak zoper revolucionarje. Hlapci se spreminjajo v agitko, Jerman v vojščaka. Druga linija je negativen odgovor Hlapcem. Cankar pokaže sicer realiteto, oriše, kako je ljudstvo zapeljano, zmanipulirano, nahujskano od župnika, bedasto, sovražno, nekulturno, omejeno, provincialno: prava snov za demagoge, za bodoče fašiste, ki se ne bodo zadovoljevali kot župnik, kot klasični klerikalec s tem, da držijo ljudstvo na uzdi, ampak bodo v njem zagledali sijajno možnost za akcijo, udarnega ovna, s katerim si bodo obetali razstreliti stari svet na koščke. (V to smer se odloča časnikar Pravica v Katu Vrankoviču). Za Cankarjevega časa se fašizem na Slovenskem še ne razvije. Ljudstvo ostane nevarnost v rezervi; je boguvdano, kar pomeni, da je pokorno nauku. V Revoluciji je sicer prav tako pokorno — novim — gospodarjem, a je izgubilo še tisto, kar je imelo: strahospoštovanje pred Bogom in naukom, pred Cerkvijo in zunanjo moralo, kolikor ni dobilo stare Cerkve v novi obliki stalinistične Partije; to Majcen nakazuje, a ne razvija; pač pa to razvijajo druge povojne slovenske drame od Afere naprej. Ljudstvo je ostalo v Revoluciji isto, kot je bilo v Hlapcih, le model gospodarja se je menjal; klasičnega avtokrata, klerikalnega birokrata, župnika, totalitarista mettemichovske epohe, katerega socialna funkcija je ščititi režim, dano družbo, braniti, kar in kakor je, je zamenjal revo- lucionarni tiran, katerega namen je dano družbo razde j ati, pri tem pa uporabiti vsa sredstva, predvsem umore. Majcen vidi bistvo revolucije ravno v načrtnem ubijanju, v notranjem terorizmu, v vrsti posameznih likvidacij, s katerimi se odstranja vsakdo, ki misli in ravna drugače; revolucija nastopa v imenu absolutne enotnosti, to pa določa ena ozka skupina, tista, ki revolucijo započenja in vodi; ta skupina je bojno vojaško elitno sektaška, a se prikriva s plaščem širokih množic, ljudstva. Jermanu se torej res ni posrečilo slovenskega ljudstva kultivirati. Kalander je opustil razsvetljevanje ljudstva ali točneje: ljudstvo je razsvetljeval le v tistem duhu, da ga je zapeljal; da mu je vcepil v srce milenaristične obljube idealnega tostranskega sveta, možnosti, da bo tu vladalo in uživalo; da ga je v tem duhu sfa-natiziral. Se pravi, da ga je ohranil takega, kot je bilo: neavto-nomnega, neemancipiranega, nekulturnega; pokazal mu je iluzijo bližnjice do sreče. Ta ne vodi prek muke samodiscipliniranja, samoomikavanja, notranje morale, ravnanja po vesti, duhovne avtonomije posameznih oseb, pristajanja na težavna pravila civilne družbe; vse to je mučen in dolgotrajen posel v kapilarah, družbe, pri vsakem posamezniku posebej. Bližnjica pelje kar naravnost iz bede teles in duha v paradiž; le revolucijo je treba izvesti, le predstavnike starega — razredno krivičnega — sveta pobiti; in absolutna svetloba bo tu. Ljudstvo v Revoluciji je torej Kalandrova grupa, ki se ne oblikuje v smeri civilne družbe, ampak obnovi župnikovo čredo, le da dobi novo — še bolj fanatično, še bolj omejeno, še bolj slepilno — ideologijo. Hlapci niso pozitivno razrešeni; nadomestijo jih Služkinje. Pol stoletja po Cankarjevi drami in izkušnji se je položaj slovenstva kvečjemu poslabšal; o razvoju na bolje ni sledu. Predstavnik ljudstva — mali slovenski Marat, ki pa ni naredil manj zla — je Dora. Že takoj na začetku drame se nam predstavi v nezamenljivi luči; Mimi in Kristini predava; gre za kratek agitpropovski kurz, ki povezuje teorijo s prakso, revolucionarno dogmo z navajanjem na ovaduštvo: »Minister si Gradišča ,ne pa pometača! Ljudi imej na piki, ki tu stanujejo, pa jih bistro loči: tiste, ki so za nas, od onih, ki so proti. Že v prstih bi morala čutiti, že v metli, kdo je za nas in kdo je proti nam. Ali veš, kaj je reakcija? Reakcija so ljudje, ki nočejo, kar hočemo mi«. Bistvo je povedano. Zaukazana je totalitarnost in boj — vojna — zoper vse, ki se ne podrejajo enotni fronti. Ta nastopa v imenu »mi«. Ta mi je tudi ljudstvo. Zapeljevanja ljudstva je ravno v tem, ker mu demagogi dopovedujejo, da je končno postal emancipirana sila: oblast kot taka, medtem ko je v resnici še bolj zmanipulirano kot prej. Služinčad se gre politiko, ker čuti, da prvič sme nekaj sama iz sebe. Novi gospodarji ne nastopajo kot gospodarji, ampak kot osvoboditelji hlapcev in dekel. Dekle čutijo, da se dogaja njihova volja. Prej so meščani ukazovali njim, zdaj one nadzorujejo meščane, profesorje in s pravimi podatki omogočajo, da jih posebne udarne grupe revolucionarjev likvidirajo. Revolucija je vojna v porah sistema in družbe; družbeno dno sodeluje, tako da se znajdejo prejšnji gospodarji v mreži, iz katere ne morejo pobegniti. Vsi za enega, eden za vse. Vsi za voditelja, voditelj v dolgoročnem zgodovinskem interesu služkinj. Služkinje delajo v lastnem interesu, ki pa je obenem vsečloveški, ker je vrhovna vrednota človeštva ljudstvo; če pride ljudstvo na oblast, je razredna družba končana in zavlada neantagonistična. V duhu teh slepil Dora prepričuje Mimo; govori o revolucionarjih, ki »jih je vsa dežela polna, za vsakim grmom karabinka, za vsakim zidom strojnica«, temu se reče vseljudska vojna ali revolucija. Za vsem tem pa je vlada, »nova vlada, ki bo prevzela oblast, ko zropota v prah ta naša, tuja, kriva in kilava. In ti, Mirna, si funkcionar te nove vlade«. (Že zdaj opozarjam na pomen osrednje besede »naša«). Kako naj se neprosvetljeno bitje, Mirna, upira, ko pa ji je obljubljeno, da bo funkcionarka vlade, brž ko bo svojega gospodarja prvič ovadila? Kaj je lažjega kot zapisovati, kdo hodi v hišo? To ni več mučno tovarniško delo. Pravi kader ne bo več delal za strojem; proletariat bo ukinjen; delali bodo le še sužnji, sovražniki — zato so tudi nenehoma potrebni, država potrebuje delovno silo v rudnikih in tovarnah. (Odtod suženjski sistem v fašizmu in stalinizmu). Kader bo delal le v prenesenem pomenu besede: vladal in ovajal; aktivno sodelovati z revolucijo pomeni prehajati na pozicije politične oblasti in policije; obe postaneta vsemogočni. (Slovenska povojna dramatika to potrdi: od Žoge in Dialogov naprej do Joba in Jovanovičeve Prevzgoje srca). Kdor pa noče razumeti, za kaj gre, za tistega veljajo Dorine besede Mimi: »Ti se samo kmalu znajdi, če ne, bo po tebi!« Prepričevanje je zmerom le uvod v grožnjo; grožnja in kazen sledi, če prepričevani zadeve ne razume dovolj hitro. Vanja je ni hotel razumeti, zato je bil obsojen na smrt. Občutek vsakogar, ki dejavno sodeluje v revoluciji, da je funkcionar vlade oz. oblast sama, je značilen za totalitarizme. Civilna družba skuša pripeljati čimveč ljudi k odločanju o skupnih družbenih poslih, a tako, da nastaja skupna volja iz posameznikovih svobodnih odločitev presoj, življenjskih svetov. V tem pomenu je vsakdo funkcionar vlade, če vlada ljudstvo kot pluralnost subjektov. Totalitaristična vizija je ravno nasprotna: ljudje sodelujejo pri oblasti tako, da skrajno aktivno izvajajo direktive oblasti, ne da bi se tega zavedeli, prepričani, da delu- jejo iz sebe, po svojem interesu. Ovajati, sporočati podatke »uličnemu zaupniku«, kot dela Kristina, ki je ponosna, da je »vse zapisala... kam kdo gre in od kod prihaja«, pomeni v resnici dajati podatke centru, ki jih bo uporabil; ki jih edini zna uporabiti; ki jih je edini upravičen uporabiti, ker ima pregled nad vsem. Takšna družba je vojaška. Odtod bistveni militarizem sleherne tovrstne revolucije; bistvo vojaškosti pa je ubijati, ne ustvarjati. Totalitaristična revolucija je ravno nasprotno od tega, kar obljublja: je radikalizacija hlapčevstva; je zaostritev hlapčevstva v suženjstvo. Od tradicionalne birokratske evropske polcivilne — predvojne slovenske — družbe, ki je civilnost, to je poliarhično emancipacijo subjektov omejevala s tradicionalnimi oblastmi, od dinastije do Cerkve, od buržoazije do ostan-dov fevdalizma, temelječa na avtoritarizmu (takšno družbo opisujejo slovenske drame od Jurčičeve Veronike Deseniške do Profesorja Klepca Fedra Kozaka), sta mogoči dve poti: ena regre-dirajoča, totalitarna, druga progresivna, poliarhična. Prva vidi demokracijo — vlado demosa, ljudstva — v ekskluzivni vladi zastopnikov ljudstva, to je demagoških tiranov-despotov, ki so karizmatični poslanci Zgodovine, druga v predelavi množic kot fizikalnih mas, kot enotnih instrumentov in kot kaotičnih diaboličnih sil v razsvetljene, emancipirane posamezne osebe in različne grupe, ki se šele v medsebojnem solidarnem dogovarjanju usklajajo. Krajša pot do demokracije skoz revolucijo, skoz pomasovljenje vseh, skoz ti. podružbljanje je najdaljša pot, saj ima samoupravljanje le za alibi in videz, za plašč in skrivanje. Najprej se mora ljudstvo razviti v ljudi, v samostojne oseb(k)e, šele nato je mogoča vlada čim več ljudi. Totalitarni nadzor nad ljudmi je negacija samostojnosti vsakogar razen centralnega vodje ali centralnega komiteja. Bistvo lumpenrevolucije — revolucije pouličnega ljudstva, raztrganega ljudstva, ljudstva v cunjah — je maščevanje. Sla po morilstvu je razumljiva; izhaja deloma iz arhaičnega pojmovanja pravice kot nenehnega povračila (bistvo pesmi Veš, poet, svoj dolg: zob za zob, glavo za glavo, kolji kot preganjani volk), deloma iz posameznikove želje po užitku v destrukciji. Revolucija odpre človekovo destruktivno naravo, vendar jo, če je čvrsto vodena, preusmeri v maščevanje nad sovražniki, nad tistimi, ki so določeni za sovražnike, nad bivšimi gospodarji, nad političnimi tekmeci. Dora uči pravico do maščevanja; to je strahovit regres — tudi glede na polcivilno avtoritarno klasično birokratsko slovensko polpreteklo družbo: »Metlo vidiš, pa je meč. Scavnico zmivaš s stopnic, pa je kri. Živa človeška kri. Še glave bodo cepale v tej hiši... Ne očetov ne mater ne bratov ne sestra. Zbrisano vse s površja zemlje, in novo življenje si po- stavlja mejnike... Bili smo sip in grušč — danes smo vogelniki zgradbe, ki bo zdaj skipela proti nebu«. Kristina ji sekundira: »Nova država prihaja, nov svet, novo življenje, in vse staro mora pod noge«. Glavni cilj in vrednota revolucionarne družbe je obljuba novega življenja in novega človeka. Slovenska dramatika odkriva to tendenco že od Cankarja naprej, intenzivno pa v 20 letih. Dora parafrazira internacionalo: bili smo nič, bomo vse. Bili smo hlapci, zdaj bomo bogovi. Ne ve, da bo bog en sam: voditelj povsem navrhu, voditelj kot oseba ali kot kolektivno telo najožje grupe (politbiro). Dobro ve, katera je edina pot do novega življenja: vse zbrisati, kar je bilo. Novo je za služkinje absolutna negacija starega, a ne v krščanskem smislu: novo onkraj starega, nenehno novo onkraj nenehoma obstajajočega starega, tega sveta; ne kot dualizem telesa in duše; ne kot koeksistenca obeh načel. Ampak kot ubijanje starega, dokončno pokončanje vsega negativnega. Pogoj za novo je smrt. Tudi za krščanstvo. A krščanstvu je najbolj prepovedano vnašanje smrti v svet: umor drugega. Lumpenrevolucija terja umor vsega drugega in danega; revolucija je pobijanje vsega drugega, kjer koli se pojavi. Da bi bilo to mogoče, celo huje, da bi bilo vse to dolžnost, moralno zaukazano, je treba prej počistiti s krščanstvom. Ekskluzivna vojna lumpenrevolucije zoper krščanstvo je condi-tio sine qua non; simbioza lumpenrevolucije s krščanstvom je le začasna in navidezna, le taktika. To je dobro ugledal Vanja, le da je pri tem pozabil, da vojaški odpor zoper ubijanje ubijanje in revolucijo le stopnjuje, ne pa odstranja. Kontrarevolucija postaja sama del kaosa in ekskluzivizma revolucije, ki ga ta vnaša v svet. V posnemanju revolucijskih metod ni rešitve; ni je pa tudi v goli molitvi, s katero se pusti kristjan klati — obe različici sta znani kot medvojni praksi in se reflektirata v slovenski dramatiki. Katera je tretja varianta, rešilna? Kako med vojne udejaniti civilno krščansko družbo, ki očisti katolicizem fevdalnega avtoritarizma, naredi iz pokornega hlapca emancipirani subjekt, kajti človeška družba ni Civitas Dei, ampak združba teles, ki se ravna po zakonih tega sveta? Krščanstvo, a že židovstvo uči: Ne ubijaj! To je osrednja zapoved civilne družbe, različne od barbarskih. A če je prepovedano kakršno koli ubijanje, potem je prepovedana tudi revolucija; ko kontrarevolucija ubija, postaja sama revolucija — in dejansko tudi je postajala: v ideologiji rupnikovskega, koci-provskega, javornikovskega filonacizma kot boljševizmu konkurentske ideologije in prakse, kot poskus, da s posnemanjem nemške fašistične revolucije Slovenci predelajo svoj značaj iz pokornega in zmerom miroljubnega v vojščaškega, odločnega, zmagoslavnega; to je varianta ustaštva oz. vseh revolucijskih gibanj, ki so se v paralelogramu internacionalnih sil(nic) morale opreti na nacizem ali fašizem. (Kot se je slovenska levica opirala na ruski boljševizem). Dokler pa ostaja v veljavi krščanstvo, sta onemogočeni tako revolucija kot kontrarevolucija. Dokler krščanstvo ne kaže razumevanja za aktivizacijo subjektov, dokler zadržuje kot zgodovinsko srednjeveško katolištvo Slovence v vlogi izvrševalcev in zgolj poslušnih, je zgodovinsko razumljivo in naravno, da ga bodo različne zoperkrščanske drže skušale ukiniti ali pa se bo katera od teh drž celo naselila v krščanstvo samo, v njegovo — katoliško — organizacijo in institucijo, se uveljavila kot klerofašizem, kot vojaška Cerkev in 's tem zanikala krščanskega duha v osnovi. Je rešitev v tem, da krščanstvo dopušča narodno osvobodilne vojne, jih pa ne spodbuja in ne preprečuje? Vendar — s tem dopušča ubijanje. Je pa tudi po krščanstvu dovoljeno ubijanje v obrambi. A kdaj se obramba neha? Ni vsak imperializem zamišljen in čuten kot obramba lastnih interesov, kot zaščita? Je greh nujen v vsakem primeru? Mora tudi Cerkev nujno grešiti? Mora celo kristjan nujno grešiti — ubijati —, če hoče preživeti? Je tak kristjan Vanja, le da ga Majcen ni znal pokazati v tej luči; ni zmogel problematizirati njegove vojaške odločitve in jo je heroiziral? Je zadnja resnica tragiška in temeljno izvirna oblika človekovega samorazumevanja tragedija? (V tem je bil Mrak radikalnejši in globlji od Majcna). Izključevanje lumpenrevolucije in krščanstva o tem pa ne more biti dvoma, kajti lumpenrevolucija je načrtno pomnože-vanje umorov, izraža tudi Dora: »Kaj ne veš, da so zakramenti preklicani? Grehov ni, vse je dovoljeno«. Cinizem, ki nastaja v srčiki lumpenrevolucije, ni naključen. Da bi človek smel in moral čim več ubijati, mora prej pristati na gesla, da je vse dovoljeno: namreč, da je dovoljeno ubijati. Če je dovoljeno ubijati, je vse dovoljeno; tako temeljna je peta Mojzesova zapoved. Greh si nakoplje le tisti, ki noče ubijati starega; ker je skoraj vse okrog nas in v nas staro, je treba skoraj vse likvidirati — razen mesijanske ideologije, ki uči ubijanje in vzdržuje vero v tisočletno kraljestvo. Od cinizma, s katerim je opravičeno vsakršno uničevanje, do avtodestrukcije, ki je v jedru lumpenrevolucije, ni daleč; slovenska dramatika je to nujno pot bogato dokumentirala. (Od Delavnice oblakov do Altamire). V zamislih, ki jih izpoveduje Dora, je skrit vir današnje radikalne družbeno moralno kulturne in človečanske razveze. Še nekaj Dorinih izjav — o umrlem taboriščniku: »Tudi ta borec za skupno stvar bo maščevan«. Na sojenju zoper Vanjo: »Na kol z njim! Mladi Stvarnik nam ne bo ogrožal svobode! Krokarji morajo pasti, kadar orel razprostre krila«. Ali: »Kdor hočeš, moraš hoteti ves in vse. Ves, kar te je, brez pomisli in pridržkov, in vse, kar zahtevajo... Moja govorica je govorica letakov in drugih publikacij. Kar je tiskano in nabito, je sveto«. Na sinovo vprašanje: »Kaj je pravzaprav to: ljudska volja in kje je?« odgovarja Stvarnik: »Ljudska volja je doseči to, če hoče nekdo doseči, česar sam ne more, česar sam ne bi niti doseči smel, kar presega njegovo oblast in veljavo, pa hoče in hoče«. To je opredelitev samovolje, kršitve človečanskih zakonov in omejitev: posameznik ali posamezna grupa — zločinska sekta —, ki si skuša priboriti absolutno oblast nad svetom (v duhu tiste, ki jo opisuje Jarc v Ognjenem zmaju), spozna, da svojega interesa ne more izbojevati sama, pa potegne k sebi množice ter jih prepriča, ker obljubi pravico do plenjenja po zmagi, do ropanja, do užitka, ki ga ne bo treba doseči s trdim delom. (Slovenska dramatika kaže, da nobeden od revolucionarnih voditeljev, ki nastopa v imenu proletariata in celo fizično izhaja iz delavstva, po zmagi ne ostane delavec; vsi se preselijo v prazne vile in začnejo — po kratkem obdobju revolucijskega asketizma — posnemati bivšo buržoazijo, živeti na veliki nogi: kot gospod(ar)ji. Glej drame Delavnica, Jezni viharji, mrzlo domačije, Job itn.). Ljudstvo kot ulica — lumpenproletariat — in revolucionarji niso isto. Ljudstvo se psevdoemancipira, ko postaja revolucionaren kader. V kader — v elito — vnaša svojega duha, navade, vrednote, to je lumpenstil, a ni več na dnu socialne lestvice; kot revolucionarni kader ljudstvo že lahko ukazuje nižjim, še bolj ljudstvu. Najvišje je duh ljudstva, lumpendespot, na dnu je empirija ljudstva, masovna snov za akcijo revolucionarnega gibanja. Dr. Štrucar je jasen; celo Dori, fanatičnim študentom, svojim obveščevalcem in varnostnikom zapove: »(avtoritativno, ostro) "Zgubite se, dokler vas ne pokličem! Za ljudstvo je hodnik”«. Sodnik, Štrucarjev kolega: »Saj veš, kaj je ulica. Deseterico teh bednikov smo poslali v avditorij, da ploskajo, kadar se Vanji kaj podre... Za tistih dvajset dinarjev, ki jih dobe za ploskanje in cepetanje, so si kupili zajtrk: žganje in tobak. Ti pa goltaj ta smrad po žganju, tobaku in navdušenju, če te je volja. Ljudskima sodnikoma se obrača želodec. Prav zato sta iskala stika z ljudstvom pri tebi«. Počlovečiti ljudstvo v revolucionarje pomeni dati tem bednikom fanatično ideologijo, ki jih bo močneje opajala od žganja, ponotranjiti njihovo sovraštvo tako, da ne bo rezultat plačila, ampak pravičniška strast. To je stalinistična in fašistična kultivacija ljudstva. Zadnje dejanje je sploh v znamenju ljudstva. V četrtem je bila sodba nad Vanjo izvršena v imenu ljudstva; v petem ljudstvo zahteva opoja z revolucijsko retoriko. Štrucar sili Stvarnika, ki ga ima ves čas za našega, da bi ljudstvu spregovoril: »Ljudstva ni moči več krotiti. Hoče, da ga vidimo in slišimo. Hoče na ulice«. To reče kot retorično gesto, kmalu zatem pa doda in se popravi: »Nisem vsemogočen, toda z ljudsko maso tega mesta delam, kar hočem«. Vodja hoče, da ljudstvo divja, če divja v pravi smeri. Hudičev učenec razpihuje kaos, v prepričanju, da ga obvladuje; slovenska dramatika kaže, da ga nazadnje ne more več obvladati: sistem gre narazen ravno zato, ker je v osnovi strukturiran kaotično, lumpenstilno, demagoško. Stvarnik se zaveda, kaj je profani plebs: »Kaj moreš v tem trenutku pametnega povedati skupini ljudi, ki niso več to, kar so bili, temveč nekaj novega, povsem novega?« A kaj so ti novi ljudje, ljudje, ki jih za nove razglaša revolucijska demagogija? Nekaj »neodgovornega, divjega, bedaškega«. To je resnica dejanskega novega človeka. »Od zunaj, že od bliže, rjovenje, odsekano, sunkovito grmenje, kot bi vojaška četa vadila prijeme puške: zborno zlogovanje priučenih gesel«. Kultivacija ljudstva je militarizacija mas. Kot krma za kanone — za juriš v prednjih vrstah — so dobre. Učijo se abecede; a ne desetih božjih zapovedi; ne civilnega obnašanja; uničevalnega divjanja. Ko Stvarnik spregovori, se slišijo takšnele pripombe iz množice: »Še tebi bomo raztreskali vse, da boš pomnil, kdaj si nam govoril«. In: »Živela revolucija! Živel konec sveta!« Drama se konča s pesmijo, ki je parodija na konec drame Za svobodo, v kateri prikoraka v osvobojeno vas četa partizanov in poje navdušujočo pesem. V Revoluciji slišimo — podobno kot v Razsulu — drugačen ton: »Iz daljnih ulic odmev slovenske marseljeze: "Mi, otroci domovine, vse na dvoje, vse naj zgine”«. Osnovna tragikomična — grozljiva, groteskna — poanta Revolucije je mrtvaška glava. Dr. Štrucar naroči likvidacijo profesorja teologije Janeza Torkarja. »Sredi Ljudskega trga, ko se je vračal iz študentovskega doma« ga ustrelijo. Razlogov, zakaj je bil določen za smrt, v drami ni. Narobe; Stvarnik, ki je njegav profesorski kolega, ga prikaže kot simpatičnega, pred vsem pa požrtvovalnega človeka, ki je bil »preiskren, načelno preoster«, a »dober tovariš«, požrtvovalen, dobrodelen. Vendar skuša Stvarnik pomiriti svojo vest — enako kot večina tedaj inih simpatizerjev revolucije, ki so jih likvidacije nasprotnikov moralno vznemirile: »Ah, to so pač žrtve. Vsak preval iz dobe v dobo jih zahteva«. Stvarnik ponavlja tedaj znano geslo: žrtve morajo biti. »Ni je pridobitve na katerem si bodi polju človeškega ubadanja brez žrtve. In Torkar je taka žrtev. Žalujmo za njim, toda ne omahujmo! Vodstvo že ve, zakaj ga je žrtvovalo«. Sekirnik, naj-surovejši Štrucarjev izvajavec, medicinec, krvnik: »Tako je. Kar prihaja od zgoraj, je temeljito premišljeno. Pretipano do zadnjega vlakna. Ne bi svetoval, da razglabljamo«. Medicinci, med katerimi je tudi Vanja, se pripravljajo za odločilni izpit. Ker potrebujejo za uk lobanjo, jo Sekirnik dobi tako, da jo v prosekturi odreže mrtvemu Torkarju; ve, da je to Torkarjeva glava. Na podstrešju — drugo dejanje — zakurijo peč, da bi glavo olupili in dobili ustrezno čisto kost. Ta glava postane v drami simbolična. Človek ni človek, kakor ga je utemeljilo krščanstvo pa tudi humanizem; človek je le sredstvo nečesa drugega, tudi revolucije. Ko se Stvarnik zave, da je opravičeval nasilje in zločin, se popravi: »No da, preprosto ljudsko dušo pa taki dogodki vendarle pretresejo. Uničeno je dragoceno življenje... Strašno pravzaprav«. Sekirnik je pristaš »akcije«, ne sočutja. A obenem je najhujši hlapec: tisti, ki dela vroče po ukazu, esesovec. Zmerom čaka »na naročila od komiteja«. Skrbi, da »je razstrelivo na varnem«. Lik, ki je v enobejevski dramatiki idealen (Martel v Ognju, Matjaž Jeriša v Težki uri), je tu najbolj zavrnjen. Krvoločen je — o Vanji pred sodiščem: »Če takih ljudi ne bomo streljali, koga bomo?« Na Štrucarjevo provokacijo, češ »Sinove idejno najsvetlejših naših ljudi imamo pred ljudskim tribunalom«, odvrne: »Prav tu je treba pokazati svoj neizprosni naprej. Prek trupel, prek trupel«. Ve, kako je treba manipulirati z ljudstvom: »Zdaj so odprta —ljudska ušesa — za vse koristno in aktualno. V tem ognju, v tem 'ne vemo, kje smo in kaj hočemo’, se jih prime vse. Daj, pa bodo tvoji!« Najbolj pa je gorak inteligenci, čeprav je bodoči zdravnik — kar kaže, da nekdo z diplomo še ne sodi med inteligenco; da si lumpende-spoti radi izbirajo za kulturno pokritje svojih barabij, neumnosti in zločinov take navidezne inteligente, ki slepijo ljudstvo s svojimi naslovi; da je tudi stroka in inteligenca manipulirana; da imajo revolucionarna dejanja zmerom tudi ti. strokovno ekspertizo. Pravo inteligenco, to je avtonomne ljudi, ki presojajo vsak svoji pameti in vesti, pa sekimiška kvaziinteligenca čez vse mrzi. Sekirnik: »Ha, inteligenca! Meni niti odkrit nasprotnik ni tako zoprn, kot mi je zoprna ta lena, gnila, po plesni zaudarjajoča inteligenca... To bo še dela, dokler ne bodo grobovi... zvrhani. Pa čemu grobovi? Segnal bi jih na eno samo mesto, v kamnolom ali na prod — pa kamenje čeznje«. Sekirnik napove- duje, kar se je dejansko dogodilo in zoper kar je nastopila Antigona: zahteva nepokopane mrtvece, temeljno desakralizacijo človeka. Sekirnik je najbolj negativna mogoča oblika človeka. Dramatik ni posvetil v njegovo dušo; gledal ga je od zunaj, kot bednega zločinca in ga v tem tudi enostransko odklonil. Ostreje in v manj razumevanja kot druga slovenska dramatika — od Dialogov do Noči do jutra, — čeprav tudi ta zaenkrat ni zmogla razumevajoče človeške vsestranske analize ljudi Sekirnikovega tipa; ali jih je heroizirala ali demonizirala oz. smešila. Vendar ni mogoče reči, da v svojih zapaženjih ne bi bila točna: v pogumnih, celo samomorivskih akcijah terorizma so žrtvovali življenja, obenem pa so bili res primitivci in nečlevečneži, posebno tedaj, ko so prišli na oblast in postali politični policisti. Še nekaj oznak dr. Štrucarja, Sekirnikovega nadrejenega. Je močni despot: »Če bi ne bilo njega, bi se svet vrtel drugače«. Je »ud revolucionarne vlade, šef policijskega resorja... Tožilec, sodnik, eksekutor smrtnih obsodb v eni osebi«. Kar je značilen znak barbarstva, sistema, ki ne razločuje med sodno, zakonodajno in izvršno oblastjo, ki nima pojma o sodstvu civilne družbe. Enotnost — nerazločljivost — ljudstva je le druga plat nerazločlji-vosti oblasti, ki ni nikomur odgovorna, le sebi, svoji samovolji. Najhuje je, Štrucar osebno povsem normalen človek, noben patološki zločinec, ustrezen kolega. Tudi njega je očitno zmedla milenaristična ideja revolucije. Ta je kriva, ta je vzrok; šibki, nekultivirani značaji, pohlepni po oblasti in užitku, sadisti vseh vrst se priključijo ideji in jo obrnejo v svojo korist; a ideja je taka, da je le njim primerna. Majcen ne obravnava resničnih idealistov na strani revolucije; v njegovem svetu jih ni. V njegovem svetu so ali le blazneži tipa Štrucar, ki so v osebnih odnosih normalni, v posebnem tipu ravnanja — v posebnih okoliščinah vojne — pa pride na dan njihova blaznost, njihova abstraktna sla po nezasitljivem ubijanju. Spodaj, kot trdno dno ljudstvo, ki terja zadovoljitev svojih interesov — najvažnejša je teorija interesov, sama ta teorija je lumpenstilna; izraža jo začetna Kristina, duh služabništva: »Kar nas služi v tej, bomo gospe, gospe pa bodo lupile krompir, če jim ga bomo nasule«. Zgoraj je Štrucar. Demagog in tiran. Ljudje so zanj: »ovce, ki še vedno ne vedo, kje jim je staja«. Ta Štrucarjeva poteza je izrazito fašistična. Stalinizem in fašizem se v marsičem tudi konkretno prepajata. Levi fašizem je zelo blizu nacionalnega stalinizma. — Vendar Štrucar v primerjavi s Stvarnikom in drugimi ni dovolj razvidna oseba. Ne more se meriti s Komisarjem (Afera); Majcnu je bil ta duh premalo znan; gledal ga je od zunaj. Enako negativen je sodnik. O njem le to karakteristiko: zaslišuje Sonjino mater, Sonja je Vanjino dekle. Kmalu zatem zagleda Sonja na njegovi roki materin prstan. Dramatik je neusmiljen: zasliševalci, sodniki, oblastniki, ki se ne drže pravil civilne družbe, so zmožni vsega. S civilnega vidika so tatovi in roparji. Ti. zaplemba premoženja narodnih izdajavcev pa nacionalizacija pomeni le zamenjavo lastnika. Ljudstvo postane lastnik pro forma, dejansko pa o naravi lastnine odločajo in jo uživajo novi — totalni, aziatsko vsemogočni — lastniki. Prstan je le simbol za to menjavo lastništva — kot je odrezana glava simbol za zamenjavo pojmovanja vrednosti človekovega življenja. Ko spozna, da so mu sina ubili in da je pri tem celo sam nekako sodeloval, se nesrečni profesor Stvarnik sam v sebi izgubi. Po eni strani Majcen v njem razkrinkuje intelektualca, ki živi proč od tosvetne realitete in je zato žrtev spletk, pomočnik v zlu. Stvarnik je priznan znanstvenik zgodovinar, napisal je vrsto uglednih knjig, revolucija in sinova smrt pa ga pripravita do tega, da se odreče svojemu dozdajšnjemu življenju: spozna njegovo ničevost. V petem dejanju »počasi pride iz prve leve sobe z velikim, košem odloženega papirja: 'Čistim, pospravljam, zdaj bo vse drugače. Velik ogenj bom zanetil in pokuril vse, kar spominja na preteklost«. V tem času in pod hudimi eksistencialnimi udarci se intelektualci odločajo različno. Kako se je Štrucar, vemo; je pa vprašanje, kak intelektualec je Štrucar. Operater, kirurg tudi v socialnem življenju; tehnik, organizator, ne pa avtodeterminirajoč se svobodnjak. Zdravnik dr. Donat v Operaciji Mire Mihelič se je iz nevtralnosti rešil v službo revoluciji, se pri tem heroiziral, ker je postal zavestna požrtvovalna žrtev. Z Majcnovega vidika je bil zgolj manipuliran. Slovenska povojna dramatika odkriva vrsto različnih možnosti, različnih variant, to je reakcij intelektualcev. Že pod Prešernovo glavo jih je precej; pa v Jobu, v Aferi, v Dialogih itn. Isti lik je gledan z najrazličnejših vidikov. Majcen je do nevtralnega intelektualca razpoložen kar se da grenko. Z njim — s sabo — ne ravna usmiljeno. Ne pokaže mu rešilne poti. Stvarnika ironizira do konca. Po Štrucar-jevem nasvetu spregovori množici; skuša ji govoriti svojo intimno resnico, do katere se polagoma prikopava, prepričan, da ga bo pobesnela fašistoidna množica križala. Da bi se opral krivde zaradi sina, si želi križanja. A namesto da bi ga množica pobila, ga dvigne na ramena in sredi ovacij triumfalno odnese. Ni ga razumela. Še v zadnjem trenutku ni znal govoriti jasno, se opredeliti, izzvati usodo, ravnati po vesti, biti čist; mešal je, dvoumil, skrival, uprispodabljal, se spakoval, da je ostala njegova resnica skrita in on sam sebi tuj, odsvojen, s sabo navzkriž, samo prevaran. Ko ga dvigujejo na rame, »se brani z vsemi štirimi« in ponavlja: »Na križ, na križ! (A ne uspe. Osramočen si zakrije obraz z rokami). Dr. Štrucar mu pomore skoz vrata«. Namesto v posnemanje Kristusa odide v zgodovino kot likvidator lastnega sina. Trpi; neskončno trpi. Se pogovarja z Mimo, ki je že davno odšla od hiše. Komaj ve, kje je. »Kakor da se je od mene odtrgalo pol jaza, tako se je od mene odtrgal ta sin. Nisem več jaz, odkar se je to zgodilo. Bog da možu sina, da bi laže bredel. Jaz nisem bredel, vedno sem jadral v jasnini, in še se mi je za hip izmaknila, sem se dokopal do nje... in zato mi ga je vzel. In šele zdaj vidim, da sem zares bredel, zakaj zdaj je tema okoli mene«. To je tudi pozicija drame. Na eni strani moralno občudovanje Vanjine odločitve. Vanja je vedel, da bo razglašen za iz-dajavca, pa je vendar ravnal, kot je, po vesti; vest mu je bila važnejša od videza, od ugleda. Oče je začel globoko spoštovati sina; v njegovem dejanju je zagledal pravo krščansko dejanje: tveganje in pričevanja. A sinova odločitev je vodila v poraz in smrt telesa. Torej vseeno ni dobra. Je dobra na ravni božjega; a ta svet je tudi božja stvaritev, pa je naspoten božji logiki. Kako obe ravni in logiki uskladiti? Spoznanje drame: na tem svetu vlada tema. Poštene odločitve so strašne in tragične, neprimerne za ta svet. Zato je še posebno zlo, ker hočejo revolucionarji na silo razjasniti — urediti, poenotiti — ta svet; s tem zlo le še krepijo. Treba bi bilo živeti za drugi svet. (To je pokazal Majcen v drami Bogar Meho in Marija, v povojni dramatizaciji medvojne novele). A s tem še zmerom ni rečeno, kako se bo kdo obnašal znotraj dilem, skušnjav, slepil tega sveta, ki tava v temi. Prvo spoznanje, ki bi mu pomagalo, je to, da ni na tem svetu nobene jasnine; da je vsaka zadevna jasnost napuh, samovšečnost, strahopetnost, samoprevara. Prava pot se začne šele od spoznanja te osnovne temé. (Ne sledi temu Majcnovemu odkritju Afera, Kristjan? Božičeve drame? In toliko povojnih? Tudi Mrakove, ki pa so to odkritje že anticipirale). Stvarnikova končna odločitev je za Boga, za oni svet, za transcendenco, ki pa je ne zna povedati. Nakazuje jo. (V Bo-garju Mehu jo Majcen razvije. A v lažjih okoliščinah. Meho je ljudski kipar v predrevolucijskih časih). »Da, po svetnikih segam od sinoči, prav po njih. Kar po vrsti sem jih izkopal iz omare«. Vrača se v vero otroštva. Upa, da mu bodo pomagali, kot mu bo pomagal sin. Sam sinu ni znal pomoči, mrtvec naj bi bil zdaj njegov vodnik: »Imam nekoga, ki je z menoj in ki me ne zapusti. Sam slepec pa se bom slepcev bal, ko je nad vsemi nami svetloba? Vanja, nebeški vojščak, dvigni svoj meč, da bomo vedeli, kje smo!« Ga je dvignil, Vanja, svoj meč? Je Vanjino prepričanje in dejanje res takšno, da nas razsvetljuje? Je sam Stvarnik in sam dramatik prepričan v to? Ali pa si tega le želi in zato Vanjo poziva, naj pokaže pot? Pazimo: poziva posmrtnega Vanjo, to je, smisel Vanjinega življenja, ki ga mora sam in mi z njim šele dešifrirati. Tema še ni končana. V Stvarniku je zaenkrat šele odločitev — kot v Kristijanu. A kaj je vsebina te odločitve? »Tako mi je, da bi jim« — revolucionarjem, ljudstvu — »povedal, kakor mi je pri srcu, povedal enkrat za vselej, pa naj me potem križajo, če me hočejo. Mostove za seboj sem podrl — lej, ta koš! — nazaj ne morem več. Naprej bi rad, če bi mogel. In morem. Vanja mi kaže pot«. To je Stvarnikova avtooperacija. Vendar — kakšna je, kaj je? Ko nagovori ljudstvo, izreče hkrati dvoje nazivov, ki ne gresta skupaj: »Otroci božji!« In takoj za tem: »Otroci revolucije!« To še ni prava pot. Nato pa razvije misel, ki naj jo navedem, a ki je prav tako ni izpeljal do kraja. Zasvetilo se mu je, a je ostal na pol pota. Ni našel vrat k Bogu, čeprav ga je zaslutil. Smer je bila prava, a njegova intelektualno verska zmožnost premajhna. »Ko je bil Bog dopustil, do si izraelsko ljudstvo namesto prerokov in sodnikov, ki jih je postavljal sam, izbere kralja, da si postavi srednika med seboj in Bogom, ki ne bi bil več božji sel, temveč z vsemi človeškimi slabostmi obremejen bednik s krono in žezlom, je seveda vladavina postala čisto zemeljska. In to je ugajalo zemeljskemu človeku. Hipoma je bil varen pred vdori božjega življenja v svoje človeško. Zdaj je bil prost vezi, ki so ga vezale na nebesa, zdaj je bil zopet čista prst — prsten, kakršen je hotel biti. Kmalu mu kajpak tudi kralji niso bili več pogodu. Zavrgel jih je in si postavil parlament, ministre in predsednike«. Še stopnica niže je ljudstvo, ki hoče vladati. »Naj mi bo dovoljeno, da vprašam, kdo je poslal vas pod tale moj balkon. Kdo ste vi, v čigavem imenu prihajate, kdo vas pošilja?« Štrucar: »Ljudstvo«. Stvarnik: »Čudna so pota božja v zgodovini in danes. Nahrumi ti množica pod omela in metle, smetišnice in brisače, pa ne veš, čemu je prihrumela in kaj hoče. Nereda se ji hoče. Bog pa je Bog reda. Gotovo ne vsakega reda, o ne, a nereda pod nobenim pogojem«. To je prvi del Stvarnikovih končnih besed, njegovega velikega govora, v katerem naj bi prišel do spoznanja. Svamik — in Majcen z njim, to kažejo drame Matere, Bogar Meko in prav tako povojna komedija Cesar Janez, v kateri je razložen pozi- tivni politični in socialni program, dramatik se opredeli za kralja — se opredeljuje za prvi, za izvirni svet, za čas, v katerem je Bog postavljal preroke in sodnike, to je za čas neposrednega stika med Bogom in ljudmi. Odklanja čas človeških ustanov; še bolj odklanja demokratične kot avtokratične ustanove, prepričan, da je bistvo demokracije v ohlokraciji, v vladavini ulice in pakaže. Postavlja se zoper čisto, golo zemeljskost, ki mora vršičih v fašistično stalinističnem terorju, v kaosu, neredu, v izbruhu podzemskih, nezavednih, temnih sil, v bruhanju zla iz rovov, kleti in bunkerjev v svet. Stvarnik pozablja, da sta ravno nacizem — stalinizem skrajno avtokratska sistema; da jima je ljudstvo le alibi. Oziroma: ne pozablja, saj je avtokratizem, ki ga sam želi, utemeljen na božji avtoriteti. Bog pa se je umaknil iz tega sveta, in prepustil ljudem, da se sami ravnajo. Se pravi, nič se ne da pomagati, če je takšna božja volja: če hoče sam Bog človekovo strašno preizkušnjo. Tedaj je najbolj prava smrt, kakršno je storil Vanja, ker je to smrt za Boga; upor čisto zem-skim in podzemskim silam. »Odpora ne poznate? Mučeništvo za pravičnejši red vam je tuje? Čemu nasilje?« Mučeništva za pravičnejši red Stvarnik ne prizna Špelci, ki jo obsodi okupator na smrt, ker je likvidatorka, vendar v imenu obrambe najčistejših idealov, slovenske zemlje; ne prizna Krimu, Martelu in drugim, da so mučeniki za pravičnejši red, ker ne uvajajo božjega reda, ampak čisto človeškega, prstenega, ljudstvo kot nižjo obliko parlamenta, ministrov in predsednika. Enako Krim, Špelca, Martel, Jeriša in drugi ne priznavajo Vanji te pravice in poslanstva; Miheličeva in drugi ga slikajo kot črnorokca Sava (Ogenj), kot umazanega lumpenproletarskega izdajavca Ferleža (Raztrganci), kot ničvrednega Mirtiča (Rojstvo) itn., prepričani, da je oblast ki temelji na Bogu, izmišljotina, krinka za oblast kapitalistov, iz-dajavcev, izkoriščevalcev; da je Ljudstvo najvišja in sveta kategorija. Med obema skupinama ne pride do razumevanja; izključujeta se. Drugi del Stvarnikovega govora je utemeljevanje zapovedi: Ne ubijaj! Vendar utemeljevanje ni do konca posrečeno, saj Vanja kot vojak zagotovo ubija. Bolj bi ustrezalo Fedji iz Maše. »Šest sto let pred Kristusom je Laotse v Taotekingu zapisal besede: ’Uničevanje človeškega življenja objokuj, zmago nasilja obžaluj!’« Nobena od na smrt sprtih strani ne priznava, da je uvedla nasilje; vsaka trdi, da se le brani: revolucija je kontra-nasilje, upor zoper nasilje, ki ga izvaja okupator, prej pa ga je izvajala kapitalistična buržoazija; kontrarevolucija se brani pred revolucijo, vsi pa nasilje stopnjujejo. Zdaj vidimo, zakaj je Majcen izpustil iz drame okupatorja; revolucija pri njem nima moralnega razloga za svoje (kontra) nasilje; je sila, ki prva začenja z nasiljem. Če bi pisal Majcen dramo o predvojnem uporu revolucionarjev — komunistov — zoper jugoslovanski etablirani sistem, bi po svoji logiki moral prikazati etablirano oblast kot zakonito in normalno, a komuniste spet kot tiste, ki iz nič uvajajo strahovlado oz. terorizem. Vprašanje bi se zapletlo ob bistvu: ali je takšna etablirana oblast res tako slaba, da jo je treba vreči s silo, z nasiljem; ali je diktatura proletariata, to je revolucija ljudstva res edino sredstvo za ureditev pravičnega sveta. Če ni, če vnaša več nasilja, nezakonitosti, krivice, kaosa itn. kot meščanska vladavina, potem je revolucija zoper meščanski sistem — ne pa upor zoper fašističnega okupatorja — neustrezna; potem res revolucionarji vnašajo ne sicer prvi, a povečan teror v svet. Kdor pa veruje, da je ta teror le začasen, da velja le tako dolgo, dokler ne bodo odpravljeni zadnji ostanki razredne družbe, temu je revolucionarni teror edino zdravilo. Nazadnje odloča vera, če sama empirija ne zadošča; če se postavlja na eno stran zelo zvečana količina terorja, ki pa je le začasen, na drugo stalen teror, neodrešljivost tega sveta. — Slovenska povojna dramatika se je, po začetku 50. let, skoraj v celoti odločala za antistalinistično rešitev, za empirično merjenje terorja v različnih sistemih; izgubila je, vero v odrešilnost diktature proletariata oz. v lumpenrevolucijo. Stvarnik navaja Laotsejevega učenca, živečega šest stoletij pred Kristusom: »Možje, možje, bom klical, ali ste vi bili roparji, ali ste vi bili morivci? Čast in sramota sta se prismuknili in nastalo je zlo. Bogastvo se je kopičilo in vnel se je prepir. Zlo, ki je nastalo, prepir, ki se je vnel, mučita človeka in mu kradeta mi...«. Tu se stavek med klici izpod balkona prekine. Misli mir? Misli milost? Bistvo je izgovorjeno: zlo je v kaosu-neredu, v nerazločljivosti med sramoto in častjo, v težnji, da bi se bogastvo delilo, ne pa pridobivalo, v prepiru, drugem izrazu za boj in vojno, med kandidati za bogastvo. Revolucija hoče novo delitev bogastva, zamenjavo oblasti. Odtod vse zlo. Delitev, ki jo prinese revolucija, po Stvarnikovem prepričanju, ni pravičnejša od prejšnje, temelji pa bolj na ropanju in morivstvu kot na proizvodnji. Konec Stvarnikovega govora je javna opredelitev za likvidirane, za tiste, ki so jih pobijali Jeriša, Martel, Špelca, Krim. »Mrtvi so živi. Nikoli jih ne moreš zagrebsti tako globoko, da ne bodo več vstali. Profesor Torkar, Petranov študent magister Kadivec, bankar Hace, Vanja Stvarnik... vstali bodo in pričali zoper nas«. Pravične družbe ni, na tej zemlji vlada brez Boga tema; največja zapoved je: ne ubijaj! Ubiti so najbolj nedolžni. Glas iz množice povezuje ubite z vrnjenimi in likvidiranimi do- mobranci: »Tam leže — saj niti ne vemo, kje — in pričajo zoper nas«. Stvarnik prepušča vse samemu Bogu: »Tako govori Bog in to je njegova revolucija«, to pa ni »ne Engels ne Bebel«: »Sonce bo potemnelo, luna ne bo dajala svetlobe, zvezde bodo padale z neba in nebeške sile se bodo majale. — To je revolucija, ki jo edino hoče Bog. On sam jo bo vžgal, on sam bo uničil vse, kar je, in ustvaril vse novo«. Apokalipsa, sodni dan. »Ministri, ki bodo takrat ravnali življenje, bodo naši mrtvi. Mrtvi naših zemeljskih revolucij, žrtve naših strasti in pohot«. Opasani bodo z mečem pravice, odeti v oblačila čistosti, ne pege ne bo na njihovih haljah«. — Stvarnik je začel v absolutno apologijo mrtvih, ki so padli na strani kontrarevolucije ali nedolžni. Drama bi postala agitka, če ne bi sledil že omenjeni parodični preobrat: da vzdignejo Stvarnika na ramena in odnesejo. Lahko pa je tudi v tem preobratu kanec ironične agitke: ljudstvo se s Stvarnikom morda strinja. Spoznalo je, da ima prav. Sekirnik ugotovi: »Zmešnjava je popolna». Dr. Štrucar pa se ne vznemirja: »Vse je v redu. Revolucija je revolucija, čeprav gre kaj narobe«. Vanja misli o ljudstvu drugače oz. zanj je pravo ljudstvo — ne ohlokracija — nekaj drugega. V pogovoru z očetom izrazita vsak svoje stališče. Oče govori zoper dejanja; je klasičen, tradicionalen slovenski intelektualec, ki bolj zaupa besedi kot dejanju, človek iz časov, ko si Slovenci nis(m)o upali misliti na lastno vojaško politično državnost, na popolno emancipacijo. Njihov strah je bil previdnost, oklevanje pred dejanji, ki zavezujejo na preveč odgovoren način; ne da se jih več popraviti. Morda je lumpenaktivizem revolucionarjev ravno pretirana reakcija na oklevaštvo; morda je bilo treba podivjati, da je bilo mogoče premagati privzgojen — takorekoč prirojen — strah pred akcijo. (Pirjevec se je po obdobju ultraaktivizma vrnil v radikalno kritiko politično vojaške akcije. V Ljudeh se začne akcija šele problematizirati). Oče opozarja na težavnost dejavnega poseganja v svet: »Nezadovoljen si s tem, kar se dogaja krog tebe, pa hočeš seči v kolesa, ki se vrte? In s čim?« Skaže se, da s sabo: s svojim življenjem, z žrtvijo. Vanja se začenja istovetiti z mrtveci, z žrtvami, z materjo, ki se je ubila, s Torkarjem. Njegovo lobanjo nosi s sabo; premišlja: »To je, kar je ostalo od Torkarja. Spovednik moje matere je bil in moj katehet«. Kaj storiti? Kako ravnati? »Poti naravnost me uči, oče, samo poti naravnost, druge nobene hoditi nočem«. Sin roti očeta, naj mu pomaga, naj ga usmeri, naj mu pokaže svetlobo. Oče pa: »Pot naravnost? Katera pot bi to bila«? V skladu s svojim intelektualizmom in obotavljivo slovensko moralo je odgovoren; ve za težave dejavnosti. A vendar — pred sinom je praznih rok; v času revolucije tehtanja ne pomagajo, vsekakor ne mlademu človeku, ki skuša od- kriti smisel umorov in žrtev, mesto, na katero mora stopiti, kdor se noče poistiti z morivci. Zato: »Dejanja se mi hoče, dejanja, ti večni teoretik. Vse moje bitje kriči po dejanju. Pokaži mi ga, če ga imaš!« A Stvarnik: »Dejanje je lahko tudi prazen zvok. Kraljestva človeškega nehanja so, ki v njih velja beseda, velja resnica, velja duh. V vseh teh kraljestvih bi bilo dejanje le izgovor nemoči, skok s tira, izdajstvo«. Res, vendar to ni odgovor človeku, ki je v stiski, in narodu, ki je v stiski. Stvarnikova varianta je za mirne čase: »Zajel bom vse to gibanje, pretočil ga v epruvete, analiziral , udaril nanj pečat svoje misli, svojega iskanja«. To je mogoče storiti tudi med vojno, celo fantastično bi bilo, če bi kak sredinec res zapustil takšno analizo iz tedanjega časa. Vendar Stvarnik ni le analitik za zgodovino in zgodovine; je tudi oče, to je živo bitje v živem neposrednem razmerju s sinom, ki prosi za dejavno resnico. Te pa v pisanju za zgodovino ni. Stvarnik odpove v odnosu dejavne solidarnosti, ljubezni so sočloveka, ki je celo njegov sin. Priznava, da se ne more odločiti: »Že samemu se mi je navrgla misel, da bi šel in se damonstrativno priključil. Stopil v vrsto, bil eden njih«. Najbrž misli na brambovce. »Pa mi ni, ne morem. Prelomil bi vero, ki jo imam vase. Mar nisem glasnik duha in kaj ima duh opraviti z demonstrativnim pristopom, z vrsto, ki stoji tam ko cinasti vojaki?« Stvarnik bi izdal sebe, svojo dozdajšnjo vlogo, svojo preteklost, svojo identiteto; ni je zmogel in hotel izdati. Ostal si je zvest, a tako, da ga ima Štrucar do konca za svojega, za našega; ostal je eskivator. Kar tudi ne bi bilo nič zlega, če ne bi svoje identitete branil v najbolj odprtem pogovoru življenja s sinom; če ne bi branil sebe, pozabljajoč, da je krščanska solidarnost in ljubezen ravno v tem, da človek pozabi nase, ko je drugi v stiski. Ko je branil sebe, je izdal sina, otroka: sočloveka. S tem je izdal tudi sebe, ker je izdal človeka. Zato mu je na koncu vse njegovo delo — spisi, teorija — zazvenelo kot papir in ga je požgal. Začutil je, da se je odpovedal živi resnici v imenu mrtve. Vanja funkcionira drugače. Ni si važen sam; važni so mu drugi: žrtve. Drugi kot trpeči, kot soljudje, za katere mora kaj storiti, ker se ne znajdejo; ker so nebranjeni. Ti ljudje mu pomenijo ljudstvo v pozitivnem pomenu besede; če hočete, božje ljudstvo, občestvo, ne napadalna ulica. Takole grenko odgovarja očetu: »In bo knjiga. Krog mene pa poginja ljudstvo«. Rešiti mora vprašanje živih, ki umirajo, ne abstraktnega bistva zgodovine. »Vprašal sem te prej, kje je to ljudstvo in kaj je. Glej odgovor!« Vanja odgovarja v trenutku, v katerem oče prizna, da ne ve. Oče govori o sebi, o svojem tehtanju in previdnosti, da ne bi naredil napake; Vanja sočuti z umirajočimi, z resničnimi. Vanja o ljudstvu: »Tam zunaj je. Zemlje se drži kot dojenec materinih prsi; sesa jih, prijema jih, zasaja svoje nohte vanje. Ona mu je dala vse, in ji vrača, kolikor more. In tako živita v tajnem prisluhu, s srcem ob srcu, z žilo ob žili. Trpita eno trpljenje in čakata na poveličanje«. To je predvsem kmečko ljudstvo. Bistvena je zveza pravega ljudstva z zemljo. (Majcnova nameravana pesniška zbirka iz časov med prvo vojno je nosila naslov Zemlja). Ulica je kanal mesta, ki bruha govno; mesto je razzemljeno. Prava tla, vir, temelj, varstvo, življenje je na deželi; o tem govorita tudi drami Matere in Meho. Spopad revolucije in kontrarevolucije je v veliki meri spopad mesta in vasi, kar se je pokazalo še mnogo bolj po vojni, v načrtni deruralizaciji, ki je niti dramatiki zagovorniki režima — Potrč v Kreflih — niso mogli zakriti. Revolucija nadaljuje tendenco slovenskega liberalizma, a jo radikalizira, ker je ostal liberalizem na pol pota; ne ostri liberalizma kot ateizma, ampak predvsem kot deteritoria-lizacije, kot odstranjevanje tal, človekove varnosti, maternice, gnezda, kontinuitete, tradicije. Medtem ko je kontrarevolucija konservativna: na vso silo brani staro koncepcijo sveta in družbe, srednjeveško, stanovsko, v kateri je kmet zdrava podlaga mestu in državi. Ta koncepcija ne pozna razvoja oz. ga ne podpira, ker v tem svetu ne vidi končne rešitve. Ta svet je kraj trpljenja. Mogoče je le zvesto trpeti, biti pošten, se mučiti v potu svojega obraza in čakati na poveličanje, ki bo prišlo od Boga, ne od človeka in njegove akcije. To ljudstvo je povsem nekaj drugega kot »predmestja, oni rob, ki nejasno loči hišo ob hiši od razgubljenih naselij. Tam, kjer se zbira odplaka iz kanalov, kjer si lačna množica lovi kosilo iz pomij«. Oz. če so ljudstvo tudi ti nesrečneži, nimajo pravice nasilno upirati se; kajti »tisti, ki živi tiče pod nebom, pregrinja mizo tudi njim«. S stališča marksistične kritike je takšno razglabljanje smešno, otročje in neodgovorno. Slovenska dramatika 20. in 30. let, a že od Vošnjakovega Premogarja iz 90. let prejšnjega stoletja nazorno kaže, da teh nesrečnežev, proletariata ne živi Bog kot tiče pod nebom, ampak da marsikdaj črkujejo od lakote, od pregaranosti; vsekakor nihče zanje ne skrbi, če ne skrbijo sami zase. Tudi Krekova krščansko socialna organizacija le blaži njihove muke; in težko bi kdor koli trdil, da so družbeno enakopravni. Revolucija je reakcija na egoizem, buržoazije (Golouhova Kriza), na kratkovidnost uživaških zgornjih razredov, na balkansko ali roparsko ali despotsko pogoltnost, nepravičnost, izkoriščevalskost gospodarjev. Bolj ko so vladajoči razredi dopuščali sodelovanje in enakopravnost vseh razredov, manj prepričljiva je bila stalinistično milenaristična obljuba idealnega sveta, doseženega skoz krvavi preobrat. Tudi Majcen ne kaže posebnega ali sploh nikakršnega razumevanja za razloge, ki so hlapce in dekle pognali v revolucijo. Mirna, ki se noče udeležiti Dorinega organiziranega ovajanja in je v tem za dramatika pozitivna figura, takole razlaga svoj konservativizem. Gospa ji je večkrat rekla, naj si kar vzame od njenega perila, po želji, »Kadar boš kaj potrebovala, kar sezi!« Mirna pa: »v jok: Roka naj se mi posuši, če bom kdaj stegnila prste po tej gizdi,« po židanem perilu in milih. »Taka sem od nog do glave, kakor me je mati oblekla, ko sem odšla služit, in taka hočem ostati, pa če bi me morali z metlo položiti na oder«. Ta miselnost — ohraniti vse, kot je bilo, ostati istoveten s preteklim sabo — je povsem neprimerna za moderen čas, ki so se mu morali odpreti tudi Slovenci. Dokler so konservativne vladajoče sile ta razvoj k enakosti zadrževale, velika krivda je na fevdalni slovenski Cerkvi, so spodbujale nasilne programe, za zrušitev družbe, kajti po reformistični plati ni šlo. Je res pravično, da nosi ena kmečko opravo, ker je na kmetih rojena, druga pa žido, ker se je brez svoje zasluge znašla v mestu na odličnem položaju soproge univerzitetnega profesorja? Stalinizem je podrl vsa dotedanja razmerja, utemeljil je plačilo po drugačnih zaslugah, po politični oblasti, po korupciji. Vendar ima zaslugo: izravno težil je staro v večnost težeče stanje stanovske družbe, ki je pomenilo oviro za evropeizacijo Slovencev. Stalinizem je zlo, ki si ga je poiskala zgodovina, da bi se družba mogla odpreti, mobilizirati. Sokriv je tudi Stvarnik, ki je teoretiziral, namesto da bi popravljal družbeno zaostalost; ki se je ukvarjal s staro zgodovino, namesto da bi ustvarjal novo, reformno, humanizirano. Prepuščati konkretne zadeve tega sveta — socialne, politične, gospodarske — Bogu je za evropski tip moderne zgodovine hudo problematično. S tega vidika pa postane problematičen tudi Vanj in — in avtorjev — odnos do revolucije, do dramske in do konkretne. Če ne drugega, je vsaj precej enostranski. Vanjin govor je globoka izpoved nekega stališča: »Še dalje, oče, še dalje pošlji oko! Pa se ti bo razkril svet, ki je pred tisoč leti živel natanko tako, kakor živi danes, ker se pač življenje v globini ne spreminja«. V globini ne, a človek ne živi le v globini; tu je kavelj, na katerega se je ujela kontrarevolucija. Ohraniti družbo z 80. odstotki kmetov sredi Evrope in dvajsetega stoletja bi bila svojevrstna klerikalna albanizacija Slovenije; dejansko bi bila povsem neizvedljiva, kajti katoliška usmeritev se je po drugi vojni zelo spremenila; ne le po drugem vatikanskem koncilu. Opustila je zamisli političnega krščanstva in se umaknila tja, kjer je zares močna: v vero in etiko. Kritizirala je tako komunizem kot kapitalizem, ni pa več ponujala izdelanih lastnih rešitev; to ni njem posel. Iz Vanjinih besed sledi drugačna zamisel od današnje katoliške. Vanja skuša ohraniti tip družbe, v katerega je preprečen vdor industrializacije. Odnos delavca, meščana, menežerja, industrij ca, da ne govorimo o človeku informacijske dobe, do sveta, tudi do živali je povsem drug kot kmetov iz srednjega veka. Ne pravim, da je dober. Industrializacija je prinesla reifikacijo; stalinizem je reificiral vse, tudi človekovo dušo. Današnja ekološka gibanja obnavljajo posluh za naturno, za živo, za enakopravnost živih bitij. A ne zunaj in 'brez industrije oz. tehnike; tega si nobena sodobna nacija ne more privoščiti, razen z absolutno militarizacijo kot družba kmetov in vojakov. (Kitajska maozedongovska usmeritev). Danes je ozemljevanje nujno, posluh za živost kar se da potreben. A kot korektiv, ne kot edina smer. Vanja pa jo zastopa kot edino. Takole govori o pravem človeku-kmetu: »Redi kozo, še bog če je krava ali vol med rogovi pa vidi križ, ki je z njim blagoslovljena vsaka žival, postavljena človeku v službo. In kakor ta žival diha, diha mir in ta mir je mir vseh. Mir narave, mir milim in modrim zakonom stvarstva uklonjenega človeškega srca«. Vanja vidi slovenskega kmeta v neposrednem stiku z zemljo in živaljo, vidi simboliko jaslic, ne pa realitete industrijskega proletariata in zaposlenih v terciarnih dejavnostih, ne vidi birokratizacije in komercializacije, marketingizacije in panurbani-zacije zahodne družbe, v kateri je — bo — treba dosegati nujni mir, srčno in dušno harmonijo na drugačen način. Stvarstvo nikakor ni tako milo in modro urejeno, kot bi rad veroval Vanja. Drama tudi pokaže, da ni; Vanjina želja in boj se ne posrečita. Sociolog bi dejal: tudi zato ne, ker nista usklajena s trendom socialno gospodarske zgodovine. Stalinizem je bil na eni strani prav tako povsem neusklajen, a je obljubljal, da je; mesto mu je verjelo; vsaj del mesta; in tudi vsaj del dežele. Revolucija pa ni bila le stalinistična; bila je tudi narodno osvobodilna in humanistična. Humanistično krilo je sicer potegnilo krajši konec, a današnje antistalinistične, osvobojevalne, evropeizirajoče tendence zidajo na njem. Je pa točna Vanjina kritika lumpenrevolucije, ki še danes usodno determinira slovensko in še bolj jugoslovansko družbo, kot kaže sodobna slovenska dramatika. »Davno pred Lassallom je bila oznanjevana ta nova vera. Vera, ki se povrača kot koze po vojskah: Vzemi, kjer najdeš, in obrni,kakor veš! Marx in Engels moreta sesti samo k polni skledi. Za prazno mizo — je prazen tudi nauk. Kapitalizem se je moral prej nesramno raz-bohoteti, da bi mogel apostol socializma deliti svoje dobrote«. Danes vidimo kruto resničnost te napovedi. Lumpensocializem je zajedanje in ropanje: delitev tega, kar ustvarijo drugi. Stalinizem ali realni socializem se kaže po eni strani kot suženjska, po drugi kot neproizvodna, vsekakor pa kot nemoderno proizvodna družba. Tudi v današnji Jugoslaviji se večina energij porabi za debate in spore okrog delitev; za udejanjanje ideje egalitarizma, ki je lumpenegalitarizem. (Glej Zeleno dolino itn.). Na osnovi takšnih sklepanj in mozganj se Vanja odloči za neposredno kontraakcijo, za kontrarevolucijo: »Toda meni ni ne za zgodovino ne za teorijo.Storil bom, kar je storiti treba, čeprav me oznamenijo za Efialta... Nikar, oče, račjih poti! Ven pojdem. K onim drugim pojdem«. Te druge idealizira, kot Martel, Špelca itn. svoje: »Zapisali so se smrti, kakor so, ker jim je ljubša od takega življenja«. Vanja misli na tiste, ki so čutili kot Balantič; ne ;na filonacistični del akterjev. »Ni ga med njimi, ki bi bil zmožen nečednega dejanja«. Vanja — in dramatik z njim — izključita reali teto politične policije, pri kateri se je kasneje stalinistična le učila; delata se, kot da kontrarevolucionarji ne mučijo po zaporih, ne ubijajo, ne služijo nacistom, sicer v prepričanju, da jih bodo naciste, izkoristili v svojem boju z boljševiki; a eno je prepričanje in načrt, drugo je fizično zgodovinska fakticiteta. Ta je brambovcem okrenila hrbet. Dejstev, o katerih poročajo Svet, Rojstvo, Preizkušnja itn., ni mogoče zbrisati; povojni zapori so nadaljevali medvojna, povojna mučenja (Noč do jutra, Dialogi...) medvojna (Za koga naj še molim'?). Je pa v Vanji idealizem drugačnega tipa, kot je v Krimu, Špel-ci, Martelu, dr. Pernetovi (Operacija) itn. Junaki enobejevskih dram imajo za svojo sveto dolžnost, za veliko moralno dejanje, če na kakršen koli način lahko odstranijo, likvidirajo sovražnika, ki ga imajo za hudiča — in ki do njih tudi je hudičevski, neusmiljen. (V podobi župnika Klavore, padreja Giovannija itn. je kvečjemu hinavski). Obveščanje — ovajanje — je del narodne dolžnosti. Pozabljajo, da na ta način prihaja vsa družba pod totalitarni policijski nadzor; da postaja vsakdo drugemu sumljiv in njegov izdajavec; da se solidarnost, nastala v skupnem požrtvovalnem boju, po tej poti ne le razkraja, ampak maže, ubija, onemogoča. (Zgodba Dialogov itn. Zgodbe bivših prijateljev, ki so si reševali življenja, potem pa se špijonirajo, zapirajo, mučijo, si podtikajo, si lažejo, ravnajo povsem v nasprotju s kakršnim koli humanizmom. — Glej Delavnico). Obveščanje je med vojno zvezano z veliko požrtvovalnostjo, z nevarnostjo, s tveganjem življenja; je del totalne vojne. Sovražnika je treba streti, kjer koli seda. Za sovražnika ni milosti; do njega nikogar ne vežejo humanistična načela. Sovražnik pa je, kot vemo, vsakdo, ki ravna drugače; ki brani drugačno socialno politično ureditev. Sovražnik je hudič. Vanja sodi in ravna drugače. Ni klerofašist. Odloči se, da bo vojak, a ne total(itar)ne sorte. O Štrucarju se prepriča, da je vodja likvidatorjev; ima ga za počelo zla, za diaboličnega. In vendar ga ne ovadi, čeprav bi ga mogel. (To je točka, zaradi katere mu ostaja Štrucar hvaležen in mu skuša rešiti fizično življenje). Takole Vanja premišljuje, ko si zamišlja, da bi Štru-carja ovadil. (Ne pove pa komu — dejansko okupatorju. Naj dramatik že tako predeva dejstvo z rok v roke, tudi črna roka, pa naj je delovala po svoje, je delovala v skladu z okupatorjem — predvsem pa je delovala kot arhaično maščevanje, kot ubijanje in mučenje, kot samovoljna pravica, ki si jemlje moč za vračilo). Vanja: »In da ga izdam in postavim pred puške? Kaj vse bi bilo drugače, ko bi počile puške! Kolikšno olajšanje! Glava za glavo bi se zopet dvignile, ki so že klonile, da sprejmejo zanko za vrat. O, koliko src bi spet drugače bilo! In kako bi se mi ohladila vest! Vsaj nekaj bi storil omembe in spomina vrednega v tem nevrednem času«. Premišlja torej zrcalno enako kot Martel, ko je zasledil črnorokca Sava. Hudiča pobiti pomeni rešiti nedolžne, ki bodo nadaljne žrtve nezasitljivega morivca. A vendar se odloči drugače; v tem je kristjan; a v tem je tudi neustrezen vojak v totalitarni vojni. Brambovci se šele polagoma učijo od svojih nasprotnikov, kako voditi totalitarno vojno; zmerom so za fazo v zaostanku. Vanja ravna po načelih predtotali-tarne vojne; strelja le kot vojak. (Tako pa ne ravnajo Savo in njegovi). Odloča se moralno: »Šel bom... in ne bom šel. Prepoceni bi bilo. In komu bi ga izročil? Jaz — komu?« Okupatorjem seveda, čeprav tega ne reče. Zato: »Umazano bi bilo, slišiš, oče, umazano«. A spet: »Kaj mi čast, kaj mi ime, ko rod vpije po rešitvi izpod jarma sramote, ki ga tlači! Sramote lastne krvi«. In spet: »Bilo bi nečisto«. Zato: »Premislil sem si. Zamikala me je vaba za hip, zdaj vidim, da je strup. Zaželi mu — Štrucarju — blagoslovljene piruhe v mojem imenu. Ven bom šel«. Misli, da je zunaj čisto; da se bo lahko ohranil kot tretja pozicija med partizani in okupatorji, »K svojim pojdem, pa če bi bil sam, sam svoj«. Se mu je posrečilo ostati sam in svoj? Oče in sin imata še en pogovor; pred izrekom sodbe, to je, pred Vanjino smrtjo. Tudi tedaj je Stvarnik enako nebogljen kot prej. Dr. Štrucar dovoli očetu, da še zadnjikrat obišče sina. Vendar ne iz usmiljenja; želi, da oče sina prepriča, naj podpiše izjavo, da se odpoveduje svojemu prepričanju; obsojenca je treba streti do konca, zmaga novega sveta mora biti total(itar)na. Stvarnik pove vse, kar ve: »Treba je najti besedo, ki bo vredna življenja. Več vredna od življenja, od vsakega življenja. Izreci jo, pa bo življenje rešeno. Ali razumeš skrivnost?« Je ta beseda, ki ostane v drami neizrečena, Bog? Vrnitev v božje naročje? Ab- solutno zaupanje v Boga? Vanja očeta ne razume: »Pa to so le besede,« odvrne. Oče: »Besede so; v začetku je bila beseda. Pred vsem življenjem je bila beseda. Iz nje je vse rojeno, z njo vse umre. Samo kje je najti in katera je?« Res ne ve? Ali noče izreči? Je na pragu vednosti? Vendar — kaj naj ta beseda pomeni v tem hipu? Svetuje sinu, naj podpiše ali ne? Je skrivnostno izražanje znamenje Stvarnikove moči ali nemoči? Sin ga razume kot nemoč: »Ne trudi se, oče, se pravi, išči jo! Će si se po tridesetih letih nenehnega pisanja in fabriciranja knjig dokopal do te modrosti, jo boš tudi našel, tisto besedo«. Strašen sarkazem smrti zapisanega sina; posmeh izgubljenemu očetu. Stvarnik ves čas sprašuje sina: »Ali veruješ vame?« In še nazadnje: »Ti ne veruješ vame«. Sin vprašanja ne razume; odvrača: »Rekel sem. Dokler pišeš, verujem. Toda zdaj ni čas pisanja«. Stvarnikove besede pa se da razumeti tudi na drugi, na irealni ravni. Stvarnik je drugo ime za Boga. Ta hip nastopa oče kot Bog Oče; njegovo vprašanje pomeni: Ali veruješ v Boga? Dramatik je svoje stališče šifriral. Tragično je, da ga sin ni razumel. Obenem pa to nič ne pomeni, saj ni razumel njegovih besed, je pa ravnal, kot je treba: z vero v Boga. Nesporazum je ostal na besedni ravni, v očetovem srcu — ne na dejanski ravni. Vanja bi si rešil golo življenje, če bi podpisal izjavo; izjava: »Storil sem, kar sem storil, iz mladeniške nepremišljenosti in v slepem odporu proti vsemu novemu...«. Itn. »Nisem za kapitalizem in buržoazijo« itn. Izjavo pretrga. Ve, »da je vse to le pretveza za nekaj, kar ni povedano, in da hočejo, naj podpišem zločin«. Tega ne more in noče. Ostane si zvest. V tem pogledu anticipira Antigono oz. Mrakovega Ješuo (Proces). Kaj naj bi mu rekel oče? Kaj naj bi Vanji reklo njegovo dekle Sonja, ko jo sprašuje, ko jo prosi, naj bi pritrdila njegovemu dejanju? Žal dramatik ni razvil Sonjine tragičnosti, strašnega precepa, v katerem se ni mogoče odločiti. Potrditi odločitev pomeni poslati -Vanjo na morišče; ne potrditi pomeni moralno ga omajati, jemati mu notranjo trdnost. Sonja njegovega ravnanja ne more potrditi, »ker si tudi ti rojen za življenje. Vse kar se rodi, je rojeno za življenje«. To je ena od tez drame. Vendar: kje je to — pravo — življenje. Tu, v tem svetu in telesu, ali onkraj, pri Bogu? Sonja ga razume kot tostransko. Vanja jo pretresljivo roti: »Hotel bi, da pojdem v smrt z zavestjo, da imam nekoga, ki je tu, da je na zemlji ostal nekdo, ki bi bil na mojem mestu tudi raje umrl... Prikrajšaj mi trenutke pred puškami! Da ne bom sam«. Na vse prošnje en sam odgovor: »Ne morem. Smrti ne«. In gre Vanja sam v smrt. Sam? Ni ravno šele zdaj z njim pravi Oče: Bog? lumpenrivoluzione(1) 2 Taras Kermauner La rivoluzione politico-sociale slovena del 1941-45, prolungatasi anche negli anni successivi, ha lasciato diverse impronte nel teatro sloveno, dal momento che la storia la scrivono sia i vincitori che i vinti. Tra gli esaltatori e i detrattori c’è spazio per una varietà di atteggiamenti. Non c’è, né può esserci un’unica verità, ma un’illimitata serie di verità, ciascuna delle quali cerca di esprimere un proprio punto di vista. «Rivoluzione» di Stanko Majcen è appunto una di tali rappresentazioni. Questo lavoro risponde ad una serie di opere che lo hanno preceduto fin dagli anni '50 ed alle motivazioni ideologiche che hanno dominato in modo totalitario lo spazio culturale sloveno nel primo decennio postbellico. Ogni opera incarna una possibile risposta e in tal modo vengono alla luce nessi ed articolazioni perdute che si devono ricostruire. In passato furono scritti drammi di sapore apologetico che esaltavano l'eroismo ed erano caratterizzati da un rapporto positivo con la guerra di liberazione, mentre la maggior parte delle opere contemporanee rivelano un rapporto critico. Il capostipite di questa tendenza è Mrak con lavori scritti già durante la guerra o subito dopo, anche se alcuni sono stati rappresentati solo negli anni Settanta. Alcuni lavori hanno per oggetto le «liquidazioni» ad opera dei partigiani, e spesso si cerca di scavare nella problematica del mondo partigiano collocandosi al suo interno. La figura centrale di Rivoluzione è Vanja, rappresentazione del figlio dell’autore, che decise di aderire ai »domobranci« f2> e venne uc- (1) L’autore ha coniato questo e altri consimili neologismi sulla scia del Lumpenproletariat, termine con cui Marx qualificò quegli strati della popolazione delle grandi città i quali, a causa dell’estrema indigenza e dello stato di disgregazione sociale in cui vivono, sono privi della coscienza di classe che, invece, caratterizzò il vero proletariato. (Nuovo Zin-garelli). (2) Membri di un'organizzazione militare anticomunista e antirivoluzionaria nella Slovenia durante la lotta di liberazione. ciso con alcuni di essi alla fine della guerra. Il dramma porta il sottotitolo di commedia di sangue in 5 atti e si pone chiaramente dalla parte di Vanja. L’atteggiamento sociale, ideologico di Majcen è conservatore: non dimostra comprensione per ciò che è stato veramente il punto storicamente più importante del programma del-VOF: modificare il carattere subalterno della società slovena e promuoverne l’emancipazione, l’acquisizione di un consapevole autogoverno, tuttora non completamente realizzato. La rivoluzione doveva essere la condizione per un’autodecisione, lotta contro tutto ciò che si opponeva al riconoscimento della nazione come soggetto di pari diritto. Ma al radicalismo cristiano di Majcen la guerra, come qualsiasi violenza, è estranea. Egli esige una società in cui il singolo possa determinarsi secondo coscienza, e al di sopra della quale c’è Dio e l'eternità. Egli non accetta la realtà della guerra: ma senza la guerra e senza la rivoluzione non si conquista uno stato autonomo; senza lotta non c'è eguaglianza di diritti fra gli uomini. Questa è la logica di questo mondo, diversa dalla solidarietà cristiana dell'amore evangelico. E chi non aderisce a questa logica con responsabilità attiva, accetta di essere oggetto passivo degli altri, fascisti o stalinisti. Vanja, che inizialmente simpatizza per la resistenza nazionale degli sloveni contro gli occupatori, passa poi ai «domobranci» perché gli ripugnano i delitti stalinisti. Ma con questo si lascia spingere a collaborare con gli occupatori; abbandona la rivoluzione e passa alla controrivoluzione, la cui mancanza di indipendenza era ancor più evidente della subordinazione degli stalinisti al Komintern: l’URSS era lontana, ed era più facile credere alle sue promesse che accettare la realtà degli occupatori fascisti che si proponevano l'effettiva distruzione e la snazionalizzazione degli sloveni. Si è trattato di un’illusione ottica, di un autoinganno, che ha però aiutato gli sloveni a emanciparsi. Ma quando l’illusione è stata scoperta, è iniziata una nuova servitù, diversa da quella conservatrice d’impronta medievale che era stata interiorizzata, cristianizzata: quella stalinista, imposta dall’esterno. In quanto successivamente si è allentata, ha potuto rigogliosamente espandersi l’autonomia dei singoli anche se, purtroppo, in modo ancora insoddisfacente. Comunque avvenne una rottura essenziale: gli sloveni si erano conquistata la capacità di ricercare autonomamente valori adeguati al mondo contemporaneo. Oggi sono essenzialmente autonomi nella propria nazione-stato. Majcen ha presentato solamente la lotta della rivoluzione stalinista contro i difensori del vecchio sistema, i controrivoluzionari, dei quali Vanja è tipica figura rappresentativa. Il dramma così è calato nella realtà storica della Slovenia nella seconda guerra mondiale. E’ però assente un protagonista essenziale, e cioè l'occupato- re; i «domobranci» non sono collocati nel loro concreto collegamento con esso. Si allude soltanto al fatto che per opporsi alla rivoluzione si cerca aiuto dove si può trovarlo, e ciò costituisce per il dramma una macchia oscura, un problema non risolto. Con ciò anche si rinuncia ad approfondire l’analisi della figura di Vanja che decide di unirsi agli altri, presumibilmente a quelli della «guardia azzurra», partigiani di Mihajlovic, sostenitori del vecchio regime jugoslavo. Majcen tratta la materia come se fosse in corso solo una lotta fra rivoluzione e controrivoluzione; eppure gli occupatori hanno avuto un ruolo decisivo sul destino degli sloveni ed anche sulla sorte dei «domobranci» riconsegnati dopo la guerra. Se infatti ai controrivoluzionari fosse riuscito di mantenersi senza legami con gli occupatori, la loro posizione sarebbe stata del tutto diversa ed oggi avrebbero un passato più pulito, non gravato dal tradimento nazionale. Rivoluzione è, qua e là, perfino una farsa surrealista, stilistica-mente collegata al primo Majcen espressionista ed è al tempo stesso straordinariamente innovativa. E’ una farsa piena di amaro sar-casma, in qualche punto è di sconvolgente tragicità, in altri una caricatura semplificata che corrisponde al socialrealismo con cui alcuni autori hanno raffigurato i belogardisti, anticipando il grottesco nero di altri. La sua comicità ha il ghigno raccapricciante dello scampaforca. Non c’è humour, solamente coinvolgimento emotivo. Manca la distanza dalle vicende e dalla rivoluzione che è presentata in modo ipercritico, rifiutata senza riserve, senza comprenderne le ragioni, a differenza dì altri autori. Si tratta di una negazione assoluta, dalla quale derivano momenti caricaturali che deformano la farsa in «pamphlet». Majcen scrive dal punto di vista dei vinti ,ai quali non resta che la protesta morale. Tuttavia è la figura del prof. Stvarnik, padre di Vanja, a conferire all'opera un peso tragico, una nota di nero grottesco. Lo stile e la lingua di Majcen non sono solo il simbolo di una continuità storica con l’espressionismo, il riflesso del disfacimento di una parte della nazione, ma l’eco diretta della tormentata consapevolezza che la vecchia generazione non è stata in grado di indicare la strada ai giovani. Una parte ha indirizzato i giovani al male, mentre l’altra non ha capito, si è smarrita, dimostrando un atteggiamento pilate-sco chiamandosi fuori dal conflitto in modo irresponsabile. Vanja non è una figura del tutto risolta, non è ben resa nel suo impegno morale per una umanità onesta che opera per conservare la propria coscienza pulita. Non è sviluppato come combattente, cioè come uomo che secondo una logica obiettiva non può avere le mani pulite. Stvarnik è eccezionalmente ben colto, splendida figura letteraria di uomo che si è smarrito e perciò oggettivamente favorisce il male. Si tratta di colpevoli senza colpa, uomini che sono stati dalla parte della rivoluzione che poi li ha puniti benché incolpevoli. Forse Majcen critica in Stvarnik se stesso e si attribuisce una colpa grave. A differenza di altri autori, giunge a mettere in ridicolo e schernire se stesso. La rivoluzione è intesa unicamente come «lumpenrivoluzione», violenza totalitaria di strada sulla coscienza degli uomini, sulla cultura, sull’ordine divino e umano; vendetta, caos, sovvertimento dei rapporti e dei valori fino allora esistenti. Il popolo di Majcen è plebe, cloaca cittadina incolta e nemica della cultura, di ogni bellezza e raffinatezza; moderna barbarie. E’ moltitudine infuriata dalla quale vengono reclutati i combattenti ed i reparti d’assalto. In una parola qui è «lumpenproletariat». Una gran parte della drammaturgia slovena postbellica è su questa intonazione piuttosto che su quella eroica e apologetica. Il popolo è mostrato come stupida riserva di despoti: gli è stato promesso che alla fine governerà per sempre, che si tratta di distruggere le «élites» e che dunque può liberamente abbattere ogni valore. Libertà è intesa come bisogno di recidere ogni legame con qualsiasi valore, in quanto non avverte la necessità di una vera autonomia, la quale invece esige fedeltà a princìpi liberamente scelti. E' rivolta contro la cultura europea e la tradizione cristiana. In Rivoluzione il popolo assume le sembianze della servitù che si ribella al proprio datore di lavoro. Mima, la domestica di Stvarnik, abbandona il padrone: è cattolica e resta confusa tra la propaganda rivoluzionaria e la fedeltà al padrone. Kristina, la portinaia, diventa delatrice, importante quadro del servizio informativo di sicurezza. Ma quando viene a sapere che il marito è morto in un lager, il dolore la distrugge e impazzisce. Quando è chiamata quale rappresentante del popolo al processo di Vanja, non vota per la sua condanna a morte: in lei vince la pietà umana, ma a prezzo della pazzia. Il che significa che il popolo stesso si disgrega. L’allettamento di diventare padrone è irresistibile, e la classe dei servi è troppo sollecitata dal momento che è stata educata cristianamente e il nuovo ruolo cozza con la vecchia natura. Nella scissione si disintegra e così si radicalizza e si insedia il caos. Forte e attiva rimane solo Dora, la domestica di Strucar, suo braccio destro: esempio di combinazione di «lumpenproletariat» (la servitù) col tiranno, cioè col demagogo. Rivoluzione è anche la risposta e la continuazione dei «Servi» di Cankar: Vanja è l’autentico erede di Jerman. Lotta per lo spirito europeo, contro il clericalismo rosso, per l'illuminismo, per la cultura e l’autonomia dello spirito, per la solidarietà e la bellezza, ma è in conflitto con i genitori, non si lascia determinare dal parroco, si ribella e agisce secondo la tradizione di Levstik. Anche di fronte al tribunale non cede, rifiuta la possibilità che gli viene offerta del lavoro a vita in miniera e sceglie l’onore della morte come vittoria morale. Vanja diventa attivista morale e combattente, si sente autorizzato a difendersi benché la sua rivolta non sia contro gli occu-patori bensì contro i rivoluzionari. I servi di Cankar si trasformano così in agit-prop, e Jerman diventa un guerriero. Per un altro verso si tratta di una risposta negativa ai «Servi»: Cankar rivela certamente la realtà quando descrive come il popolo viene ingannato, manipolato, istigato dal parroco: puro oggetto dei demagoghi, i futuri fascisti che non si accontenteranno come il parroco e come i classici clericali di tenere a freno il popolo, ma vedranno in esso una possibilità per l’azione, testa d’ariete con cui far saltare in aria il vecchio mondo. Al tempo di Cankar il fascismo non si era ancora sviluppato in Slovenia. Il popolo era ancora timorato di Dio, cioè ubbidiente agli ammonimenti. In Rivoluzione il popolo è altrettanto sottomesso ai nuovi padroni, ma ha perso il timor di Dio e l'obbedienza reverenziale alla dottrina, alla Chiesa e alla moralità esteriore. Majcen mostra tutto questo, ma non lo sviluppa come altri lavori della drammaturgia slovena del dopoguerra. In Rivoluzione il popolo è rimasto il medesimo dei «Servi», solamente il modello dei padroni è cambiato. Il classico autocrate, il burocrate clericale, il parroco dell'epoca totalitaria di Metternich la cui funzione sociale era quella di proteggere il regime e difendere la società esistente, si è trasformato nel tiranno rivoluzionario il cui obiettivo è demolire la società esistente impiegando per questo qualunque mezzo. Majcen vede l’essenza della rivoluzione proprio nell’uccisione pianificata, nel terrore interiore, in una serie di «liquidazioni» con cui rimuovere chiunque la pensi diversamente. La rivoluzione è guidata da una «élite» settaria, militare, che si copre col manto di vaste moltitudini popolari. Allo Jerman di Cankar non è dunque riuscito di educare il popolo sloveno, o meglio l’illuminazione è avvenuta soltanto nel senso della seduzione, della fanatizzazione: sono state inculcate promesse millenaristiche del mondo ideale con la lusinga di goderle. Sono state mostrate scorciatoie illusorie alla felicità che conducono dritte dritte in paradiso: basta fare la rivoluzione, eliminare i rappresentanti del vecchio, ingiusto mondo classista. Queste scorciatoie non passano attraverso la fatica dell’autodisciplina, dell'autoeducazione, dell’autonomia spirituale della singola persona, lungo e faticoso lavoro che passa per i capillari della so- cietà. E’ una riedizione del gregge del parroco che si realizza in una nuova ideologia. Rappresentante del popolo — quasi un piccolo Marat sloveno — è Dora. Indottrina Mima e Kristina con un breve corso agit-prop. «Cos’è la reazione? E’ la gente che non vuole ciò che vogliamo noi». Viene ordinata la lotta totalitaria — la guerra — contro tutti coloro che non si assoggettano al fronte unitario. Alla fine il popolo diverrà una forza emancipata, potere, ma in realtà sarà manipolato più di prima. I nuovi padroni non subentrano come padroni, ma come liberatori dei servi e delle serve. Se il popolo giunge al potere, la società classista finirà. Non ci sarà più il faticoso lavoro in fabbrica: il proletariato sarà abolito. La gente esegue con solerzia le direttive del potere, convinta di operare spontaneamente per il proprio interesse. E’ il centro che ha la supervisione di tutto. Da ciò deriva la militarizzazione della rivoluzione. A partire dalla società slovena prebellica fondata sull’autoritarismo, tradizionale, burocratica, di tipo europeo, che limitava lo sviluppo civile, ossia l'emancipazione poliarchica dei soggetti avvalendosi del potere tradizionale della dinastia, della Chiesa, della burocrazia e dei residui feudali, erano possibili due vie: la regressione totalitaria o il progresso poliarchico. La via più breve alla democrazia attraverso la rivoluzione, la massificazione generale e la socializzazione è in realtà la via più lunga. L’essenza della «lumpenrivoluzione» — la rivoluzione della gente di strada, degli straccioni — sta nella vendetta. Deriva in parte dal concetto arcaico della giustizia come risarcimento continuo (dente per dente, testa per testa) e in parte come desiderio del singolo di godere nella distruzione. La vendetta si esplica su quelli che sono additati come nemici, rivali politici. Dora: «Vedi, la scopa è una spada. Altre teste cadranno in questa casa. Non ci sarà più padre né madre, né fratelli. Tutto sarà cancellato dalla superficie della terra. Eravamo polvere e pietrisco, oggi siamo la pietra angolare dell'edificio che si ergerà contro il cielo». E Kristina: «Verrà un nuovo stato, un nuovo mondo, una nuova vita e tutto ciò che è vecchio sarà messo sotto i piedi». Il nuovo è annientamento finale del vecchio e di tutto ciò che è negativo. Condizione per il nuovo è la morte. La lumpenrivoluzione» esige l'uccisione di tutto ciò che esiste di diverso, comunque si manifesti. Ma perché tutto ciò possa compiersi e sia sentito come un dovere, come imperativo morale, occorre prima eliminare il cristianesimo. La guerra esclusiva della «lumpenrivoluzione» contro il cristia- nesimo è conditio sine qua non. Un’eventuale collaborazione può essere solo temporanea, tattica. E questo aveva ben visto Vanja, solo che aveva trascurato il fatto che l’opposizione armata contro l’uccisione non elimina la rivoluzione e l'uccisione, ma la accrescono. La controrivoluzione diventa essa stessa parte del caos e dell’esclusivismo che la rivoluzione introduce nel mondo. La soluzione non sta nell’imitare i metodi rivoluzionari e neppure nella semplice preghiera con la quale il cristiano si lascia macellare. Qual è allora la terza alternativa di salvezza? Come realizzare in mezzo alla guerra una società civile cristiana che purifichi il cattolicesimo dall’autoritarismo feudale, faccia del servo sottomesso un soggetto emancipato, dal momento che la società umana non è una Civitas Dei ma una unione di corpi che si regola secondo le leggi di questo mondo? Il cristianesimo, ma anche il giudaismo, insegnano: non uccidere! Ma se è vietato comunque uccidere, allora è vietata anche la rivoluzione, e quando la controrivoluzione uccide diventa essa stessa rivoluzione. E tale è in effetti diventata nell’ideologia dei Rupnik, Kociper, Javornik: ideologia e prassi in concorrenza col bolscevismo, tentativo sloveno d’imitare con proprie connotazioni la rivoluzione fascista tedesca. Una variante degli ustascia, ovvero di tutti i movimenti rivoluzionari che, nel parallelogramma delle forze internazionali, si sono dovuti appoggiare al nazismo o al fascismo, come la sinistra slovena si era appoggiata al bolscevismo russo. Ma finché resta valido il cristianesimo, sono impossibili sia rivoluzione che controrivoluzione. Finché il cristianesimo non dimostra comprensione per l’attivazione dei soggetti, finché mantiene gli sloveni nel ruolo di esecutori ubbidienti, è storicamente comprensibile e naturale che diversi atteggiamenti anticristiani cerchino di sopprimerlo, e che analoghi atteggiamenti si insedino nella stessa organizzazione istituzionale affermandosi come clericofascismo, come Chiesa guerriera negando lo spirito cristiano nei suoi fondamenti. C’è una soluzione nell'ammet-tere, da parte del cristianesimo, le guerre nazionali di liberazione senza promuoverle né impedirle? Ma con questo consentirebbe l’uccisione. Per il cristiano è però ammesso uccidere per difendersi. Ma quando cessa la difesa? Forse che ogni imperialismo non si è posto come difesa dei propri interessi? E’ in agni caso necessario il peccato? Deve necessariamente peccare anche la Chiesa? Deve necessariamente uccidere perfino il cristiano se vuol sopravvivere? E' Vanja un tale cristiano, solo che Majcen non ha saputo mostrarlo in questa luce, non è stato capace di problematizzare la sua decisione per la guerra facendone un eroe? Perché l’uomo possa e debba sempre più uccidere, deve prima aderire alla parola d’ordine che tutto è permesso. Alla domanda di Vanja in che cosa consista e dove stia la volontà del popolo, Stvar-nik risponde: «E' ottenere quello che non puoi ottenere da solo e mai ti sarebbe consentito perché va oltre il tuo potere e la tua autorità, per quanto tu lo voglia». Definizione questa dell’arbitrio e della trasgressione delle leggi e dei limiti umani. Singoli individui o gruppi tentano di ottenere con la lotta un potere assoluto attirando a sé le masse e convincendole col promettergli il saccheggio dopo la vittoria e l’usufrutto del benessere senza duro lavoro. Il «lumpenproletariat» non è la stessa cosa del rivoluzionario. Il popolo raggiunge una pseudoemancipazione quando diventa quadro rivoluzionario: diventa «lumpendespota». Umanizzare il popolo per i rivoluzionari significa dare a dei miserabili un’ideologia fanatica che li inebria di autentica passione. E’ questo l’acculturamento del popolo da parte dello stalinismo e del fascismo. Gli apprendisti del diavolo suscitano il caos nella convinzione di governarlo, ma la drammaturgia slovena mostra che alla fine ciò non è più possibile: il sistema si disgrega proprio perché alla base è strutturato caoticamente, fondato sulla demagogia e sul «lumpenstil». Un punto fondamentale, tragicomico, grottesco e allucinante è l’episodio del teschio. Il dr. Strucar ordina la liquidazione di Torkar, professore di teologia, uomo che Stvarnik descrive come simpatico, altruista, sincero, acuto, un «buon collega», un benefattore. La decisione appare immotivata, ma Stvarnik tranquillizza la propria coscienza: «Ah, è proprio una vittima. Ogni trapasso da un’epoca all’altra comporta fatti del genere... non tentenniamo per questo! Chi sta in alto sa bene perché lo ha sacrificato». Gli studenti di medicina si preparano per un esame decisivo. Poiché hanno bisogno di un cranio per il loro studio, ottengono che alla dissezione anatomica preparino allo scopo la testa di Torkar. Questa testa diventa elemento simbolico del dramma. L’uomo non è l’uomo come lo ha fondato il cristianesimo — ed anche l'umanesimo — ma è solo un mezzo per qualcosa d'altro, magari per la rivoluzione. Sekirnik, studente di medicina, esecutore e carnefice, attende le direttive del comitato. Sostiene che bisogna dimostrarsi inesorabili proprio verso gli intellettuali, passando oltre i cadaveri. Eppure un giorno sarà un medico: i «lumpendespoti» si scelgono come copertura culturale i propri barabba tra la finta intelligenza per ingannare la gente. Egli dice infatti: «Ah, l’intelligenza! Non ho ancora scoperto un avversario così ripugnante come la pigra, marcia intelligenza che sa di muffa... Bisogna continuare a lavorare fino a che le fosse ne saranno colme». Sekirnik è la figura più negativa, ma l'autore lo guarda solo dal- l’esterno, lo rifiuta unilateralmente, senza un'analisi più. generale. Eppure uomini di questo tipo hanno anche sacrificato la vita in azioni temerarie, anche suicide; ma sono stati al tempo stesso primitivi e disumani specie quando sono giunti al potere e sono entrati nella polizia politica. Strucar, il capo di Sekirnik, è un despota potente: accusatore, giudice ed esecutore, riunisce nelle sue mani un potere indivisibile di cui non deve rispondere a nessuno. Il peggio è che è un uomo assolutamente normale, non un malfattore patologico; un collega ammodo, confuso dall’idea millenarista della rivoluzione. In Majcen non figurano mai dei veri idealisti dalla parte della rivoluzione, solo dei tipi demenziali come Strucar, persone normali che in particolari condizioni rivelano il loro delirio, la loro astratta brama d’insaziabile uccisione. Altrettanto negativa la figura del giudice. Interroga la madre di Sonja, e Sonja poi vede al suo dito l’anello della madre. Giudici e governanti sono capaci di tutto, sono anche ladri e briganti. Le cosiddette confische dei patrimoni dei traditori del popolo, le nazionalizzazioni, significano solamente un cambio di proprietà. Il popolo è proprietario pro-forma. L'anello è il simbolo di questo cambio, come il cranio di Torkar è il simbolo del mutamento di significato del valore della vita umana. Stvarnik si smarrisce quando sa che gli hanno ucciso il figlio: lui stesso in qualche modo ha collaborato alla sua morte. Majcen smaschera in Stvarnik l’intellettuale che vive lontano dalla realtà di questo mondo ed è perciò vittima di intrighi e asseconda il male. Egli è uno storico riconosciuto, ha scritto una serie di libri autorevoli: ma la rivoluzione e la morte del figlio lo hanno portato a rifiutare la propria vita passata, della cui vanità diventa consapevole. Giunge a bruciare tutti i suoi scritti che gli ricordano il passato. La figura dell’intellettuale è presentata sotto diverse prospettive nella drammaturgia slovena postbellica. Majcen tratta gli intellettuali con asprezza, impietosamente, non prospetta loro nessuna via di salvezza. Su suggerimento di Strucar, Stvarnik parla alla folla: tenta di esprimere la propria intima verità, convinto che la folla rabbiosa e fascistoide lo crocifiggerà, come quasi si augura per lavarsi della colpa verso il figlio. Ma invece viene sollevato in trionfo in mezzo alle ovazioni: non lo hanno capito. Non ha saputo parlare chiaramente, prender partito, sfidare la sorte, regolarsi secondo coscienza, essere schietto. Invece è stato ambiguo e la sua verità è rimasta nascosta ed estranea anche a lui stesso. Vanja invece sapeva che lo avrebbero condannato come traditore, ma tuttavia si comporta secondo coscienza. La coscienza per lui è stata più importante delle apparenze, della reputazione. Nel suo modo di agire il padre scorge il vero agire cristiano: rischio e testimonianza. L’esperienza del dramma dice che in questo mondo regnano le tenebre: decisioni oneste sono tremende e tragiche, inattuali; si dovrebbe vivere per un altro mondo. Ma come comportarsi di fronte ai dilemmi, alle tentazioni, agli inganni del mondo? Ogni raggiunta chiarezza è solo boria, autocompiacimento, pusillanimità, autoinganno. Alla fine Stvarnik sceglie Dio, la trascendenza che però non sa esprimere. Si rivolge alla fede del figlio, spera che possa aiutarlo: quel morto sarà ora la sua guida. Invoca il figlio che illumini la sua strada perché non si smarrisca. Ma è veramente possibile questo? Invoca Vanja dopo la sua morte, cioè il significato della sua vita che lui stesso — e noi — dobbiamo decifrare. Il buio non è finito. Stvarnik è rimasto per così dire a metà strada: ha tagliato i ponti alle sue spalle, ma non ha una strada chiara e coerente davanti a sé e fida nell’ispirazione che gli verrà da Vanja. Stvarnik — e Majcen — prende partito per il potere monarchico, per quel mondo originario quando Dio concesse al popolo di Israele che in luogo dei profeti e dei giudici da lui stesso istituiti eleggesse un re mediatore fra il popolo e Dio, non più messaggero divino, ma un misero uomo con scettro e corona, gravato di tutte le debolezze umane: così il governo divenne puramente terreno. Stvarnik-Majcen rifiuta le istituzioni umane, e ancor più quelle democratiche rispetto alle autocratiche. Si pone contro la pura, semplice terrestrità che culmina nel terrore fascista e stalinista, nel caos, nel disordine, nello scoppio di forze oscure sotterranee, inconsce. Ma già con questo egli dimentica che proprio il nazismo e 10 stalinismo sono sistemi totalmente autocratici che considerano 11 popolo soltanto come un alibi. L'autocrazia che lui stesso si augura, è fondata sull’autorità di Dio: ma Dio si è ritirato da questo mondo lasciando che gli uomini si governino da soli. Cioè, se questa è la volontà dì Dio, tutto è inutile, è lui a volere questa tremenda esperienza per l’uomo. Allora è ancora più giusta la morte scelta da Vanja per Dio, quale ribellione alle forze terrene e sotterranee. Stvarnik non ammette il martirio per un ordine più giusto, neppure da parte di chi sacrifica la vita contro gli occupatori in difesa dei più puri ideali e della terra slovena, perché non introducono un ordine divino ma un ordine umano, terrestre, il popolo come forma deteriore di parlamenti, ministri, presidenti. Stvarnik si basa sul comandamento di non uccidere. Ma Vanja come combattente certamente uccide. Nessuna delle due parti in lotta mortale ammette di aver iniziato la violenza, ciascuna afferma di difendersi: la rivoluzione è contro la violenza introdotta dagli occupatoti e, ancor prima, dalla borghesia capitalista; la controrivoluzione deve difendersi dalla rivoluzione. Tutti però accrescono la violenza. Ora risulta evidente perché Majcen esclude dal suo dramma gli occupatoti: per lui la rivoluzione non ha alcuna ragione morale per la sua (anti)violenza: è la forza che per prima ha cominciato a usare la violenza. Il male sta nel caos, nel disordine, nell'indistinguibilità fra vergogna e onore, nell’aspirazione che la ricchezza va ripartita ma non acquisita. La rivoluzione esige una nuova distribuzione della ricchezza. Da ciò deriva tutto il male. Secondo Stvarnik la nuova distribuzione non è più equa della precedente e si fonda più sulla rapina e sul delitto che sulla produzione. Alla fine Stvarnik ricorda ed esalta i «liquidati», coloro che sono caduti dalla parte della controrivoluzione. «I morti sono vivi. Mai li potremo seppellire così in profondità che non possano levarsi e accusarci». I morti sono i più innocenti. Unica rivoluzione è quella che sarà prodotta da Dio: l’apocalisse e il giorno del giudizio. Stvarnik è un classico, tradizionale intellettuale sloveno che crede più alla parola che all’azione, un uomo del tempo in cui gli sloveni non osavano neppure pensare ad una propria statualità politica e militare, ad una completa emancipazione. La sua paura era cautela, esitazione davanti ai fatti che obbligano ad una responsbilità diretta, senza possibilità di correzione. Forse il «lumpenattivismo» dei rivoluzionari è proprio una reazione eccessiva al temporeggiamento, forse era necessario imbarbarire per vincere una paura dell'azione inculcata con l’educazione o, per così dire, innata. Al padre che accenna alle difficoltà d’intervenire attivamente nel mondo — «non ti soddisfa ciò che sta accadendo intorno a te e vorresti modificare il corso delle ruote? E con che cosa?» — Vanja replica: con me stesso, con la vita, immolandomi. Così Vanja si identifica con i morti, con le vittime. Che fare? Il padre è responsabile a causa del proprio intellettualismo e dell’indecisione morale slovena: è consapevole delle difficoltà connesse all’azione. Tuttavia di fronte al figlio è a mani vuote. In tempi di rivoluzione la riflessione non aiuta. Non comunque il giovane che si chiede dove deve andare chi non vuol unirsi agli assassini. E così si rivolge al padre: «Fatti, voglio, fatti, o eterno teorico! Tutto il mio essere urla: fatti! Indicameli, se ne hai!». Stvarnik risponde: «Azione può anche essere un suono vuoto. La fine dell’uomo. L’azione è soltanto la risposta dell’impotenza, sviamento, tradimento». Questo non è un discorso proponibile ad un uomo, a una nazione che si trova in difficoltà. Può essere un'alternativa per tempi di pace. Stvarnik ammette di non potersi decidere. Pensa forse di unirsi dimostrativamente agli altri — ai «domobranci» — ma non può, non se la sente. Vorrebbe liberarsi dal ruolo svolto fino allora, dal suo passato, dalla sua identità, ma non ne è capace né vuole farlo. Resta un uomo che schiva le decisioni. Difendendo così se stesso tradisce il figlio e con ciò anche se stesso perché ha tradito l'uomo. Ma avverte che ha rinunciato ad una varietà viva in nome della morte e per questo alla fine brucia tutte le sue carte. Per Vanja le cose stanno diversamente: non gli importa di sé ma degli altri, dei morti. Di quelli che soffrono, per i quali deve fare qualcosa perché sono smarriti, indifesi. Uomini che per lui significano il popolo nel senso positivo della parola, comunità, non gente aggressiva di strada. Perciò replica aspramente al padre: «Ci saranno libri. Ma intorno a me la gente muore». Si deve risolvere il problema dei vivi, non l’astratta essenza della storia. E il padre non ha risposte: parla solo di sé, della sua cautela che vuol evitare errori. Vanja quando parla col padre del popolo si riferisce soprattutto ai contadini, quelli che sono legati fisicamente alla terra madre; la strada invece è il canale della città che vomita merda: la città è alienata dalla terra. Il vero suolo, l’origine, il fondamento, la sicurezza, la vita è nel paese. Lo scontro fra rivoluzione e controrivoluzione è in gran parte lo scontro fra città e villaggio, come si è rivelato in misura anche maggiore dopo la guerra con i progetti di deruralizzazione che neppure i drammaturghi difensori del regime hanno potuto nascondere. La rivoluzione prosegue la tendenza del liberalismo sloveno, ma la radicalizza perché il liberalismo è rimasto a mezza strada: non acuisce il liberalismo come ateismo, ma soprattutto come sradicamento dalla terra, dalla sicurezza dell’uomo, dall’utero, dal nido, dalla continuità, dalla tradizione. Al contrario, la controrivoluzione è conservatrice, difende con tutte le sue forze le vecchie concezioni del mondo e della società medievale, classista, per cui il contadino è il fondamento della città e dello stato. Questa concezione non conosce evoluzione perché in quel mondo non vede alcuna salvezza finale. Il suo mondo è il regno della sofferenza e forse è solo possibile soffrire con fedeltà, essere onesti, affaticarsi e attendere la glorificazione che verrà da Dio e non dall’uomo e dalla sua azione. Questa motivazione di popolo è alquanto diversa da quella del suburbio «dove una moltitudine affamata va a caccia di cibo tra i rifiuti». Se popolo sono anche quegli sventurati, essi non hanno diritto di ribellarsi con la violenza. La drammaturgia slovena degli anni ’20-30 — ma già alla fine del secolo scorso con «I carbonai» di Vosnjak — mostra chiaramente che questi infelici proletari crepano di fame e di fatica, che nessuno si cura di loro se non ci pensano essi stessi: sarebbe difficile affermare che sono socialmente eguali di fronte alla legge. La rivoluzione è la reazione all’egoismo borghese, alla miopia delle classi superiori, alla rapina della dispotica ingordigia, all'ingiustizia, allo sfruttamento da parte dei padroni. Quanto più le classi governanti hanno promosso la collaborazione e l'eguaglianza di diritti di tutte le classi, tanto meno convincente è apparsa la promessa del millenarismo stalinista di un mondo ideale raggiungibile attraverso una sovversione sanguinosa. Majcen in definitiva non porta alcuna spiegazione plausibile del fatto che sono i servi e le serve a promuovere la rivoluzione. Conservare tutto com’era, restare identici al proprio passato, è una concezione inadeguata ai tempi moderni, alla quale anche gli sloveni dovettero opporsi. Mentre le forze dirigenti impedivano uno sviluppo verso la parità di diritti — e una grande colpa è attribuibile alla Chiesa slovena d’impronta feudale — venivano avanzati programmi per la distruzione violenta della società perché non erano praticabili vie riformiste. Lo stalinismo ha abbattuto tutti i rapporti fino allora esistenti, tuttavia ha avuto un merito: ha squilibrato il vecchio immutabile stato di oppressione della società classista che rappresentava un ostacolo per l’europeizzazione degli sloveni. Lo stalinismo è un male cercato dalla storia perché la società potesse aprirsi e mobilitarsi. Complice è anche Stvarnik, che si è perso nella teoria invece di correggere l’arretratezza sociale; si occupava di storia antica invece di crearne una nuova, riformista, umanizzata. Affidare i fatti concreti di questo mondo — sociali, politici, economici — a Dio, è molto problematico per la moderna storia europea. E da questo punto di vista diventa problematico anche il rapporto di Vanja — e dell’autore — con la rivoluzione, sia nel testo drammatico che nella realtà. E’ per lo meno alquanto unilaterale. Il discorso di Vanja è una profonda confessione di un certo punto di vista: «Padre, spingi lo sguardo ancora più lontano! Scoprirai un mondo che mille anni fa viveva come oggi, perché la vita nelle sue fondamenta non cambia». Nelle fondamenta no, ma l’uomo non vive solo nelle fondamenta; qui è il gancio a cui si attacca la controrivoluzione. Mantenere una società con l’80 per cento di contadini in mezzo all’Europa del XX secolo sarebbe un’autentica albanizzazione clericale della Slovenia. Vanja però cerca di conservare un tipo di società nella quale è impedita l’industrializzazione. Il rapporto dell'operaio, del borghese, del manager, dell'industriale — per non parlare dell’uomo dell’informatica — col mondo, anche con gli animali, è completamente diverso da quello dei contadini del medioevo. Vanja però rappresenta quella soluzione come unica. Vede il contadino sloveno in immediato contatto con la terra e gli animali, vede simbolicamente la stalla e non la realtà del proletariato industriale e di coloro che sono impiegati nelle attività terziarie; non vede l’urbanizzazione della società occidentale in cui è — e sarà — necessario raggiungere la conciliazione e l’armonia dei cuori e delle anime in maniera diversa. La realtà concreta non è in alcun modo così pacificamente e saggiamente regolata come vorrebbe credere Vanja. Un sociologo direbbe che il desiderio e la lotta di Vanja non possono realizzarsi anche perché non corrispondono al «trend» della storia sociale ed economica. Lo stalinismo è stato altrettanto non conforme, ma aveva promesso di esserlo e la città gli aveva creduto, o almeno una parte della città ed anche almeno una parte della campagna. Ma la rivoluzione non è stata soltanto stalinista: è stata anche di liberazione nazionale ed umanistica. L’ala umanistica ha certamente perseguito un fine più limitato, ma le tendenze antistaliniste, libertarie, europeizzanti costruiscono su di essa. Sulla base di queste deduzioni ed elucubrazioni, Vanja si decide per la controrivoluzione. «Non mi interessa la storia né la teoria. Farò ciò che è necessario fare... Vado con gli altri». Con quegli altri che idealizza, quelli che «si sono prenotati la morte, così come sono, perché a loro è più cara di questa vita». Non li considera capaci di azioni poco pulite, o dei filonazisti: come se i controrivoluzionari non torturassero nelle carceri, non uccidessero, non servissero i nazisti nella lotta contro i bolscevichi. Ma una cosa è la convinzione e l’intenzione, altro è l’effettualità della storia. E questa ha voltato le spalle ai «domobranci». L'idealismo di Vanja è di tipo diverso rispetto a quello degli eroi della drammaturgia NOB. Vanja giudica e si comporta altrimenti: non è un clericofascista, decide di diventare un combattente ma non di tipo totalitario. E’ convinto che Štrucar è il capo dei «liquidatori», lo considera il principio del male, ma tuttavia non lo denuncia benché potesse farlo (e per questo štrucar gli resta riconoscente e cerca di salvargli la vita). In questo è cristiano, non si comporta come un combattente di una guerra totale e totalitaria. Spara soltanto come combattente. Non così però si comportarono quelli della «mano nera». Vanja decide di mantenersi esternamente pulito, come in una terza posizione fra partigiani ed occupatori. Ma potrà davvero riuscirgli di restare solo e autonomo? Padre e figlio hanno un ultimo colloquio prima della sentenza e ancora una volta Stvarnik si dimostra debole. Strucar consente a quelVultimo incontro contando che il padre convinca il figlio a sottoscrivere una dichiarazione di abiura alle proprie convinzioni: il condannato deve essere schiacciato fino in fondo, la vittoria del nuovo mondo deve essere totale. Occorre trovare una parola che valga la vita, che valga più della vita, di ogni vita: «Dilla e la tua vita sarà salva. Comprendi il mistero?». Questa parola resta inespressa nel dramma, forse Dio? Vanja non comprende il padre: «Ma queste sono solo parole», risponde. E il padre: «In principio era la parola. Prima di ogni vita. Da essa tutto è stato generato e con essa tutto muore». Ma dove trovarla, e qual è? Non la conosce o non vuole pronunciarla? E’ sulla soglia della conoscenza? E cosa può significare in quel momento? Consiglia il figlio di pronunciarla, o no? L’enunciazione del mistero è un simbolo della forza o dell'impotenza di Stvarnik? Il figlio la intende come impotenza: «Se dopo tren-t'anni che non hai smesso di scrivere libri sei arrivato a tanta saggezza, la troverai pure quella parola!». Tremendo sarcasmo del figlio già condannato a morte. Stvarnik continua a chiedere al figlio: «Allora credi in me? Tu non credi in me». Il figlio non capisce e risponde: «Fin che scrivi, credo in te. Tuttavia ora non è tempo di scrivere». Le parole di Stvarnik si possono intendere anche su un altro piano, irreale. Stvarnik (creatore) è l’altro nome di Dio. In quel momento il padre subentra come Dio Padre. La sua domanda significa: Ma credi in Dio? L'autore ha cifrato il proprio punto di vista. E' tragico che il figlio non comprenda. Nello stesso tempo però questo non ha importanza, dal momento che non ha compreso le sue parole, ma si è però comportato come era necessario: con fede in Dio. La mancata intesa è rimasta sul piano della parola, nel cuore del padre — non sul piano dell'azione. Vanja si sarebbe potuto salvare la vita firmando la dichiarazione. Ma la straccia perché sa che «tutto ciò è solo un pretesto per qualcosa che non è detto, e vogliono che sottoscriva un delitto». E questo lui non può, non vuole. Rimane fedele a se stesso. Una delle tesi del dramma è che tutto ciò che nasce è nato per vivere. Ma qui, in questo mondo, fisicamente, o di là, con Dio? Vanja va solo verso la morte. Solo? Non proprio solo del tutto, in quel momento è con lui il vero Padre: Dio? Riassunto G. Br. «stalinismo» e dintorni a proposito del saggio di t. kermauner Gino Brazzoduro Il saggio di Taras Kermauner sulla rivoluzione (*) — come sempre così lucido e appassionato, vivace e acuto — induce a qualche riflessione. Dalla tematica affrontata infatti, noi ormai «superstiti» abbiamo avuto esperienza anche personale. Quella tematica è certamente il motivo storico dominante di questo nostro secolo duramente percosso da due guerre mondiali, attraversato da rivoluzioni, dittature, trasformazioni e rivolgimenti culturali non meno che sociali, innovazioni tecnologiche in ogni campo, che hanno inciso profondamente nelle «Lebensformen». Uno dei termini che ricorrono più frequentemente nel testo è l’aggettivo «stalinista». Non a caso, certamente. Stalinismo come corruzione estrema della rivoluzione. Ma penso anche che lo «stalinismo» non lo abbia inventato Stalin: senza andare troppo lontano nel tempo, basta riandare alla rivoluzione francese, al ’93 piuttosto che al mitico '89. Pensiamo all’ideologia giacobina, allo scontro Robespierre - Danton così acutamente reso da Stanislawa Przyszewska, e poi all'ascesa di Bonaparte che, dopo il consolidamento della rivoluzione e aver domato la Vandea, «esporta» il nuovo verbo in tutta l’Europa con le baionette. In realtà il germe dello «stalinismo» dorme da sempre nell’uomo, e ogni tanto si desta con virulenza incarnandosi in una certa congiuntura storica. Il problema è: perché? Quando scoppiano le rivoluzioni? Ad un certo punto a partire da un ventaglio di opzioni e di alternative ideali in competizione, per effetto di cause interne e/o esterne di carattere eccezionale, la situazione si acutizza e appare la «singolarità» rivoluzionaria. Nel «continuum» della storia irrompe la condizione irreversibile di catastrofe: la celebre cuspide di Thom. La rivoluzione scatta quando è impedita l’evoluzione fisiologica, il normale travaglio della gestazione dele idee, le libere reazioni fra (*)La problematica della «Rivoluzione» di Majcen, ovvero il dramma della «lumpenrivoluzio-ne», come la chiama Taras Kermauner, riguarda la tragedia centrale slovena di questo secolo. Ci è sembrato opportuno che alcune considerazioni al riguardo venissero svolte da un autore non-sloveno. I due saggi vengono pubblicati contemporaneamente (anche a causa della pubblicazione saltuaria della rivista). di esse e il libero gioco delle interazioni fra idee e realtà (politica, sociale, economica, culturale, ecc.). Avviene qualcosa di simile a ciò che accade in una soluzione chimica, quando precipita e si coagula una fase eterogenea che si separa dal liquido omogeneo. Reazioni e interazioni fra le idee presuppongono la competizione fra modelli antagonisti e il loro confronto con la realtà: un gioco conflittuale che consenta assestamenti, adeguamenti e concrete possibilità di (auto)correzioni anche importanti: non puro gioco formale, magari «gattopardesco» (cambiare qualcosa perché in realtà nulla cambi). La storia — come l’acqua nel territorio — cerca e trova sempre una sua strada per il cambiamento, una risposta alla domanda. Perché il problema è pur sempre quello del cambiamento: per quali vie e con quali mezzi? Se non ci sono canali normali, legittimi per convogliare la domanda di cambiamento, la pressione comunque a-gisce per sbloccare la situazione e far saltare in maniera catastrofica le ostruzioni che si oppongono al normale flusso delle energie innovative. Allora quel ventaglio di possibilità si trasforma improvvisamente in una rigida coppia di opposti, in una polarità di antinomie e si instaura la condizione drammatica del dilemma, dello aut-aut che esclude ogni ipotetica «terza via». E per un meccanismo logico perverso quanto naturale, il dilemma non può che radicaliz-zarsi fino all’estremo della tragedia. Il copione è già scritto da sempre. Nel dilemma tutta la complessità e la molteplicità dei rapporti reali viene semplificata, ridotta in termini di contrapposizione elementare, rozza e schematica. Sì - No. C’è un impoverimento di tutta la ricchezza dell’elaborazione culturale accumulata, fatta di sfumature, di posizioni intermedie, di scelte alternative, di proposte critiche. Dalla condizione dialettica e dialogica dell’et-et si passa a quella rigida, ferrea dell’aut-aut. Il confronto diventa scontro totale, necessariamente totalitario. Questione suprema di vita o di morte per le due alternative del dilemma, senza possibilità di mediazioni o di sintesi. Senza esclusione di mezzi. Non ci sarà altra misura di moralità che quel confine, quel baratro che divide i due campi. Ogni eccesso è legittimato dal fine supremo: anzi, il mezzo diventerà esso stesso fine. D’altra parte è impossibile togliere il coltello dalla mano armata operando a mani nude, inermi. Perciò ci si procurerà un’altra lama, e possibilmente più lunga e più affilata; o magari si ricorrerà all'astuzia, all’imboscata, al boicottaggio o al sabotaggio. In una lotta senza quartiere non si va per il sottile. Il nemico del mio nemico sarà comunque mio alleato... Credo che tutti abbiamo ancora abbastanza viva la memoria degli eventi connessi alla seconda guerra mondiale per poter riscontrare come le condizioni allora imperanti si conformassero a questo tipo di struttura logica e operativa. E conosciamo fin troppo bene quali furono le cause — immediate e remote — che provocarono quella condizione disumanizzante che tutti ci coinvolse. Il mondo tutto, ed ogni singola coscienza — era spaccato in due. La scelta era ineluttabile. «Stalinisti» allora furono anche Churchill e Roosevelt — e non potevano non esserlo. Dovremmo meravigliarci che lo fossero dei poveri servi e serve sloveni? Sarebbe perlomeno ingeneroso, credo. Non a caso la maggioranza della gente seppe cogliere il nesso fra i due aspetti della lotta: liberazione nazionale e rivoluzione sociale. Unica in fondo appariva la motivazione dell’opposizione al fascismo nel suo duplice volto di espressione e strumento coerente della borghesia capitalista agraria e industriale, e di forza imperialista, espansionista al servizio di quella borghesia in veste di occu-patore. Le malefatte dello stalinismo non possono cancellare questa realtà. La condanna è passata in giudicato. Inappellabile. Reazione sociale e imperialismo aggressivo erano due facce di una stessa realtà con la quale si doveva fare i conti. Un altro termine che ricorre molto frequentemente nel saggio di Kermauner e quello di «lumpen», con diverse varianti di attribuzione. Nella società umana — in qualsiasi società ed in qualsiasi tempo— incontriamo dei residui patologici. Anche in condizioni normali esiste un’aliquota di teppismo; di questi tempi ne abbiamo una bella varietà: teddy boys, huligani, punk, «arancia meccanica», ecc. C’è da stupirsi che in condizioni di guerra e di rivoluzione si siano manifestati con virulenza? E non erano certo una prerogativa della rivoluzione «stalinista»: li abbiamo anche troppo ben conosciuti, quegli altri, gli «squadristi» di ogni risma e colore. Sarebbe forse banalizzare la «rivoluzione» riducendola sbrigativamente ad un fenomeno di «lumpen». Certamente violente e feroci furono le rivolte dei contadini tedeschi del XVI secolo, dilagate in tutta Europa, anche nelle nostre regioni; certamente «plebeo» fu il Tumulto dei Ciompi nella Firenze del ’300, per non parlare della Jacquerie, dei Pitocchi nelle Fiandre del ’500, fino ai «sans-coulottes» e fino ai luddisti inglesi dell’800... Altri esempi si potrebbero citare di ribellioni disperate ed esasperate, perdenti ma non sconfitte che furono il crudele, doloroso prezzo pagato per un po’ di dignità umana, di diritto, per qualche briciola di democrazia. Ma quali ne furono le cause e quale il significato? Si tratta certamente del grado piu basso di coscienza sociale, anzi di una pre-coscienza confusa e indistinta, istintiva. Ma non per questo possiamo liquidare la questione scandalizzandoci, il che ovviamente non significa affatto approvare moralmente tutte le azioni — gli errori e gli orrori — compiuti in nome della «rivoluzione» e del suo mito. Non sembra proponibile un approccio puramente «illuminista» a fenomeni di massa così complessi che hanno origini e cause profonde. C’è da chiedersi piuttosto che cosa abbia fatto la cultura — l’alta, nobile Kultur — per evitare quelle esplosioni dirompenti e distruttive; quando e come l’intelligenza si sia occupata di quella «plebe» (o «plebaglia» stracciona di strada) così lontana dalla nozione di «popolo». Dal fondo dei secoli, dalla gleba e dai suburbi si desta improvvisamente una lontana memoria storica. Lungo faglie sotterranee si accumulano energie incoercibili che improvvisamente si scaricano e producono i terremoti che cambiano l’assetto visibile della crosta terrestre. Possiamo anche indignarci, ma non per questo i terremoti cesseranno. Se non che i terremoti della storia non sono ciechi e imprevedibili come quelli originati dalla tettonica terrestre, e le tensioni sociali sono conoscibili e si possono interpretare e prevedere in tempo, tenendole nel dovuto conto. Un grande uomo politico inglese disse una volta che il sistema migliore per evitare le rivoluzioni è quello di farle: cioè farle legalmente con l’azione riformatrice dei governi. Quelle tensioni sotterranee sono la domanda di cambiamento, magari non sempre chiaramente e consapevolmente espressa: comunque sempre ben percettibile. Compito non secondario dell’intelligenza, della cultura dovrebbe anche essere quello di dare ascolto a quella domanda e preparare risposte credibili, invece di perdersi solo in mirabili e preziosi giochi estetizzanti (l’art-pour-l’art). C’è allora da stupirsi che nei momenti critici quelle masse sentano estranea o, peggio, addirittura nemica la cultura e l'intelligenza? Non possiamo in quei momenti, al colmo della cuspide della catastrofe, pretendere di predicare l'autocoscienza e l’autoeducazione ed altri pur nobilissimi valori illuministi e morali. Gli argini non si possono costruire durante le piene, ma prima. Passata la tempesta rivoluzionaria, l’assestamento è, come sappiamo, lungo e travagliato. Una dolorosa «convalescenza». Le passioni accese solo lentamente si placano, gli odii sedimentano e comincia ad emergere un nuovo, difficile equilibrio fra mille difficoltà e contraddizioni. Un lavoro di generazioni, non di qualche anno soltanto. Nel saggio si accenna anche allo spirito cristiano come (unica?) formula alternativa da opporre al male «rivoluzionario». Ma, quale cristianesimo? Sappiamo che la Chiesa ha avuto l’occasione storica concreta di poter costruire — e non solo di predicare — una società migliore, in quanto ha avuto per secoli un potere temporale, un vasto stato che comprendeva quasi tutta l’Italia centrale. Ebbene, sappiamo che genere di stato era quello (per non parlare delle Cro- date o della repressione degli Ugonotti o della «santa» Inquisizione...). Non per questo, certo, rifiuteremo il cristianesimo e la Chiesa cattolica (e del resto Lutero non esitò ad aizzare i principi tedeschi contro i contadini, esortandoli al massacro dei ribelli; e Calvino non fu certo un modello di tolleranza e di liberalità...). Vogliamo solo dire che l’uomo — qualsiasi uomo — in ogni tempo e luogo si dimostra sempre impari nel rispondere alla domanda che scaturisce dalla storia. Cioè da se stesso, in definitiva. Filosofie, religioni, teorie politiche e sociali, culture... alla prova dei fatti dimostrano tutta la loro inadeguatezza a definire un decente assetto della società, che resta affidato al crudo e spietato realismo dei rapporti di forza ed alla logica totalizzante del potere. Così la società si sviluppa a scatti, per «terremoti» anziché secondo linee evolutive razionali e «morali». Ma non diamo la colpa ai terremoti — o, come qualcuno fa, persino ai sismografi e ai geologi che li annunciano e li registrano... — e non prendiamocela solo con i «lum-pen» di turno, se vogliamo almeno evitare altre catastrofi in futuro. (Ma l’uomo è un pessimo alunno della storia, si sa). Il vero, più arduo confine è quello fra il visibile e l’invisibile, fra la contingenza e la trascendenza: in definitiva fra «res extensa» e «res cogitans». Troppe volte si è barato facendo della trascendenza e dell’invisibile, con cattiva coscienza, un alibi per scansare l'impegno e le responsabilità di fronte alla realtà: hic Rhodus, hic salta. E si è finito con la santa «indignazione» e con lo scandalo dopo che fatti «spiacevoli» avevano disturbato e deturpato l’ordine esistente. Ma, di quale ordine si trattava in realtà? Non sarei troppo sicuro che l’intelligenza abbia veramente saputo guardare in fondo a se stessa e si sia onestamente interrogata sulle proprie inadempienze e insufficienze. Conclusioni? Sarebbe forse presuntuoso tentare di trarne in queste poche righe. Penso che si debba evitare la tentazione — magari inconscia — di esorcizzare il male che è nell’uomo — in ogni uomo — proiettandolo in qualche regione fuori da sé: per esempio nello «stalinismo» o nel fascismo o in qualche altro «ismo» sempre a portata di mano per sollevare la coscienza e rassicurarla che il male viene da fuori, da qualche altra parte. La verità è molto più complessa e più ingrata. Quando Vanja chiede dove deve andare per sfuggire al male che dilaga e lo assedia da ogni parte, la risposta giusta sarebbe: da nessuna parte. Perché il male ci segue come la nostra ombra, anzi è dentro ciascuno di noi; è impensabile e perfino ingenuo credere di poterci sottrarre alla sua presenza andando in qualche «al- trove». Non possiamo non accettare il destino della nostra natura umana, col suo bene e col suo male strettamente intrecciati, inseparabili. Questa è la vera tragedia della condizione umana, tragedia che ci attanaglia senza scampo. Dovunque andiamo. Non esiste fuga né rifugio sicuro. L’uomo è dovunque nemico di se stesso. Dovunque la sua domanda ci insegue per verificare e mettere alla prova la nostra (in)capacità di risposta. Il male coesiste col bene in ogni luogo. Non è possibile vincere il male una volta per tutte come San Giorgio uccide il drago. Né con le rivoluzioni, né con le controrivoluzioni. Abbiamo definitivamente abbandonato la totalità armoniosa e indivisa del paradiso terrestre (o la mitica età dell’oro...). Ma si può e si deve combattere e contrastare il male ogni giorno, ogni ora, hic et nunc, in noi stessi e intorno a noi con un impegno coerente, nelle condizioni che ci sono date. L’uomo ha sempre prodotto utopie e sempre — sperabilmente — le coltiverà. Ma senza la pretesa di volerle realizzate «tutto e subito». Utopia come sogno, come prospettiva di un progetto, non programma operativo. Ispirazione per l'azione, non azione immediata. Sola ci è consentita la nobile, oscura fatica di esistere con dignità, senza aspettarci alcuna ricompensa o gratificazione, senza il miraggio di una «glorificazione» finale. Senza presumere di approdare ad una qualche terra promessa. La meta è già scritta nel cammino che stiamo percorrendo con fatica nell’errore. »stalinizem« in njegova okolica razmišljanje ob kermauneijevem eseju Gino Brazzoduro Esej Tarasa Kermaunerja o revoluciji (*) poraja v nas vrsto misli, saj smo tisti, ki smo »preživeli« imeli z njo tudi kakšno osebno izkušnjo. Eden izmed izrazov, ki se pogosto pojavlja v tekstu, je pridevnik »stalinističen«. Gotovo ne slučajno. Stalinizem kot oblika skrajne izprijenosti revolucije. Mislim pa, da si »stalinizma« ni izmislil Stalin: dovolj je, da si prikličemo v spomin francosko revolucijo, leto 93 prej kot 89, jakobinsko ideologijo, spopad med Robespierrom in Dantonom pa še vzpon Napoleona. V resnici je stalinistična klica od vedno v človeku in se silovito rada razraste v določenih zgodovinskih trenutkih. Vprašanje je zakaj? Kdaj pride do revolucij? Na vsem lepem nastanejo katastrofe in usodno sprevržejo zgodovino. Revolucija izbruhne tedaj, ko fiziološki razvoj stvari ni več mogoč, ko se prekine običajno soočanje idej in svobodna dinamika med njimi in resničnostjo: politično, družbeno, gospodarsko, kulturno itd. Tekmovanje med različnimi nasprotujočimi modeli bi morala biti vsakodnevna družbena praksa, seveda na ravni soočenja s trdo resničnostjo. Zgodovina zna vedno najti izhod, nič drugače kot voda, in s tem odgovor na vprašanje. Jedro vprašanja pa je vedno, kako in po kakšni poti priti do spremembe stanja? Če ni na voljo običajnih, zakonitih poti, potem pride do napetosti, ki vodijo večkrat do strahotnih eksplozij, zlasti takrat, ko se onemogoča sproščanje prenavljajoče energije. Takrat se tudi reševanje kriznih stanj postavi na osnovi aut-aut, kar izključuje iskanje t. im. »tretje poti«. Mehanizem je res perverzen, vendar kar se da naraven in v skladu s scenarijem, ki je že zdavnaj znan. (*) Problematika Majcnove »Revolucije«, oziroma drame o lumpenrevoluciji, kot jo imenuje Taras Kermauner, zadeva osrednjo slovensko tragedijo tega stoletja. Zdelo se nam je umestno, da razvije nekaj misli nanjo neslovenski avtor. Prispevek objavljamo istočasno s Kermaunerjevim esejem (tudi zaradi nepogostega izhajanja revije). Mislim, da imamo vsi še živ spomin na vojne dogodke in da lahko ugotavljamo, koliko so se razmere ujemale s prej nakazano strukturo. Dovolj dobro vemo, kakšne so bile tiste nečloveške razmere, ki so nas vpletle v dogajanje. Ni bilo mogoče uiti izbiri. Ves svet je bil razdvojen. »Stalinista« sta bila takrat tudi Churchill in Roosvelt. Zakaj bi se čudili, če so bili tudi ubogi slovenski hlapci in služkinje? In večina ljudi je znala prav dobro povezati obe plati boja: narodno osvoboditev in družbeno revolucijo. V bistvu pa je bil odpor usmerjen proti fašizmu in njegovi imperialistični in ekspanzionistični politiki; ki je bila dolga roka kapitalističnega meščanstva, v prvi vrsti agrarne in industrijske buržuazije. Stalinistična grozodejstva ne morejo izbrisati te resničnosti. Kermauner se v svojem eseju pogosto poslužuje izraza »lumpen« v različnih oblikah. V vseh družbenih ureditvah in v vseh dobah so prisotni patološki izrastki, tudi dandanes. Nič čudnega, če se le-ti razbohotijo v vojnah in revolucijah. Toda kljub temu ne moremo gledati na pojav z »razsvetljenskega« stališča, preveč je namreč zapleten. Vprašati se pa moramo, kaj je storila visoka in plemenita kultura, da bi se izognili tem deročim eksplozijam; kdaj in kako so se izobraženci ukvarjali s »plebejci«, ki so seveda tako daleč od »ljudstva«. V dolgih stoletjih se v družbenem podzemlju nabirajo nezadržne energije, ki nato izbruhnejo na dan kot potresi. Lahko se nad tem tudi razburjamo, vendar potresov s tem ne bomo preprečili. Potresi, ki se pojavljajo v družbenem tkivu, niso tako slepi in neprevidljivi. Družbene napetosti lahko razlagamo in napovedujemo, s politiko reform pa jih tudi preprečujemo. Potlačene napetosti so v nekem smislu znak, ki najavlja spremembe, pa čeravno niso vedno jasno in zavestno izražene: nedvomno so vedno dobro zaznavne. Izobraženci in kultura, bi morali prisluhniti tem zahtevam in iskati odgovorov zanje. Dvomim, da je znala inteligenca raziskati in razumeti resničnost brez predsodkov in da se je vsaj iskreno vprašala o lastnih pomankljivostih in nezadostnostih. Na vsak način, zlo je v nas in nima nobenega smisla iskati ga zunaj nas, v kakem »stalinizmu« ali »fašizmu« ali kakem drugem »izmu«. Resnica je bolj zapletena in nehvaležna. Že zdavnaj smo se odpovedali harmonični -celosti, kljub temu pa lahko nasprotujemo in se borimo zoper zlo vsak dan, v nas samih in okoli nas v razmerah, v katerih živimo. Povzel V. V. chercher trieste Gino Brazzoduro Si sta concludendo a Parigi il ciclo di «Trouver Trieste» con la sezione «L’imaginaire scientifique», progettato dall’AISA (Associazione Internazionale per la Scienza e l’Arte), nata a Trieste nel 1984 e realizzato con la collaborazione delle istituzioni più prestigiose della città: Scuola superiore di studi avanzati, Università, Osservatorio di geofisica sperimentale, Osservatorio astronomico, International Center of Theorical Phisics. Si schiude un panorama che solo agli inguaribili, cronici conservatori con la testa invariabilmente volta aU’indietro può apparire avveniristico e fantascientifico. In realtà abbiamo coscienza che si tratta di riconoscere il volto del nostro presente assai più che cercare d’indovinare un ipotetico e mitico futuro. Sulla linea che potremmo definire di «presenzialità» del futuro, la migliore Trieste si è sempre trovata: quella di Svevo e di Saba, di Weiss, di Bazlen e di Voghera non meno di quella di Kogoj e di Černigoj, di Bartol e di Kosovel. Possiamo anche aggiungere la Trieste di Joyce e di Rilke e, oggi, quella di Salam. La città più viva e aperta d’intelligenza e di cuore, di scienza e di poesia. La città che ha sempre cercato e saputo esprimere il nuovo con autentico spirito creativo: lo ha cercato con la lucida consapevolezza che era necessario sperimentare e plasmare nuove forme e nuove strutture — cioè nuovi linguaggi — che fossero adeguati alle nuove esperienze che si andavano profilando all'orizzonte del secolo. E quale secolo! Quello di Planck, di Einstein, di Freud e quello di Picasso, di Kandinskij e di Malevič. Quello di Schònberg, di Stravinskij e di Webern. Il secolo di due guerre mondiali, di rivoluzioni impensate e quello dello sbarco sulla Luna, delle esplorazioni planetarie, quello che in pochi decenni ha frantumato l’atomo di Bohr fino ai quark e oltre... Il secolo dell’elettronica e della bioingegneria... In questo secolo Trieste è stata — ed è oggi — una presenza viva, attiva e originale, pur con i suoi travagli e le sue contraddizioni, come è nella natura delle cose umane. Nessun trionfalismo acritico di stampo positivistico, ma la chiara percezione che oggi si stanno elaborando nuovi linguaggi per poter dire e rappresentare le nuove dimensioni della nostra realtà, senza dimenticare le nostre tradizioni più alte. Come ricorda Gianni Toti in una sua intervista parigina, noi siamo ancora dietro al cespuglio che faceva tremare Leopardi di fronte alla prospettiva dell’infinito, e questo cespuglio è il nostro sistema solare, la nostra galassia ed i superammassi di galassie... Di fronte a questi compiti che ci troviamo a fronteggiare e che ci devono obbligare ad un impegno totale, senza tregua, non vi sembra semplicemente ridicolo quel sacco di meloni (che da un pezzo hanno superato la maturazione) che ingombra le strade ed in cui rischia d'inciampare il cammino sereno e consapevole della città verso il futuro? Anzi, più che ridicolo: risibile. G. Br. chercher trieste Gino Brazzoduro V Parizu gre h kraju niz razstav »Trouver Trieste« z odsekom »L’immaginaire Scientifique«, katerega si je zamislila AISA (Mednarodno združenje za znanost in umetnost), ki je nastalo v Trstu leta 1984 s sodelovanjem najbolj pomembnih mestnih ustanov. Po našem mnenju gre za pobudo, ki ima samo v očeh nepoboljšljivih konservativcev nekaj skupnega s futurologijo in znanstveno fantastiko. Prej bi bilo treba namreč zavestno spoznati obličje naše sedanjosti, kot pa ugibati o dozdevni in mitski prihodnosti. Lahko pa upravičeno rečemo, da je najboljši del Trsta (Svevo, Saba, Weiss, Bazlen in Voghera na eni strani, Kogoj, Černigoj, Bartol in Kosovel na drugi) bil vedno zagledan v prihodnost. In smemo dodati: Trst Rilkeja in Joycea, in danes tudi Salama. To je najbolj živ in odprt Trst, tisti, ki predstavlja človeški um in srce, znanost in poezijo. Mesto, ki je iskalo in znalo izraziti novo s pravim ustvarjalnim zagonom, eksperimentiranjem in snovanjem novih idej in oblik, t.j. novih govoric. V tem stoletju — in še dandanes — je Trst bil, navkljub vsem težavam in protislovjem, dejaven in izviren. Kakor je povedal Gianni Toti v nekem svojem intervjuju, še vedno tičimo za grmom, za katerim se je tresel Leopardi, ko je zrl v neskončnost, mi pa strmimo v sončni sistem, v naše ozvezdje in brezkončna galaktična osvetja. Spričo vseh teh nalog, ki so pred nami in jim moramo biti obvezno in nenehno kos, se vam ne zdi naravnost smešna tista vreča že davno dozorelih melon, ki je samo v napoto na ulicah in ovira mesto na poti v prihodnost? Pravzaprav, bolj kot smešna je posmeha vredna. Povzel V. V. recensioni: REQUIEM PER UN AMORE Fulvio Tomizza: «Gli sposi di via Rossetti», Mondadori, pagg. 197 -Stanko Vuk: «Scritture d’amore» con prefazione di F. Tomizza e note a cura di M. Maticetov, EST, Trieste, pagg. 251. A distanza di pochi mesi sono usciti il romanzo di Tomizza e l’epistolario — o meglio una selezione di 85 lettere su un totale di 812 scritte. I due libri hanno riproposto al pubblico la storia di Stanko Vuk e di Dani Toma-zie, una storia conclusasi tragicamente con la loro eliminazione in circostanze tuttora non chiarite, sicché si possono solo formulare delle congetture in base alle testimonianze disponibili che Tomizza ha scrupolosamente raccolto nel suo libro. Il romanzo, come c’informa lo stesso autore all’inizio, nasce dal coinvolgimento di Tomizza nel progetto di pubblicazione di una selezione di lettere inviate dal carcere da Stanko alla moglie Dani. Sarebbe interessante conoscere il criterio — se c’è stato — secondo il quale è stata operata la scelta delle lettere pubblicate. Occorre tener conto anche del fatto che, purtroppo, sono andate perdute tutte le lettere scritte da Dani al marito, sicché di lei nulla sappiamo se non attraverso le lettere di lui: nulla delle sue ragioni, dei suoi stati d’animo, dei suoi problemi, e ciò rende, come dire, un po' sbilanciata la storia della coppia. In queste lettere Stanko Vuk rivela una personalità molto complessa e contraddittoria, alle volte perfino sconcertante. Certo, si trovava in una condizione eccezionale, arrestato dopo soli quattro mesi di vita matrimoniale: il suo sentimento per la giovane moglie è per lui Tunica risorsa, anzi l’unica dimensione della sua vita carceraria, un motivo totalizzante. Ha perso ogni contatto col mondo esterno e con ciò ogni capacità di percezione del reale, della multiforme concretezza della vita. Unica realtà per lui è lo spazio della pagina: la scrittura finisce così per identificarsi con la vita, è la vita stessa. Egli è consapevole di questa mutilazione, di questa incompletezza; avverte di vivere come a mezz'aria, privo di quelle «cose pratiche» che fanno sentire «la terra soda sotto i piedi». In questo isolamento si ritrae ancor di più rinunciando a vivere nella camerata comune e chiedendo di essere trasferito in una cella singola, quasi per farne una «navicella» a bordo della quale intraprende- re l'esplorazione solitaria dell'universo e di se stesso. E’ come un uomo che vive solitario su di uno scoglio in mezzo all’oceano. Unico legame col mondo e con la vita quei messaggi che scambia con Dani e la disciplinata applicazione allo studio delle letterature italiana, inglese, francese di cui queste lettere ci danno testimonianza. Non possiamo dunque che partire da queste lettere che ci rivelano un profilo del giovane intellettuale goriziano ed uno spaccato della sua personalità ricca, come sopra accennato, di contraddizioni non risolte e forse non facilmente componibili neppure in condizioni normali, certo acuite dal tormento della detenzione. Al centro l’amore, intorno a cui ruota tutto il suo universo di prigioniero: ma quale amore può essere questo senza comunione con la realtà quotidiana della donna, senza «quelle piccole cose estremamente umane» della vita concreta? E’ un amore di rievocazioni, di desideri, di fantasie con cui cerca di supplire alla grande assenza di un rapporto «normale»; quasi una rivalsa disperata ed orgogliosa per dimostrare la possibilità dell’impossibile al di là di ogni ostacolo e impedimento. Quasi un bisogno di attestare questa vittoria rilanciando ogni volta più alta la posta del gioco, forzandolo oltre ogni limite. Questa sorta di ipostasi dell'amore ricorda un poco quell’«amore dell’amore» che fu così caro ai romantici. Il bisogno di eros viene così assolutizzato — sublimato — in una doppia esaltazione erotico-spirituale: unica via d’uscita da una tensione insostenibile. Una tensione alla quale Dani non sarà in grado di resistere. Se analizziamo questo sentimento, vi troviamo una molteplicità di accenti e di connotazioni: atteggiamenti d'ingenuità naif che sfiorano l’infantilismo (ma Stan-ko era ormai trentenne) si alternano ad espressioni di elevata poeticità che hanno del sublime. E' riconoscibile una profonda e costante ispirazione religiosa (una religiosità nel solco della tradizione contadina e popolare) che si mescola in maniera sorprendente a motivi di spiccata accentuazione erotica, con evidenti simbologie feticistiche e perfino con qualche colorazione sadomasochista. Misticismo e sensualità sono due poli estremi intorno ai quali si dispiega l’esperienza amorosa di Stanko. Una connotazione dominante è data dall'intenzione, per così dire, «pedagogica» nei confronti della sposa, quasi un «complesso di Pig-malione». Nei confronti di Dani egli si fa «mentore», guida responsabile di un itinerario di perfezione iniziatica, di ascesi e-dificante. Ma il pedagogo alle volte si fa severo e intransigente: diremmo anche impietoso e quasi crudele, certo poco duttile e poco sensibile ai problemi ed alle esigenze di lei, che pure non doveva trovarsi in una condizione facile. Sono frequenti immagini e simbologie legate al sangue ed alla sofferenza da infliggere su questo itinerario di redenzione. Ma si avverte anche in lui il timore latente, quasi inconscio, ma poi via via più percettibile, di perdere la moglie per esaurimento ,per disamoramento dovuto non solo alla lontananza fisica ma forse ancor più alla distanza fra i due caratteri, fra le diverse formazioni personali, le educazioni, le mentalità. Differenze che la troppo breve vita coniugale non poteva certo aver attenuato e che, anzi, aveva rivelato in qualche scontro su questioni non marginali. In sostanza Dani non riesce a sostenere il ruolo che per lei aveva costruito — e imposto — il marito. Un ruolo di donna an-gelicata, quasi di Madonna e al tempo stesso di partner sensuale e accondiscendente alle fantasie erotiche. E proprio in vista della conclusione della detenzione — fatta presagire anche dagli eventi esterni della «grande storia» in quel drammatico 1943 — proprio allora, quando il peggio doveva apparire superato o in via di superamento, ecco il cedimento di lei. Forse Dani consapevolmente rifiuta quel ruolo impossibile, stremata da quella tensione erotico-mistica e sceglie un amore vivo, concreto, appagante, a sua misura. Ma sarà un’esperienza breve: ancora una volta la «grande storia» interverrà nel privato della «piccola storia» individuale, incaricandosi di trattenere l’uomo in carcere. Così Stan-ko ritorna a Trieste nel febbraio del '44 e trova la sposa cambiata, lontana e disamorata. For- se però è ancora possibile un recupero, un superamento di quella rottura. Ma questa volta la «grande storia», in viste di giustiziere, appresta l'agguato mortale il 10 marzo 1944: i due sposi — ed una terza persona loro conoscente, non si sa quanto coinvolta nel fatto — vengono spietatamente abbattuti nella loro casa da una raffica omicida. Questa in sintesi la vicenda centrale. Ma occorre fare attenzione anche allo sfondo sul quale si disegna la trama del rapporto di coppia. E' la Trieste a cavallo fra gli anni ’30 e '40, una Trieste vista e sentita dalla parte della comunità slovena, che Tomizza tratteggia in pagine efficaci e documentate. Gli sloveni erano soccombenti sotto il peso della dura repressione e della spietata azione snazionalizzatrice fascista. Soccombenti ma non vinti, non rassegnati né domati. Lievitavano ancora diversi movimenti e tendenze politiche e culturali, sorprendentemente vive e attive malgrado tutto. Ciascuno risponde all'onnipotenza di quel potere come può, come crede sia più giusto, con una gamma di atteggiamenti e iniziative, fino all’intransigenza estrema e perfino settaria che condurrà Pino Tomažič davanti al plotone d’esecuzione in una gelida mattina del dicembre '41 sul Carso. Una scelta, la sua, che fu l’approdo di una coerenza rigorosa e totale in risposta al sistema di totale negazione imperante. In quegli anni ogni singola vi- ta, anche la più. umile e insignificante fu toccata e condizionata dalle leggi tremende e impersonali della «grande storia». Non c’era più distinzione fra pubblico e privato. Così in queste pagine c’è molto di più che una storia d’amore, la storia di un rapporto difficile e complesso fra due giovani sposi. L'irruzione della violenza nel loro rapporto coniugale lo segna e lo determina fino alla tragedia finale. Quella violenza traccia un confine ideale che divide in maniera brutale e semplificatrice le vicende umane: da una parte o dall’altra. Un segno che chi ebbe la ventura di vivere in quei tempi, ancora si porta dentro non cancellato né rimarginato. Per averci fatto sentire questo con verità di accenti, Tomizza si è riconfermato scrittore sensibi- le al respiro della storia che avvolge — e spesso travolge — il singolo. Aveva già incontrato nella sua carriera di narratore gli aspri climi della storia: ricordiamo «La finzione di Maria» e il più recente «Vergerlo» (ma anche la più lontana «Miglior vita»). Segue con umana simpatia e partecipazione i suoi piccoli o grandi eroi che si muovono attraverso il «campo di forze» determinato da quella «grande storia» che impone a tutti la sua legge. Attori o comparse, personaggi o figure secondarie, singoli o collettività: per tutti coglie il nesso tragico fra destino individuale e destino «storico», facendo emergere l’inalienabile valore umano di ogni esistenza col suo carico segreto di amore e di dolore. G. Br. recenzije: REKVIEM ZA LJUBEZEN Fulvio Tomizza: «Gli sposi di via Rossetti» (Mladoporočenca z ulice Rossetti), Mondadori, str. 197. Stanko Vuk: «Scritture d’amore» (Ljubezenska pisma) s predgovorom F. Tomizza in opombami M. Matičetova, ZTT Trst, str. 251. S S presledkom nekaj mesecev sta izšla Tomizzov roman in sbir-ka pisem — ali bolje izbor 85. pisem od skupno 372. Knjigi sta ponudili občinstvu zgodbo Stanka Vuka in Danice Tomažič, ki se je končala tragično v še nepojasnjenih okoliščinah. Roman je nastal ob pisanju predgovora k izdaji pisem, ki jih je Stanko Vuk pisal ženi Danici iz zapora. Gre za literarno spremljavo epistolarija, ki se razraste v pravcato preoblikovanje usod mladoporočencev z ulice Rossetti. V teh pismih (žal so se pisma Danice Tomažič izgubila in nam tako ni mogoče v celoti dojeti njenega značaja in miselnosti) se Stanko Vuk pojavlja kot zamotana in večkrat protislovna osebnost. Komaj po štirih mesecih poroke mora v zapor in tako postane zanj čustveno razmerje do mlade žene njegova osrednja življenjska razsežnost. Izgubil je namreč vsak stik z zunanjim svetom pa tudi sposobnost doje- manja resničnosti in raznovrstnosti življenja. Edina resničnost je prostor pisemskega papirja, ki postane zanj vse, življenje samo. Tak položaj pa mu nudi priložnost za samotno raziskovanje vesoljnega sveta in samega sebe. Nimamo torej na voljo drugega kot ta pisma pri obravnavanju mladega goriškega izobraženca in njegove žive osebnosti, polne nerešenih protislovij, ki bi jih bilo težko rešiti celo v navadnih okoliščinah. V središču je torej ljubezen: toda kakšna je lahko ljubezen brez povezave z vsakodnevno resničnostjo žene, brez »tistih majhnih a tako izredno človeških stvari«, ki napolnjujejo resnično življenje? To je ljubezen polno podoživetih dogodkov, kipeče strasti in bujne fantazije, s čimer skuša nadomestiti pomanjkanje »resničnega« razmerja; brezupen in ponosen poskus dokazovanja, da je mogoče tudi tisto, kar je po vseh pravilih nemogoče, v neke vrste tekmi, kjer se letvica postavlja vedno više in višo. V nekem smislu to spominja na »ljubezen ljubezni«, ki je bila tako pri srcu romantikom. Potreba po erosu je absolutizirana in sublimirana v dvojni erotično-duhovni razdraženosti, ki pa je konec koncev edini možni izhod v nevzdržni napetosti. Napetosti, ki ji Danica ne bo uspela kljubovati. To čustvo je polno izredno vi- šokih poetskih trenutkov, pa tudi naivnosti, ki meji na infantilnosti (Stanko Vuk je imel skoraj 30 let). V njem je stalno prisotna globoka religioznost, ki je zrasla v kmečki in ljudski tradiciji, a ki se obenem presenetljivo meša z izrazito erotičnimi motivi in poudarki, z razvidno fetišistič-no simboliko in celo s ščepcem sadomazohistične obarvanosti. Misticizem in čutnost sta dva skrajna pola, med katerimi niha Stankovo ljubezensko izkustvo. Omeniti je treba še nekam »pedagoški« odnos do žene, katero želi voditi na poti asketskega izpopolnjevanja, pri čemer se učitelj vede večkrat strogo in nepopustljivo, brez občutka za njene probleme in zahteve. Toda obenem opažamo v njem skrito bojazen, da bo izgubil ženino ljubezen, ne samo zaradi fizične oddaljenosti, ampak predvsem zaradi prevelike različnosti obeh značajev, izoblikovane osebnosti, vzgoje in duhovnosti. Kratkotrajni zakon bržkone ni utegnil omiliti teh razlik, ki so večkrat bruhnile na dan silovito ob ne ravno nepomembnih vprašanjih. Danica torej ni sposobna igrati vloge, ki jo je zanjo določil in vsilil mož. Morebiti celo zavrača vlogo Madone in obenem čutno razgibane družice, ki se ne brani mu slediti v erotičnih fantazijah. Tako si izbere živo ljubezen, po meri takorekoč, ki jo zadovolji tudi čutno. Ljubezensko razmerje sicer ne traja dolgo. Stanko mora presedeti še nekaj časa v zaporu (iz Fossana ga pošljejo v Alessandrijo), dokler se ne vrne domov v Trst februarja leta 1944. Ženo najde močno spremenjeno in odtujeno. Mogoče je še možno zbližanje obeh mladoporočencev, kar pa prepreči skrivnostni umor. Zgodba mladoporočencev z ulice Rossetti je hkrati tudi zgodba slovenske manjšine v Italiji, ki jo fašistična oblast skuša raznaro-diti, in različnih oblik upora proti njej. Obenem je to tudi zgodba, v kateri je močno v ospredju »velika zgodovina«, ki ne ločuje med javnim in zasebiim in ki nasprotno vsiljuje na enostaven in grob način le eno pravilo: za ali proti. Hvaležni smo Tomizzi, da nam je znal posredovati v tej zgodbi tudi široki dih zgodovine, ki pogostokrat pregazi posamezno usodo. Podobno kot v svojih zadnjih delili spremlja avtor z naklonjenostjo usode svojih malih ali velikih junakov, ki morajo skozi »polje sil«, ki ga določa »velika zgodovina«. Pri tem pa avtor vedno pusti priti do veljave nezamenljivo vrednoto vsake posamezne eksistence. G. Br. Povzetek V. V. NOTA: Licinia Roth in Pahor ha tradotto il testo di Damjan Prelovšek «La Trieste di Maria Teresa» pubblicato nel n. 71/72 di Most. Ci scusiamo per l’omissione. OPOMBA: V zadnji številki Mostu (71/72) je izpadlo tudi ime Jolke Milič, ki je prevedla pesmi Valerie Sisto Cornar. HRANILNICA IN POSOJILNICA NA OPČINAH VSE BANČNE USLUGE MENJALNICA PROSTE IN VEZANE HRANILNE KNJIŽICE IN TEKOČI RAČUNI POSOJILA Z OSEBNIM IN HIPOTEKARNIM JAMSTVOM POSEBNA POSOJILA PO ZNIŽANI OBRESTNI MERI: — OBRTNIŠKA — KMEČKA — TRGOVSKA — MALA INDUSTRIJSKA — LJUDSKE GRADNJE OPČINE (TRST) — BAZOVIŠKA 2 — TEL. 211120 -212494 CASSA RURALE ED ARTIGIANA DI VILLA OPICINA — TUTTE LE OPERAZIONI DI BANCA CREDITI SPECIALI PER: — CAMBIO VALUTE — L’ARTIGIANATO — DEPOSITI RISPARMIO — L’AGRICOLTURA LIBERI E VINCOLATI, CONTI CORRENTI — IL COMMERCIO — FINANZIAMENTI PERSONALI — LA PICCOLA INDUSTRIA E MUTUI IPOTECARI — L’EDILIZIA POPOLARE OPICINA (TRIESTE) — VIA DI BASOVIZZA 2 — TELEF. 211120-212494