PIOTR CHMIEL "Incomers"? The Image of the "Slavs" in the Works of Early 20th Century Triestine Authors The article describes the way in which the Italian authors of the beginning of ther 20th C. represented the "Slavs", i.e., Slovenes and Croats, who inhabited the region of Istria. The aim is to reconstruct the terminological system used by them as well as the main features of the "Slavic" identity which emerges from the texts analysed. It seems that, whatever the political views of an author, the "Slavs" used to be perceived as newly arrived persons in the public life of the Istrian towns of the littoral, towns mostly inhabited by the Italians. Such persons were considered dangerous from the perspective of any eventual change in the political borders of the region. According to the texts on the personal level "Slavs" were very traditional with respect to religious issues. They were rather exotic, being the owners of particular and inexplicable souls. They were also treated as members of an inferior civilisation that was penetrated by Italian influences. However, the vision of the authors cannot be classified as a colonial one. It is rather another model of discourse, defined here as a discourse on "Incomers". It seems that this model may explain the characteristics of some journalistic visions present in the contemporary press. Keywords: Istria, Trieste, Slovenes, Croats, Italians, image Un Nuovo Arrivato? Uimmagne dello "slavo " negli scritti di autori triestini delVinizio del Novecento Larticolo illustra il modo in cui negli scritti di autori italiani dell'inizio del Novecento vengono rappresentatigli„slavi", ossiagli sloveni e i croati che vivono in Istria. Nellarticolo si cerca inparticolare di ricostruire il sistema terminologico usato nonche i trattiprincipali dell'identita dello "slavo" che emergono dai testi analizzati. Sembra che, nonostante le diverse opinioni politiche degli autori, uno slavo venga percepito come un nuovo arrivato nella vita pubblica delle citta istriane della costa, prevalentemente abitate da italiani. Esso epertanto ritenuto pericoloso nella prospettiva di un eventuale cambiamento di appartenenza politica della regione. A livello personale, dai testi emerge la figura di uno "slavo" per un verso molto tradizionalista in questioni confessionali, per un altro verso invece un po esotico, in quanto dotato di un'animaparticolare e inafferrabile. Esso e anche considerato come appartenente a una civilta inferiore, permeata da influenze italiane. Tuttavia la visione degli autori nonpuo essere classificata come coloniale. Si tratta piuttosto di un altro modello di rappresentazione, definito nel presente contributo come discorso sul Nuovo Arrivato. Si ipotizza che questo modello spieghi le particolarita di alcune rappresentazioni giornalistichepiuttosto diffuse oggi. Parole chiave: Istria, Trieste, sloveni, croati, italiani, immagine Correspondence address: Piotr Chmiel, University ofWarsaw, Institute for Interdisciplinary Studies Artes Liberales, ul. Nowy Swiat 69, 00-046 Warsaw, Poland, e-mail: piotr.chmiel@student.uw.edu.pl. ISSN 0354-0286 Print/ ISSN 1854-5181 Online - UDC 323.15.342.4(058) © Inštitut za narodnostna vprašanja (Ljubljana), http: //www.inv.si Prišleki?Podoba "slovanskega" v delih tržaških 105 avtorjev na začetku 20. stoletja Članek opisuje, kako so italijanski avtorji na začetku 20. stoletja pisali o "Slovanih" oziroma Slovencih in Hrvatih, ki so naseljevali območje Istre. Namen članka je tako rekonstrukcija terminologije, kot tudi glavnih značilnosti "slovanske" identitete, ki izhaja iz analiziranih besedil. Zdi se, da so avtorji, ne glede na svoja politična prepričanja, "Slovane" vedno obravnavali kot prišleke v javnem življenju istrskih mest, ki so bila v glavnem poseljena z Italijani. Ti ljudje so v luči prihodnjih sprememb političnih meja v pokrajini veljali za nevarne. Iz besedil je razvidno, da je bil "Slovan" na osebni ravni glede verskih vprašanj zelo tradicionalen. Zaradi svoje posebne, nedoumljive duše je veljal tudi za rahlo eksotičnega. Obravnavali so ga kot pripadnika manjvredne civilizacije, prežete z italijanskimi vplivi. Vendar odnosa italijanskih avtorjev ne moremo opisati kot kolonialističnega. Prej bi ga lahko umestili v drugačen model diskurza, definiranega kot diskurz "prišlekov". Zdi se, da ta model osvetljuje tudi značilnosti nekaterih novinarskih pogledov v sodobnem tisku. Ključne besede: Trst, književnost, 20. stoletje, "Slovani", podoba 1. Introduzione L'obiettivo del presente articolo è quello di presentare il modo in cui gli autori italiani dell'inizio del Novecento descrivono la popolazione istriana di origine slava.1 Si presterà attenzione soprattutto a quegli scrittori che produssero la loro opera negli anni precedenti alla prima guerra mondiale. Tra questi ne sono stati scelti tre: un giornalista, Virginio Gayda, portavoce delle opinioni strettamente conservatrici riguardo alle questioni nazionali e divenuto poi un importante collaboratore del regime fascista; un pensatore vicino alle idee socialiste, Angelo Vivante, nonché un noto letterato triestino, meno conosciuto per i suoi saggi dedicati alle questioni nazionali, Scipio Slataper. Quest'ultimo era lontano sia dalle posizioni socialiste che da quelle nazionaliste o irredentiste, come d'altronde ammise egli stesso (Slataper 1925, 119). Tuttavia, come si vedrà in seguito, è difficile definire le opinioni dei tre autori in modo univoco. Malgrado ció, l'analisi dei testi di questi scrittori sembra delineare in modo sufficientemente chiaro un panorama delle opinioni degli italiani sui problemi etnici coevi in Istria. Anche il periodo preso in considerazione ai fini della ricerca non è casuale: i saggi e i réportages degli autori sono usciti negli anni direttamente precedenti alla Grande Guerra (Gayda 1914, Vivante 1912; i testi di Slataper, nonostante la loro più tarda pubblicazione, vennero editi sulla rivista La Voce dal 1909 al 1914). È dunque un momento storico in cui la possibilità di una guerra che - in questa parte d'Europa - avrebbe dovuto modificare i confini statali esistenti, veniva presa seriamente in considerazione da tutti gli intellettuali interessati alla politica. In più i pensatori triestini si rendevano conto del peso che avrebbe avuto il fattore nazionale in un eventuale cambiamento dei confini oppure in caso di costituzione di uno stato nazionale sloveno o croato. La rappresentazione degli "slavi" creata in quegli anni, è perdurata talvolta per alcuni decenni: a testimoniarlo nell'articolo sono alcune citazioni di Giani Stuparich, amico di Slataper e autore di un libro di memorie della propria giovinezza, e di Fulvio Tomizza, noto autore di romanzi la cui azione si svolge in Istria. I passi di questi scrittori sono stati qui citati soltanto per illustrare il perdurare di una visione o di uno stereotipo ereditato dai primi due decenni del Novecento. È inoltre chiaro che la percezione reciproca degli italiani da una parte e degli sloveni e dei croati dall'altra dopo il 1945 era già diversa da quella del 1914, dati gli avvenimenti del Ventennio, della seconda guerra mondiale e degli anni successivi. Oltre ad avere uno scopo cognitivo, che puo essere un contributo alla ricerca nell'ambito delle questioni nazionali, il presente articolo si propone di affrontare anche un problema teorico. A tale fine si introduce il concetto del Nuovo Arrivato. Si ritiene infatti che la percezione degli "slavi" nei testi qui presentati possa essere definita utilizzando questo concetto. La rappresentazione degli slavi quale emerge dagli scritti analizzati non è soltanto la mera definizione di un altro gruppo nazionale (anche per il motivo che i tre intellettuali preferiscono ricorrere ad altre categorie, di razza o di civiltà, ovviamente non congrue al significato attuale di queste nozioni). Gli "slavi" vengono descritti come un gruppo esotico, appartenente a un'altra civiltà, ritenuta inferiore, più tradizionalista nelle questioni confessionali, anche se in via di sviluppo nazionale e in fase di relativa modernizzazione. Ci si potrebbe dunque chiedere se tale rappresentazione - non trattandosi solo di un discorso nazionale - sia forse semplicemente di carattere coloniale. Tuttavia pare che il modello coloniale sia inapplicabile a tale genere di descrizione: il concetto di Nuovo Arrivato sembra più adatto. Inoltre è un concetto che potrebbe essere applicato anche ad alcune descrizioni fatte da giornalisti o analisti contemporanei. È stato proprio questo il motivo per cui si è pensato di redigere il presente articolo. Il testo è diviso in sette parti: la prima ha un carattere introduttivo, destinato a spiegare alcune nozioni utilizzate dagli autori citati; successivamente vengono riportate le citazioni relative alla migrazione degli sloveni e dei croati verso le città della costa istriana; alla descrizione della "civiltà slava"; al carattere degli "slavi"; allo scontro tra italiani e "slavi"; al ruolo della religione nonché alle nozioni possedute dagli autori in questione sui popoli slavi. Infine si cercherà di definire il concetto di Nuovo Arrivato. L'articolo puô essere considerato storico in quanto si concentra su testi prodotti cento anni fa, i quali si riferiscono alla situazione dell'epoca. Tuttavia l'attenzione non verrà focalizzata su questioni storiche riportando gli avvenimenti di allora o descrivendo in modo dettagliato alcuni processi. Si è consapevoli del fatto che la storia dell'Istria è tema di numerose opere sia italiane che slovene e croate. Nell'articolo ogni accenno ad eventi storici avrà un carattere ausiliare e sarà pertanto inevitabilmente schematico. 2. Problemi terminologici e metodologici Prima di cominciare l'analisi bisogna essere consapevoli che i pensatori di un secolo fa adoperavano termini alquanto diversi da quelli che utilizziamo oggi per definire gli stessi concetti. Ovviamente non facevano distinzione tra nazione ed etnia, né fornivano la definizione dei termini utilizzati, quindi ogni tentativo di definirli deve essere per forza induttivo. Tutti i tre si servono del termine di nazione italiana o di italiani per descrivere sia gli abitanti dello stato italiano sia gli abitanti dell'Istria che si sentivano appartenenti alla nazione italiana. Anche per loro il criterio più importante per decidere se uno facesse parte della nazione italiana o no era quello soggettivo. Non hanno neanche difficoltà nel trattare la nazione italiana come una determinata entità: uno dei suoi punti di riferimento è il movimento nazionale ottocentesco, il Risorgimento e le correnti unificatrici con infine l'irredentismo. Tutti considerano la nazione un fenomeno non soltanto storico e culturale, ma anche politico. L'esistenza dello stato italiano fornisce dunque loro un'altra base per posizionare la nazione italiana nel sistema dei concetti utilizzati. Di solito, parlando degli italiani, gli autori si riferiscono alle città della costa, dove la prevalenza demografica dei loro connazionali era rilevante. L'entroterra della penisola era invece abitato da una popolazione mista, prevalentemente di origine slava. Non sembra corretto chiamare alcuni abitanti di quei posti italiani, anche se parlavano un dialetto romanzo locale, del resto comprendente elementi slavi. All'interno dell'Istria a quell'epoca il senso nazionale non pare essere definito in modo preciso. Per questo motivo bisognerebbe definire la popolazione locale piuttosto come di origine neolatina. Tracce di un tale dubbio sono in effetti riscontrabili negli autori analizzati: l'italiano è per loro colui che è originario dell'Italia o del litorale istriano e dalmata. Il villaggio italiano-istriano non esiste. Tra l'altro, nella letteratura italiana non esisterà fino ai tempi di Fulvio Tomizza, ossia fino agli anni Sessanta del '900. Più problematica sembra per i suddetti scrittori la definizione della popolazione istriana di origine slava. Gli abitanti slavi dell'entroterra istriano sono semplicemente "slavi" e non rientrano nella mappa mentale italiana. Si è pero ben consapevoli della loro esistenza e del loro numero. Di contro, pero, gli autori citati non sanno estendere il concetto di nazione agli sloveni e ai croati di Trieste, Fiume e di altre città. Questi in realtà avevano saputo definirsi dal punto di vista nazionale e avevano anzi gradualmente iniziato a rivendicare vari diritti all'epoca chiamati politici, ossia una certa tutela della propria lingua e cultura nonché della loro diffusione, il diritto all'uso delle proprie lingue nella Chiesa, all'attività di associazioni di carattere nazionale, ecc. Nonostante cio, i pensatori triestini sembrano non essere in grado di riunire nella stessa nozione un abitante slavo dell'interno, da cui si sentivano in certo modo impauriti, con uno sloveno o un croato della città che voleva essere titolare degli stessi diritti degli italiani. Per questo motivo nei testi si trova sempre la parola "slavo", sebbene gli autori sembrino, almeno parzialmente, coscienti del fatto che gli sloveni e i croati costituiscano due nazioni diverse. Un altro ostacolo per gli scrittori è la mancanza di uno stato nazionale sloveno o croato, anche se nei saggi si accenna a una tale possibilità. Infine gli autori italiani non conoscono la cultura degli sloveni e dei croati e quindi non sanno ridefinirla nel contesto nazionale, come è stato fatto in molte nazioni occidentali (Smith 1992, 378-379; Banti 2000, 150). I pensatori citati si sentono quindi più sicuri parlando semplicemente di "slavi" Nel presente contributo si metterà tale parola tra virgolette commentando le citazioni, ma solo nel caso che tale parola venga riferita a membri di nazioni slave, consapevoli della propria identità. Inoltre, l'uso della parola "slavo" in riferimento alla seconda metà dell'Ottocento e al Novecento puo acquisire un significato alquanto offensivo, associato all'epiteto di s'ciavo (schiavo), riferito a una persona il cui territorio veniva percepito, per citare l'espressione di Stranj (1992, 16), "sia come territorio di conquista sia come fonte di una incombente minaccia". Forse per il motivo di tali dubbi i tre autori evocano concetti più estesi, come razza. Nell'uso del temine razza c'è qualcosa di mistico: è un gruppo di popoli che parlano lingue simili e hanno un'anima comune, come tutti gli slavi o i "popoli nordici" (Slataper 1925, 377) ossia germanici. C'è alla fine la razza latina, di solito identificata con gli italiani, visto che si tratta di testi di autori triestini che incontravano più spesso austriaci o sloveni che ad esempio francesi. Un altro concetto, fortemente apprezzato da Slataper, è quello di civiltà (Slataper 1925, 204), identificata per lo più con una regione in cui varie etnie o nazioni sono convissute per secoli, talvolta rimanendo sotto il governo di un impero. La civiltà slataperiana puo essere anche una nuova narrazione della storia di un'area geograficamente vicina, unita da un centro geografico come un mare o un fiume. Per il pensatore la storia di una civiltà è più reale di tante storie nazionali. Di grandi civilta ne enumera cinque, ma soltanto per riportare degli esempi: quelle baltica, renana, adriatica, mediterranea e danubiana. Affrontati i principali problemi teorici, bisogna aggiungere ancora una nota, soprattutto riguardo a Slataper. I tre scrittori erano attivi anche come giornalisti o commentatori della situazione internazionale. E poiché quest'ultima cambiava rapidamente, essi, cercando di reagire ai suoi cambiamenti, talvolta scrivevano cose non del tutto congrue. Bisogna dunque considerare questi scritti come uno specchio delle correnti intellettuali presenti a Trieste alla vigilia della Grande Guerra e non come sistemi ideologici. 3. Una Birnam adriatica Chi e dunque uno "slavo" nella percezione di questi pensatori triestini? É soprattutto un nuovo arrivato: sul piano sociale viene percepito come un immigrato, di solito un operaio che abita nei sobborghi triestini e spesso lavora nel settore dell'industria navale. Ma nello stesso tempo e un nuovo arrivato anche sul piano politico. A partire dagli anni Settanta dell'Ottocento lo "slavo" comincia a mettere in rilievo i suoi diritti politici (oggi si parlerebbe piuttosto di diritti delle minoranze), anche se non li rivendica in maniera espressa. In quest'epoca a Trieste, inclusa nei confini della monarchia austro-ungarica, sono piuttosto gli italiani a domandare varie concessioni al governo asburgico. Si tratta sia dell'apertura di istituzioni che servono a tutelare la cultura italiana, come scuole e un'universita, non concessa a Trieste dal governo austriaco per non spianare un ulteriore percorso di propaganda nazionale agli irredentisti (Hosler 2008, 144); sia di liberta politiche in senso proprio (Cattaruzza 2007, 20). Tutta la regione giuliana era considerata dagli intellettuali italiani di Trieste come una parte delle terre irredente che - prima 0 poi - avrebbero dovuto essere unite all'Italia. Il problema piu importante per quegli intellettuali era dunque trovare il modo per riuscire a unificare tutte le terre ritenute italiane, secondo le ragioni di uno stato nazionale. In questa prospettiva lo "slavo" non veniva definito. L'ottica cambio verso l'anno 1890 (Sestan 1947, 95), quando ebbero luogo le migrazioni slovene verso Trieste. A quel tempo la ricca citta portuale attrasse, similmente ad altri centri industriali d'Europa, gli operai che in questo caso provenivano soprattutto dall'interno dell'Istria. Si tratto di un fenomeno tutt'altro che esiguo: secondo Apih (1966, 13) nel 1913 gli operai di Trieste, circa 24 mila persone, costituivano un quinto dell'intera popolazione cittadina. Paragonando 1 censimenti nazionali di Trieste, effettuati secondo i criteri della lingua d'uso e dunque più favorevoli agli italiani - dal momento che la maggior parte degli immigrati sloveni spesso ricorreva all'italiano (Verginella 2008, 90) - risulta che il numero degli sloveni a Trieste nel periodo tra il 1890 e il 1910 si decuplico. Nel medesimo tempo il numero di tedeschi si triplico e quello di italiani raddoppio (Perselli 1993, 431). Tuttavia bisogna ammettere che non tutti gli storici sono concordi nell'affermare che il processo di migrazione slovena verso Trieste fosse cosí intensivo e veloce. Secondo Pacor (1964, 34) si tratto di un fenomeno molto più duraturo e graduale. Della stessa opinione era anche Slataper (1925, 99). In ogni caso, alla vigilia della prima guerra mondiale, Trieste divento una specie di "capitale morale e mentale" slovena (Valdevit 2004, 7), contando più sloveni che Lubiana stessa. Sottolineando l'importanza di Trieste per il territorio nazionale, uno dei politici sloveni di allora, Ivan Tavčar, la paragono ai polmoni della Slovenia, mentre Lubiana doveva esserne il cuore (Košuta 2002, 1187). Cambiata la composizione etnica della città, alcuni intellettuali italiani di Trieste si resero conto che l'appartenenza dei territori istriani all'Italia rischiava di diventare più problematica. In altre parole, le stesse ragioni (demografiche) per cui l'Istria doveva essere inclusa in Italia, potevano servire come argomento per annetterla a un altro stato nazionale creato dagli "slavi". La paura di una tale soluzione si diffuse anche per altre ragioni: gli austriaci non erano mai riusciti a dominare Trieste. La lingua tedesca, usata tra le persone colte, non aveva mai preso il sopravvento sul dialetto triestino. La popolazione slovena disponeva invece di nuove classi dirigenti, che operavano per il risveglio nazionale, e di un numero sempre maggiore di persone che continuavano ad arrivare a Trieste e ad usare -almeno tra di loro - una lingua incomprensibile agli italiani. Tutto questo andava sommato, come osservano Ara e Magris (2007, 33), alla presenza di quella stessa popolazione proprio alle spalle di Trieste (per servirsi del titolo del famoso volume di Tomizza), mentre l'area su cui gli austriaci erano etnicamente prevalenti era priva di un'analoga continuità. A partire dagli anni Sessanta dell'Ottocento, come vuole Oliva (2005, 7), la presenza degli sloveni nello spazio pubblico di Trieste divenne sempre più consistente. Furono fondate varie sale di lettura (čitalnica) e centri nazionali (narodni dom), fu avviata l'attività di cori o gruppi di danza che si dedicavano alla diffusione di canti e balli popolari. Queste attività venivano promosse dalla prima associazione politica slovena a Trieste, Edinost (Unità), fondata nel 1874 (Valdevit 2004, 6) e preceduta da una simile organizzazione (Soča; Isonzo) attiva a Gorizia dal 1869 (Stranj 1992, 72). Sempre più alto nella Venezia Giulia era anche il numero di scuole elementari con lingua d'insegnamento slovena e croata. Nel 1913, escludendo la città di Fiume, ve ne erano 321 slovene e 167 croate (Čermelj 1974, 41). Fino al 1914 furono 18 mila gli studenti sloveni che finirono scuole con l'insegnamento della propria lingua (Hösler 2008, 133). Comparvero inoltre 111 dei periodici pubblicati in croato e sloveno come le Kmetijske in rokodelske novice (Notizie contadine e artigianali) che incoraggiavano i membri delle nuove nazioni alla partecipazione alla vita política (Verginella 2008, 89). A questo contesto va ricondotto il discorso degli intellettuali triestini sul presente e futuro carattere etnico della citta. Un'immagine interessante si trova nei testi di Virginio Gayda, un giornalista che scrisse delle lettere da Trieste mandate a La Stampa. Da queste lettere emerge l'immagine di una citta assediata da una popolazione non italiana che la sta conquistando economicamente, politicamente e demograficamente, al punto che perfino i titoli dei suoi reportages evocano quest'associazione (L'assalto a Trieste, L'avanguardia slava, La minaccia slava). Gayda, schierato coi nazionalisti, vede il futuro della citta in una prospettiva pessimistica per gli abitanti italiani. In piu, la migrazione slovena non e per lui spontanea, ma "e l'assalto organizzato alla conquista del potere su Trieste" (Gayda 1914, 16). Infatti ritiene che "questi slavi della campagna devono essere come un'avanguardia: dei soldati in combattimento con una precisa missione di conquista" (Gayda 1914, 12). Un ruolo molto importante nella "conquista" viene attribuito da Gayda ai centri nazionali sloveni chiamati narodni dom. Questi posti sono secondo il giornalista molto pericolosi, tanto piu in quanto nello spazio pubblico italiano non esiste nulla di analogo. Il Narodni Dom e una curiosa forma di aggregazione politica, tipica degli slavi, che si trova in ogni centro importante e rappresenta gia una evoluzione della cosiddetta citalnica, che vuol dire gabinetto di lettura, ma non ha in realta nulla da fare con la lettura, mascherando, con il suo nome innocuo, un nucleo piu embrionale di club politico (Gayda 1914, 85). Secondo il giornalista, l'afflusso slavo non si puo nasconder piu. Non ha toccato ancora nulla della purezza italiana della citta, ma e gia un fenomeno che si deve seriamente meditare. Nei quartieri piu lo ntani, a torno gli arsenali e le oficine, trovate intere, compatte colonie slovene di operai. Piccoli negozi, societa di ritrovo non hanno piu un puro carattere italiano. Nelle strade i bambini non parlano piu italiano. Vi e qualcosa di nuovo, di straniero (Gayda 1914, 13). L'atteggiamento pieno di paura di fronte ai cambiamenti demografici viene invece criticato da Slataper che si contrappose al gruppo integralista degli irredentisti. Riguardo ad alcune concessioni in favore dei diritti degli sloveni e croati scrive: "Voi [irredentisti] gli slavi li volete barbari come i padroni inetti vogliono castrati i servitori" (Slataper 1925, 113). Il pensatore presta l'attenzione al modo in cui vengono trattati gli "slavi" come gruppo nel momento in cui rivendicano certi diritti: Infine vale la pena di citare un passo di Giani Stuparich, incluso nei ricordi dedicati a Trieste. Il volume di queste mémoires fu pubblicato nel 1948, nel periodo in cui le sorti di Trieste e della cosiddetta zona A del Territorio Libero di Trieste non erano ancora decise. Nonostante il fatto che la città portuale si trovasse sotto l'amministrazione degli alleati occidentali, non era escluso che un futuro trattato potesse assegnarla al territorio jugoslavo. In quelle circostanze la voce di Stuparich, molto conservatrice dal punto di vista nazionale, fu una protesta contro una tale soluzione del problema triestino, soluzione che l'autore deprecava. Non stupisce dunque che lo scrittore evochi spesso concetti stereotipi, rappresentando anch'egli gli sloveni e i croati come una gente nuova, arrivata in massa dai boschi adiacenti alla città: Un popolo straniero, diverso di lingua e di costumi, non in secoli come Dalmazia, ma in pochi decenni, forse in po chi anni l'avrebbe [quella terra] maturata alla brama d'espansio ne. E quel popolo l'avevamo immediatamente alle spalle. Dall'orlo del Carso, con uno strattone ai paletti di confine, sarebbe potuto scendere su Trieste, che ignora, come un roseo gregge, godeva di stendersi al sol su quell'ultimo spazio aperto del golfo (Stuparich 1948, 234). Lo "slavo" dunque sceso dai boschi per impadronirsi delle città della costa; quasi come se sulle sponde dell'Adriatico si svolgesse un atto del Macbeth. Ho domandato l altra sera a un amico che personalmente tratta con gli slavi, ma li considera intrusi da massacrare secondo ius belli: - Se uno slavo ti chiede un libro, tu glielo presti? - Si, naturalmente! - Se cento slavi ti chiedono una scuola, approvi che sia data? - No, naturalmente! (Slataper 1925, 118). 4. Una visione coloniale? È intéressante vedere come le due nazioni vengano presentate quasi come due mondi diversi, appartenenti a due civiltà che non hanno alcun punto in comune. In Gayda l'italianità è piena di gioia tipica per tutti i popoli che sfruttano il sole, sotto il quale è nata la civiltà europea: C'è tutto quello che innamora lo straniero tedesco che sogna il sole e la sua gente. Tutto è sincero, libero, gaio. Il popolo vive sulla strada e canta. Le caminiere, che finivano nella città del lavoro, non pesano la loro ombra sulla grazia molle e leggiera delle donne brune, chi vi dicono la lieta poesia dell'Italia. Tutto è italiano: le case, gli uomini, le insegne dei magazzini, i manifesti dei teatri, gli annunci del giornale, le vetrine delle librerie (Gayda 1914, 4). Sotto lo stesso sole vive un'altra gente, gli "slavi". Questi, perô, non paiono essere geograficamente vicini agli italiani. Non sono un popolo del sole, bensi un popolo che sembra alieno dalla civiltà: Nell'interno del paese, fra le colline di vigneti, i villaggi slavi si staccano subito, con le loro case basse e fumose, assonnate nel silenzio, le enormi nidiate di bambini, malati di povertà, sempre estatici, in vedetta sulla strada, le sregolate bande dei maiali che pascolano in un fango perenne. Sono villaggi tristi, di una razza assolutamente diversa da quella che popola la costa: ma vi scoprite spesso ancora, mescolandovi fra loro gente, qualche traccia dell'influenza italiana. Quasi tutti gli uomini, molte donne parlano l'italiano : i bambini no. Ció vuol dire che il paese non è più degli italiani (Gayda 1914, 187). Ció che regna in quei villaggi è il disordine, la povertà nonché - e si parlerà di ció ancora in seguito - un certo senso di nostalgia o malinconia, associato da molti pensatori europei al carattere slavo in generale. Il disordine e la povertà, accompagnata da un'alta natalità, sono segni di una civiltà inferiore che - essendo troppo vicina alle città italiane della costa - è inevitabilmente in un certo modo permeata da influenze italiane. Oltre alla povertà a provocare la paura della gente civile c'è anche la coscienza di qualcosa di diverso. Nei suoi ricordi Stuparich osserva che a Trieste antebellica si diceva che i contadini istriani fossero "cattivi e terribili; che per un fico, per un grappolo d'uva rubati erano capaci di ammazzare" testimonia anche un passo da Il mio Carso slataperiano, in cui allo zio del narratore, insediatosi in una campagna carsica, viene chiesto da conoscenti triestini: "Ma no ti ga paura d'esser sempre fra quei s'ciavi duri?" (Slataper 1962, 81). Tuttavia lo stesso scrittore presenta anche un'altra prospettiva della diffusione della cultura italiana. L'intellettuale descrive infatti l'irredentismo culturale, ossia una corrente irredentista che Slataper - lui solo - definisce (Slataper 1925, 70) come favorevole a una naturale diffusione dei valori italiani verso la "civiltà danubiana", corrispondente in linea di massima ai territori dell'impero asburgico. In questa accezione l'italianizzazione degli slavi meridionali non è una snazionalizzazione, ma piuttosto una forza che li attrae e costituisce uno stimolo per il loro sviluppo. L'italianizzazione è quindi "una tassa che l'Adriatico impone al Danubio se vuol espandersi nel Mediterraneo" (Slataper 1925, 205). Bisogna aggiungere, peró, che - stando alle parole del pensatore - il fenomeno riguarda ogni popolo, "sia tedesco o slavo o albanese" (ibid.). L'autore conclude proclamando una disparità tra nazioni che non si trovano su un livello uguale: Noi italiani, italiani di Trieste, siamo più colti degli sloveni /.../. Se essi vogliono vivere nel nostro piano, ci raggiungano; se essi vogliono vincere, ci superino. Io non dico che domani essi non possano essere magari più di noi, ch'essi non facciano degli sforzi stupendi per arrivare, ma oggi essi non sono più di noi, noi siamo nel mondo un'umanità più ricca che la loro (Slataper 1925, 108). Sviluppando il discorso, Slataper ammette la possibilità che le terre giuliane 11S 114 i"1 futuro cessino di far parte dei territori culturalmente legati all'Italia. Spera comunque che "/.../ noi latini /.../ meriteremo di essere ricordati, e saremo vivi ancora in ció che gli slavi avranno dovuto imparare da noi" (Slataper 1925, 119). Il problema dell'uguaglianza (o, considerando il modo in cui fu affrontato, piuttosto dell'ineguaglianza) delle nazioni ritorna nella letteratura postbellica. Il primo a introdurre le culture slovena e croata nell'immaginario letterario italiano è Fulvio Tomizza (Zlobec 1990, 20). Nel romanzo L'amicizia uno dei protagonisti dubita che il patrimonio culturale sloveno possa essere ragionevolmente paragonato con quello italiano o addirittura con quello tedesco; rispondendogli, un amico osserva che anche gli sloveni hanno i loro grandi scrittori, solo che essi non sono conosciuti altrove. In seguito il discorso cambia e i due protagonisti riflettono, in modo alquanto allusivo, sull'atteggiamento degli sloveni verso gli italiani: "Non credo che a Irena [la fidanzata slovena delTamico] interessino certi problemi" sostenesti a rischio di ridurla. "A tutti loro non possono non interessare". "Per quel che ne so, a loro qui preme far funzionare il locale. Perció devono saper stare con tutti. Sono in una situazione diversa dagli altri". Capii come ti eri orientato: li consideravi meno sloveni, già un po' cittadini, grazie ai buoni affari. Soltanto cosi riscattata, forse interamente recuperabile, potevi accettare Irena quale possibile fidanzata, i suoi come eventuali parenti (Tomizza 1980, 196-197). Il commenta del narratore sembra del tutto adeguato. Vale la pena dunque di riflettere se l'immagine degli slavi presente nei testi di Gayda e Slataper possa essere ritenuta una visione coloniale. Infatti, gli "slavi" -già per lo stesso fatto che vengono considerati un tutt'uno, senza che si avverta la necessità di dividerli in nazioni - sono descritti come un gruppo inferiore e lontano dal mondo civilizzato. All'italianità viene associata una missione civilizzatrice che porti i popoli slavi verso la modernità. Un'eco di quest'idea si trova nell'atteggiamento descritto nel succitato passo di Tomizza. Per Slataper la cultura italiana - la lingua e le correnti elaborate all'interno del mondo italiano, nonché "arte, letteratura, costumi, tendenze" - è predominante nel bacino adriatico (Slataper 1925, 205). Tutti questi tratti sembrano essere facilmente ascrivibili al discorso coloniale. Tuttavia una tale presentazione del problema pare troppo semplicistica. Nel contesto istriano manca infatti una relazione di dipendenza, che è invece tipica del colonialismo (Kieniewicz 1986, 281 e 286). Gli sloveni e i croati non seguirono soltanto i modelli italiani di creazione delle idee nazionali; se facevano parte di organizzazioni italiane o usavano la lingua italiana durante gli incontri nei propri circoli nazionali (Rutar 2003, 29-30), tutto ció lo trattavano piuttosto come un mezzo per propagare la loro idea nazionale e non come un obiettivo. Contrariamente alle speranze di alcuni italiani, gli sloveni che partecipavano alla vita pubblica italiana non si italianizzavano. Ne erano consapevoli sia Slataper (1925, 99 e 110) che Vivante (1912, 61). Gli "slavi", nonostante tutte le difficolta terminologiche rivelate dagli autori italiani, stavano diventando una nazione moderna: il loro movimento nazionale veniva descritto e preso in seria considerazione dai pensatori menzionati. Questi ultimi vedevano che gli sloveni non accettavano la missione civilizzatrice di cui loro parlavano. Infine - e questa e forse l'osservazione piu importante - e impossibile paragonare i rapporti costituitisi in Istria a quelli al di fuori d'Europa (Kieniewicz 1986, 280). Gli italiani di Trieste non erano padroni, ai sensi del discorso coloniale, perché anche loro erano sottoposti al governo viennese. Il discorso svolto allora dagli italiani e un discorso teorico, lontano da un'impostazione pratica. Forse a Roma si potevano nutrire gia allora ambizioni puramente coloniali verso le popolazioni del bacino adriatico, come verso quelle del Maghreb, ma a Trieste la situazione era diversa. 5. Esoticità slava È inoltre intéressante che vari autori attribuiscano agli slavi una certa composizione psichica, ossia un misto di esoticità, melanconia e decadenza. In quest'ottica la "civiltà slava" non puô essere parte dell'Occidente, associato al razionalismo e al progresso: "Intuiamo che il carattere slavo /.../ è un po' decadente-romantico, sentimentale, delicato; che la civiltà slava è già, quasi prima di nascere, inquinata da degenerazione" (Slataper 1925, 379). Lo slavo meridionale è anche "fantastico" e "cavalleresco" (Slataper 1925, 240). In un altro passo l'intellettuale, definitosi "slavo-tedesco-italiano", illustra le caratteristiche del "sangue slavo", che ha parzialmente nelle vene: "Del sangue slavo ho in me nostalgie strane, una sentimentalità bisognosa di carezze, di compiacimenti, un sognare infinito senza confini" (Marin 1965, 59). Il pensatore triestino arriva finalmente a una conclusione che assimila, da un certo punto di vista, la civiltà latina a quella slava. Secondo lui, esiste "una femminilità slava e italiana, [contraria] a[lla] maschiezza dei popoli nordici (tedeschi propriamente detti, inglesi, scandinavi)" (Slataper 1925, 377). Lo "slavo" è dunque diverso dall'italiano, è un altro. Contemporaneamente ha nella sua natura i tratti che lo possono avvicinare all'italiano. Quest'affermazione apre la strada a una letteratura postbellica di conciliazione che cerca di trovare nell'identità istriana piuttosto gli elementi comuni alle due civiltà: ció che è et - et e non aut -aut, per citare un'osservazione di Rakovac (2001, 16). Cosí si crea una relazione complessa, non bianco-nera. 116 6. Scontro Nel frattempo pero le descrizioni delle razze o civiltà appaiono di solito in un contesto di scontro, presente o futuro. Cosí anche per Vivante, un grande pacifista, "il tempo deve decidere quale delle due civiltà, la più giovane [degli sloveni e dei croati - P. Ch.] o la più vecchia [degli italiani - P. Ch.] possa guadagnare il terreno sull'altra" (Vivante 1912, 111). Il pensatore aggiunge ancora: "In sostanza, lo slavismo dorme finchè l'italianità sonnecchia" (Vivante 1912, 105). La stessa opinione viene espressa in modo leggermente diverso da Slataper: Finché Trieste non ha coscienza di sé, finché gli slavi parlano italiano e la cultura si compie e si soddisfa nel commercio, nell'interesse commerciale, la vita è discretamente pacifica. Appena nasce il bisogno d'una cultura disinteressata, la crosta fredda è rotta e si discoprono i dibattiti ansiosi (Slataper 1925, 94). E in più: la storia dell'Adriatico, nel suo significato generale, è la continua lotta di predominio fra la civiltà italiana /.../ e la civiltà danubiana che in tutte le epoche e le forme cerco di stabilirvisi, infrangendo il baluardo delle Alpi Retiche, Carnie, Giulie e Dinariche (Slataper 1925, 47). Il problema ritorna, comunque, nella coscienza di autori contemporanei. Fu Tomizza, uno dei portavoce della collaborazione tra le nazioni dell'Istria, a osservare in una delle interviste che Tra italiani e slavi c'è un rapporto che preesiste alla storia, che è molto forte, ma che la storia vuol compiere in continuazione. La storia, molte volte, crea barriere e fratture di incomprensibilità, di freddezza, di odio e di vendette (Tomizza 1990, 240). Gli autori sono dunque consapevoli di una prossima necessità di affrontare il problema nazionale (più che nazionale?) in Istria. T. Ruolo della religione Molti storici dei rapporti nazionali sottolineano il ruolo della religione nella formazione delle nazioni moderne slovena e croata. Spesso l'attenzione è rivolta all'attività del clero sloveno (Valdevit 2004, 6) e di quello croato (D'Alessio 2003, 98; Ivetic 2005, 65) nel movimento di risveglio delle due nazioni. Secondo Šiškovic (1978, 95) soltanto otto degli attivisti principali del movimento sloveno non erano istituzionalmente legati alla Chiesa. Un conoscitore dei rapporti confessionali in Istria a cavallo del XIX e XX secolo, Wörsdörfer (2003, 123126), descrive gli italiani istriani - soprattutto quelli cittadini - come secolarizzati, di fronte a un'alta religiosità degli sloveni e dei croati. Queste popolazioni erano ritenute più integraliste a livello di partecipazione e presenza a manifestazioni di carattere religioso. Esistono numerose testimonianze di italiani che descrivono comportamenti che parevano loro abbastanza particolari. Secondo tali testimonianze gli "slavi" usavano togliersi il cappello passando davanti a una chiesa (Wörsdörfer 2003, 140), mentre le loro donne anziane recitavano il rosario "per non perdere il tempo strada facendo" (Milletto 2005, 49). Nel periodo precedente alla prima guerra mondiale il clero sloveno e croato divenne inoltre sempre più attivo nelle città della costa, dove assisteva gli sloveni e i croati stabilitivisi. Da queste nazioni provenivano anche numerosi vescovi. Basta ricordare che tra il 1875 e 1918 nessun vescovo di Trieste fu italiano: in quel periodo la guida della diocesi locale fu affidata a tre sloveni, due croati e un tedesco (Zovatto 1984, 7-8). Il clero sloveno e croato usava nei contatti con i propri connazionali di Trieste e dell'Istria la propria lingua nelle preghiere e nella stampa. Nel 1871 a Trieste esistevano ormai 26 giornali di ispirazione cattolica, pubblicati in sloveno (Stranj 1992, 204). Il clero spesso svolgeva attività politica a favore della nazione di provenienza (Wörsdörfer 2003, 143). Diventati vescovi, i preti sloveni e croati favorivano spesso la popolazione "slava" nell'erogazione delle borse di studio o nell'ammissione ai seminari (Zovatto 2006, 42). Contemporaneamente le loro figure acquistarono anche un valore simbolico, fongendo cosí da esempio per gli altri risvegliatori, come avvenne soprattutto nel caso di monsignor Juraj Dobrila (Ashbrook 2006, 14). Tutti questi fenomeni, per quanto normali nel contesto confessionale descritto e in relazione ai cambiamenti demografici della regione, suscitavano inquietudine in molti italiani. Per essi, infatti, l'attività degli "slavi" all'interno della Chiesa cattolica apriva la strada a una marginalizzazione italiana. Paradossalmente, il fatto che sia gli italiani che gli "slavi" fossero della stessa confessione, rendeva più difficili i rapporti tra di loro. Ambedue i gruppi trovavano cosí un altro terreno di scontro: la religione e l'attività della Chiesa. Si puo presumere che, nel caso in cui gli "slavi" o gli italiani fossero appartenuti a un'altra confessione, gli sloveni e i croati non sarebbero entrati nello spazio pubblico italiano e sul piano confessionale ci sarebbe stata una separazione totale. Le tracce di un conflitto tra gli italiani da una parte e gli sloveni dall'altra si conservano nelle testimonianze e nella letteratura. Di due diverse visioni del ruolo della religione nella vita pubblica scrive Vivante (1912, 116). Il succitato Wörsdörfer (1984, 143) menziona una protesta dei consigli municipali di Trieste e di numerose cittadine istriane contro "il clero esotico che non ha padronanza della lingua italiana", "che per mestiere fa volentieri politica" e semina discordia e zizzania". Ne La miglior vita, un capolavoro di Fulvio Tomizza che narra la storia novecentesca di un villaggio istriano, viene riportato un dialogo tra il parroco croato, don Stipe, e un italiano del luogo. Questi, essendo preoccupato dell'eventuale indottrinamento nazionale, non permette ai figli di frequentare la scuola gestita dal prete: "Perché non permettete che i ragazzi vengano a scuola?" La voce del vecchio proprietario si levava di poco suU'ansimare basso e continuo provocato daU'asma. "I miei nipoti non sono mai mancati a dottrina". Il parroco sorrise: ""Credevo che imparare un po' a leggere e a scrivere non facesse male neanche a loro'. "Non mancano maestri veri né a Umago né a Buie", taglio netto il Jure /.../. Ci seguí sul ballatoio quando noi avevamo già imboccato la strada e forte, perché tutti lo udissero, ci scaglio dietro: "Vi conosco, politicante di un prete. Voi buttate la pietra e nascondete la mano" (Tomizza 1977, 65-66). Pare quindi che in quel periodo - gli anni precedenti alla prima guerra mondiale -per un italiano medio di Trieste l'attività degli sloveni e dei croati sul piano religioso fosse molto significativa e che quindi, parlando di questioni nazionali, non se ne potesse assolutamente prescindere. 8. Conoscenza del mondo "slavo" Escludendo Gayda, che del mondo slavo forní una rappresentazione giornalistica, di cui forse all'epoca c'era un certo bisogno, i due autori qui analizzati dispongono di una vasta conoscenza dei problemi degli slavi in generale. Slataper sa distinguerli in sloveni, croati e serbi (Slataper 1925, 371); in cattolici e ortodossi (Slataper 1925, 212); conosce addirittura la differenza tra russi e ruteni (Slataper 1925, 167 e 225). Egli elabora anche delle ipotesi sui loro possibili progetti politici, ma senza dimostrare particolare acume. Ricostruisce inoltre il contesto storico e geopolitico di vari gruppi slavi, tra cui le lotte con i turchi e con i tedeschi (Slataper 1925, 377). Conosce la differenza tra il panslavismo, inteso come movimento di ispirazione zarista (panrussismo), e l'austroslavismo, che lui chiama panslavismo (Slataper 1925, 214). Non crede in una unificazione nazionale slava (Slataper 1925, 314), adducendo a sostegno della propria tesi vari fattori politici. Le sue affermazioni in proposito, cui va aggiunto il paragone di sloveni e croati rispettivamente con gli italiani settentrionali e meridionali, dimostrano ancora più chiaramente che egli considerava gli slavi, non solo quelli meridionali, come non aderenti a categorie di tipo nazionale. Le loro "stirpi" (Slataper 1925, 214), che ognuna per sé non costituiscono singole nazioni, appaiono peraltro agli occhi dello scrittore troppo diverse tra loro per poterne creare una unificandosi. Un ottimo orientamento nel mondo "slavo" va riconosciuto pure a Vivante. Egli dedica la sua attenzione soprattutto agli sloveni, descrivendo le varie questioni linguistiche che riguardano la loro lingua (Vivante 1912, 198). Inoltre apprezza la loro scolarizzazione (Vivante 1912, 124) e l'alto interesse per lo studio delle lingue classiche. 9. Conclusioni Quale è dunque l'immagine dello "slavo" nei testi di Gayda, Slataper e Vivante, redatti negli anni vicini alla prima guerra mondiale? Sicuramente è un'immagine piuttosto giornalistica che analitica e tanto meno scientifica, nonostante alcuni dati precisi di cui si servirono gli autori, soprattutto Vivante e Slataper. È anche una rappresentazione fortemente legata al contesto, al momento storico e alla regione in cui si formo. Lo "slavo" è uno che - vista la massiccia immigrazione di non italiani verso Trieste e nelle città della costa - probabilmente in un futuro non molto lontano governerà la Venezia Giulia. Egli non è molto civilizzato, cerca di creare strutture sue proprie, non vuole copiare quelle italiane (anche se è storicamente permeato dalla civiltà italiana). Della sua attività sul piano culturale si sa poco. Comincia a reclamare i propri diritti. La sua sola presenza pare sufficiente ad alimentare uno scontro tra due civiltà. È un credente forte e integralista, tende a impadronirsi delle strutture ecclesiastiche o addirittura a sfruttarle per la propria lotta politica. Singolarmente è affascinante per certe inclinazioni nostalgiche e in quanto dotato di un'anima per certi versi simile a quella italiana, ma in gruppo è pericoloso, perché vuole marginalizzare il ruolo degli italiani nella regione. Sta per costituire una o più nazioni in senso occidentale, ma come definire questi tentativi, non risulta chiaro. Bisogna dire che quest'immagine - lontana dal ragionamento coloniale, come è stato mostrato in uno dei paragrafi precedenti - pare essere utilizzata ancora oggi nel discorso giornalistico, sia quello sugli immigrati presenti in Europa sia quello relativo ad alcune - appunto - nazioni o culture al di fuori dell'Europa, soprattutto quelle che si trovano in via di modernizzazione. In ogni caso si tratta di gruppi apparsi nella vita pubblica delle società occidentali solo di recente, e cioè o in senso letterale (gli immigrati) o in senso figurato (le nazioni o culture non-europee fino a poco tempo fa ignorate da varie descrizioni, reportages o saggi). A proposito di questi gruppi, si sottolinea il ruolo in essi svolto dalla religione o la misticità della loro cultura, talvolta anche la loro tendenza allo scontro con il mondo occidentale. Í2Q Ovviamente, il caso degli "slavi" nella visione degli scrittori triestini non puo essere paragonato al discorso giornalistico odierno senza alcune riserve. Mentre gli sloveni e i croati che affluirono verso la Trieste nell'Ottocento erano vissuti per secoli sulle terre istriane, gli immigrati odierni si stabiliscono in Europa arrivando da fuori. Alcuni di loro sono dotati di una ben sviluppata identità etnica o nazionale in senso moderno. Osservazioni simili vanno fatte anche riguardo ad altre culture che non si espandono fisicamente verso il territorio europeo (per esempio a causa di guerre o modifiche di confini), sebbene siano legate a esso economicamente o talvolta politicamente. Bisogna essere coscienti di queste differenze prima di trarre delle conclusioni dal confronto qui svolto. Ci troviamo dunque di fronte a un altro tipo di discorso, non nazionale, perché non sempre si sanno dividere i membri di queste altre culture in nazioni - spesso anche la parola "etnia" non è del tutto adatta (Tibi 1996, 174-175) - né coloniale, perché privo di una relazione di dipendenza o di sottomissione (soprattutto se riferito, per esempio, alle descrizioni dei cambiamenti economici in Cina o nell'Asia sud-orientale). Ovviamente non si intende in questo breve articolo descrivere esaustivamente il fenomeno, molto complesso, né esemplificarlo ricorrendo a delle precise citazioni. Non è questo l'intento dell'autore. Ció del resto non sembra nemmeno possibile senza una buona strategia metodologica (come descrivere il fenomeno? In base a che tipo di testi? Su quale cultura (nazione) e su quale momento concentrarsi?). Nonostante ció, e con tutte le riserve espresse sopra, parrebbe che il filo conduttore di tale discorso sia similea quello sugli "slavi" di un secolo fa. In tutti i casi si tratta di un Nuovo Arrivato nel discorso pubblico. Si ritiene dunque che tale concetto, cui vanno ascritti i tratti riscontrabili nei testi citati sopra, possa essere utile come strumento d'analisi del discorso odierno relativo alle questioni nazionali. Si riflette sulla possibilità di una loro europeizzazione o modernizzazione e sui tratti della cultura europea oppure occidentale che potrebbero attrarli rendendo cosi minime le conseguenze dello scontro. Si discute della tolleranza verso certi atteggiamenti o costumi e si è affascinati dall'esoticità e da alcune caratteristiche spirituali di altre culture. Note 121 1 L'articolo è uno degli esiti della ricerca svolta dal febbraio all'aprile 2009 nelle biblioteche dell'Università di Pisa e della Scuole Normale Superiore pisana. L'autore ha avuto la possibilità di beneficiare di quel periodo di ricerca, incluso nel corso dei suoi studi di filologia italiana, grazie alla borsa di studio concessagli dall'Istituto Italiano di Cultura. Il progetto di ricerca, finanziato dalla borsa, si chiamava L'Istria come territorio di confine culturale ed era destinato all'analisi della letteratura italiana storica e narrativa riguardante l'Istria nel corso del Novecento. Referenze bibliografiche Apih, E., 1966. Italia, fascismo e antifascismo nella Venezia Giulia (1918-1943). Ricerche storiche. Laterza, Bari. Ara, A. & Magris, C., 2007. Trieste. Un'identità di frontiera. Einaudi, Torino. Ashbrook, J. E., 2006. „Istria Is Ours and We Can Prove It": An Examination of Istrian Historiography in the Nineteenth and Twentieth Centuries. 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