L' ASSOCIAZIONE per un anno anticipati f. 4. Semestre e trimestrein proporzione Si pubblica ogni sabato. Sabato 13 Febbraio 1847. M 12 — 13. II. ANNO. BIOGRAFIA di Monsig. Matteo Raunicher, vescovo di Trieste e Capodistria. (Traduzione dal tedesco.) E perciò devi sapere che il vescovo è nella chiesa, e la chiesa nel vescovo ; e quegli che non è col vescovo, non è nella chiesa. Cipriano Ey. 69 a Fior. Puf intano. Matteo Rannidici* nasceva il dì 20 settembre 1776, nel Circolo di Lubiana del Carnio, e propriamente nella parocchia e terra di Vazhe, Distretto di Po-novizh, da poveri genitori i quali nulla altro avevano che la casetta ove abitavano con quest'unico loro figlio, e poche terre. II padre traeva sussidi dalla professione di sarto; il figlio, tenero ancora, nell'attendere alla custodia di mandre, preparava lacci da uccelli, raccoglieva ginepri, guadagnando così qualche soldo, che più tardi doveva tornare a lui proficuo. Avvenne che il pio sacerdote Giorgio Stendler, cappellano di Yazhe, scorgendo nel giovanetto Matteo rare qualità dello spirito e del cuore, suggerisse, insistendo molto, di inviarlo alle scuole in Lubiana; però la madre Agnese non poteva risolversi ad allontanare da sè quest' unico, dilettissimo figlio, e saperlo in mezzo ai pericoli di una città; ed il padre, di ferme risoluzioni, mancava poi dei mezzi per sostenere il dispendio. Il buon sacerdote offrì di venire in sussidio secondo le proprie forze. Un dì, senza che la madre il sapesse, pigliato per mano il giovanetto, e raccolti i soldi risparmiati, disse a lui il padre: Matteo, convien partire.... e di fatto lo condusse diritto a Lubiana. Nel corso delle normali, e più in quello del ginnasio, si distinse sopra gli altri tutti, e per facilità d'apprendere e per diligenza, e per gli esercizi in latino. Il pio Stendler si mostrò benefico; nè il Raunicher anche fattosi adulto gli si mostrò ingrato, chè non solo lo proclamava dappertutto suo benefattore, ma assiduamente lo visitava nei tempi di vacanze, anche quando fu professore, e fino a che lo Stendler morì in Primskau presso Krainburg. Compiuto il corso ginnasiale, i mezzi economici del Raunicher migliorarono, perchè distinte famiglie fecero a gara di averlo a ripetitore dei loro figli; e talmente progredì nel corso filosofico, che il conte Giorgio Giacomo di Hochenwart, capitano provinciale o governatore del Carnio, lo volle nella famiglia propria. Accolto nel Seminario di Lubiana, compì il corso teologico in tre anni, per singolari circostanze. Mentre il Raunicher era per entrare nel terz'anno di teologia, avvenne che la cattedra di dommatica fosse allora vacante; ed uomini, il di cui nome sarà duraturo nella diocesi di Lubiana, scorsero in lui l'uomo al quale poteva poggiarsi con piena fiducia siffatto difficile insegnamento. L'animarono a prepararsi pel concorso fidando nel suo ingegno e nella sua diligenza, e frattanto ottennero che potesse compiere in un solo anno, i due che gli rimanevano. Chierico ancora, si presentò all' esame, che sostenne con ottimo successo, venne nel dì 31 luglio 1802 ordinato sacerdote dal principe arcivescovo Michele Barone de Brigido, e fu fatto professore di dommatica, nella qual cattedra durò fino al 1827 con bella fama. Ed oltre questo carico, ebbe quello di professore di religione e di esortatore nella facoltà filosofica di Lubiana. Fatto appena professore di dommatica, ebbe officio anche in quel Seminario, che diresse fino al 1823. Fu visto allora e poi, sedere alla mensa con quegli alunni, visitarli nelle loro stanze, conversare con loro per modo che ebbe 1' amore e la confidenza di quel giovane clero. Caduto il Carnio nel 1809 per vicende di guerra in potere della Francia, e regolati quegli studi su novello sistema, Baunicher ed il professore di teologia morale e pastorale di allora, poi arcivescovo di Gorizia, Giuseppe Walland, si adattarono per amore dell'educazione ai novelli offici; Walland fu reggente, Raunicher cancelliere della nuova scuola centrale, conservando lo loro cattedre. Indotto a permutare la cattedra di dommatica con quella di filosofia, subì eminentemente gli esami, però a cenno superiore rimase alla dommatica, comunque più tardi insegnasse filosofia, però suppletoriamente. Ciò che Walland e Raunicher operarono pel Carnio nei tempi difficili dell' occupazione nemica, è scritto a caratteri indelebili nel cuore di ogni patriotta. Allontanati i Francesi, e restituito l'antico ordine di cose, l'imperatore Francesco I lo nominava direttore dello studio filosofico, nel quale posto durò fino al 1827 quando venne chiamato ad altri destini. Raunicher è il fondatore di nuova era per la letteratura carniolica. Esso, Dobrowschi, Kopitar, ed altri celebrati Slavisti, tennero conferenze in Vienna per for- mare nuovo alfabeto slavo, il quale non ebbe poi vita per difficoltà diverse. Ciò lo persuase di darsi a purgare e nobilitare la lingua patria. Nella traduzione della storia biblica dello Schmid insegnò a valutare lo spirito del carniolico; la-Stolta Messa-è assai nota e vide ripetute volte la luce; tradusse dal testo originale i primi cinque libri di Mose, divenuta rara la precedente edizione, ed il manoscritto è pronto. La creazione di cattedra di lingua slava era ardente suo desiderio che manifestato al barone Sigismondo Zois di Edelstein, benemerito del Carnio, ed al celeberrimo slavista Kopitar, ottenne per intervento di questi, che l'imperatore Francesco I la erigesse nel 1817, ordinando la frequentazione delle lezioni agli alunni del secondo anno di Teologia. Questa cattedra ha portato ottimi efletti non soltanto nel Carnio, ma altresì nelle provincie slave contermini; comparvero libri di buona lingua e si udirono prediche dai pergami di buona dicitura. Nel 1817 ebbe il canonicato conte Lamberg nella cattedrale; rinunciò allora l'officio di professore di religione e di esortatore nel Liceo, ritenne però la cattedra di filosofia dommatica e l'officio di direttore nel Seminario. Nello stesso anno attaccato dalla nervosa, ebbe a sortirne felicemente, rimasto soltanto calvo. Nel 1823 si dimise dal carico di direttore con grave dispiacenza del vescovo Agostino Gruber; esso sopracaricato di altre incombenze non credeva in coscienza di poter conservare un carico all'esercizio del quale non aveva pari la possibilità. Nel 1827 l'imperatore Francesco I nominava questo benemerito sacerdote a consigliere effettivo di governo, riferente ecclesiastico e degli studi nel governo del litorale in Trieste. Lo staccarsi da Lubiana ove a-veva passato gli anni suoi migliori nella pubblica estimazione; il congedo dai numerosi suoi amici che insieme a distinte persone l'accompagnarono fino ad Ober-laibach fu connnoventissimo e non senza lagrime. "Quel ,,momento, ripeteva spesso il defunto negli anni appresso, „quel momento fu uno dei più belli della mia vita; ma „troppo breve e troppo doloroso; molti di quelli non li „vidi più„. Il benemerito vescovo A. Gruber, dal 1824 arcivescovo di Salisburgo, sapute le circostanze del distacco gli scriveva in Trieste : "Io, che ho sagrificato il mio cuore pel Carnio, io so quanto grave sia lo staccarsene, e quanto doloroso piacere dieno le dimostrazioni d'a-more avute da care persone. Io sento quanto grave sia stato il suo distacco; pure sento compiacenza, che i di lei compatriotti abbiano fatto giustizia al merito^. E proseguendo sulla nuova destinazione del Raunicher, gli scriveva l'arcivescovo: "M'attendo che ella non si spaventerà; anche nei collegi alti procede tutto umanamente, e l'uomo colto si trova facilmente e prontamente in cose che sono umane,. E quasi profeta gli soggiungeva: "Se giungo a vivere ancor qualche anno, la saluterò con gioia quale mio compagno nelle apostoliche fatiche,,. L' arcivescovo principe di Salisburgo onorò costantemente di sua amicizia il nostro Raunicher. Offertagli dopo brevi anni una mitra, ebbe a ricusarla per motivo che il padre di lui, avanzato in età, non avrebbe potuto reggere alle fatiche di un lungo viaggio; in proposito di che l'arcivescovo Gruber gli scriveva: "Sebbene ella abbia temuto di addossarsi il carico di vescovo, tengo certa fede che in decorrenza di tempo, non le sarà fattibile di sottrarsi a sì gravoso officio,,. Quanto il Raunicher abbia prestato nell'officio di consigliere governiale, come abbia saputo conciliarsi e-minentemente 1' amore e la stima dei superiori, dei colleghi, dei subalterni ai quali era padre, del pubblico, è cosa troppo viva nella memoria dei contemporanei, per tenerne maggiore discorso; piuttosto parlerassi del ve- ! scovo Raunicher. La profezia dell' arcivescovo Salisburghese ebbe presto compimento. Fatta vacante la sede triestina per la morte di Antonio Leonardis, Francesco I nominava nel dì 18 settembre 1830 a primo vescovo delle diocesi u-nite di Trieste-Capodistria, il consigliere governiale Matteo Raunicher. La morte di papa Pio Vili (1830), i trambusti politici di parte dell' Europa meridionale protrassero la preconizzazione fino al 30 settembre 1831, dovutasi attendere 1' elezione di papa Gregorio XVI. Nel dì 18 dicembre 1831 venne consacrato nel duomo di Lubiana da un condiscepolo suo, il vescovo principe Antonio Luigi ; da un suo professore, il preposto Luca Burger, e da un suo scolaro, il decano Urbano Jerin, ambidue insigniti di infula. Venne formalmente intronizzato in Trieste nel dì 15 gennaio 1832, in Capodistria nel dì 5 febbraio. Prima di discorrere dell'operare del vescovo, sia lecito di por attenzione allo stato delle due diocesi u-nite; e sarà facile trarne induzione che soltanto la divina provvidenza abbia scelto a governarle uno spirito sì energico, sì penetrante come quello del Raunicher. Il secolo decimonono, sì abbondante di vicende svariate in religione e politica, compivasi in mezzo a violenti scosse; altari e troni furono rovesciati nella polvere; i limiti degli stati venivano segnati dalla fortuna delle armi, fatti i popoli gioco del momento; tutti gli elementi parevano scatenarsi contro la navicella di Pietro, la quale resistette bensì vittoriosa all' infuriare delle onde avverse, ma per pugnare novellamente contro rinnovantesi bufere. Nei tempi difficili il palladio dei popoli è il proprio principe; il palladio dei fedeli il loro pastore. Appunto in tempi sì critici moriva nel 1803 il vescovo di Trieste Ignazio de Buset, nel 1810 il vescovo di Capodistria Bonifazio da Ponte. Per quasi vent anni rimasero vedove ambedue le chiese. Senza togliere in minima parte il merito a degne persone, che nei tempi incerti delle guerre francesi diressero le due diocesi, deve pur dirsi con sincerità e franchezza, che quasi fino ai tempi in cui l'Istria ritornò allo scettro austriaco, il clero con poche eccezioni, lasciava troppo a desiderare in quanto all'intellettuale; se mai un genio sorgeva dalle classi cittadine nelle città, o, ciò che era più raro, nella campagna, si poteva essere certi che non v' era vigna del Signore per lui fuori delle mura urbane, e così avvenne che pastori e pecorelle si trovassero quasi a livello nella coltura. A-malgamato col villico, qualche sacerdote appena sapeva più che il dir messa, ed il recitare le formole solite di preghiere; però il popolo era contento, perchè pensava che le cose duravano così da lungo tempo, e non doveva nè poteva essere altrimenti. Il vescovo Leonardis, si mosse energicamente; però il reggime di ott'anni fu appena sufficiente a regolare in qualche parte la diocesi di Trieste, vedova da tanto tempo. Facile si è quindi il riconoscere, che il Raunicher in tale stato di cose, e nella deficienza assai sensibile di adatti sacerdoti, nell'insufficienza della congrua e di abitazioni convenienti a sacre persone, entrasse nel sublime ministero con animo trepidante. L'imperatore Francesco I ritornando dall'Istria nel 1832, diceva a lui: "Mio buon vescovo, io non vi invidio punto nè poco; voi avete da fare più di quello che sarebbe solito; però siate convinto, che assai calcolo in voi; e voi sapete dove trovarmi,. Parole sì confortanti del padre della patria, lo zelo sincero delle autorità, e specialmente ! la ferma fiducia in Dio, il franco procedere, la perseve-! ranza del prelato, fecero sì che le unite diocesi ebbero presto aspetto più lieto, e si composero a meglio di giorno in giorno. La sua sollecitudine fu diretta ad avvivare ed estollere l'istruzione religiosa della gioventù, non già secondo le secche parole dei più dei catechismi che egli chiamava "magro repertorio delle verità religiose le più note,, ma per la paterna familiarità del curalo, e filiale deferenza della gioventù. Agli occhi del vescovo un ruvido contegno del catechisla verso i fan- ! ciulli era sevizie. Al vedere nella vita ordinaria l'uomo accigliato e collo sguardo scrutatore, e questo medesimo nelle visite canoniche, nel passeggiare, divenire fanciullo j tra fanciulli, accarezzarli, far loro domande di religione, regalarli, si sarebbe dubitato che fosse la stessa j persona. Col clero trattò come padre coi figli, confortante ed increpante, premiante e castigante. Il sacerdote ! che non poteva sopperire col reddito alle spese, che ! non poteva gravarsi del dispendio di traslocamelo, era i certo di trovare in lui pronto soccorso, e spesso gli avvenne, ciò che nel mondo suole avvenire, trovò assai immemori dei benefìci spesso chi più fu beneficato. Convinto che i mezzi scarseggiavano al suo clero, I comperava col proprio libri teologici, e li distribuiva fra I i curati. Frequentemente diceva: "11 sacerdote deve attendere allo studio, all' orazione, ed agli obblighi del i suo slato, precipuamente fuggire l'ozio; che facendo altrimenti non è degno del nome di sacerdote,.-"Signori, disse in certa occasione entrando all'impensata nel cir-I colo di sacerdoti acidentalmente riuniti; signori, il vi-' vere piamente è prima condizione, e fondamento ad o-gni cosa; il sacerdote che commette il male, è peggiore del diavolo, perchè il diavolo tende soltanto al male, il sacerdote deve mirare soltanto al bene,. Avverso dalla prima gioventù ad ogni lusso di vestire, di cibo, di mobiglie, compariva senza fasto in mezzo al suo gregge nell' assetto di semplice canonico ; la sua (avola era frugale, modeste le sue stanze. Altrettanto evitava ogni fasto nelle visite canoniche; il suono delle campane bastava, non sofferiva lo sparare ed il tripudiare. Soleva cominciare il giorno col rivolgersi a Dio nell' orazione, poi ai lavori di officio, nei quali con mirabile persistenza durava fino a notte tarda, concesso soltanto breve tempo al cibo ed al movimento; chiudeva la giornata coli'orazione, e si coricava appena alla mezzanotte. Ei fu veramente uomo di chiesa, e sapeva sostenerne con tulta dignità i diritti. "Non umiliate la religione fino a volerla schiava, disse in certo incontro, perchè o tosto o tardi essa sa prenderne soddisfazione,. Ed avveniva di lui ciò che lo Stollberg ottimamente osserva: "L'uomo mondano, al quale si presenti il pio armato della forza della religione, sente in sè qualcosa di maraviglioso ; è colpito quasi da scintilla elettrica che non lo riscalda, ma lo scuote (*)„• Amico del povero, se non fu prodigo nel gettare l'elemosina a chiunque, trovò certamente anime grate, che daranno testimonianza come li abbia generosamente soccorsi, anche se del bisogno fosse convinto a metà. Allorquando il regnante monarca salì gloriosamente al trono, fu per altissimo comando posto alla testa della deputazione dell'Illirio e del Litorale portatasi ad ossequiare il novello imperante; il quale insieme alle virtù paterne ereditò l'all'etto personale al vescovo di Trieste. Persone in dignità reduci dalla capitale recavano spessissimo i saluti dell' ottimo imperatore al Raunicher. Non tacerassi una prova della degnazione sovrana nell' occasione che le LL. MM. II. RR. onorarono di loro presenza la città di Trieste nel settembre 1844. Il vescovo attendeva gli augusti ospiti nella chiesa di s. Antonio nuovo, per riceverli alla porta. La malattia che 10 trasse al sepolcro, era già cominciata in lui, e volendo accompagnare S. Maestà fino all'altare, le gambe gli oscillarono, e cercando aiuto tese le mani al popolo, che lo commiscrava ad alte voci. L'imperatore udito ciò, girò repentinamente e preso il vescovo pel braccio "venite con me, gli disse, venite con me mio buon vescovo, e Io scortò come è lunga la chiesa. Ed in allora vi-dersi lagrime correre dagli occhi degli astanti, e voti furono nel silenzio alzati a Dio e pel sovrano e pel vescovo. Anche altri membri dell'augusta famiglia e specialmente l'Arciduca Giovanni, Altezza I. e R., furono a lui benevoli. Nella seconda metà di settembre del 1843 imprese 11 defunto l'ultima visita canonica nei decanati di Trieste e Dollina. Le fatiche pastorali, assiduo nel volere ogni dì celebrare la s. Messa alle 9 del mattino, nell' esaminare i confirmandi locchò durava fino alle 12, nel tenere discorsi prima della confirmazione, nel tenere Io scrunino nella canonica, nell' orare il dopopranzo in pubblica chiesa, nel benedire, nel portarsi lo stesso giorno alla prossima stazione, dispiacenze che i soli vescovi conoscono, prostrarono talmente le sue forze, che fu ammalato per due mesi e mezzo, nò più si riebbe pienamente. Il dì 13 aprile 1844 ebbe svenimento e minaccia di pericolosa piega del male; Iddio lo concesse alle preghiere dei fedeli ancor per breve tempo, sicché potè ancora nelle feste di Pentecoste cresimare 1300 persone, nell' agosto ordinare a sacerdoti alcuni chierici, ed attendere alle incombenze vescovili fino al 28 agosto 1845. In questo giorno ricorrendo la festa del gran dottore s. Agostino, pel quale professava spe- ciale culto, incurabile malattia degli intestini lo costrinse a porsi a letto, dal quale più non si levò. Volle munirsi di tutti i sacramenti dei moribondi nel dì della natività della Vergine, somministratigli dal suo padre spirituale, il canonico e decano distrettuale di Trieste. Aggravatosi il male, crudeli dolori non strapparono dalle pallide labbra nemmeno un lagno, non una parola; sofferì come un martire, rassegnato nella volontà del Signore, fidente in lui solo. La crescente debolezza del corpo non impedì allo spirito di occuparsi del suo ministero; sempre eguale a sè medesimo, sempre presente di spirito ascoltava le relazioni che il cancelliere e consigliere concistoriale faceva a lui, modificava, provvedeva, e sett'ore prima di comparire dinanzi all'eterno Giudice, firmava atti. I due medici chiamati alla cura, dichiararono fino da principio pericolosa la malattia, talmente da perdere la speranza di guarigione. Questa notizia diffusa repentinamente per la città e per la diocesi, afflisse, tutti furono solleciti di averne nuove, ed assai di ogni condizione desiderarono di vederlo ancora; ma egli prostrato di troppo noi concesse che all'arcivescovo di Vienna, al vescovo di Ragusa, ed a pochi altri suoi intimi. Le pubbliche preghiere alzate a Dio per la conservazione di lui, non valsero a cangiare l'immutabile decreto che lo chiama a ricevere la corona ed il premio riservati al buon servo. Nel dì 20 novembre 1845 verso le otto vespertine s'addormentò piamente nel Signore, fra le o-razioni del suo cancelliere. Io ti saluto, o Maria.... a questa bella preghiera invitavano nel mattino seguente, sacro a Maria, i sacri bronzi; più di un pio apriva a questo squillo le luci, e grazie rendeva a Dio; più d'un sofferente sentiva alleggerirsi il peso n questo suono. — Succede il silenzio nella romorosa città. — La campana rimbomba dalla veneranda torre del duomo...... non è questa la festiva salutazione angelica di pria — ò suono mesto, prolungato che annuncia sventura ai trepidanti abitatori di Trieste; le campane delle altre chiese ripetono il lugubre squillo ...... non v' ha più dubbiezza, nessuno chiede a che quel suono — ognuno lo comprende...... Il giorno medesimo nebuloso accresceva la pubblica mestizia.... pure il popolo s'affolla alla residenza vescovile, quasi sperando di poter dubitare di ciò che pur troppo era certo. Nei dì 22, 23, 24 indigeni e forestieri, dal primo mattino alla tarda sera, correvano a contemplare per l'ultima volta ciò clic rimaneva dell'illustre trapassato, ed a pregare pace per l'anima sua. Nel dì 24 novembre alle 10 del mattino ebbero luogo i funerali, condotti dal Celsissimo Principe ed Arcivescovo di Gorizia Francesco Saverio Luschin, accompagnali dai due capitoli di Trieste e Capodistria, da numerosissimo clero, tra cui 16 sostenevano la bara, da numeroso concorso di civili e militari, con alla testa S. E. il sig. Governatore, il T. Maresc. Barone Piret de Biliain, il Ì3rigadiere Conte Wimpfen, il Consigliere Aulico Conte Ò'Donell, il Consigliere Aulico Spurny, il preside Magist. Tommasini, ed altri capi di dicasteri, il Consiglio Municipale, la milizia territoriale, il maggior numero dei Consoli, il clero curato greco ed illirico, i capi delle confessioni diverse. Il tempo burrascoso e di i pioggia non distolse la buona popolazione di Trieste di accompagnare la salma del suo pastore fino al duomo; ed in mezzo a tanta frequenza, mirabile fu l'ordine ed il silenzio rotto soltanto dai mesti cantici del clero e dei fedeli; le vie per le quali passò il corteggio erano poste spontaneamente a lutto, con neri apparati in tutti i negozi; ed il Consiglio Municipale assegnava per onore posto distinto di sepoltura nel cimitero generale, presso la cappella, in onorificenza del benemerito prelato. In duomo, il principe Arcivescovo tenne l'officio dei morti, e volle accompagnare di persona la bara fino al cimitero sebbene distante tre quarti d'ora, adonta dell'imperversare del tempo; i due capitoli, il clero, il Magistrato, molto popolo, distinte persone fecero altrettanto. Alle tre ore di sera fu deposto il cadavere nella tomba, che tosto venne chiusa. Qui riposa Matteo Raunicher, il primo vescovo di Trieste-Capodistria, del quale può dirsi ciò che il biografo disse di s. Cipriano: sostenne la sua dignità, come vero pastore della sue pecorelle, con vigore e severità, con misericordia e santità. Era grave ed ilare nello stesso tempo; il suo cuore era acceso di pietà, e la santità parlava per bocca di lui; le sue parole scorrevano come limpido fonte, e le azioni furono pari alle parole ('). A quelli che si affaticassero di trovare nel suo carattere alcunché di rimproverare, seppure il trovano, risponderemo con s. Francesco di Sales: "Se do-i vesserò preporsi superiori all'intutto perfetti, dovrebbesi pregare Dio di mandare soltanto angeli dal cielo, che questi sarebbero tali; fra gli uomini non si rinvenireb-bero (2)B; e ricorderemo a questi tali il detto oraziano: ! Feriunt summos fulmina montes. Divise le sue sostanze in legati pii. Il quinto ed il sesto articolo del suo testamento dicono: 5. Lego sei mila fiorini per buoni libri teologici da distribuirsi annualmente fra i curati della diocesi; o li- 1 bri che trattino della cura d'anime, con rifiuto di ogni j libro che tenda a miscredenza, od oscurantismo, opere che assai spesso tornano or a riprodursi. Precipuamente dovrà provvedersi il clero novello, che entra in cura d' anime, ed i chierici poveri che sono ancora agli studi, di libri necessari per le scuole. 6. Lego quattro mila fiorini per opuscoli popolari religiosi di buona scelta, i quali dall'ordinariato si trasmetteranno ai curati, per venire distribuiti al popolo.— Queste disposizioni conserveranno eterna ia memoria di lui fra il clero ed il popolo delle diocesi di Trieste e Capodistria per tutti i tempi avvenire. Non diransi le sue lodi, ma ben si osserverà che tale fu il vivere suo, da poter dire coli' apostolo al compiersi della sua carriera: "Combattei una buona pugna, ho compito il corso, ho serbato la fede. La corona di giustizia mi attende, che il Signore, il giusto giudice, darà non a me solo, ma a tutti quelli C3) che fidano nel suo risorgimento. Riposi in pace. Trieste, nell'anniversario del suo obito, 1846. (1) Opere dei ss. Padri, V voi., pag. 2. (2) Francesco di Sales, Dialoghi spirituali, 16. (3) II Timot. IV, 7-8. La presente biografia voltata in italiano, soddisferà al desiderio di assai degli Istriani che un cenno, ed a ragione, chiedevano del trapassato. Non potè darsi prima d'ora, anche perchè il raccogliere le notizie degli anni suoi precedenti passati in altra provincia non fu cosa sì pronta, come qualcuno può pensare. All'autore della necrologia dichiariamo, insieme alle grazie nostre (che noi non avremmo saputo dar tutte quelle notizie) che stemmo fedeli alla lettera del testo originale, meno in uno o due passi nei quali fu indispensabile piegare I le frasi a modo italiano. Diremo in aggiunta che assegnato dal Municipio, per causa di onore, il luogo di deposito presso la cappella del camposanto, vi fu incisa per cura dell'esecutore testamentario la seguente leggenda, semplice quale il defunto 1'avea ordinata: MATTHAEVS RAVNICHER EPISCOP . TERGEST . ET IVSTINOP. NATVS IN FORO VAZHE. IN DYC . CARNIOLA. DIE XX.SEP. 1776. ET IN DOMINO OBDORMIVIT. DIE XX.NOVEMB . 1845. Ancor della Chiesa dedicata alla Beata V. del Soccorso in Trieste. Dobbiamo alla gentilezza del sig. Luigi de Ienner le seguenti notizie e rettificazioni per riguardo alla chiesa della R. Y. del Soccorso. L' antica chiesa dedicata già a s. Francesco contava otto altari. Quello di s. Antonio in legno alzato a spese della famiglia de Baseggio. Vi si leggeva: DIVO • ANTONIO • PATAVINO DOMINICVS • BAS1LAEVS • IOANNIS ■ FILIVS RELIGIONIS • AMATOR SPELEVM • CVM • SIGNIS ■ ET - ARAM • CAETERISQVE VOTI • COMPOS • DEDICAVIT M ■ D • XXIV Quello dell' Annunciata, alzato a spese di Lorenzo de Bonomo nel 1446; Quello dell'Immacolata Concezione eretto e dotato dalla famiglia de Burlo; Quello di s. Francesco, eretto e dotato dalla famiglia dell'Argento; Quelli del Crocefisso e della Madonna del Carmine, ambedue eretti dalla famiglia de Marchesetti; Quello della B. V. di Loreto; Il maggiore, opera della metà del secolo XVII, alzato da Lodovico Barone de Marenzi, sul quale il tabernacolo, come anche l'organo della chiesa sono dovuti alla famiglia dei Conti Petazzi; S. Antonio, da cui venne il nome della chiesa dato dal volgo, fu scelto a protettore della città nel dì 15 giugno 1667, ed il novello patrocinio fu celebrato con solenne processione dal duomo alla chiesa di san Francesco. Ricostruita la chiesa nel 1774, vi fu trasportato l'altare maggiore, quello di s. Antonio fu fatto in marino dal patrizio Andrea Civrani; quello dell'Angelo Custode è dovuto alla pietà della famiglia Francol che preparò dinanzi a quello la propria tomba; quello di s. Gioacchino e s. Francesco Serafico fu opera della congregazione delle 13 famiglie, ridotte in allora a cinque. Quello del Crocefisso, che sembra essere 1' antico. Neil' occasione degli abbellimenti e ristauri fatti nel 1813 da Angelo Calafati, non fu già dedicato altare all'Angiolo come fino dalla prima gioventù avevano creduto, tratti in errore da altrui asserzioni; 1' altare esisteva prima, ed è come vediamo liberalità della famiglia ! Francol. }M)elle strade istriane. "r Potentissimo mezzo a promovere la prosperità di una provincia o stato qualunque, furono sempre considerati i mezzi di comunicazione, i quali quanto più adatti a mettere a profitto gli elementi capaci a dare vantaggio generale, tanto meglio sono testimoni della saggezza di quelli che ne furono gli ordinatori. Ed è perciò che i Romani ebbero grandi lodi pel loro sistema di strade, adonta che nell'esecuzione lasciassero forse a desiderare alcun che per le facililà delle ascese; e le strade loro furono giudicate opere assai più gigantesche e proficue, che non le celebrate piramidi egiziane. L'esperienza dei secoli passati è guida ottima per regolare il presente; non già perchè tutto ciò che fece-si dagli antichi fosse ottima cosa, ma perchè le opere male ideate a. peggio eseguite, ebbero quella durala che corrisponde all'ingegno il quale le formò; le saggio all' incontro durarono eterne, se non sempre nella materialità della cosa, che ogni materia cede al potere del tempo, assai spesso nel divisamento. E riteniamo opera non perduta il rintracciare le antiche slrade romane attraverso la provincia, comunque le variate condizioni non S consiglino oggigiorno la restituzione; perchè la direzione loro, le loro divergenze e concentrazioni dànno testimonianza di una prospera condizione che ha esistito, e che certamente ritornerà; e perchè spesso avviene che nuove opere di tempi moderni siano restituzione, senza volerlo, di cose antiche, appunto perchè prodotto di immutabili condizioni naturali. La via naturale, precipua, quella senza di che non è possibile prosperità alcuna, intendiamo il mare, era utilizzala per la navigazione frequente col centro mercantile di Aquileja; e v'ha indizio in antichi itinerari che vi fossero stazioni marittime ad eguali distanze pel ricovero dei navigli che facevano periodici traghetti, in Umago, in Orsera, ai Brioni; piroscafi nei tempi an- tichi non v' erano, nè a queste possono paragonarsi i navigli a ruote mossi da buoi. Le stazioni dei navigli minori che procedevano verso la costa dalmatica non erano le sole; la città, le borgate andavano fornite di porti naturali ed artifiziali, dei quali ultimi, assai se ne conservano, ed i fari o lanterne che sorgevano nei porti di Trieste e di Pola, provano che la navigazione era frequente anche di notte. Tra Ancona e Pola vi era tragitto periodico, per le comunicazioni allora indispensabili con Roma. La grande via consolare od imperiale, la strada postale come diremmo, partiva da Aquileja, passava l'Isonzo a Ronchi sopra magnifico ponte di pietra a molte arcate, i cui frammenti furono poi impiegati nel campanile di Campolongo; procedeva per la vallata al Nord della rocca di Monfalcone, passava il gran filone del Timavo sopra ponte di pietra del quale vedemmo le rovine, lambiva le sorgenti misteriose del Timavo (che non queste sorgenti sole ebbero nome di Timavo) procedeva pel Carso fino a Prosecco fra il quale e Contovelo scendeva per la china dei colli a Trieste, girando nella piazza d'armi della Caserma maggiore per entrare in Trieste per la porta Aquilejese o di riborgo. Usciva da Trieste sulle alture di s. Giacomo costeggiando 1' antico acquedotto fino al sito detto Quarto che è in verità a 4 miglia, poi piegava per la valle di s. Clemente al Castellier sotto Antignano, passava il Risano presso la villa Ducaina ed attraverso le colline dei Pobbeghi si dirigeva all' insellatura verso Centora, punto il più depresso per uscire nella valle della Dragogna sotto il Castello di Geme. Scorreva poi per la valle di Costabona sotto il Pilo di Roveredo, dirigendosi ai Ma-russig ed a Tribano di Buje da dove scendeva presso al sito nel quale fu costrutto il ponte sul Quieto dell' odierna strada postale. Dal Quieto salito il clivo diri— gevasi per Castellier a Parenzo, sul quale tronco di strada vedemmo ancora a sito una pietra miliaria delle forme più antiche, siccome al di quà del Quieto vedemmo le incisioni nel monte per aprire il varco alla strada. Da Parenzo proseguiva in linea pressoché rettissima alla già abbazia di Leme, e traversate quel vallone, e guadagnate le allure di s. Martino andava diritta al Mandriol verso la punta Barbariga, e per la costa di mare, Peroi, Fasana, Castellier di Stignano di fianco all'Arena entrava nella città di Pola. Dalla quale uscita per la porta Aurata, attraversato il Campo marzo andava a finire nel porto di Medolino, ossia al porto flanatico di Pola, dal quale porto vi era tragitto di mare fino a Zara, e da questa città continuava la via fino a Costantinopoli, se si voleva. Ed è pur rimarchevole come posta Pola su due mari e due tragitti avendo l'uno verso Ancona, l'altro verso Zara, si preferisse correre un tratto di terra per imbarcarsi sul Quarnaro, anzi che doppiare il promontorio, di che deve cercarsi ragione nelle condizioni marittime di quella spiaggia. Dalla porta Giovia o Gemina di Pola usciva la via che traversata l'Arsa presso Barbana metteva ad Albo-na, da Albona procedeva verso Lovrana a Castua, a Fiume, però non girando intorno Fianona, ma (come supponiamo) traversando il filone dei monti sopra Wachsen-stein per venire direttamente a Moschenizze. Questa grande strada imperiale aveva doppio officio di unire Aquileja attraverso l'Istria con Zara, e di cingere tutto all'ingiro la penisola; altro ramo pure imperiale cingeva il lato, per cui la penisola si unisce al continente, da Aquileja a Fiume. Questo tronco di strada andava dal ponte del Timavo a s. Egidio, poi a s. Canciano ove il Timavo superiore si sprofonda, e per la vallata del Timavo fino ad unirsi con strada che da A-delsberg calava e cala tuttora a Fiume. Oltre questa grande strada che cingeva militarmente la provincia, altre ve ne erano dalle città precipue verso altri punti di maggiore contatto, o verso l'interno dei territori. Da Trieste sortiva una via per la vallata di s. Giovanni (ed il vallo di traverso vedesi ancora, creduto dall'Ireneo della Croce sostegno di Naumachia), passava il Monte spaccato ove ancor veggonsi le opere di taglio, progrediva per Corneliano a s. Canciano, poi per Niederndorf, Prewald, Londol, Kaltenfeld (o Studena) sì congiungeva colla grande via verso Lubiana. Altra u-sciva per le alture del molino a vento, e sulle falde di Montebello dirigendosi a s. Lorenzo sopra le sorgenti dell'acquedotto antico, correva attraverso l'altipiano del Carso, nella direzione dell'attuale per unirsi alla strada che da Adelsberg scendeva a Fiume. Queste quattro vie che quasi raggi convergevano in Trieste non erano le sole (sebbene le più importanti) perchè altre ve ne a-vevano di minori, tra le altre quella che metteva alla valle del Vipacco per s. Daniele, e quella che dirigevasi al Monte maggiore. Cittanova aveva strada che per Villanova metteva sulla imperiale diretta a Parenzo. Da Parenzo usciva via precipua e quasi imperiale, che per Sbandati metteva verso Coridico, poi traversata la vallata andava a Pisin vecchio, e traversato il Monte maggiore si congiungeva colla strada verso Fiume, divergendo altri rami verso quelle vallate laterali. Due altre vie uscivano da Parenzo, l'una verso Montona e che protendevasi fino a languente; l'altra verso s. Lorenzo che seguitava fino a' due Castelli. Così da Pola partivasi un ramo ai due Castelli, altro a Pisin vecchio, altro a Gallignana e Pedena, senza menzionare d'altre minori e secondarie, che univano 1' agro alle città precipue. Capodistria posta in isola e fuori della linea delle vie imperiali, non ne va priva, ma la circostanza appunto d'esser fuori delle grandi linee, e la configurazione dei suoi monti, non permette di riconoscere le traccie più che di linee per la valle del Risano fino alle sorgenti del fiume, ed altre di minor conto. Altre linee di strade ci è accaduto di vedere lungo la spiaggia, a breve distanza, per cui siamo indotti a ritenere che corresse una per quanto è lunga la provincia; ci è accaduto di rilevare vie le quali attraverso di un agro congiungevano un porto coli' altro, siccome avvenne noli' Istria inferiore fra il Quarnaro e P Adriatico; univano i tratti della stessa via imperiale per linea retta più breve siccome fu il caso tra Visinada e s. Lorenzo proseguendo da un lato a Leme, dall'altro ai due Castelli; univano luoghi mediterranei a porti di mare siccome da Pedena a Rovigno. E sebbene il filone della Vena e del Monte maggiore non concedesse passaggio che attraverso pochi luoghi appunto nei dintorni di Trieste e del Monte maggiore, pure vi fu strada dal Carso di Pinguente e propriamente da Lanischie per la gola di s. Andrea o dei due Castelli scendente alla parte inferiore fra Rozzo e Lupbglau. Le quali strade secondarie (chè la principale ebbe a mira anche i servigi militare e di posta) svelano il principio adoperato nel disporle, di avviare cioè gli agri naturali a' centri di consumi e di cambi, alla marina sulla grande via di comunicazione colle altre provincie di fuori; di unire mare a mare, porto a porto per la via di terra se questa era più facile; di agevolare ai montanari più remoti di scendere alle parti più basse pel mutuo commercio sempre vantaggioso reciprocamente. Così vediamo a Trieste ricorrere non l'Asiatico soltanto o l'Africano, o d'altra più remota regione; ma i villici delle valli del Vipacco, i montanari del Gollaz e di tutto l'altipiano del Carso; chè le condizioni naturali e di necessità li sospingono a ciò. (Sarà contj Di alcune monete volute istriane. Francesco Almerigotti giustinopolitano, nell' opu-I scolo — Dell' estensione dell' antico Illirico e della Dalmazia — facendosi a discorrere delle due monete a leggenda greca, di cui si unisce il disegno, non esitò pun-i to di attribuirle all' Istria Adriaca, contro il parere del dottissimo P. Bernardo Maria de Rubeis che in esse ri-j conobbe la zecca di città collocata sul Ponto Eusino. L'Almerigotti esclamava: "Chi sarà mai quello che nelle qui riferite medaglie istriane non ravvisi i con-| frapposti fiumi Istro e Pò; e nell'aquila al delfino so-'* vrapposta la metropolitana istriaca Aquileja sopra il mare situata? Delle quali medaglie la non mai tarda e perspicace mente del Marchese Scipione Maffei, e 1' erudito ingegno del sig. canonico Bertoli sospirarono vanamente la intelligenza, allorché per l'opposto il nostro accademico (Pad. Bubeis) asserì francamente essere indicati i confini d'Asia e d'Europa dalle contrapposte ' teste predette, attribuendo le medaglie stesse a quella provincia d'Istria che egli si è immaginato nel Ponto Eusino, in quella terra chiamata Istro presso Coruli ed Odessa ecc. ecc. Compiuto frattanto l'esame anche di questi istriaci documenti per l'addietro non dilucidati nè intesi, ora che siamo giunti alla metà del nostro ragionamento per questa via sinora sconosciuta e non calcata da alcuno.....„ 11 quale modo di dare ragione e lode anticipatamente a sè medesimo, e di impugnare come immaginario ciò che da altri si asserisce, rende assai sospetta la sentenza sua, perchè sono modi questi stranieri a dotti ed ingenui animi, e sanno pur troppo di quelle forme di questionare che non furono inusitate or sono cent'anni anche in queste parti. L'Almerigotti fu poi poco scrupoloso nel leggere le parole della seconda mo- neta, dacché non ISPIS sta scritto su quanti esemplari si ebbero, sibbene QA2I-, nè può essere scambio di monete, dacché l'Almerigotti diede disegno di quelle che prese ad illustrare. Le autorità di Eckhel e di Mionnet, che portarono a sì alto punto la scienza numismatica, hanno bene maggiore peso, che non le bizzarrie d'altri; e queste autorità vengono in sostegno al pensamento del chiarissimo de Rubeis. La prima moneta appartiene ad Istrus, città della Mesia inferiore sul Ponto presso alla prima foce dell'I-stro-Danubio, e fu città di conto se crediamo ad Am-miano; Strabone, Scimnio, Plinio la attestano colonia di Milesi; Pomponio Mela, Tolomeo la chiamano Istropoli e corrisponde all' odierna Silistria o Kargolik. Monete autonome in argento di questa città, sono frequenti, rare quelle di rame, rarissime di oro. Durante l'impero romano, si continuò a coniare moneta, e ve ne sono coli'effigie di Adriano, di Caracalla, di Settimio Severo, di Geta e d'altri ancora. Le autonome hanno tipo costante: due teste giovanili in direzione opposta e capovolte; nel rovescio un'aquila che sta per divorare un delfino, colla leggenda I2TRIA, talvolta scritta retrograda, talvolta I2TRIH, cioè I2TRIANQN od I2TRIHNQN. Qualche lettera isolata o nell' esergo è segno di zecca. Le quali teste si credettero allusive ai due rami dell' Istro, d'uno dei quali pensavasi sboccasse nell'Adriatico; altri pensarono si indicassero l'Asia e l'Europa ivi prossime; Wise vede in questo i Dioscuri protettori della navigazione, dei quali secondo Pindaro a vicenda stanno l'uno nel cielo, 1' altro nell' ima terra, alla quale opinione applaude 1' Eckel, dacché i Dioscuri ebbero culto peculiare nelle città del Ponto. 11 num. I.° della tavola è tratto dall' esemplare che il sig. Giorgio de Manussi donò al museo tergestino, insieme alla rarissima di Pescennio Negro in argento ; dono che tanto più merita encomio e grazie, quantochè è di persona che fa raccolta e studio di antiche monete, delle quali ha collezione assai ricca, e preziosissima non di romane soltanto, ma di greche. La seconda è nummo argenteo dell'isola di Thasus (Tassus, Tasso) di Tracia, celebre per opulenza manifestata nella copia delle monete d' argento che si rinvengono, ed oltre alle autonome si hanno imperatorie rarissime, di Caracalla, di Geta ecc. ecc. L' avverso ha testa doppia di Sileno, come Giano bifronte; il rovescio due vasi in direzione opposta colla leggenda OA2I, vasi ed epigrafe in quadrato incavato. Talvolta in luogo delle diote ha due pesci (Num. II e III della tavola). Il conte Gianrinaldo Carli nelle sue antichità di Capodistria fa menzione di due altre monete attribuite alla penisola istriana, e pei simboli ivi espressi ritenute di Capodistria medesima; ed è veramente mirabile la sicurezza delle espressioni di cui si serve per distruggere quella opinione universale in allora. "Considerando (di-c' egli dopo dotti ragionamenti) ad una verità certa, quale è che la nostra Provincia non ha inai coniato monete; non posso soscrivermi alla comune credenza, nè persuadermi posso che questa medaglia sia d'Istria. Ed avea ben ragione. La prima moneta da lui veduta in originale pre- senta da un lato la testa di l'allade Galeata ; nel, rovescio si legge 12 e v'è un capro stante alla d.— È nummo che spetta indubitatamente ad Issa (Lissa), isola dell'antico Illirico secondo Strabone ed Irzio; che il capro appunto fu celebre animale in questi luoghi: Contra Tragurium Bavo, et capris laudata Brattia, Issa ci-vium Homanorum, dice Plinio. Tragurium (Traù) ripete dal capro il suo greco nome tQiiyo? ed a testimonianza di Strabone gì' isolani d'Issa ne furono i fondatori, e la novella città denominarono dal simbolo della patria antica. Altri nummi abbiamo di questa isola, caratteristici tutti e pel metallo particolare, e peli'orlo tagliato in isbieco. La seconda moneta avea nel diritto una corona d'alloro e nel mezzo le stesse lettere 12, e nel rovescio una colomba, non un'aquila, volante. — La stessa moneta comparisce colla sola lettera 2, e più frequentemente con 21, e spetta a Sicione dell'Acaja secondo i più riputati numismatici. (Fig- IV, e V.) Queste indicazioni sono invero superflue per la scienza, e pei dotti, nessun dubbio essendovi su ciò che annunciamo, ma il si fa soltanto perchè nell'Istria hanno posto conveniente, anche cose trite che alla patria provincia si riferiscano. C. C. Battistero di Rovigno. Fuori delle mura che cingevano Rovigno, altra volta posto in isola perfetta di mare, or riunito a terra ferma per interrimento del canale; fuori della borgata di Rovigno che dicono di Carrera, al principio dei caseggiati, in sito contermine a vasca artifiziale preparata per serbatojo di acqua potabile, e non lontano dalla spiaggia del mare, sorge una piccola chiesetta di forma singolare perchè ha sette lati, intitolata alla Santissima Trinità, chiesetta che ha potuto sfuggire alle chiusure, _ ed alla conseguenti distruzioni operatesi nel 1806. È oggidì cappella del comune, nè ad altro serve che a peculiare divozione privata. Esaminata esternamente niun indizio poteva ravvisarsi che le muraglie, in origine di otto lati, fossero nella parziale ricostruzione di qualche lato mancato, ridotte a sette a risparmio di materiale; nessun indizio che in qualche lato si aprisse nicchione od abside per collocare l'altare, come nelle più antiche cappelle del tempo bizantino e dei successivi si riscontra con tipo uniforme perchè tratto da necessità di culto; ed il diametro della cappella, appena di due teso viennesi ed un piede, non concede assai spazio per collocazione di altare; dal che venne sospetto che non fosse questa cappella settagona destinata ad officiatura di messe. Per gentilezza di quella amministrazione comunale ebbimo agio di poter vedere l'interno di quella chiesetta, e di farvi qualche studio e tasto. L'interno è a volta come il battistero di Pirano, e come questo ha la parte inferiore a nicchie, le quali, compresa quella della porta, sono otto ; e differisce da quello di Pirano in ciò che per trar maggiore spazio la mezzeria delle nicchie corrisponde all'angolo saliente dei Iati esterni; dilTerisce poi nella simmetria la quale è incerta nelle dimensioni; brutto è poi il lavoro delle arcate che appena possono dirsi semicircolari. L'interno dell'edifizio concordando coli'esterno si manifestava per battistero, e rotto il pavimento nel centro potemmo riconoscere gli avanzi di fondamenta di vasca pel battesimo. L'altare è indossato in una nicchia per patente ripiego. Due sole finestre vi hanno, piccole, ai lati della porta d'ingresso, con chiusura a pietra intagliata e traforata, di lavori assai barbari. Nel tasto del terreno potò verificarsi che l'antico pavimento fosse in mattoni, molti dei quali tuttogiorno adoperati nel moderno, di forma minore degli antichi, però assai più grossi, e fatti di pasta, nella quale sono frammisti mattoni antichi triturati. Avvertiamo che la direzione del battistero è col-l'ingresso a ponente. Riteniamo questo battistero di Rovigno per opera del IX secolo, nella quale non si ebbe coraggio di scostarsi dalla forma e distribuzione di battisteri più antichi, ristretto soltanto nelle dimensioni, come la povertà dei tempi suggeriva. Non v' era altare in origine, e congetturiamo che fosse già dedicato a s. Giovanni, titolo cangiato in quello della Ss. Trinità in epoca da noi ignorata, siccome ci è ignota l'occasione per la quale si convertì in cappella d'altro uso. Questo battistero è testimonio di tradizioni che corrono di antica condizione ecclesiastica, della quale, se a Dio piace, altravolta ci occuperemo; basti in oggi l'avvertirne l'esistenza ed il rango fra i monumenti della provincia.