Narodna in univerzitetna knjižnica v Ljubljani I 107127 LO COMBI. STRI STUDJ STORICI E POLITICI. i MILANO, TIP. BRRNARDOKI »I C. RF.BESCHJW B C. I ISTRIA. CARLO COMBI. STRIA STUDJ STORICI E POLITICI. MILANO, tip. bernardom di c. rebeschini e c. l8 86. 107127 ai nostri giovani i) e d i c 11 i a m o questi SCRITTI di CARLO COMBI PERCHÈ da essi apprendano d amare operosamente la p a t r i a a DIFENDERNE sempre e in ogni modo la insidiata italianità. NEI SECONDO anniversario della sua morte xi SETTEMBRE mdccclxxxvi. AL LETTORE. Cjli scritti, che qui compariscono per la prima volta riuniti in un solo volume, furono pubblicati in epoche diverse, a seconda dell'occasione, che consigliava all' autore di illustrare questo o quel lato della storia, della geografia, della etnografia, dell'importanza militare e marittima della sua provincia nativa, l'Istria. Tuttavia il concetto, a cui essi si inspirano, è unico; e fa veramente meraviglia il vedere come in un periodo di tempo di quasi 25 anni — che tanti corsero dalla pubblicazione del primo di codesti studj a quella dell'ultimo — l'autore non perdesse mai di vista lo scopo, che fin da principio egli si era proposto : segno evidente di un concetto fortemente pensato e maturato via via collo studio e colla esperienza. Cosicché ne esce un tutto omogeneo e logicamente sviluppato; perocché da un rapido e generale abbozzo della storia della provincia si passa alla descrizione della sua conformazione geografica per scendere poi a illustrarne, almeno parzialmente, le condizioni di vita civile. Si discorrono indi più minutamente le origini della popolazione, che vi abita, e il valore, che questo paese ebbe in passato e potrà avere in avvenire per la difesa del confine orientale d'Italia. Infine, dopo un rapido e vigoroso riassunto della storia civile della provincia inteso a metterne in evidenza l'indole schiettamente e permanentemente italiana, si svolge il modo, secondo cui, a mente dell'autore, l'Istria potrebbe essere ancora ricongiunta all'Italia, dalla quale rimase distaccata per effetto degli insuccessi del 1866. Come abbiamo detto, questi scritti vennero pubblicati in epoche diverse e per diverse occasioni; dal che consegue che vi si trovano necessariamente delle ripetizioni, che 1' autore avrebbe certamente evitato, se a lui fosse bastato il tempo di raccogliere in un solo volume quanto il suo ardente amore di patria gli era venuto dettando nel corso degli anni in difesa della sua provincia. Noi non ci siamo voltiti arrischiare a por mano nelle cose sue e, volendo ora raccoglierle, abbiamo preferito ripubblicarle tali e quali, non solamente pel rispetto, che .si deve all'opera intellettuale degli altri, ma anche perchè ci è parso che codeste ripetizioni potessero anzi giovare, siccome prova evidentissima, ch'esse sono, della sincerità e della profondità delle convinzioni dell'autore e anche perchè, trattandosi di verità — tali esse son per noi — pur troppo ignorate ancora dai più, o per lo meno poco note, troverà forse qui applicazione l'antico adagio: bis reperita juvànt. Un'altra osservazione dobbiamo fare: chi vorrà leggere si avvedrà agevolmente che tra i primi scritti, che sono quelli estratti dalla Pariti Orientale, e gli altri pubblicati dappoi corre una grandissima differenza d'intonazione; quanto i primi sono cauti e guardinghi e lasciano intendere assai più che non dicano, altrettanto gli altri parlano chiaro e alto, proclamando vivamente la italianità delle nostra provincia e la sua indomita aspirazione a essere ricongiunta colla madre patria: la spiegazione è presto trovata, solo che si badi alle date: i primi furono pubblicati in Istria, sotto l'occhio vigile e sospettoso dell'Austria, che non avrebbe tollerato si affermasse da noi il nostro amore di patria; gli altri invece videro la luce nel Regno, quando i fortunosi e fortunati eventi del 1859 e del 1860 avevano dischiuso anche nell'animo nostro la speranza della liberazione, e quando le delusioni del 1866, ribadendo le catene della nostra servitù resero più cocente il dolore di tutto un popolo. Il lettore avveduto troverà rispecchiato, per così dire, in ciascuno di codesti scritti il carattere speciale del momento, in cui essi vennero messi in carta; e come in quelli anteriori al 1859 si scorge una aspettazione vaga e indeterminata di prossimi eventi, la cui speranza si concreta apertamente nei successivi, così nell'Appello degli Istriani all'Italia il dolore degli abbandonati erompe in una pagina splendita di alta eloquenza, mentre nella Rivendicazione dell'Istria agli sludi italiani, la rassegnazione tempera le espressioni, senza modificare i propositi e in quell'ultimo scritto, che noi abbiamo intitolato La soluzione, l'ingegno si assottiglia, frenando le lagrime, a suggerire un modo, certo non indegno di meditazione, per riparare al già fatto e ottenere per altra via il conseguimento di quello, che per l'autore era, come è per noi, lo scopo supremo della vita, l'Istria libera finalmente dalla dominazione straniera. E questo riflesso dei tempi, che traluce da ciascuno di codesti scritti, e dà ad essi una propria impronta, conferisce, ci pare, ad aggiungere calore e forza al discorso, perdio tutto quello, eh' è sincero, piace e inspira fiducia. A chi ci chiedesse ora perchè abbiamo fatto questa pubblicazione, e perchè in un'epoca, nella quale i torchj bastano appena alla produzione dei libri nuovi, noi veniamo a offrire un libro fatto di cose vecchie, daremo franca e intiera risposta. Abbiamo innanzi tutto voluto rendere pubblico e, osiamo sperare, non perituro attcstato di affetto e riconoscenza all'autore di questi scritti. Carlo Combi, nostro comprovinciale, morto due anni or sono a Venezia, fu per fermo il più segnalato tra i contemporanei istriani. Aveva ingegno e dottrina e carattere tali, che lo avrebbero potuto elevare tra i migliori di tutta Italia, se la modestia sua, che superava in lui la dottrina e l'ingegno, non lo avessero trattenuto costantemente dal farsi innanzi, e in un tempo, nel quale le mediocrità corrono il pallio per mettersi in mostra, egli non avesse studiosamente preferito l'oscurità. La quale tuttavia non fu tanta, che il suo valore non venisse riconosciuto e apprezzato; e basterebbero a provarlo quelle straordinarie onoranze, che Venezia gli rese, quando egli mori, e quelle numerose commemorazioni, che di lui si lessero in solenni adunanze di corpi scientifici a Venezia stessa, a Milano, a Genova, ecc., o furono pubblicate in periodici autorevoli, come l'Opinione, la Vcrseveran^ii, il Diritto, ecc. Ma per noi Istriani il merito maggiore di Carlo Combi sta sopra tutto nella costanza indomabile, con cui per trentacinque anni, quanti corsero dal 1848 fino al giorno, in cui la morte lo colse, egli propugnò la italianità della nostra provincia, profondendo in questa opera assidua, nella quale egli si moltiplicava, tutte le forze del suo nobilissimo ingegno, fino a negligere ogni altro interesse, che non fosse quello della patria, alla quale consacrò tutto sè stesso. Carlo Combi rimane e sarà per noi, fin che l'animo umano non muti natura, il simbolo più puro, più completo, più ammirabile dell'amore di patria; il suo nome è scritto a caratteri indelebili nel cuore di ciascuno di noi, e ai nostri figli noi non sapremmo raccomandare un esempio migliore di quello, che egli ci ha lasciato. E poi che qui, dove egli nacque, dove visse e lavorò e sperò tanti anni, non ci ò consentito neppure dedicargli un busto, nò intitolare col suo nome la via, ove egli abitò; e il modesto monumento, che alcuni dei nostri consacrarono l'anno scorso alla memoria del nostro amico laggiù in S. Michele di Venezia, è lontano e confuso tra mille altre tombe, e l'erba del cimitero cresce rapidamente — noi abbiamo pensato di raccomandare il nome di Carlo Combi a un monumento più durevole, quello, che egli stesso si apparecchiò colle proprie mani: i suoi scritti, nei quali tanto risplendono l'altezza dell'ingegno, la vastissima erudizione e l'amore fervente per questa terra povera e dimenticata, che gli diede i natali. Avremmo potuto aggiungere al volume altri eletti lavori suoi, che discorrono di materie giuridiche ed economiche, nelle quali era versatissimo ; ci siamo invece a bella posta limitati a trascegliere tra i suoi lavori quelli soltanto, in cui egli discorse degli interessi civili e politici della nostra provincia, e lo abbiamo intitolato col nome sacro per noi di ISTRIA, perchè tutti possano alla bella prima sapere che in questo volume non si parla che delle nostre memorie, dei nostri dolori e delle nostre speranze, e perchè i cortesi, che non ci hanno ancora dimenticato, possano in esso attingere informazioni e argomenti a sostegno della nostra italianità. Carlo Combi, il nostro più valente campione, è sceso nella tomba; la sua voce è muta oramai, inerte è quella mente poderosa, che soleva vigilare assiduamente alle nostre difese: ma egli rivive in questo volume e parla a noi e a tutta Italia dei nostri diritti, del valore, che la nostra provincia, benché povera, ha per l'Italia intiera, della necessità, che in un giorno vicino o lontano l'Italia venga a ripigliarsi questa terra, che è sua, perchè così vuol la natura, e le leggi naturali non si violano impunemente a lungo. Ecco la prima ragione, che ci ha consigliato questa pubblicazione. E perchè l'omaggio, che vogliamo rendere al nostro indimenticabile concittadino, fosse, per quanto sta in noi, completo, abbiamo voluto che di lui,' della sua vita, de' suoi lavori, di tutto ciò, ch'egli fu su questa terra, discorresse al lettore un altro nostro concittadino, che con lui ebbe per oltre un quarto di secolo comuni il lavoro, le speranze, i dolori : Tomaso Luciani, il quale oggi continua da solo in Venezia stanco, ma non scoraggiato, l'opera, a cui la fiducia dell'Istria lo aveva nel 1859 insieme al Combi designato. Ninno meglio di lui saprebbe ridire quanto essi abbiano insieme lottato, sofferto, sperato con un unico, grande ideale nell'anima; niuno potrebbe con maggiore autorità e competenza presentare all'Italia la mesta e nobile figura di Carlo Co.mbi; perocché i nomi del Luciani e del Combi, comunque volgano gli eventi, passeranno associati nel-1' amore e nella venerazione dei nostri figli, come furono associati nello studio e negli adopramenti per ottenere la nostra redenzione. Abbiamo dunque chiesto e ottenuto licenza di ripubblicare qui, a guisa d'introduzione, la Coinmeinorct-ione, che il Luciani lesse l'anno scorso all'Ateneo Veneto in onore del Combi, e ad essa rimandiamo chi avesse vaghezza di maggiori particolari sulla vita del nostro autore. Ma nell'animo nostro noi accarezziamo la lusinga che questo volume, dopo avere attcstato la nostra gratitudine, rinnovi anche le nostre difese. Non a caso abbiamo detto più su che in esso gli amici dell'Istria troveranno informazioni e argomenti in favore della sua italianità; perocché l'incredibile è diventato un fatto: ciò, che vent' anni or sono, avrebbe destato tutt'al più un sorriso di compassione, oggi da taluno si afferma arrogantemente, da altri si lascia dire senza proteste: l'Istria, secondo il nuovo verbo, non è terra italiana, e l'Italia non ha, secondo gli uni, diritto, secondo gli altri, interesse di occuparla; essa, a sentir costoro, è provincia slava, appendice della Croazia o della Liburnia, e noi italiani, che la abitiamo, siamo semplicemente degli intrusi, coloni veneti venuti al tempo della Serenissima, i quali col di lei favore abbiamo invaso le città e le campagne, spossessandone le antiche popolazioni slave. Ma oggimai la cuccagna è finita, e a noi invasori non resta che di rilasciare le nostre terre agli Slavi, che le reclamano, assoggettandoci ad essi, ovvero tornarcene là, donde siamo venuti. Questo si afferma burbanzosamentc nei conciliaboli panslavisti di Zagabria e di Lubiana, e questo si lascia dire dall'Italia, ove anzi non è mancato taluno, e di quelli, che vanno per la maggiore, che escogitò una certa teoria per le provincie di confine con popolazione mista, secondo cui noi saremmo spacciati, e non ci resterebbe proprio altro che farci slavi, oppure far fagotto e rientrare in Italia, lasciando l'Istria in piena balìa degli Slavi. Ora che gli Slavi, pei quali sembra ora imbiancarsi l'alba di un gran giorno, nelle loro ancora confuse aspirazioni agognino anche all' Istria, e con essa agli azzurri flutti dell'Adriatico, è cosa, che fino a un certo punto si può capire. E si può capire che i loro tribuni, facendo scempio della geografia e della storia, mettano innanzi il fatto che nelle nostre campagne abitano sparse varie tribù di origine slava, poveri e rozzi avanzi di quelle colonie, che improvvidamente la Repubblica Veneta trapiantò fra noi per ripopolare le campagne disertate dalle guerre e dalle pestilenze, per dedurre da ciò con audace illazione che tutto il paese è slavo. Ma non si può capire e non si capisce che pubblicisti italiani, i quali quotidianamente s'impancano a farla da maestri alle turbe, siano cosi ignoranti dei fatti nostri, da non sapere che la cerchia delle Alpi, confine naturale d'Italia, rinchiude nel suo ampio giro anche la provincia nostra, la quale fino dall' epoca di Augusto venne ascritta insieme colla Venezia all'Italia, formandone la decima regione: Venetne et Histria. Non si può capire che costoro non sappiano che la popolazione fu qui sempre italiana, e che italiana fu qui sempre nel corso del secoli la vita civile, come italiane furono costantemente le nostre aspirazioni. A costoro il presente volume, se vorranno leggerlo, potrà finalmente aprire gli occhi della mente, persuadendoli del loro errore. E vi apprenderanno qualcosa di meglio ancora, e cioè, non solo che l'Istria è terra italiana quant'altre mai, ma altresì più di ogni altra indispensabile alla difesa orientale d'Italia. Senza i passi dell' Alpe Giulia, l'Italia è pienamente scoperta dal suo lato d'oriente, e un invasore, che di qui penetrasse in Italia, potrebbe procedere pel Veneto fino all' Adige, senza incontrare ostacoli. Perciò i Romani tenevano fortemente munita l'Alpe Giulia, perciò la Repubblica Veneta sostenne lunghe guerre coll'Au-stria. Cosicché, quand'anche le popolazioni istriane fossero, puta caso, avverse all' Italia, questa avrebbe ciò non di meno il diritto di pretendere all' Alpe Giulia, perchè la tutela della propria conservazione glielo imporrebbe. H proprio in questi giorni si parlava di una rettifica di confini all'Isonzo e si presentava come un trionfo della diplomazia italiana la cessione di poche spanne di terra? che sarebbe stata fatta dall'Austria. Ci vuol ben altro che questi pannicelli caldi ! n XVI Al lei lo re. Ma noi non siamo irragionevoli, e non abbiamo mai preteso che l'Italia, senza tenere alcun conto delle condizioni della politica generale, avesse hic et mine a dichiarare la guerra all'Austria per tentare il conquisto dell'Istria. Sono venti anni oramai, che sopportiamo rassegnatamente la sventura di vederci esclusi dal izrembo della nazione, aspettando che la giustizia si compia anche per noi. In tutto questo lasso di tempo — e per noi esso fu lungo davvero — nessuna manifestazione d'impazienza parti da noi, e le quante volte i nostri concittadini emigrati nel Regno ebbero occasione di parlare pubblicamente in nome nostro, essi non fecero che ripetere P affermazione della nostra italianità e dichiarare che ponevano ogni fiducia nel Governo nazionale. Perocché noi non abbiamo nulla di comune coi cosidetti irredentisti, radicali di più tinte, pei quali le provincie irredente servono solo di pretesto a combattere il Governò monarchico. I nostri propositi sono adunque assai temperati : aspettiamo e confidiamo in un avvenire, che alla nostra fede appa rise e i m m a ncabile. Ma ci sarà lecito almeno di chiedere che in questo periodo di aspettazione, il quale per noi è periodo di lotta, i nostri sentimenti più intimi non vengano olfcsi da chi ci vorrebbe senz'altro abbandonare alle pretese slave, o da chi, soddisfatto dall'aver finalmente ottenuto il proprio posto alla mensa nazionale, tratta da importuni quelli, che, come noi, ne sono ancora esclusi. Gli Italiani liberi non sanno quanto male facciano a noi i giudizi avventati di certi giornali del Regno, che mostrano di conoscere il nostro paese, quanto conoscono l'ultima Tuie; e per contro quanto ci riescano graditi una parola benevola, un ricordo affettuoso, che di quando in quando ci venga a salutare da parte loro. Esso ci inorgoglisce e ci infonde coraggio. E di coraggio noi abbiamo varamente bisogno per continuare nella lotta, che da alcuni anni combattiamo qui prò aris et focis. La propaganda slava, della quale abbiamo parlato più sopra, inferocisce ogni giorno più. Le leggi fondamentali della monarchia imporrebbero per verità al Governo Austriaco di difendere la nostra nazionalità italiana contro le crescenti pretese degli Slavi; ma, senza dire che l'Austria ci fece sempre l'onore di trattarci come paese di conquista, chi non sa che in Austria le leggi non servono che per far buona figura all'estero, e che all'interno prevale invece l'arbitrio? Chi non sa che è qui antica arte di governo quella di aizzare una nazionalità contro l'altra e dominarle cosi entrambe? A Vienna governa oggidì il partito slavo, e però agli Slavi di tutte le provincie della monarchia è lecito qualsiasi ardimento. Occorre appena di ricordare in proposito la lotta tra gli Czechi e i Tedeschi in Boemia, tra gli Sloveni e i Tedeschi in Carniola, tra i Croati e gli Italiani in Dalmazia ove si vorrebbe estirpare, se fosse possibile, fin la memoria del nome italiano. E nell'Istria si tenta fare altrettanto. Un nugolo di preti, di maestri, di impiegati, di avventurieri d' ogni specie, scesi dalla Carniola o rimontati dalla Croazia, invade le nostre città, le borgate, i villaggi più umili, oc- cupa i posti migliori, spadroneggia dalle chiese, dalle scuole, dagli uflìci pubblici; adultera le elezioni, entra nelle rappresentanze cittadine e in quella della provincia, combatte perfas e per nefas tutto ciò, che sa d'italiano, tentando imbastardire persino i cognomi delle famiglie e i nomi delle località, pretende imporre la sua lingua nelle pratiche religiose, nell'insegnamento, nel foro; lo tentò, invano finora, anche nella Dieta Provinciale, lì costoro aizzano contro di noi i contadini slavi e ci dipingono agli occhi di que' villici rozzi e fanatizzati come forestieri, invasori delle loro proprietà, e scherzando col fuoco, sotto la protezione del gendarme austriaco, non rifuggono dall'eccitarli alla rapina e al sangue. E vari disordini sono già avvenuti in alcune terre dell'interno della provincia, e altri maggiori scoppieranno, se questo andazzo continua. I comuni maggiori, nei quali meglio si accentra il pensiero e la vita civile, resistono e, se Dio voglia, resisteranno sempre a codesta onda selvaggia, che ci assale. Ma nelle campagne, presso al confine colle terre della Liburnia 1' amministrazione di alcuni piccoli comuni è già nelle mani dei nostri nemici : Pisino, un grosso centro di vita italiana nel cuore della provincia, è caduta anch'essa. Dove s'arresteranno costoro, se noi non abbiamo forza sufficiente a fronteggiarli ? Noi siamo poveri, pochi, sparpagliati nelle nostre piccole città; siamo osteggiati in ogni modo dal Governo, che spalleggia invece apertamente i nostri nemici. Tuttavia noi lottiamo e lotteremo fino all'ultimo; abbiamo un posto d'onore da difendere, e lo difenderemo, fin che avremo sangue nelle vene. Ma l'Italia non si ricorderà essa mai di questa sua sentinella avanzata? L'Italia, che la mise qui a tutelare il più geloso confine della nazione, non avrà una parola di simpatia per lei che adempie coraggiosamente al proprio dovere? Continuerà essa a far le viste di non accorgersene e lascierà che muoja senza soccorso ? Ai pubblicisti italiani, agli uomini politici, a tutti coloro, che hanno una responsabilità nella condotta della pubblica cosa, il rispondere. Noi abbiamo fatto il nostro dovere, segnalando all'Italia quanto avviene su queste ultime balze italiane. Compiano gli Italiani il loro, facendoci almeno comprendere che non siamo dimenticati. Ci pare di non essere soverchiamente esigenti. Dall'Istria, agosto 1SS6. CARLO_COMBI. COMMEMORAZIONE LETTA NELL'ATENEO VENETO il 21 Maggio iSS; DA TOMASO LUCIANI ■ Vimis frangi ncscit, vinci non potcst; sci eo scmper fortior ac major occurrit, quo graviora snnt vulnera, >]iiac casus loflbdt »... o Quos tristis fortuna vincere non polnit, cos plcriimqtic laeta sublimai. » P. P. Vergerio 1 Signori e Signore. Carlo Combi vivente sarà stato forse men noto a più di uno di voi, Onorevoli Signori, che siete qui convenuti ad ascoltare la mia parola : Carlo Combi morto certo é notissimo a tutti. La sua più che rara, meravigliosa e direi quasi fenomenale modestia lo sottraeva, vivente, all'attenzione di quanti non avessero opportunità di avvicinarlo, e a loro stessi col suo contegno imponeva tacitamente un rispettoso riserbo. Ma la di lui scomparsa prematura ed inopinata dal novero dei viventi dispensò da ogni riguardo e sciolse ogni freno. 1 Cosi scriveva Pietro Paolo Vergerio il seniore Ji CapoJistria a Bclegtio di Genova in lettera datata da Padova, 5 febbraio ijj7. — Al grido di dolore, che fu veramente generale in Istria e fra noi, è succeduta una gara nel commemorarne i meriti e le virtù, nello analizzare il pensiero, gli scritti, le azioni, le aspirazioni, la dottrina, i patimenti, gli affetti; gara nobilissima, consolantissima gara, non solo perchè fa giustizia a un defunto degno davvero di tanto onore, ma anche perchè dimostra che la società contemporanea non è poi tutta demoralizzata, non è totalmente corrotta, come alcuni eterni laudatori del tempo che fu, e non pochi poveri di spirito, e troppi avversari d'ogni progresso incessantemente vanno predicando. In una grande società, che, uscita appena da secolari oppressioni, risorge a vita nuova, libera, indipendente e si ricostituisce in nazione, certe esorbitanze sono inevitabili, certi attriti sono quasi a dir necessari. Ora in mezzo a cotcste esorbitanze, a cotesti attriti, o, dicasi pure, in mezzo al generale risveglio e ribollimento di aspirazioni, di passioni rimaste lungamente, forzatamente soffocate ed inerti, è impossibile che le virtù timide trionfino sempre in confronto dei vizi audacissimi. Però, se la virtù vera trova cosi pronti e caldi e numerosi lodatori ed ammiratori, egli è certo che tale società non è guasta nel fondo, ma serba anzi in sè abbondanti germi di preziosi c generosi clementi, i quali, superato il periodo critico, che succede sempre alle grandi innovazioni, si svilupperanno in modo ch'essa piglierà sicuramente l'aire sulle orme di un passato per molteplici riguardi altamente glorioso. Queste cose io le vengo qui rammentando colla ferma lusinga che voi, Onorevoli Signori, avrete il medesimo convincimento; ma ad ogni modo per mettervi subito dinanzi alcuni alti ideali, che servirono costantemente di guida all'amico defunto e negli studi patri e nell'ardua e spinosa palestra della politica militante. Carlo Combi, per quanto messo talvolta di malumore dalle esorbitanze, dagli attriti, dai ribollimenti dianzi accennati, per quanto scosso e addolorato, (in un momento veramente solenne dell'epoca nazionale), da successi, o insuccessi non rispondenti alla accarezzata e ragionata sua aspettativa; per quanto amareggiato altre volte da atti pubblici, che a molti parve peccassero d'imprevidenza e d'incongruenza; da intemperanze di partiti o troppo soddisfatti del già operato, o troppo impazienti di riguadagnare occasioni perdute, ritentando arditezze vecchie in tempi e condizioni nuovi; per quanto, dicevo, amareggiato talvolta da questi e da al-trittali fatti, Carlo Combi non avversò mai la politica del governo nazionale con inopportune opposizioni, recriminazioni, lamenti, né perdette un solo istante la fede nell'avvenire dello Stato e della nazione. E non la perdette, perche convinto e persuaso che la gloriosa dinastia ci Savoja sa opportunemente andare avanti e opportunemente aspettare; perchè convinto e persuaso che al di sopra delle volontà e delle passioni individuali e transitorie, che cozzano, v' è il senno, la coscienza, la volontà della nazione, la quale un di o l'altro non potrà non sentire il bisogno di vivere, in casa e fuori, rispettata e sicura per raggiungere il fine supremo della sua prosperità. — Non perdette mai la fede, come dicevo, nell'avvenire anche perchè v'è la legge del progresso, che necessariamente e incessantemente si svolge, v'è la forza dell'equilibrio, che governa il mondo morale cosi, come il fisico; v'è in fine diceva colle parole di Dante : « La somma sapienza e '1 primo amore, » che non si fa giuoco degli umani, ma regge e mantiene, con legge necessariamente provvida la universalità delle cose. V è la Cagione, la Ragione prima (ripeteva) imperscruta- bile, ma certa, che fin dai crepuscoli dell'umano pensiero tutti i popoli hanno intuito; la quale, se Jerofanti, Filosofi e Scuole, speculando, hanno, in buona od in mala fede, definito o dinominato ciascuno a loro modo, fu ed è però nella coscienza di tutti, dell'ignorante come del dotto: la Cagion prima (continuo le sue espressioni) provvida, sapiente, benefica, che, a guardar bene, viene implicitamente ammessa da coloro stessi, che della negazione fecero e fan.no un sistema. Perdonate, Signori, se vi ho staccato cosi dalle cose sensibili e trasportato addirittura nel mondo delle idee, nei campi dell'infinito. Non avrei potuto non farlo, perchè fu appunto da cotesti alti ideali che Carlo Combi trasse la costante serenità dello spirito in mezzo alle più svariate e dolorose vicende della travagliata sua vita; fu da cotesti ideali che Carlo Combi trasse la virtù e la forza per tenersi ritto dal 18.(8 (epoca, nella quale incominciò veramente la sua vita di pensiero e d'azione) fino al 1884, nel quale cotcsta vita si spense piena ancora di pensiero e d'azione. Fu da cotesti ideali ch'egli nei giorni della reazione cruenta e del maggiore scoraggiamento (per molti anche della disperazione e del voltafaccia) trasse la calma previdente per prcpararc nel suo paese le giovani generazioni colla parola, coli'esempio, cogli scritti, coli'opera alla cognizione ed all'esercizio dei diritti nazionali, alla resistenza passiva, in disperazione d'altro, contro ogni violazione dei medesimi; alla costante serietà dei propositi in ogni atto della vita pubblica e della privata; alla religione del dovere e del sacrificio per il proprio paese; alla devozione illimitata, incondizionata verso la grande patria, l'Italia. Fu da cotesti ideali ch'egli trasse più tardi la forza per sfidare con sicura fronte e colla gioia nel cuore i più gravi, i più immanenti Carlo Conili. XXV pericoli, pur di servire la nazione, che, auspice e animatore il gran Ke, preparavasi a lotta immane per integrarsi ; fu in fine da cotesti alti ideali ch'ei trasse quel fine discernimento, che gli fu guida sicura in mezzo agli anfratti dei dogmi politici e religiosi, coi quali vengono governate le moltitudini; fine discernimento, che lo rese quasi suo malgrado una individualità spiccata nel campo appunto dei combinati principi politico-religiosi e lo costituì insieme nella opinione e nel fatto antesignano di una sacra legione di patriotti e di esuli, i quali, fedeli alla parola d'ordine del compianto loro capo, sempre alacri cioè, ma lontani da impazienze e da intemperanze, vigileranno, in pieno accordo, io lo spero, coi cittadini più seri fino a che le sorti della patria non sieno intieramente compiute ed assicurate. Dopo quanto scrissero di Carlo Combi egregi e rispettabilissimi uomini, non solo qui in Venezia ed in Istria, ma a Milano, a Torino, a Genova, in Roma ed altrove; dopo quanto fu stampato nella Rivista mensile di questo Ateneo, dopo le affettuosissime commemorazioni fatte nell'oratorio del patrio Orfanotrofio e nella sala dell'Istituto Manin; dopo gli splendidi discorsi letti nelle aule maggiori della R. Scuola Superiore di commercio e del R. Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti, io spero che quanto ho finora detto di Carlo Combi con sincero spirito di verità non sembrerà punto esagerato. — Ma se mai a taluno balenasse il pensiero ch'io, illuso dall'affetto, abbia portato il modesto uomo troppo in alto sulla scala dei pensatori e fattori politici, citerò la testimonianza di fatti subeessivi, ai quali nessuno potrà negar fede e valore, perchè, raccolti dalle effemeridi contemporanee, sono entrati già irrevocabilmente nel dominio della storia. La Deputazione Municipale di Capodistria, commossa al- l'annunzio della perdita inaspettata e immatura dell'amato concittadino, dispone e decreta funebri onoranze da tenersi nel duomo di quella citta con rito ecclesiastico, e le rappresentanze e i sodalizi delle tre provincie sorelle, Gorizia, Trieste ed Istria, commosse non meno, si accingono a prendervi parte. Anche Venezia (e l'Istria vincolata a lei da care, secolari, indestruttibili tradizioni gliene seppe assai grado) anche Venezia aveva inviato colà un suo ufficiale rappresentante. Tutto era ormai regolarmente disposto; quando un ordine calato dall'alto interdisse in modo assoluto la mesta e pia cerimonia . . . L'Istria pianse e tacque ! Alquanto dopo la Rappresentanza cittadina, raccolta in legale sessione, delibera di collocare nella sala del Municipio fra i già esistenti ritratti di altri benemeriti cittadini premorti anche quello di Carlo Combi o il suo busto, e delibera insieme (cosa non nuova nei fasti recenti delle comuni istriane) di intitolare dal nome di lui la via, ove nacque, ove con poche intermittenze visse fino al memorabile anno 1866, ove, giovane ancora, si rese benemerito della città, aiutando dell'opera sua il padre, che tenne lungamente, in tempi diffìcili e con molto coraggio ed onore il governo di quell'importante comune, —ove, appena raggiunta l'età legale, eletto egli stesso pubblico rappresentante, ideò ed attuò praticamente non poche innovazioni economiche e civili rispondenti a bisogni, pericoli, condizioni e rapporti locali. — Se non che, mentre la cittadina rappresentanza aspettava con pieno diritto la approvazione dei suoi deliberati, cala dall'alto un secondo decreto, che, senza alcuna motivazione espressa, addiritura la scioglie. — La città tacque ed aspetta ! Nò basta. Per parecchi giorni, anzi per settimane di seguito furono colpiti di sequestro ed incriminati a Capodi-stria e a Trieste non pochi giornali e periodici, i quali, fa- cendo eco ed omaggio alla voce pubblica, ripeterono le lodi del Combi. . . Oh Signori! Di fronte a questi semplicissimi, ma significantissimi fatti, io spero che non esigerete altre prove da me a giustificazione di quanto ho asserito dianzi e troverete anche giusto e prudente che io mi astenga, oggi, qui, dal recitarvi le molte particolarità della sua vita militante, la quale necessariamente s'intreccia colla vita di altri egregi patriotti morti e viventi, colla vita del suo e mio paese, dell'Istria, che, come emerge dai suoi giornali, lotta tutti i giorni con costanza e coraggio mirabili fino all'estremo limite della legge per mantenere puro ed illeso l'avito suo carattere nazionale italiano contro le audacie e le insidie di un partito esotico suscitato e alimentato dal di fuori, partito, che tenta, (indarno certo), di trarre la campagna nell'orbita del panslavismo, tenta, cioè, di snaturare il paese, o, per lo meno, di farlo credere in faccia all'Areopago europeo diverso da quello, che sempre è stato, che é, che non potrebbe non essere, e che per alte ragioni di equilibrio internazionale è utile, e necessario che sia. E giacché v'ho condotto col mio discorso nella patria del Combi, nell'Istria mia, compiacetevi, Onorevoli Signori e Signore, di rimanervene meco alquanto a sentire i lamenti di quei nostri fratelli per la inaspettata sua morte. » Abbiamo le lagrime agli occhi; abbiamo nell'animo vuoto angoscioso; i pensieri ci turbinano sconvolti nella mente. Come scrivere ora degnamente, meditatamente di Lui ? « Ma abbiamo bisogno di dare sfogo al dolore grande, che ci riempie il cuore, e sia acconsentito di farlo anche con disadorne parole. « 11 giorno il Settembre 1884 sarà data nefasta per l'Istria. X \ V111 Cario Combi. c Da quasi quattro lustri Carlo Combi non era con noi ; gli era vietato tli essere con noi : il suo spirito però ci aliava sempre d'intorno, e ne avevamo conforto ed incoraggiamento nelle ore, in cui ci abbandonavamo sfiduciati per le miserie, che ci si affollano addosso. Noi sapevamo che il grande patriotta stava là, in ascolto di ogni voce gli arrivasse da questa spiaggia da lui tanto amata, sapevamo che nei nostri bisogni noi avremmo avuto da lui un consiglio, una parola, che ci dirigesse, ci rinfrancasse. « Ora quelle labbra sono mute per sempre; è come si fosse spento il nostro genio tutelare. « Tanto enorme è la sventura, che ci ribelliamo a prestare lede alla ferale notizia: se nonché la desolazione, che ci fa groppo all'anima, ce ne afferma la tremenda realtà. « Noi, che lo abbiamo veduto nascere e crescere fra noi, noi, che abbiamo assistito giorno per giorno ammirando, esultando allo spettacolo di quella esistenza, che fu serie di sacrifizi non interrotti, e alla quale unico conforto e soddisfazione era l'esercizio del bene, noi più che altri, sentiamo tutto lo spaventoso e duro senso dell'annunzio : Cario Combi é morto. « Passando dinanzi a quella casa, dove per tanti anni egli visse, dove per tanti anni indimenticabili, nelle famigliari conversazioni, la sua parola fu verbo di rigenerazione per tanta gioventù nostra da lui educata all'amore dei più puri ideali, dove egli lavorò all'utile degli altri, al perfezionamento di su stesso, logorandosi il corpo e martoriando lo spirito in battaglie interne, che gli strappavano il grido: « triste sino a morte é l'anima mia »; guardando a quelle finestre, dove per sì lunghi anni il chiaro della sua lampada tradiva le prolungate affannose sue veglie, ci prende ambascia indefinibile e dinanzi al luogo consacrato da cosi sante fatiche ed affanni chiniamo reverenti i ginocchi della mente, come passando dinanzi ad un tempio. Cario Combi XXIK « Non sappiamo se fra gli altri nostri illustri trapassati altri abbia avuto mente più vasta e più profonda della mente di Carlo Combi; ma si, ci pare di poter osservare che non vi fu nostro uomo illustre, il quale abbia accoppiato, al pari di Carlo Combi ad un grande ingegno un grande carattere, un grande cuore, che abbia posseduto tante virtù civiche insieme a tante virtù private e domestiche, che abbia dato ad ogni sua azione, ad ogni suo pensiero, costantemente, line si celestialmente puro. « Sarà che altro istriano abbia fama più largamente estesa, Carlo Combi 1' avrebbe guadagnata non minore, qualora non avesse fatto sacrifizio anche della gloria sull'altare della patria, dedicandosi per amore di questa a studi più modesti; ina al suo nome rispondono e risponderanno ad ogni modo meglio le fibre dei nostri cuori. « Carlo Combi fu un vero vaso d'elezione, fu un miracolo di purità e di eroica abnegazione. « Amò i suoi genitori d'amore sviscerato, ebbe per i suoi amici affetti, che le distanze non intiepidivano, i bisognevoli compassionò e prontamente secondo le sue forze, sollevò. « La sua esistenza fu un'aspra lotta d'ogni giorno alla conquista della verità, sia nel campo delle scienze, che nel campo della morale, e questa lotta fu che, lo atterrò e lo rapi improvvisamente al suo paese. « La sua anima cosi diuturnamente travagliata aveva bisogno di pace, e pace gode egli soltanto ora che, riposa a canto dei genitori adorati. « Oh, spirito eletto, oh, amico nostro verace! non ci sarà dato di più vedere il tuo nobile volto, l'occhio tuo mite, non ci sarà dato d'udire la tua parola amorosa, che era luce ai nostri passi ; ma la tua santa memoria rimarrà fra noi e fra i nostri figli imperitura. La tua città, la tua prò- vincia sono orgogliose di te quanto di altro loro figlio mai, e non sari mai che dimentichino quanto hai per loro operato e sacrificato. « Il nome tuo sarà stella, che ci animerà, ci guiderà nel buio dell'avvenire. Cada quel giorno, in cui tale stella non sia più veduta: sarebbe l'ultimo giorno della nostra esistenza civile. » 1 Un antico, universale proverbio confermato da mille fatti della storia e della vita contemporanea dice: Nemopropbeta in patria. — Or dunque uno, che lascia appunto nel proprio paese cosi vivo desiderio di sè, o, a dirla con frase divenuta celebre, — cosi ricca eredità d' affetti — certo dev'essere stato altamente benefico in patria e ricco d'ogni virtù. E Carlo Combi lo fu davvero ! Incarnazione vivente della mitezza del padre, della energia delle madre, degli istinti generosi di entrambi, fin dai più giovani anni s'inspirò alle nobili tradizioni dell'Istria sua, ne meditò i bisogni, si commosse ai suoi patimenti, né mai si perdette d'animo per sofferte disillusioni non infrequenti, pur troppo, in paese, non corrotto, ma travagliato da seduzioni e torture, che voi per amara esperienza ben conoscete. — Se non che gli stessi fatti, che lo rattristavano, non lo accasciavano punto, che" anzi ne ringagliardivano l'animo generoso. — fiutando l'avvenire prossimo, e spingendo l'acuto sguardo nel più remoto, fortificava di più in più lo spirito in lotte aperte o coperte contro le peggiori influenze. — In fine deliberò, perche1 gli parve assolutamente necessario, l'intiero sacrificio di se; abnegò, quasi a 1 Cosi la Provincia, giornale ili Capodtltria, del 16 Settembre l88.|. Naturalmente, quel numero venne sequestrato. dire, la propria personalità e, sebbene fosse tenero e superbo della sua famiglia, fece sua la massima del suo Ver-gerio. — « Non in. jììiis, sed in viriate est quaerenda poste-ritas. » Da quel momento non pensò ad altro che ad elevare lo spirito, a praticare la virtù, a perfezionare, come diceva, sé stesso, coordinando pensieri, affetti, studi ed azioni unicamente al bene della sua città, della sua provincia, della patria sua nel più largo significato della parola. E tanta abnegazione, tanto annientamento di sé fu [bene voi, signori, l'avete compreso) non ottusità di senso o di sentimento, non deficienza o difetto, non pregiudizio cieco, ma proposito deliberato, ma energia, ma vittoria in seguito a lotte soprammodo aspre, ma devozione e concetto lungamente meditato; fu vera vocazione, fu vero sacerdozio, fu sacrificio insomma, che non da tutti può essere apprezzato, che da pochi forse potrebb'essere sostenuto, ch'egli stesso non osò mai consigliare ad alcuno, per quanto fosse richiesto del suo consiglio. Quest' ultima affermazione, che io, a parte, come sono, di molti secreti della sua vita, mi sento in diritto di pronunziare, è insieme un omaggio, che la coscienza m'impone di rendere alle stanche ceneri dell'amico defunto. Ho detto dianzi clic Carlo Combi s'inspirò alle nobili tradizioni dell'Istria sua. L'Istria, voi già lo sapete, diede alle lettere, alle arti, alle scienze non pochi grandi; a tacere di molti ingegni minori, diede Pietro Paolo Vergerlo il seniore, filosofo, diplomatico, storico, oratore, all'umanismo, — Vettore Carpaccio alla pittura, — Mattia Placio e Pietro Paolo Vergerlo il giuniore alla riforma, — Giuseppe Tartini all'arte e alla scienza dell'armonia, — Santorio Santorio alla scienza e alla pratica m della medicina, — Gian Rinaldo Carli alle scienze storiche ed economiche. Cresciuto in un ambiente sàturo di queste memorie, figlio a Francesco Combi, che collo studio delle pandette e dei codici alternò quello della Bibbia e dei classici, che legò alla letteratura italiana la versione poetica dei Martiri e delle Georgiche, che portò, raro esempio, le virtù cristiane nel foro e assunse, con proprio rischio, più volte, per puro spirilo di patriottismo e d'umanità, la causa dei deboli e degli oppressi, — Carlo Combi non poteva fallire a gloriosa meta. Predestinato dalle condizioni e dalle tradizioni della famiglia allo esercizio dell' avvocatura, le condizioni penose del suo paese, passate appena le care e fuggevoli fantasie della adolescenza, lo resero melanconico e serio; le fatuità di singole persone o di qualche ordine di persone gli spinsero sulle labbra ancora giovani le severe brucianti ironie del Parini c del Giusti; il risveglio delle italiche sorti accompagnato da deplorevoli dimenticanze e da giudizi erronei sull'Istria lo impegnò ad illustrarla e in breve lo fece divenir autore appassionato e lodato di scritti storici, etnografici, statistici, bibliografici, e mano mano di studi topografici, politici e perfino militari e strategici. — Gli avvenimenti del 1866 trabalzandolo fuori del suo paese, staccandolo dalla famiglia, minacciarono di spostarlo. Ma di spirito pronto com'era, s'acconciò presto alla situazione nuova e nell'intelletto ricco di lumi e nel cuore ardente di patriottismo e di carità trovò presto nuove risorse. Eletta per sua dimora stabile questa illustre città tanto cara a noi Istriani, nel cui seno riposavano fin dal 1856 le ossa di un suo fratello giuniore, e nella quale abitava già da più anni la bencamata sorella sua Anna Sossich, richiamò e ricompose intorno a sé la famiglia dei genitori (che disuniti non potevano vivere) e da uomo di tenace proposito, riuscì ad assicurar loro una esistenza comoda e lieta col suo non mai stanco lavoro. Dopo oltre due anni di sconfortante aspettativa e incertezza, conquistò (non lo dico a caso), conquistò con uno splendido esame sostenuto a Firenze la cattedra di diritto civile e commerciale in questa allora appunto inaugurata Scuola superiore di commercio. Se non che aveva incominciato appena a gustare la pace e la gioia della nuova sua posizione privata e pubblica, che la sventura batté crudamente, iteratamente alle po-rte della sua casa. Nel 1870 perdette in famiglia una sorella, — nel 1871 il padre! Se fu grandemente addolorato per la prima perdita, per questa del padre fu inconsolabile. Né si die pace, lino a che non gli compose colle stesse opere sue un monumento veramente perenne. Tratta dai molti lavori rimasti inediti del defunto una lungamente accarezzata versione delle Georgiche in ottava rima, la pubblicò preceduta da un suo dotto e coscienziosamente affettuoso discorso sulla vita c gli scritti di lui. — Essa fu un vero successo! Premiata dal Congresso pedagogico italiano raccolto allora (1872) in Venezia, lodata dai più autorevoli giornali di tutta Italia, strappò al Tommaseo, al Settembrini e ad altritali illustri parole più che di lode, di ammirazione e di applauso. Questa fu per 1' amorosissimo figlio una grande soddisfazione, ma non ancora un sufficiente compenso al dolore, che lo straziava. La immagine santa del padre perduto non più uscitagli dalla memoria e dal cuore aggiunse nuova tinta di melanconica serietà al suo carattere già per natura e per casi patiti abitualmente serio e pensoso. In capo a due anni gli mancò anche una zia, sorella del padre! — Restavagli, ultimo conforto, la madre, veneranda vecchia più che settuagennaria, ma che perciò appunto occupava, anzi preoccupava ogni suo pensiero ed affetto e, se gli rendeva cara, gli rendeva insieme agitata per eccesso di trepidante all'etto la vita. — Venne il di che la natura, generosa, ma inesorabile, reclamò i suoi diritti. Superata la età d'anni Si e mezzo, al di 5 novembre del 1880, anche la madre, addolorata non per sé, ma pel figlio, chiuse gli occhi all'eterno sonno. Il iiglio rimase impietrito; che gli parve essere ormai solo nel mondo. L' unica sorella Anna e la famiglia di lei, per quanto a lui care, non bastarono a riempire il vuoto del suo cuore sanguinante, spezzato, annientato. L'eccesso del dolore anzi 10 cacciò, quasi a dire, fuori della casa e della famiglia: sentì 11 bisogno di affetti nuovi, il bisogno di espandere l'animo in campo più libero e vasto E fu allora che, senza smettere studi e ricerche già da lungo tempo avviati per bene concepiti lavori su Pietro Paolo Vergerlo il seniore, il suo-epistolario, i suoi scritti politico-religiosi, i suoi tempi, fu allora che si interessò con insolito fervore delle più vitali questioni cittadine, s'interessò più particolarmente delle questioni, che riferivansi alla pubblica beneficenza. Poco a poco, s' accostò ai fanciulli orfani, poveri, derelitti, viziati raccolti nei principali Istituti della città e, imponendosi la missione di protettore, di tutore, quasi di padre, s'industriò in mille guise a che gl'infelici venissero di bene in meglio sorvegliati, provveduti, istruiti, a che ne fosse educato il cuore, nobilitato lo spirito, instaurato il carattere, assicurato l'avvenire col lavoro. Chiamato nella direzione amministrativa del benedetto Istituto Coletti, presieduta dall' esimio conte Giuseppe Valma-rana, e della quale già formavano parte altri egregi, impiegò Curio Cambi. XXXV ogni ingegno, ogni possa per superare difficolti, per vincere ostacoli ognor ricrescenti, per iscongiurare pericoli, che ne minacciavano perfin la esistenza. Eletto consigliere e assessore municipale, e come tale assunta la sopraveglianza delle civiche scuole, non é a dire quanto si adoperasse a migliorare e la materiale condizione dei locali, e più ancora il pubblico insegnamento in ogni riguardo, morale, disciplinare, didattico. — Sorpasso molte cose, che ridonderebbero a di lui lode; ma non posso tacere, come, colpito dolorosamente alla vista di fatti, ch'erano sfuggiti ai suoi predecessori, d'altronde assai benemeriti, facesse subito caldissimo appello alla carità cittadina perchè venissero provveduti almeno di pane i fanciulli poveri, che nell'ora della ricreazione erano condannati ad assistere digiuni alle colazioni spesso appetitose dei loro più fortunati compagni. La provvidenza del pane proposta dal Combi trovò pronto favore nel Comune e nei cittadini, attecchì, prosperò ed è ormai costituita stabilmente in opera pia, cui s'ebbe il gentile pensiero d'intitolar dal suo nome. Dopo le scuole, si prese a cuore le raccolte Correr, Cicogna, Zoppetti, Zanardini, Dollìn ecc., il Museo Veneziano insomma, cotesta creazione d'un illuminato patriottismo arricchita di più in più dalla indeficiente generosità dei cittadini, cotesto tesoro della città, che racchiude tante e sì preziose memorie del suo glorioso millenario passato e dei memorabilissimi avvenimenti di questo secolo. Si prese a cuore, dicevo, il Museo, e, anche ritiratosi dal posto di assessore, non cessò di adoperarvisi, fino a che non gli vide assicurati sede e assetto più convenienti. 11 compimento, la inaugurazione di quest'opera cittadina veramente preclara toccarono in sorte ad un suo benemerito e operosissimo successore e collega d'ufficio, tanto più giovane di lui, ma che, lagrimevole a dirsi! lo segui nell'eterno silenzio del sepolcro alla distanza di poche ore! Cario Coiul'i. Entrato a formar parte della Congregazione di carità in momenti di reclamate riforme, s'inspirò ai nuovi tempi, ai nuovi bisogni e trasfuse subito il suo fervore nei ben disposti colleghi, potè far guerra a vecchi pregiudizi con esito buono. Riesci di fatto a coordinare alle mutate condizioni cittadine e sociali gli statuti di parecchie veramente sante, ma ormai troppo obsolete opere pie e, avuto il mandato di provvedere specialmente agl'Istituti maschili, attuò neh'Orfanotrofio detto dei Gesuati e nell'Istituto Manin riforme tali, da renderli altamente e praticamente proficui al paese. — A fare un confronto tra il passato anche prossimo e il presente dei detti Istituti, si rimane ammirati. Sotto la Vifiri— lanza assidua, illuminata, benefica di Carlo Combi secondato (e" dovere il ripeterlo) dagli egregi colleglli e dall' illustre presidente della Congregazione, essi sono addivenuti un vero modello per ordine, decenza, moralità, attività e lavoro. Insomma Carlo Combi in tutti gli stadi della operosa sua vita, in tutti gli uffici pubblici e privati da lui assunti ed esercitati pose tutta la sua coscienza, tutta l'anima sua e, dimentico di se, d'ogni suo personale interesse, visse per gli altri, pel paese nativo, per la società, visse negli ultimi anni per questa Venezia, che si era eletto a seconda patria, che amò come 1' Istria sua, e dalla quale (e consolante il dirlo a me istriano), dalla quale fu riamato in vita e onorato in morte come suo figlio. Però di Carlo Combi non e" morto che il corpo. Il suo spirito vive tuttora fra noi, vivrà lungamente nelle opere sue e, giova sperarlo, anche nella gratitudine dei beneficati, nella tradizione del buon popolo nostro. Nel suo paese poi, nell'Istria, il ricordo di lui, (sento di potermene fare garante), rimarrà come di un ideale di virtù, di sapere, di patriottismo. Lo si dirà il grande esule, forse il martire, il santo; lo si proporrà ai tardi nepoti come il tipo dell'uomo costante nel bene, energico nelle lotte, imperterrito nei pericoli, come un tipo raro di forte, intemerato, intero carattere. E dalle sue ossa, che fremono amore di patria, non tarderà, io lo spero, ad uscire una voce di giustizia, di concordia, di pace tra le genti, che circondano e popolano la travagliata sua terra. Designata cosi, a larghi tratti (per non abusare troppo della vostra attenzione) questa rara figura d'uomo, di cittadino, di patriotta, di dotto, resterebbe a dire di non pochi particolari veramente caratteristici della sua vita privata ; ma la sua vita privata, o militante, come ho già detto, si intreccia con quella di altri patriotti tuttora viventi, le cui azioni non mi è lecito di portare in pubblico oggi. D'altronde quanto potevasi dire sotto molti aspetti di lui l'hanno già detto con intelletto d'amore, con efficacia di frase, con forme elettissime il prot. Paolo Tedeschi, l'avv. De Kiriaki, il prof. Carlo Oddi, il prof. Vincenzo De Castro, il prof. Daniele Morchio, il prof. Enrico Castelnuovo, mons. Jacopo Bernardi ed altri. I cenni, le commemorazioni, le dissertazioni di questi egregi, di questi illustri sono già tutte stampate nella Provincia dell' Istria, nella Rivista mensile di questo Ateneo, nel Vittorino da Feltre di Milano, nel Giornale della Società di letture e conversazioni scientifiche di Genova, negli Atti del R. Istituto veneto di scienze lettere ed arti ed in separati fascicoli. II prof. Tedeschi si diffuse più particolarmente intorno alla vita e agli studi, che fece in Capodistria prima del 1859; l'avv. cav. de Kiriaki con pochi magistrali cenni, ommesso ogni dettaglio, ne pose in rilievo il valore, il carattere, i XXXVIII merili complessivi; i professori Oddi e Castclnuovo ce lo rappresentarono al vivo nella scuola e nel comitato di collocamento, fra' colleglli professori e in mezzo ai suoi, non so se dire discepoli, figli del cuore od amici; il chiarissimo Castclnuovo ci rappresentò al vivo, come sa egli, anche il pensatore, lo scrittore, l'uomo. Il professore Vincenzo De Castro, che l'ebbe giovanetto sotto il suo domestico tetto in Padova, a Genova e a Milano, e il prof. Daniele Mordilo, amico suo costantissimo fin dai più giovani anni, toccarono di alcune particolari vicende di Milano e di Genova e rilevarono il merilo e l'importanza di alcune sue speciali pubblicazioni geografiche ed orografiche; monsignor Ber-nardi, poi, nelle ripetute sue commemorazioni esuberanti di eloquentissimo affetto disse quanto più e meglio potevasi dire dell'intelletto di lui, del cuore, del costume, del senno, della dottrina, delle opere di carità. E da tutti insieme cotesti scritti emerge una viva pittura del giovinetto e dell'uomo, del patriotta, del pensatore, del letterato, del pubblicista, del giureconsulto, del benefattore; emerge una consolante pittura della sua vita di famiglia, di studio, d azione. E si ha vivo dinanzi il cittadino, l'esule, l'educatore, il maestro, l'amico: si sente, dirò cosi, la sua voce, si ascollano i suoi ragionamenti legati a lilo di logica e inspirati sempre a scopo di pubblico bene nei consigli del Comune, dell'Istituto Coletti, della Congregazione di carità; si vede la sua figura, di tanto modesta apparenza, nelle scuole pubbliche e nelle private, nelle palestre della ginnastica, nelle officine dei caritativi Istituti. Si aggiunga a tutto ciò quanto, nel primo sfogo del dolore dissero sul feretro ancora caldo l'onorevole Sindaco della città, monsignor Jacopo Bernardi, il prof. Castclnuovo, chi presentemente vi parla e il dott. Galli del Tempo ; quanto dissero sull'umile fossa il prof. Giroto e l'aw. Cambini, Carlo Conili. xxxix podestà di Capodistria, venuto qui a dargli l'estremo vale in nome della sconsolata, della desolata sua terra. Si aggiunga quanto scrisse di lui il vice-segretario dell'Istituto cav. Trois, annunziandone la morte ai colleghi; quanto accennarono di lui il prof. Carlo Cipolla nella Rivista storica di Torino; il compianto nostro professore Fulin ne\V Archivio Vendo; il prof. Scaramuzza in un giornale di Vicenza. Si aggiunga infine quanto fu stampato a Roma no\Y Opinione, a Milano nella Perseveranza, altrove in altri autorevoli giornali del regno e di fuori. 1 Ora per non ripetere con forme meno elette cose, che vanno già per le stampe, e che ciascuno di voi o ha veduto, o potrà facilmente vedere nel gabinetto di lettura, o nella biblioteca di questo Ateneo, o procurarsi altrimenti, mi restringo a darvi in chiusa per sommi capi gli estremi, dirò cosi, statistici della sua vita. Nato nel di 27 luglio del 1827, studiò grammatica nel ginnasio di Capodistria (183S-1842), umanità in quello di Trieste (1842-44^, entrambi, non parrebbe vero, completamente, rigorosamente tedeschi. — Passò quindi a studiare filosofia (1844-46) e scienze politico-legali (1846-48) nella università di Padova. Chiusa l'università nel 48, prosegui il corso delle leggi sotto la direzione del padre autorizzato ad impartirne privatamente l'insegnamento, e nel 1849 passò a compierlo nella università di Genova, dove il di 3 agosto del 1850 fu insignito della laurea dottorale. — Per ubbidire al desiderio del padre, che, intento alle cose del co- 1 Quando lessi la presente all'Ateneo non sapevo ancora che il chiarissimo prof. V. Oc Castro avesse pochi giorni prima letto altra commemorazione del Combi all'Accademia fisio-inedico-statistica di Milano, nò che \\v\V Annuario biografico universale diretto dal prof. A. Brunititi. (Unione tip. cJii , Torino iS8j, disp. 5* e 6*J fosse stata stampata una biografia molto particolareggiata e affettuosa del Combi stesso. mune, non poteva tenere in corrente gli affari dello studio d'avvocato sempre in aumento, si restituì in famiglia, ma non istette fermo a Capodistria così che non frequentasse anche studi e tribunali di Trieste per impossessarsi delle leggi e dei metodi forensi nelle questioni commerciali, cambiarie e marittime. — Visto però che il diploma piemontese di Genova in Austria non gli era valido, risolse di ripetere gli esami di rigore in una università dello Stato. Prescelta a tal uopo quella di Pavia, fissò dimora nel gennaio del 1853 in Milano e, superate le difficoltà, non dello studio, ma del tempo e del luogo veramente eccezionali, ai 19 del maggio successivo (1853) potè finalmente avere confermato 0, come dicevano e dicono in Austria, nostrificato il diploma di Genova. — Ritornato ancora per affetto al paese e per necessità domestiche in Istria, superò nell'aprile del 1854 con distinzione anche l'ultimo esame presso la Corte d'appello di Trieste e fu quindi registrato nell'albo degli abilitati all'avvocatura. Se non che, per ragioni facili a comprendersi, non potè mai ottenere in Austria carattere e posto di avvocato carattere e posto, che ottenne poi facilmente qui in Venezia nel gennaio del 1868. — Superato, come dicevo, l'esame d'appello, entrò subito in qualità di conccpi-sta nello studio di un distinto avvocato di Trieste, del dott. Giuseppe Milanich (Milani-ch) e vi rimase a tutto l'ottobre del 1856. — Allora la generosa e civile Capodistria, che era riuscita a rimettere in piedi col proprio denaro il suo patrio ginnasio italiano, invitò l'amato e già chiaro cittadino a portarvi come insegnante il contributo della sua dottrina e del suo patriottismo. Messo al bivio tra la prospettiva di una libera e brillante carriera in Trieste e le spinosità di un ufficio nobile, ma dipendente e inceppato da regolamenti pedanteschi e peggio, non tardò ad optare per questo, perchè convinto di prestare cosi opera moralmente, Carlo Cernii. XLI civilmente politicamente più utile al suo paese. — Entrò nel ginnasio italiano di Capodistria in sul cadere del 1856 come professore supplente di letteratura e di storia. Funse contemporaneamente da bibliotecario e da segretario della Giunta di sorveglianza, ed esercitò molta influenza, non solo su tutta la scolaresca, ma sullo stesso corpo insegnante, tanta influenza che in sul finire del 1859 fu dall'imperiale regio governo consigliato di abbandonare la cattedra per provvedere alla salute, che dicevano scossa dalla soverchia applicazione. Fra le non poche instituzioni da lui in quel torno promosse nella sua Capodistria si fu quella delle scuole serali per gli adulti, nelle quali fra gli altri erasi egli offerto per l'insegnamento gratuito della storia e materie ausiliarie, ma la imperiale regia Luogotenenza, pure accordando in massima la istituzione delle dette scuole, cancellò dalla lista degli insegnanti il dottor Carlo Combi per vari e fondati motivi (cosi). Da questo momento non esercitò più in Capodistria che uffici esclusivamente municipali. Però, durante tutte queste vicende e più tardi, potè istruire privatamente, all'ombra del padre, nelle scienze politico-legali non pochi giovani di Trieste e dell' Istria. Passato di qua nel 66, due anni appresso ottenne e fino all'ultimo giorno della sua vita coperse e illustrò, come abbiamo veduto, la cattedra di diritto civile e commerciale in questa Scuola supcriore di commercio. E fu, non solo consigliere comunale fin dal 1878, e assessore col referato della pubblica istruzione nell'anno 1878-79, e membro dell'amministrazione dell'Istituto Colletti fin dal 1876 e della Congregazione di carità dal 1881, —ma fu per decreti ministeriali anche membro della Giunta centrale per gli esami degli Istituti tecnici e ispettore delle scuole commerciali private XL1I della provincia. Inoltre fece parte dei Consigli scolastici comunale e provinciale e di molte Commissioni municipali e governative, particolarmente nei rami scuole, biblioteche, archivi ed opere pie. Fu oltrecciò fino dal 1877 socio di questo patrio Ateneo, che nell'anno 1882 l'aveva nominato anzi suo vice-presidente, carica, dalla quale per eccesso di delicatezza si dispensò, onde non sottrarre tempo e lavoro ad altri studi e ad altri uffici, nei quali s'era impegnato. Fu contemporaneamente membro del li. Istituto veneto di scienze, lettere ed arti, della R. Deputazione veneta di storia patria e di non pochi altri Corpi letterari e scientifici di Genova, di Padova, di Prato, di Vicenza, di Udine. Ebbe finalmente ancora nel 1871, la distinzione del cavalierato dei SS. Maurizio e Lazzaro con dichiarazione ministeriale, che la riferiva all'opera prestata nel pubblico insegnamento, distinzione più che meritata, ma della quale non fece mai uso, riè vanto. Durante il suo soggiorno in Genova come studente collaborò assiduo a quel Corriere mercantile, onde non essere di peso alla famiglia e, seguendo l'impulso del cuore diede fin d'allora scritti patriottici al Giovanetto italiano, i\\YEducatore, al Pia IX, all'Avvenire d'Italia. Fu nel 1866 e 1867 corrispondente assiduo della Gaietta del popolo di Firenze; direttore del Corriere di Venezia nel 1868; fu per anni di seguito corrispondente della Perseveranti; e fra il 1859 e 1866 e più tardi ancora, mandò ad amici ed a comitati notizie politiche e scritti patriottici che furono inseriti in altri riputati giornali di Milano, di Torino, di Firenze, di Napoli, e scrisse allora e poi d'interessi cittadini in giornali di Venezia, di Trieste e dell'Istria. — E i più di questi scritti uscirono senza il suo nome, molti invero per necessità dei tempi, ma altri per puro effetto di sua modestia. All'occasione del terzo Congresso geografico internazio- naie tenutosi in Venezia nel 188 r diede larghissimo contributo (oltre 700 schede) alla Cartografia veneziana; preparò per la stampa, ridotto sapientemente alla più giusta lezione, l'Epistolario di Pietro Paolo Vergerlo il seniore e raccolse preziosi e copiosi materiali per altre desideratissime opere, il cui concetto, pur troppo! è chiuso irrevocabilmente con lui nella tomba. Concludo, usurpando in parte quanto argutamente condensò in una pagina dell'Archeografo Triestino un assai erudito, coscienzioso e autorevole critico, il chiarissimo Attilio Plortis: xjCarfo Gambi ebbe alta vigoria di cuore e d'intelletto, ingegno presto ed idoneo alle più svariate teoriche e pratiche e in tutta la sua vita non fece studio 0 lavoro letterario 0 scientifico, che non avesse intendimento civile. » All'annunzio della sua morte, fra i molti, che meco se ne condolscro, un caro e rispettabile amico suo e mio, lagri-mando mi scrisse: « E un'altra vittima del lavoro, é un « altro martire della patria. L'abbondanza del cuore lo uc-« cise prematuramente. Se avesse palpitato e lavorato meno « per la famiglia e la patria, egli sarebbe ancora vivo. Se « avesse obbedito' alla sua prima naturale vocazione, e si « fosse dedicato esclusivamente alle lettere ed alle scienze, « sarebbe uno dei nostri immortali. » Risposi: « Chi ha, non solo mente, ma cuore, non può « non servire ai bisogni della patria e del tempo. Ecco la « vera vocazione, la vera missione dell'uomo intero. — « Carlo Combi la senti, l'accettò, l'adempì. — Noi lo ab-« biamo, e vero, prematuramente perduto, ma egli non è « morto e non morrà cosi facilmente ; anzi m'impegno che « cogli anni crescerà la sua fama e si potrà dire, forse più « giustamente di lui che non d'altri: dopo morto è pia vivo « di prima. » — 1 fatti, s'io non traveggo, incominciano a darmi ragione. Mi affretto a finire ; ma non so distaccarmi dalla memoria dell'amico defunto, e da voi, Signori, che mi avete onorato della vostra attenzione benevola, senza farvi udire una breve poesia, ch'egli stampò nella sua Porta Orientale (strenna, il cui solo nome vale un programma), nella Porla Orientale del 1858. Sono poche strofe, nelle quali rappresenta sé stesso e la sua difficile posizione, e dichiara il suo proposito fermo, che poi mantenne di fatto fino alla morte. La breve poesia ha per titolo: LA SCOLTA. Cupa è la notte, gelido il vento, Nè raggio splenderai dal firmamento ; Tutto d" intorno spirami orrore, Mi stringe il core. Animo, o scolta, giorno farà: All'erta, olà! Lungi dall'altre scolte compagne, Solo su queste nude montagne, Voce non odo, che mi conforti, Parlo coi morti. Animo, o scolta, giorno farà : All'erta, olà! Larve raccoltesi in lunga schiera Rompon le masse dell' aria nera, Ed affissandomi sinistramente, Girano lente. Animo, 0 scolta, giorno farà : All'erta, olà! Carlo Conili. XLV Oh ! quante volte mi par la bella Veder nell'etera luce novella, Ed un saluto pieno le invio Dal petto mio ! Animo, o scolta, giorno farà: All'erta, olà! All'erta! Il posto, che qui mi e dato, Posto è da prode, posto onorato: Saprò soffrire, nò cederò, Finché vivrò. Animo, o scolta, giorno farà: All'erta, olà! La scolta del 1858, della Porta Orientale, è morta! morta il di 11 settembre del 1884, senza vedere la luce del nuovo giorno da lei con ansiosa fiducia aspettato; ma la luce del nuovo giorno verrà. Piangiamo la morta scolta, ma serbiamo viva la fede nella necessaria concatenazione degli eventi, nel tardo spesso, ma immancabile trionfo della giustizia, nella dignità, nel senno, nel valore, nella fortuna della nazione! PRODROMO DELLA STORIA DELL'ISTRIA' (Dalla Porla Orientali; 1857.) Senza perdersi in vane disquisizioni intorno ai popoli originari dell'Istria, basti notare che i più ammettono essere stati gli Etruschi o i Pclasgi. Altri vorrebbero invece che nell'interno dell'Istria si fossero stabiliti anco i Celti. Meno incerto si è che una tribù grecanica passasse dalla penisola d'Istria, situata sulla foce dell'Istro, alla nostra provincia fra il Timavo e l'Arsa, trasportandovi il nome del paese nativo, e le tradizioni della nave d'Argo, di Medea, di Giasone. A questi nuovi abitatori si attribuisce la fondazione delle città di Trieste, d'Egida (Capodistria), di Emonia (Cittanova), di Parcnzo, di Pola e di Nesazio. Dietro l'occupazione dei Grecanici, i popoli primitivi si ritrassero, a quanto sembra, all'interno verso i monti, e i nuovi occupatori, stanziati di preferenza in sulle coste, si dedicararono alla navigazione. Quali fossero gli ordinamenti di questi popoli è mal noto. Sorpassando quindi que' tempi, e notando che nell'anno 1 SI Mende UlCOra una'StOria dell'litri», né t darla no!, ci basta l'animo. Ma se moviamo il primo passo ajutato dalle opere del Carli e d'altri eruditi, tra cui specialmente il dott. Kandler, piova sperare che il compatimento non ci verri meno. (Vedi in fine ilei presente articolo ) 202 a. C. il dominio di Roma toccava già con la Venezia i confini dell'Istria, ci portiamo all'epoca, in cui i Romani vengono a contatto con gl'Istriani ed aspirano a renderli essi pure soggetti. Già nell'anno 184 a. C. ottenne il Console Marcello la permissione di romper guerra agli Istriani. Ma questa non segui subito, che si pensò prima a fondare la città di Aquilcja come punto d'appoggio. Gli Istriani, presone sospetto, pongon opera ad impedire il nuovo stabilimento dei Romani e muovono all'estrema frontiera occidentale della provincia. Presso il Timavo segue battaglia sanguinosa col console Manlio avanzatovisi da Aquilcja. I Romani da prima rotti, vincono poscia, e Livio dà lunga decrizionc di questa pugna, come di grosso fatto d'arme. (179 a. C.). La guerra contro gì' Istriani continua e il console Claudio la compie sotto le mura di Nesazio, ove gl' Istriani col loro re o condottiero F.pulo si danno la morte nelle fiamme. Passata cosi l'Istria in dedizione dei Romani, fu presidiata da Socj latini, e in Roma (178 a. C.) se ne menò trionfo: indizio questo che l'Istria, qual parte d'Italia, veniva stimata di grande importanza. Vi fu anzi il poeta Hostio, il quale ne fc' argomento d'un poema, che andò perduto. Cresciuti per tal modo i Romani nel dominio dell'Adriatico, formarono in Ravenna un naviglio a custodirlo. I Giapidi intanto, che stavano a tergo degli Istriani, suscitarono tra questi una rivolta, e Sempronio Tuditano la represse colla sconfitta degli stessi Giapidi (128 a C'). Dal monte Re sino a Piume si costruì allora un vallo murato a rafforzare viemmeglio la barriera naturale delle Alpi, e Trieste e Pola fiorirono come colonie di diritto latino, sebbene la prima si trovasse posta a sacco dai Giapidi non ancora all'intutto domati. Mentre P Istria andava ordinandosi alla romana e stringendosi ognor più alla patria italiana, al pari della Venezia e più dell'Insubria, l'Italia civile si estendeva sino al For-mione o Risano, presso Capodistria. La nostra provincia per altro, unita alla Transpadana, era stata già da Giulio Cesare condecorata della romana cittadinanza (.15 a. C). Nelle guerre civili di Roma parteggiò prima per Pompeo, poi per Antonio. Ond'è che Ottaviano fe' smantellar Pola, e rinnovarne la colonia, chiamata quindi Pietas Jnlia. Regnando Augusto, l'Istria si arriccili di colonie e alla marina e nelP interno. Cosi a lato dei nomi di Trieste c Pola figurarono quelli di Egida, di Emonia, di Pirano. Soggiogati poi Giapidi e Libumi, limitrofi degli Istriani a settentrione ed a oriente, la nostra provincia venne assieme con la Venezia ascritta (14 a. C.) alla decima regione d'Italia detta Vcnelia- et Hiistritr, od anche solo Venct'uv con P unica distinzione geografica di Venezia superiore ed inferiore. Fin da quel tempo adunque suonò il nome del fiume Arsa qual confine orientale d'Italia, e l'Istria, popolatasi di veterani, crebbe sempre più in importanza pel dominio di Roma oltralpe. Sontuosi edilìzi sorgono in questa e quella città, e Pola entra innanzi alle altre per ogni maniera di grandiosi abbellimenti, tra cui specialmente il famoso Anfiteatro, opera, che gareggia con le migliori d'Italia. Da ciò e da molti altri dati, che in questi cenni si tralascia di memorare, può dedursi che fiorente fosse la condizione della nostra provincia, la quale era di tanta rilevanza anco per le ragioni della navigazione nell'Adriatico, che, institui-tasi sotto l'Imperatore Trajano la flotta d'Aquilcja (105) con la stazione a Grado, se ne estese la giurisdizione marittima dalle foci dell'Adige a quelle dell'Arsa, lasciata la custodia dell'Adriatico inferiore al naviglio di Ravenna. lui havvi argomento a giudicar bene altresì, e dell'industria, e del commercio. Riguardo a quella, basti accennare alla CÌSSense tintoria di porpora, c riguardo a questo por mente alla floridezza di Aquileja, che avvolgeva, e la Venezia, e l'Istria nel movimento de' suoi traffici, anco verso l'Oriente e l'Africa. Quanto al governo, giovi ricordare, che da Ottaviano Augusto lino a Costantino l'Italia tutta non ebbe mai alcun particolare governatore, eccettuato il prefetto al Pretorio di Roma. Ne conseguita che ogni città col civico ordinamento repubblicano da sé medesima si reggesse. Sotto l'impero d'Adriano e più tardi, si trova anche menzione di consolari, di giuridici e di corre/lori inviati ora nell'una ora nell'altra parte d'Italia a provvedere, quantunque senza ben precisi e slabili poteri, alle ragioni della pubblica economia, delle costruzioni e della giustizia, salva per questa l'appellazione al prefetto del Pretorio. Trasferita (328) la sede imperiale a Costantinopoli, e ripartito l'impero romano in quattro prefetture suddivise in diocesi e quindi in provincic, l'Istria segui le sorti della prefettura ed anzi provincia d'Italia, continuando a rimanere unita alla Venezia e costituendo con quella una delle diciassette nuove regioni italiane. Anche nella divisione di Valcntiniano P Istria con la Venezia rimaneva all'Italia, né mai ebbe parte ncll'lllirio, che secondo i varj tempi più o meno si allargò al di là dei contini italiani. Ma già incominciano le invasioni de' Barbari, e qui è da riferirsi che i Quadi e i Marcomanni penetrati in Italia per le Alpi Giulie devastarono parte del Friuli e della Venezia (372) e che i Goti ricalcarono la stessa via sotto il loro re Alarico (400 \ Pure dalla parte orientale d'Italia slancia-vasi quell'Attila, che menò tante stragi. Tutti questi Barbari non vi fermarono stanza: ma il bel paese soggiaceva alle più crudeli sventure. L'Istria, secondo gli uni risparmiata, e secondo gli altri manomessa ella pure dalle orde di Attila, sembra per lo meno non aver molto sofferto. Ove infatti si consideri la descrizione, che ne dà Cassiodoro, scrittore e ministro di poco posteriore a que' tempi, chiamandola bella così da tornare ad ornamento d'Italia,1 non può certo dedursi altra conseguenza. E d'altronde par ben naturale che i Barbari, superata la catena delle Alpi Giulie e calatisi nella valle serrata dalle Alpi stesse e dalla Vena, che ne è una diramazione e forma il'confine settentrionale dell'Istria, preferissero di spingersi più oltre da quel lato, ove più largo si schiudeva loro l'orizzonte e più aperto all'avanzarsi ve-deano il cammino. Nuova invasione dalle Alpi Giulie scendeva nell'anno 476. Odoacre con grande esercito di Turcilingi, Ertili, Rugi, Sciti ed altri Barbari occupò l'Italia, e sembra che l'Istria corresse la coniun sorte. Quando infatti, nell'anno .189, Tcodorico, re degli Ostrogoti, mosse al conquisto d'Italia, Odoacre fu in armi all'Isonzo. Ivi restò sconfitto, e l'altro si fece padrone d'Italia: regno, in che entrava certo anco l'Istria, e che governavasi allo stesso modo dell'Impero d'Oriente. Anzi il reggimento repubblicano d'ogni singola città prese tosto più spedito andamento. E qui cade in acconcio il notar cosa, che non solo si riferisce alla storia dell'Istria sotto il regno di Tcodorico, ma che porge mezzo altresì a chiarire la provinciale costituzione cosi dei tempi addietro, come pure di quelli succedutisi fino a Carlo Magno, e più oltre ancora fino al cangiamento della fraternità ed alleanza con la Venezia in protettorato, e quindi in dominio di questa su quella. 1 Vedi in |jne. La nostra provincia fu bensi parte, com'è detto, del regno italiano di Tcodorico, ma ritenne non meno delle altre d'Italia il proprio democratico reggimento, in un medesimo che al pari dello stesso re serbava all' imperatore d'Oriente una sembianza di soggezione d'onore. Siccome poi il reggimento Veneto-Istriano era più libero che ogni altro d'Italia, cosi si spiega la maggior libertà goduta dalle Venezie ed Istrie, e sotto Tcodorico, e sotto i mutati governi dei tempi posteriori. Esse non avevano a capo alcun regio magistrato o governatore, e cessata era pure la giurisdizione dei consolari e dei correttori. Pagavano il tributo, ma ogni pubblico all'are veniva discusso e deciso indipendentemente in nr, generale convocamento : ed il popolo eleggeva Vescovi, Magistrati, Tribuni, Vicari, I.ocopositi, ed anche Ipati o Consoli, oltre al ricordato Maestro dei Militi residente in Pola. Ma già altre vicende dovevano incalzarsi. Belisario, generale di Giustiniano, riconquista (539) anche l'Istria sui (ioti, che distruggono quanto non valgono a difendere, e l'assoggetta agli Esarchi di Ravenna congiunta alla Venezia marittima e governata al pari di essa da un Maestro dei Militi con Tribuni per ogni città e con Vescovi rivestiti, come portavano que' tempi, anco di poteri civili. Richiamate) Belisario, Narsctc (552) rafferma il dominio dell'impero d'Oriente in Istria, quando nelle vicine provincie dell' Illirio cominciavano a comparire le torme degli Slavi e nelle confederate Venezie s'erano avanzati i franchi. Ma uè questi, uè quelli penetrarono nella nostra provincia, poiché gli uni furono sconfitti, gli altri rattenuti ancora dai monti. A Narscte, tolto al governo d'Italia, subentrò (565) Longino col nome di bisarca. Fa a quel tempo che Alboino condottiero de'Longobardi, chiamato o meno da Narscte, imprese la conquista il'Italia, disceso dal monte Re, che s'jprge sopra Trieste (568). L'Istria, al pari di molte altre provincie d'Italia, fu bensi corsa da Alboino e molto danneggiata, specialmente nella parte superiore, ma non occupata. Anzi la sua popolazione, come avvenne pure nella Venezia marittima, si aumentò allora di nuove genti italiane qui riparatesi, e specialmente in Capodistria, città, che a quel tempo aveva cangiato il suo nome di Egida in quello di Giustinopoli datole dall'imperatore Giustino II. Fu nel 588 che il re Autari, aspirando alla signoria di tutta la provincia delle Venezie ed Istrie, si avanzò pure contro di queste con esercito guidato da Evino duca di Trento. Ma la spedizione non ebbe compimento, avendo gl'Istriani ottenuto una tregua, la quale portò per conseguenza che Evino si ritirasse, fortificando 1' isola Amarina presso Monfalcone. Causato quel pericolo, altro ne insorse (604) da parte degli Slavi venuti sull'orme dei Longobardi, uè contro questo bastarono tanto gl'Istriani da impedire che l'Istria interna venisse saccheggiala con eccidio della popolazione. Gli Slavi non vi si soffermarono a quel tempo, ma si diedero a molestare il vicino Friuli. • Anco gli Avari corsero l'Istria senza dimorarvi (615), e mentre il resto d'Italia veniva sempre più signoreggiato dalle genti barbariche, l'Istria e la Venezia marittima si accrescevano nuovamente e sempre più di genti italiane. Ed era appunto con la Y'cnezia marittima che la nostra provincia sì per l'abbandono, a cui l'impero d'Oriente lasciava i nominali suoi possedimenti d'Italia, si per la costituzione cittadina più sopra notata, costituiva pressoché uno stato indipendente coi reciproci nodi di fraternità e di alleanza. Fin d'allora infatti l'Istria era soggetta allo stesso doge: dignità instituila in luogo di quella del Macstrato dei militi sulle proposte del patriarca Cristoforo da Pola E convien credere che i Veneto-Istriani fossero già saliti a rinomanza di potere, avendosi dalla storia, essere stato da papa Gregorio II, quando i pontefici tenevano il carattere di vicari imperiali d'Italia, confermato loro (726) il dominio dell'Adriatico in nome dell'imperatore d'Oriente: altro indizio che la signoria di Bisanzio era di sola apparenza, né toglieva che il grande pontefice si ponesse a capo di città libere contro l'ereticale tirannide dei teologi di Costantinopoli ed iniziasse quindi il sistema perfezionatosi poi nel Comune italiano. Ma se da tutto ciò può argomentarsi che l'Istria, quantunque infestata essa pure e depredata da scorrerie di barbari, fosse rimasta abbastanza forte, non poteva non trovarsi alquanto decaduta dalle pristine sue condizioni, e per le passate vicende, e per terremoto certo fortissimo, se l'Isola di Cissa non lunge, da Rovigno sprofondava (740) cosi che la vetta del suo colle rimaneva a quindici tese sott'acqua. Poco dopo di questo infortunio i Longobardi, già impadronitisi di Ravenna e di tutto l'Esarcato, si conducono anco in Istria guidati dal loro re Astolfo (752). Ma tutta non la occuparono, che Ciustinopoli con altri luoghi specialmente marittimi continuano a restarsene collegati a Venezia. Il ponteficic Stefano V, scrivendo al patriarca di Aquilcja e riconfermando l'unione della Venezia e dell' Istria in una sola provincia, fa sperare che Pipino sarebbe venuto a liberarle. Intanto i Longobardi posero nella parte occupata dell'Istria un duca, e fu appunto duca d'Istria quel Desiderio, che segui Astolfo nel regno con lui caduto sotto la spada dei branchi. Ed ecco, e branchi, e Longobardi, e Greci, gli uni, quali nuovi invasori d'Italia, gli altri pel ducato dell'interno dell'Istria e i terzi per la nominale loro signoria, scendere ad accordi circa la nostra provincia, riconosciuta allora, e di appartenenza bizantina, e soggetta al doge di Venezia, e da con- segnarsi coll'Esarcato al pontefice. Basti rammentare quanto si è notato più sopra riguardo all'apparente dominio di Bisanzio, alla reale unione della Venezia e dell'Istria e al vicariato imperiale dei papi, per trovare una spiegazione di questi strani avvolgimenti proprj soltanto di quel tempo. Al cadere pertanto del regno de' Longobardi (774 , l'Istria si trovò in quella stessa condizione d'indipendenza, di che avea per lo addietro goduto. E qui prima di proseguire la storia profana con l'epoca di Carlo Magno, arrestiamoci a riguardare alcuni fatti notevoli della chiesa nella nostra Provincia, la quale, giusta le tradizioni, aveva cominciato a convertirsi al cristianesimo fino dall' anno 50 dell' èra volgare per opera di Santo Er-magora ed aveva veduto parecchi de' suoi martiri della fede fino al compiersi del III secolo. Allorché Costantino nel 313 die libertà al cristianesimo, esistevano già molte comunità cristiane nell'Istria, si erigevano chiese e si trasformavano in templi cristiani i pagani. II vescovo di Aquileja ebbe da prima per diocesi l'unita provincia della Venezia e dell'Istria: fatto questo, che conviene rammentare come origine delle pretensioni della chiesa d'Aquileja, e quindi di non poche ecclesiastiche scissure. Quando poi s'i(istituirono anco nell'Istria i vescovati nell'anno 52,1, quello di Aquileja era già fino dal 369 arcivescovato, ma non metropolitico, dell'istriana provincia. Soltanto verso la metà del VI secolo, la chiesa di Grado, a cui di solito rifuggivansi gli arcivescovi di Aquileja nelle invasioni dei Barbari, venne riconosciuta nel Concilio Laterancnse metropolitica dell' Istria. Tali sono le precedenze da indicarsi a meglio discorrere della importanza del cosi detto Scisma istriano. Esso ebbe origine dalla nota decisione del V Concilio Ecumenico (li Costantinopolitano) che condannava i tre famosi capitoli, sorpassati nel IV Concilio tenutosi in Calcedonia. I vescovi dell' Istria e molti altri segnatamente della Venezia e della Liguria non accettarono la condanna e spinsero tant'oltre la dissidenza, da separarsi dalla comunione del pontefice e degli altri vescovi assenzienti, dopo radunatisi presso Paolo metropolita d'Aquilcja, ed eletto questo a loro patriarca in luogo di pontefice (loco poiilificis). Nacque così lo scisma, il quale dalla maggior resistenza ilei vescovi istriani, avvegnaché comune a molti veneti e a parecchi d'altre provincic d'Italia, prese nome di scisma i striano. A stornarlo fu l'esarca con apposita (lotta l'anno 5a ( i rado, ove risiedeva Severo, patriarca ili Aquileja, e fattolo prigione coi vescovi di Trieste, di Parenzo e di Cissa, li tradusse a Ravenna. Durava ancora la opposizione degli altri vescovi istriani, quando S. Gregorio Magno ne ricondusse alcuni alla cattolica unità (60.|). Così tra gli stessi vescovi dell'Istria vi fu scissura. I convcrtiti per opporre altro patriarca a quello di Aquileja conferirono un tal carattere a Candidiano e gli assegnarono a sede patriarcale quella di Grado, da cui era stato tolto il prigioniero Severo. Di siffatta guisa ebbero origine i due patriarcati di Aquileja e di Grado, distinzione, che durò anche dopo l'adesione al V Concilio Ecumenico degli altri vescovi dissidenti seguita nel 698 con la line dello scisma. Anzi i due patriarcati si trovarono per secoli a conflitto di giurisdizione, durante il quale i vescovi dell' Istria propcndettcro quasi sempre per quello di Grado esteso sulla Venezia, e che veniva riconfermato più volte metropolitico dell'Istria dai pontefici e dai concilj. Avvertasi per ultimo non aver lo scisma istriano lasciale all'infuori di questi litigi altre conseguenze religiose; che anzi sorse calda l'opposizione della Venezia e dell'Istria al decreto dell'imperatore Leone [satirico l'iconoclasta, emanato nel 726 contro le imagini de' Santi. Riavviandoci ora negli avvenimenti della Storia profana, diremo come Carlo Magno, dichiaratosi re de'Longobardi (789) movesse ad occupar l'Istria, ed occupatala, vi ponesse un duca, unendola al regno longobardico ed assogettandola a quelle fogge di governo, quasi fosse terra educata a straniere istituzioni, illuso dalla effimera signoria esercitata dai re Astolfo e Desiderio. Imperocché si sa bene, che Carlo Magno non distrusse da prima il regno longobardico, ma vi lasciò i duchi, e ne mutò solo il re, che fu egli. Giustinopoli però e alcune altre città marittime non cangiarono modo nel governo. L'Istria si trovò divisa nelle sue sorti. L'interna con parte della marittima aggregata al regno longobardico seguiva gì'imprcndimcnti del suo conquistatore, e l'altra parte marittima serbavasi nella solita sua condizione con la Venezia. Ma l'ima e l'altra aveano comune quella popolazione italiana, che le rendeva distinte tra le provincic della nuova Longobardia. Chiesto fatto è di grande storico momento, poiché da esso soltanto può spiegarsi il ritornare, che fece l'Istria, non appena compresa nel regno longobardico di Carlo Magno, al primiero suo reggimento dietro il placito dell'801 al fiume Risano, tenuto dai messi di Carlo Magno, allo scopo di udire i lagni degli Istriani, e contro il nuovo governo, e contro l'introduzione di qualche tribù slava seguita allora la prima volta per volere del duca Giovanni, il quale avea posto opera a creare il feudalismo longobardico, e ad allargarlo secondo i costumi de' branchi. Il politico conquistatore sapeva bene che le recenti conquiste non si assodano col contrastare alle antiche consuetudini del paese, e fiero appunto, come fece in altre parti d'Italia, restituì all'Istria, che riconobbe d'indole veneta, e non longobardica, la pristina sua costituzione, ritenendola solo obbligala ad un tributo, che consisteva nella decima, e trasfor- mando la patria autorità elettiva del Macstrato dei militi in ducato o marchesato pure elettivo, con la stessa sede in Pola. I.a nostra provincia così ripristinata spettava pel tributo all'Italia longobardica, che dicevasi anche regno d'Italia, e per ogni altra ragione all'Italia civile nello stesso modo delle città marittime venete ed istriane rimaste immuni da ogni contribuzione a Carlo Magno. Cotesta distinzione d' Italia longobardica e civile è necessaria a far comprendere come il vero dominio di Carlo Magno si estendesse ai paesi realmente abitati da Longobardi, ma che sulle provincic esclusivamente italiane il regno suo riducevasi ad una mera alla signoria. •!• eco pertanto che nell'Italia civile di quell'epoca trovasi annoverata l'Istria, quantunque per la maggior parte soggetta a Carlo Magno, in uno alle isole della Venezia, all' Esarcato, alla Pentapoli, a Roma, al territorio romano lino a Tcrracina, all'Abruzzo, all'Umbria, alla Toscana, a Napoli e alla Calabria. Senza queste indicazioni, chiamate dalle eccezionali condizioni di quell'epoca singolare, mal si ravviserebbero i veri aspetti della storia nostra provinciale. Né ciò basta a comprendere le anomalie di quell'età. Abbiamo già detto, come l'Istria (osse restituita al primiero suo ordinamento. Ma siccome a que' tempi tutta la dignità d'una provincia stava riposta nelle Municipalità e nei Comuni, cosi vuoisi ben avvertire, non aver tale reintegramento degli ordini veneto-istriani compreso le campagne dell'Istria. Queste furono tosto volte al nuovo sistema dei pagi o comitali, per cui il duca o marchese governava a nome del re, quale vassallo, e si dividevano le terre tra i valvassori: sistema infrenato solo da placiti o parlamenti , gli uni maggiori sotto la direzione dei missi dominici, ch'erano i superiori ispettori dei vassalli, e gli altri minori, presieduti dal capo della provincia. Non tutta pertanto l'Istria era costituita allo stesso modo. Vi avevano alcune città, come Giustinopoli, rimaste libere anco dal tributo, altre città e comuni col solo carico di questo tributo, e campagne ripartite in distretti non solo tributari, ma soggetti altresì al governo baronale, ossia dei militi, tra cui venivano divise le terre. F. qui riguardo alle campagne stesse, nuove distinzioni. Se il distretto tributario veniva conceduto colle regalie, ossia coi poteri maggiori, dicevasi comitato la terra e conte chi la teneva. Se all'invece il territorio tributario era dato senza le regalie, ossia coi poteri minori, chi lo conseguiva prendeva nome di barone o di signore. L'avere infine la semplice percezione del tributo d'un paese conferiva il carattere di padrone fondale o censuario. In poteri adunque qua maggiori e là minori e in riscossioni di tributi consisteva il governo baronale della campagna. Il duca o marchese estendeva poi la sua autorità su tutta la provincia, nominale quanto ai non tassati, e reale quanto agli altri, ma questa pure distinta quinci tra città e campagna, e quindi tra le campagne accordate ai baroni, e quelle a sé stesso riserbate. .Se non che anche di quest' ultime si affidava altrui l'amministrazione col nome di Comitato o Contea d'Istria, detta cosi appunto perchè composta di terre non costituenti contee di speciale denominazione. Sotto la dignità adunque del marchese vediamo quella del conte d'Istria. E diciamo di proposito dignità, perché da prima, c marchesato, e contea erano officio, a cui per elezione si perveniva, e non l'appannaggio ereditario posteriormente formatosi. Da questa condizione di cose convien partire per farci a dividere il tempo, che ci resta a scorrere, in alcune epoche, dopo le due già riandate del dominio romano e della continuata fratellanza con la Venezia Questa si cangia in protettorato, ed ceco la terza epoca, che va suddistinta in tre periodi, vale a dire quello del marchesato elettivo lino al 1026, l'altro del marchesato ereditario fino al 1230, e il terzo infine del marchesato dei patriarchi d'Aquileja fino al 1420. Con Venezia, che subentra nel marchesato e cangia la protezione dell'Istria in signoria, principia la quarta epoca, che diremo ultima, entrando la presente, dopo la caduta della Repubblica, nella storia contemporanea. Cominciando adunque dal i.° periodo dell'epoca del protettorato di Venezia, è mestieri avvertire innanzi tutto, come in esso le città e i comuni tendessero vieppiù ad affrancarsi con propria indipendenza, sempre volgendosi a Venezia, che cresceva in potere e quindi in forza e desiderio di proteggere. Quindi nulla meraviglia il vedere i detti comuni liberi od affrancati esercitare il diritto di guerra, d'alleanza e perfino di sommessionc ad altro potentato, e nello stipulare quanto loro meglio conveniva, usar per forma frase, che dicesse salvi i diritti del re, ma nello stesso tempo promettere di operare sciolti dagli ordini suoi (absque jussiom imperatoris). Valga questo a comprendere gli avvenimenti, distrecciandoli da quelle contradizioni, in cui altrimenti si rimarrebbero avviluppati. Nella pace formatasi l'anno 813 tra Michele, imperatore bisantino, e Carlo Magno, il franco conquistatore rinunciò alla Venezia marittima, e questa pace fu confermata con Niccforo. L'Istria, quantunque attribuita al regno longobardico ossia d' Italia nei modi, che già vedemmo più sopra, non era certo staccata da Venezia, se continuava a contribuirle navi, vino, olio e canape, e se i comuni marittimi si obbligavano verso di essa a tener libero di pirati il mare di qua d'Ancona e di Zara. Nè questo impediva che l'imperatore Lodovico confermasse nell'815 agli Istriani ogni loro costume di governo. Il comune italiano era già vivo fin d' allora nella nostra provincia, e se da un canto si piegava alle vicende del continente, non dimenticava il passato, e da questo prendeva norma all'agire indipendente, tanto più che aveva dinanzi il mare non curato dal governo baronale, e ch'era invece il vero campo delle sorti istriane. E su questo mare la Venezia, fino allora all' Istria alleata, porgevate mano protettrice, poiché già cominciavano ad infestarlo gli Slavi avanzatisi fino al Quarnaro. Difatti, mentre Lottano promette contro di questi assistenza, Venezia la dà e batte sotto il doge Orso, spintosi nelle acque di Umago, il bano della Dalmazia, Domenico, che aveva corsole coste dell'Istria. E questa univa le sue forze contro il comun pericolo, che cresceva per nuovi nemici, i Saraceni, gli Slavi della Dalmazia, gli Ungheresi: vinti gli uni sotto Ancona (872), gli altri alle spiagge dalmate (887), i terzi in faccia al porto di Al-biola (906). Mentre nella maggior parte d'Italia correva l'età più povera di fatti veramente italiani tra le contese dei Carolingi per la successione nei regni, in che s'era diviso e ridiviso l'impero, e mentre succedeva un'altra età, che a condannarla per peggiore persuade il nome di quel Berengario, che fe' vassalla di Germania la corona d'Italia, la Venezia e l'Istria combattevano valorose contro nuovi attentati di genti straniere e bene meritavano della patria. Ed é invero mala cosa vedere come molti de' nostri scrittori di storie, negletta la verità, perché schiavi della fatica di far disamina circa le condizioni e gli avvenimenti particolari delie provincie meno studiate, asseriscano conquiste della Venezia sulP Istria, tratti in inganno dalle ostilità del magistrato marchcsale o da qualche passaggera dissensione con qualche singolo comune: sciagure purtroppo, non già per anni, ma per secoli, più frequenti e gravi nel resto d'Italia. Ond'é clic mentre vediamo il marchese d'Istria, Vinterio, officiale del re Ugo di Provenza (926) far uso di sua potestà per assoggettare a balzello l'antico libero commercio de* Veneti in Istria, vediamo pure Giustinopoli, che già costituita a comune co' suoi consoli di popolare elezione offriva il primo esempio in Italia, dopo Venezia, di civico magistrato, tradurre in iscritto l'antica alleanza con la stessa Venezia ed esibirsi spontanea a darle contributo (932). lì l'anno seguente osserviamo altro trattato fra lo stesso marchese d'Istria, i nostri comuni e Venezia, con cui si affranca nuovamente il commercio e si riconfermano le somministrazioni al doge. Anzi pattuivano gl'Istriani clic, ove il re comandasse di far guerra a' Veneti, ne darebbero loro contezza, affinché a sé provvedessero. Questi sono fatti, che rivelano il vero stato delle cose ben meglio che la inconcludente baruffa (946) di pochi Triestini rapitori di alcune spose veneziane; baruffa, che non sarebbe degna di menzione, se non avesse dato origine alla famosa festa veneziana detta delle Marie. Altri latti della stessa natura sono ricordati dalle patrie memorie in questo secolo, trovandosi nel 976 rinnovati gli accordi tra Giustinopoli c il doge Pietro Orseolo I a motivo d'incendio, che aveva incenerito il primo trattato, e leggendosi ancora che nel 992 le città marittime dell'Istria riconfermarono i diritti di Venezia. V. quando il doge Pietro Orseolo II mosse contro gli Slavi della Dalmazia, ebbe lieti accoglimenti nella città di Parcnzo (997). Passando ora a percorrere il secondo periodo dell'epoca, di cui ci occupiamo, n'è d'uopo rammentare come l'imperatore Ottone 1 della casa di Sassonia, la quale è con lui la prima di Germania nel regno d'Italia, avesse introdotto nuovi ordinamenti nel sistema baronale. Scemò i grandi ducati e franse i marchesati in maggior numero di comitati. Dotò le città di agri tributari e di semplici castella fe' comitati rurali. Per tal modo Ottone, senza volerlo, affrettò l'èra dei Comuni italiani. Allorché adunque Corrado 1 il Salico della casa dei l-'ran-coni o Ghibellini primi (da cui l'inizio del presente periodo di storia), succedette alia casa di Sassonia nel regno d'Italia, trovò anco in Istria accresciute le città di nuove terre, e più che mai ridivisa la campagna tra baroni intenti a emanciparsi o ad acquistare più estesi diritti sull'esempio delle città stesse. I vescovi pure prendevano loco importante nel governo baronale per nuovi possedimenti, e d'ogni parte era un agitarsi negli intendimenti accoppiati del predominio e della libertà. Tali erano le pubbliche condizioni, quando Corrado I principiò a concedere in feudo le grandi cariche ed emanò leggi, con cui costituiva ereditari i feudi e sotto-feudi, compiendo cosi il vero Feudalismo^ che cozzò a lungo col Comune, ed ebbe gran parte in quelle guerre intestine, che trassero entrambi a caduta. 11 marchesato d'Istria si fe' quindi ereditario in un Ve-ccllino. La contea d'Istria invece, per esser tuttavia officio marchesale dipendente, non divenne per allora essa pure e-r editaria. Ma a fianco dei marchesi e dei conti cresceva ognor più il dominio temporale dei vescovati e delle chiese, e troviamo di que' tempi registrate molte donazioni a vescovi e a monasteri, cosi sotto il regno di Corrado I fino al 1039, come altresì sotto quello di Arrigo 111 fino al 1056, e più ancora di Arrigo IV, che nel 1067 conferì molti possedimenti in Istria perfino agli stranieri vescovi di b'risinga, e che accrebbe l'ingerenza nella nostra provincia de' patriarchi d'A-quileja, già potenti nel Priuli, col conceder loro non poche delle percezioni fiscali istriane (1077). a Era questa politica dì quel re, che fu il pessimo dei ghibellini, e che si trovò di fronte quell'Ildebrando, che, risoluto a toglier di mezzo le simoniache elezioni feudali e purgare e francare la chiesa, Tu uomo di grande coscienza, sacerdote d'animo invitto, gran papa (1073-1085). Regnando Arrigo V (1106-1125), la contea d'Istria divenne in un Engelberto ereditaria in conseguenza di contrarie pretese nella casa dei marchesi, le quali riuscirono ad aperta guerra, e dietro battaglia presso il Timavo, allo separazione (1112) della detta contea dal marchesato, quantunque sempre con rapporto di vassallaggio. Ecco pertanto come i conti d'Istria figurino da quell'epoca in poi nei documenti presso ai marchesi, ai vescovi ed ai provinciali. Ma i comuni ognor più forti per acquisti di nuovi agri tributari, continuavano a trattare, e senza marchese, c senza conte. Ed appunto di questo tempo abbiamo nuove alleanze scritte coi Veneziani, confermati (1124) ne'loro rapporti col-l'Istria dall'imperatore bizantino Giovanni Comneno: documenti, che dimostrano essere erronea l'opinione d'una guerra allora tra Pola e Venezia, e che attestano come le città dell'Istria, le quali associavano già da molto le loro navi (slolo) alla veneta fiotta per tenere sgombri i mari, promettessero nuovamente di «mantenere l'onore di S. Marco» (retinere honorem Beali Marci) e di ottemperare al doge, che chiamavano rettore di tutta l'Istria (1150). E mentre a quel tempo nel resto d'Italia, sotto il regno di Corrado li primo degli Svcvi e dei Ghibellini secondi succeduto a Lotario, le intestine discordie si agitavano più che mai accanite, l'Istria aveva con la Venezia migliori le sorti. Ma la guerra d'indipendenza contro l'imperatore Federico I Barbarossa doveva in tutta Italia ridestare nuovi sensi. Non è nostro officio ricordare i grandi fatti di quell'epoca. Ci limiteremo quindi a dire che sotto il nome di Venezia molte città anco dell'Istria ebbero parte (1167) nella Lega Lombarda, e dietro la battaglia di Legnano, in quella marittima di Salvore (1177) alle proprie coste, nella quale gl'imperiali, guidati da Ottone, iìglio di Federico, vennero sconfitti. E nella chiesa di Salvore fu posta lapide, che ricordasse ai posteri il memorabil fatto. Fu nello stesso anno 1177 che l'imperatore e il pontefice Alessandro HI si rappacificarono in Venezia. Per la guerra d'indipendenza venne conchiusa una semplice tregua, ma già fin d'allora Federico I, quantunque conoscesse l'unione degli Istriani co' Veneti e le contribuzioni, che quelli davano al doge, non solo nulla vi mutò, ma confermò la libertà del commercio de' Veneti in Istria e il dominio loro di tutto P Adriatico. Stipulatasi poi la pace di Costanza nel 1183, il comune italiano restò bensi raffermato, ma 'strana cosa) le franchigie furono sempre considerate come ottenuti privilegi dalle stesse città della Lega Lombarda, eccettuata la sola Venezia. 11 perchè continuarono anche nell'Istria le libertà cittadine e la congiunzione con la Venezia da un canto, e continuò dall'altro a nominarsi l'alta signoria dell'imperatore come nel resto d'Italia: condizioni, che tra noi si riscontrano u-guali negli altri trattati anteriori fra l'impero e Venezia al tempo di Ottone 1 nel 967 e al tempo di Ottone III nel 983. Ma fatalmente al movimento di concordia succedettero nuove rivalità tra grandi e piccoli nei comuni e nuove o-stilità tra quelle parti guelfe e ghibelline, che dopo la morte di Arrigo VI, figlio di Federico I, e in conseguenza delle lotte tra il ghibellino Filippo I di Svcvia e il guelfo Ottone IV di Sassonia, si trasportarono anche di nome in Italia, dov' erano già di fatto, tra imperiali ed antimperiali : parti, 20 dì cui restano traccio anco nell'Istria, popolata da comuni guelfi e da baronie ghibelline. E tra le città marittime si aggiungevano le gelosie de' traffici. Ma almeno da queste prendeva maggior incremento l'attività de' commerci, e se pur troppo nascevan guerre, si riannodavano ad un tempo rapporti di amicizia. Di questi abbiamo qui pure esempi, e ricorderemo solo l'accordo fermatosi tra il comune di Spalato e quello di Filano pel migliore andamento delle mercantili loro imprese, le quali prima del formarsi della potenza turca erano vivissime su tutta la costa dell'Istria e della Dalmazia. Ma abbiamo in un medesimo anco nella nostra provincia a rammentare i dolorosi effetti delle gare tra Venezia ed altre città marittime italiane. Fu nel 1195 cbc i Pisani s'impadronirono di Pola e vennero ricacciati da Giovanni Mo-rosini e Ruggeri Remarino, capitani del doge Enrico Dandolo. Nè questo fatto, come si vedrà in appresso, è l'unico, di cui l'Istria sia stata spettatrice. Convien poi ritenere che la nostra provincia allargasse sempre più le proprie libertà tra questi movimenti del commercio, a cui venivano aperte nuove terre dalle crociate, se troviamo memoria coni'ella avesse rifiutato di riconoscere, e lo svevo Filippo, e il guelfo Ottone ( 1 t98). lui una nuova crociata seguiva a quel tempo dopo le tre anteriori, a cui non era rimasta estranea l'Istria, unitasi anzi pochi anni prima in quelle occasioni ai Veneti nella presa di Tran e Ragusi e nell'assedio di Ncgropontc. Era questa quella quarta crociata, che portò alla conquista latina di Costantinopoli, e quindi alla ristorazione del principato d'Italia nel Mediterraneo, altra volta lago di Roma. Alcune navi i-strianc si accompagnarono a quelle di Venezia, e alle rimaste affidò questa l'onorevole incarico di custodire l'Adriatico. Trieste pure, ch'era fino dal 9 pS sotto il dominio e la po- desta de'propri vescovi, si obbligò (1202) a cooperare contro i pirati e dar contribuzione a quel doge Enrico Dandolo, da cui principia il primato della potenza marittima di Venezia. Ma come nelle altre provincie d'Italia, qui pure succedono anni di lotte. I patriarchi di Aquileja, già potenti anco in Istria per le ricordate percezioni fiscali conseguite da Enrico IV nel 1077, e per nuove regalie, sebben minori, avute in dono dalle famiglie dei marchesi, studiano le occasioni di ingerirsi ognor più nella nostra provincia e vogliono vietare ai Veneti il riscuotere alcuni tributi. Il patriarca Volchero, fatto ardito dal trovarsi il marchese Enrico III avverso allo svevo Filippo, spedisce (1207) truppe contro gl'Istriani fermi nel proposito di starsene con Venezia. Veduta tanta fermezza, le genti del patriarca si ritirano. Ed egli scomunica i renitenti. La provincia è in tumulto, e si aggiunge guerra tra Capodistria e Pirano da una parte e Rovigno dall'altra. Ne approfitta il patriarca e pretende al marchesato, da cui Enrico III veniva allora destituito per aver preso parte all'uccisione dell'imperatore Filippo. Manda infatti in Istria qual luogotenente col titolo di governatore-marchese Armano Morticelo di Arcano, quantunque senza effetto per allora, non avendolo accettato gl'Istriani sotto colore di volerne uno o istriano o friulano (1208). Ma gl'intendimenti del patriarca venivano contrastati dai duchi di Baviera, da cui discendevano i marchesi d'Istria, e questi venivano pure riconosciuti ne' loro diritti dall'imperatore Ottone IV (1209). I pretendenti si guerreggiarono e, fatta pace, Lodovico di Baviera cedette il marchesato col dipendente vassallaggio della contea d'Istria allo stesso patriarca Volchero. (ili Istriani, che il conoscevano inclinato ad accrescere il potere mcrchcsale, e che erano avvezzi ad avere negli an- tenori marchesi, quasi sempre lontani, un'autorità ili mero nome, nimicavano un potere vicino, mal sapendo, educati al mare, acconciarsi in terra a feudale governo. Non lo vogliono e danno nell'armi contro Engelberto conte d'Istria, speditovi dal patriarca scomunicante la provincia per la seconda volta. Nuovi dissidi porgono mezzo a Volchero di mettere in campo trattative e di farsi riconoscere in via d'accordo, non potendolo con le armi. Recatosi personalmente in Istria, e adoperatosi di entrare in grazia di Venezia con lo assoggettarsi (1211) ad un tributo di onore, fé' concessioni agli Istriani e ottenne così momentanea pace. Ma non seppe custodirla, che avendo voluto poi estendere i poteri marchesati, ebbe di nuovo nemiche, e l'Istria, e Venezia. Ed eccolo trattare ora con Pumi ed ora con l'altra. Con P Istria, distratta dalle guerre di Giustinopoli contro Trevigi e contro Tar-gurio (l2l6), venne cedendo a patti l'anno 1217, e verso Venezia il patriarca Bertoldo assunse nuovi obblighi per la libertà del commercio veneto-istriano (1218), adattandosi perfino che una Vice-Dominaria venisse instituita in Aquilcja a decidere le relative questioni (1222". Né con ciò s'era ancora fatto tutto, che i più prossimi parenti dell'espulso Enrico III non ismettevano le loro pretese. Ma essendo il nuovo patriarca della stessa famiglia dei pretendenti, facile si fu P accordo, ed egli venne pure da questo riconosciuto nella pace di S. Germano (1230), in cui lo svevo imperatore Eedcrigo II, succeduto ad Ottone IV, inclinando a pacificarsi col sacerdozio, favoreggiò la chiesa di Aquileja. Qui principia col marchesato de' patriarchi il terzo periodo della nostra terza epoca segnata dal protettorato di Venezia, che passava mano mano in signoria. Credeva il patriarca aquilejcsc di aver assestato ogni cosa, dopo tante guerre e dissensioni, prima di giungere a farsi riconoscere marchese d'Istria. Ma in essa doveva per molti anni ancora trovare opposizioni, che si continuarono per tutto questo dominio di Venezia sul marchesato intero. Ne era causa occasionale di diritto, preteso dai patriarchi e decretato da Federico, di nominar essi i podestà, i consoli e i rettori delle città, delle castella e dei villaggi dell'Istria. Pola e Capodistria nello stesso anno della pace di S. Germano rirornarono a disconoscere l'autorità del patriarca. La seconda, impegnata in una guerra con Pirano, transige e, quantunque essa fosse il comune più indipendente dal marchesato, vien fatta sede_ del governatore della provincia. E Pola, benché posta al bando dell'impero, non se ne cura, resiste e appena nel 1233 é costretta a piegare. Di tutte le rimanenti opposizioni inopportuno é il tessere una narrazione, che uscirebbe dalle proporzioni di questo compendio. Quello peraltro, che dobbiamo notare, si é, che nelle città s'erano accresciuti di forza quei partiti, che funestavano tutta Italia. Anco in Pola i Sergi, antica famiglia di origine romana e posseditricc di molti distretti tributari avuti dai patriarchi di Aquileja, s'erano dati a sostenere le loro parti, dicendosene vicari per imperar essi. I Polensi mal comportarono quel giogo, e formarono un partito popolare con alla testa la famiglia dei Gionatasi. Quando prevaleva questo, era Pola insofferente dell'autorità marchesale, e in uno gelosa delle antiche libertà e dell'unione con Venezia. Ma quando i Sergi prodominavano, avveniva il contrario nella loro volontà. Ed erano i Sergi al potere, quando Pola fu tratta a negare a Venezia il tributo navale nella guerra contro Federico II: imprudenza, che le apportò nuovi disastri, essendo stata presa e rovinata nel 12 |i dai veneti Giovanni Ticpolo e Leo- nardo Quirini. li lo stesso patriarca, compromesso dal suo partito di Pola, dovette scendere a nuove concessioni con Venezia. Tre anni dono moriva egli, e gli succedeva Gregorio di Montelongo, quando tutta P Istria era di nuovo in movimento, renitente a riconoscerlo. 11 nuovo patriarca venne a patti e aggiunse alle antiche nuove restrizioni del suo potere. Se non che, tranquillati gl'Istriani pel momento, usò scaltrezza ad impedire nuove sommosse contro la mal sofferta autorità marchesale. Sapendo che le città più influenti erano Pola e Capodistria, si adoperò a crearsi in queste un forte partito. In Pola aveva già sua la famiglia de' Sergi, e per garantirle il dominio della città le costruì rocca, che tutta la signoreggiasse. Ed è da questa appunto che quelli presero il nome di Signori di Castropola. In Capodistria poi fu largo nel donar beni della chiesa d'A-quileja a'suoi partigiani, tra cui specialmente i Verzi (,1254', nella mira di renderli più forti ed arditi. E mentre a tali spe-dicnti aggiungeva ancora patti col doge Ranier Zeno (1256) per acquetarsi con Venezia, gli era forza ad un tempo difendersi dagli Unghcri (12501. 'Putto questo non impediva che gl'Istriani continuassero a tener gli occhi fissi su Venezia, seguitando a prestarle i soliti contributi e ad averne in ricambio la protezione, che anzi cominciarono di questo tempo le formali dedizioni a quella potente repubblica. Ciò era ben naturale, poiché l'Istria, d'alleata divenuta protetta col crescere del veneto potere, si trovava ora costretta dalla vicinanza dell'autorità marchesale, che mal comportava, a mutare lo stesso protettorato in signoria, sostituendo ai tributi vere dedizioni. E già cominciano a farsi nel modo più aperto, come quella del castello di Valle (1264: e l'altra della città di Rovigno (1266). Furono bensì nominalmente ricuperati que' luoghi dal Patriarca. Ma l'esempio era dato. E Parcnzo lo seguì tosto (1267;, allorché si trovò stretta dalle pretese di predominio, che voleva su di essa esercitare la città di Capodi-stria posta a capo della provincia e superba del privilegio di sciegliere dal corpo dei suoi cittadini i podestà per molti comuni istriani. Ma nemmeno in Capodistria era spento il partito popolare contrario al patriarcale, che solo da pochi anni vi si era formato. E quello prevalse ancora cosi, che fu mossa guerra al patriarca Gregorio (1267) alleato allora di quell'Alberto II, il quale per la parentela, che passava tra i conti d'Istria e quelli di Gorizia, aveva per sé avuto nelle divisioni di famiglia, fattesi in quello stesso anno, ambedue le contee. La guerra terminò con la peggio del Montelongo, poiché il conte Alberto, bramoso di sferrarsi dal vassallaggio mar-chesale, si uni a Capodistria. dopo aver abbandonato il patriarca, che venne fatto prigioniero e tratto a ludibrio per le vie. Mori l'anno seguente. Alla sua morte segui nella sedia patriarcale una vacanza di cinque anni per non essere stata riconosciuta dal pontefice la nomina di Filippo. In quel frattempo instituivansi anco nelle città istriane, al paro che nel resto d'Italia, i capitani del popolo, e com'era ben naturale, cotesta autorità veniva disputandosi in Capodistria e Fola tra i due partiti patriarcale e popolare, nello stesso tempo che nuovi comuni istriani approfittavano della vacanza nel patriarcato per darsi alla signoria de' Veneti. Così fece Umago nel 1269, Cittanova nal 1270 e S. Lorenzo nel 1271. E Pirano l'anno medesimo restringeva nel suo reggimento i poteri patriarcali e voleva veneto il podestà. Tuttociò irritava ognor più i partiti delle città di Pola e Capodistria, e in ambedue prevalse nuovamente il partito popolare. Mentre questo trascorreva nella prima ad atti a- troci contro i Sergi, lino ad ucciderli tutti, meno un fanciullo, nella seconda si pronunciava la dedizione a Venezia, e se anco per allora non ebbe essa effetto, non mancò d'essere un fatto di grande importanza per la provincia, siccome avvenuto nella sua capitale, ch'era altresì la città più influente, e che di fresco (126S) aveva dato nuovo esempio di vigoria col prendersi in protezione e custodia il comune di Huje. 'l'ale era la condizione dell' Istria, allorché Raimondo della Torre succedette (1273) nel marchesato e nella sedia patriarcale di Aquileja. Uomo di spiriti marziali, educato nelle guerre di Lombardia, passò tosto alle aperte ostilità con grande imprevidenza, e contro i Veneti, e contro i comuni istriani loro soggetti ed alleati, nonché contro lo stesso Alberto, conte d'Istria, che, come dicemmo, aspirava a sciogliersi da dependenza. Ma avendo i Veneti agito vigorosamente sotto la condotta di Giacomo Contarmi, una pace fu tosta conchiusa, e con Alberto, e con Venezia (1274). Questa pure era una di quelle paci rispondenti piuttosto a tregue, poiché firmata appena, Alberto emancipò (1275) dal marchesato la contea d'Istria, e il patriarca incorse (1276) in nuove dissensioni con Venezia, vietando che da essa prendessero molti comuni istriani, come facevano, i loro consoli e podestà. Tutto vol-gevasi ormai alla signoria di quella gran repubblica, e ciò appunto si avversava dal partito patriarcale, che, sebben minore di gran lunga del tradizionale veneto-istriano, aveva per sé le armi del patriarca e il predominio in quegli anni nella città di Capodistria, fiacchi ausili non valevoli certo ad arrestare ciò, ch'era voluto dalla necessità de' tempi e dal voto delle popolazioni, né potevano recare che un piccolo ritardo al compiersi dei destini della provincia, e questo medesimo a prezzo di sciagure e di sangue. Si collegarono col patriarca Capodistria, Trieste, Enrico di Pisino (soggiorno per qualche tempo dei conti d'Istria) e il conte Alberto, clic si diceva allora di Gorizia per aver ceduto al detto Enrico in altro patto di famiglia la contea d'Istria. Capodistria, dominata dal partito patriarcale, muove «contro Parenzo, tuttoché dedicata a Venezia, e il conte di Pi-sino assedia Montona, che in quel mentre s' era pure ai Veneti assoggettata. E andò tant'oltre l'arditezza, che si entrò in Venezia, e se ne rapirono per sorpresa le guardie dei porti. 1 Veneti mandano navi e militi contro Capodistria, la quale, quantunque abbandonata dai conti di Gorizia e d'Istria separatisi dalla Lega, si difende con gagliardia T279) e cede poi alle armi prevalenti di Jacopo Tiepolo dal lato di terra e a quelle di Marco Cornaro dal lato di mare. Dietro di ciò anche Capodistria ridonata al partito popolare, eh' era solo da pochi anni spodestato, fe' la sua dedizione a Venezia e fu annoverata tra le sette città principali della repubblica. La sede marchesale passò allora a Pietrapelosa, e poi ad AI-bona. La guerra perdura contro Trieste soccorsa (1280) dal patriarca: e i conti di Gorizia e d'Istria ritornano all'armi, mentre tutte le città istriane manifestano apertamente di non voler che Venezia. Anzi Isola e S Lorenzo al Lemme si danno a quella signoria, e nello stesso S. Lorenzo vien posto veneto magistrato con autorità provinciale e col nome di Pa-sinatico, che restò poi sempre epiteto del luogo. Si conchiudc bensì un'altra pace, in cui Trieste promette fedeltà e tributo a Venezia (1281). Ma in quella che Pirano si dedicava essa pure alla veneta repubblica, il patriarca Raimondo univasi nuovamente (1283) ai conti di Gorizia e d'Istria, alla stessa Trieste, nonché questa volta a Padova e a Treviso contro i Veneti e gl'Istriani. Si prende Capodistria, e tosto i Veneti la riprendono. L'isola dinanzi al Ti* mavo viene da questi occupata (1284): cosi, tornate inutili le iniziative di accomodamento (1286), Montccavo, Muggia, Moccò presso Trieste, stretta ella stessa d'assedio l'anno seguente da Marino Moro si ni. Vi accorre il patriarca Raimondo col conte Alberto, che abbandona la Lega, e poi vi ritorna assieme ad Enrico di Pisino. I Veneti e gl'Istriani sono costretti a ritirarsi. I Triestini prendono Caorle (1289) e si spingono fino a Malamocco. Né ad arrestare tutte queste ostilità vale l'intervento del pontefice Nicolò IV (1290), il quale mediante legato dà principio ad un accordo, che non ha effetto. Il patriarca infatti vuol trar profitto della guerra, in cui si trova Venezia impegnata contro Genova, e persiste nelle ostilità, che riescono a fargli riportare nel 1290 una vittoria contro i Veneti e gli Istriani. L'anno seguente tregua; e Muggia e Montccavo restituiti da Venezia, P una al patriarca, e l'altra a Trieste. ^Questa, durante la tregua, e ptecisamentc nel 1295 si affrancò da quel dominio de' propri vescovi, che venne più sopra ricordalo, e che si era mano mano ristretto specialmente nel 1236 e nel 1253. Così Trieste, governata a comune, si trovò, quasi diremo, anseatica. Rotta noi la tregua, venne ella nuovamente assediata dai Veneti e nuovamente soccorsa da Alberto. Moriva intanto il patriarca Raimondo, e Pietro Gerra succedutogli (1299^, governava solo due anni, e veniva sostituito da Ottobono de'Rozzi vescovo di Padova. Questi, voglioso di quiete, si compromette di nuovo nel Pontefice ( 1304) e dopo lunghe proposte e modificazioni, la pace resta conchiusa nel 1310: pace, la quale, dopo un secolo di gucrreg-giamento, fino dal principio del potere patriarcale, nulla fruttò allo stesso, che voleva pure estendersi All' incontro un tale intendimento porse opportunità alla potente ed accorta Venezia di aver un debole nemico da vincere, e quindi di allargar ella la propria signoria. Questa idea di dominare estesamente nella terraferma veniva ora proseguita, da che il governo della repubblica aveva nel 1296 preso forma di pura aristocrazia colla famosa serrata del consiglio. Nò manco vi si prestavano i tempi. Se riguardiamo infatti il resto d'Italia, troviamo che, precipitata la casa di Svevia con Corrado III e con suo figlio Corra-dino, vi si erano introdotti quegli Angioini, che prepotenti in Napoli, non arrestarono la libertà vieppiù crescente delle altre provincie italiane, ed era succeduto nell'impero romano quel Rodolfo d' Absburgo, il quale per la ben calcolata sua politica di Germania trascurò l'Italia con esempio seguito più o meno per due secoli dai suoi discendenti fino a Massimiliano e Carlo V. Se poi ci rifacciamo con le nostre considerazioni all'Istria, ne avviene tosto di vedere come tutto collimasse a compiere la trasformazione del protettorato di Venezia in dominio, vale a dire a prepotenza di signori e ulteriori guerre tra comuni e patriarca e conte, tra questo e patriarca, e tra l'uno e l'altro e Venezia, la quale per di più era incitata a j ben istabilire nella nostra provincia il proprio governo anco dalle guerre con Genova. Proseguiamo ora a toccare di questi nuovi avvolgimenti. In Pola era tornata la famiglia de' Sergi a dominare, e in Trieste la famiglia dei Ranfì tentava di togliere al comune il governo: congiura, che fu repressa con tale ferocia, da ricordare le maggiori enormezze di quel tempo. Morto il patriarca Ottobono, gli succede prima Gastone della Torre (1315) e poi Pagano della Torre (1319), guelfo di partito, quando s'era già da qualche tempo mutata nel patriarcato l'antcrior politica ghibellina Si trovò quindi subito da un canto in opposizione con Arrigo, duca di Ca-rintia e del Tirolo, ghibellino e tutore, ch'era, del conte d'Istria, Giovanni Arrigo, figlio del già nominato Enrico, e dall'altro ebbe a lottare con nuove agitazioni nei comuni istriani. Mentre Barbami, spettante alla contea d' Istria, viene distrutta dai partigiani del patriarca (1328), Pola gii si ribella e solo a breve quiete è ricondotta. Rovigno rinnova la dedizione a Venezia (1330), e Pola, esiliando i Sergi, riesce a compierla. Cosi pure Dignano ed altre terre minori. Per tal modo finita appena la guerra col conte di Carintia e del Tirolo, altra ne sosteneva il patriarca contro gli Istriani e i Veneti per le nuove dedizioni, e in questa collcgavasi con Martino ed Alberto della Scala, capitani generali di Verona, Vicenza, Trevigi, Pcltrc e Belluno. [Entrò egli bensi in Istria e prese il castello di Valle, ma tosto fu respinto da Giustinian Giustiniani, capitano della repubblica. Cessata anche questa guerra, mercè il vescovo di Concordia, col riconoscimento del dominio veneto in Pola, Dignano e Valle, si riprendevano le ostilità contro la contea d'Istria, in cui era succeduto Alberto III, cugino del detto Giovanni Arrigo. H quindi da una parte il patriarca Bertrando di San Genesio, venuto dopo Pagano (1334), muove contro Pisino (1338), e dall'altra il conte occupa Duino (1341), in un medesimo che quest'ultimo va ad impegnarsi in altra guerra con Venezia pel castello di S. Lorenzo. E come ciò non bastasse, l'Istria veniva da prima depredata da una scorreria d'orde croate e poi desolata nuovamente da pestilenza. Fu allora che Alberto 111, conte d'Istria, e Alberto IV, conte di Gorizia, per ajutare il patriarca, destarono in Capodistria con un drappello di propri ima sommossa, sotto sembianza di ristabilire il governo comunale. Aia tenne fermo il suo castello, detto Castel-Leone, e, venutivi i Veneti condotti per mare da Pancrazio Giustiniani e per terra da Marin lalicro, la città fu ripresa. 1 collegati, che ora si uniscono ed ora si sciolgono a brevissimi intervalli, tornano nuovamente a dividersi, permanente com'era la causa delle scissioni cosi nella potenza di Venezia come nel volere dei comuni istriani, i quali né di conti né di patriarchi-marchesi voleano saperne. Si vede quindi il patriarca in guerra con gli stessi conti di Gorizia unitisi a suo danno con molti nobili friulani. Ma recatosi nel Friuli, fu colto da una banda di soldati di Gorizia, quando usciva co' suoi da Spilimbergo, e nella mischia restò ucciso. Egli pure, come i suoi predecessori, vide affrettarsi la dissoluzione del poter marchcsale di Aquileja, e alla sua morte Venezia era già signora, e del litorale d'Istria, e di molte castella nell'interno. Succedevagli Nicolò (1350^, figlio di Giovanni re di Boemia e fratello a quel Carlo, che fu anch'egli re di Boemia in appresso, e quindi imperatore IV di tal nome. Tosto insediato, continuò la guerra contro il conte di Gorizia, alla quale aggiungeva esca il desiderio di rintuzzare la presa d'Albona fatta da esso conte di Gorizia e da quello d'Istria di concerto, a quanto sembra, col duca d'Austria (1352). Si cerca nuovamente di sommuovere Capodistria; ma il tumulto è tosto sedato, e Venezia, visto il pericolo, che le veniva dalle flotte genovesi, fa pace coi conti di Gorizia e d'Istria, essendone mediatore Francesco di Carrara, signore di Padova. I Genovesi, che già da molto essi pure avversavano Venezia, ed avevano occupato Pola anco nel 1328, conduce-vano ora nuova guerra contro i Veneti per ragione principalmente del commercio di Costantinopoli e di Soria, e sotto il comando di Paganino Doria aveano impreso ad oc-parc Pola, Parenzo, la stessa Capodistria ed altre città, dopo aver battuto i Veneti, guidati da Nicolò Pisani, all'isola di Sapienza. Tale avvenimento infiammò gli sdegni de' soliti alleati contro l'Istria e la Venezia, e questa volta vi si aggiunsero Francesco di Carrara signore di Padova, il duca d' Austria e Lodovico re di Ungheria, il quale, senza curare la tregua conchiusa in Dalmazia co' Veneti l'anno [345, scendeva in Italia con grande esercito, invadendo pur l'Istria. F. tutti secondavano i Genovesi. Ma Venezia, non men forte, che prudente, die tosto mano a fermar pace coli'Unghero. furono a lui ceduti i paesi della costa orientale del Quarnaro lino a Durazzo ; e restarono a Venezia tanto le isole di quel golfo, quanto l'Istria, nella quale venne posta altra autorità di Pasinatico in Grisignana per la parte supcriore di qua del Quieto. Ma la nostra provincia, benché liberata pel momento, doveva soffrire nuove e più gravi sciagure Da prima veniva corsa nuovamente dal patriarca Lodovico della Torre, succeduto a Nicolò (1360), assieme ai Triestini: poi si vedeva decimata la popolazione da fiera pestilenza. Nò il guerreggiar con Genova cessava, nò i collegati posavan l'armi, chò all'invece cresceva lo scompiglio per nuovi contendenti, i duchi d' Austria. Questi, a cui era passato il Carnio lino dal 1336, s'erano ognor più avanzati co' loro possedimenti alle frontiere istriane e patteggiavano già con Alberto III, conte d'Istria, la successione nella contea pel caso avesse egli a morire senza figli. Ma quanto al marchesato, che comprendeva la massima e la miglior parte della istriana provincia, vedendo le difficoltà di acquistarlo di fronte a Venezia, si tenevano contenti a poter possedere la rada di Trieste. Da ciò il voler questa città riconoscere l'alto dominio del duca d'Austria ( 1367^, come aveva fatto l'anno prima il signore di Duino. Fssa era infatti la città più separata, per l'antico suo isolamento governativo, dal resto della provincia. Ed è perciò che la vedemmo più volte ostile a Venezia, sì che da questa si legge ad ogni qual tratto presa e ripresa, come nel 1233, nel 1338, nel 1351 e nello stesso 1367, oltre che negli anni preaccennati. Ma sembra che quel riconoscimento non abbia avuto per allora effetto, allo stesso modo che non lo ebbe il riconoscimento dell'alta signoria dell'imperatore Carlo IV votato nel 1354, attesoché, ribellatasi *di nuovo Trieste a Venezia, e assediata da Taddeo Giustiniani e Paolo Loredan, la scorgiamo darsi prima ai Visconti, poi al Carrarese, e, scacciati i Veneti dai Genovesi, novellamente a Carlo IV e alla perfine al protettorato del duca d'Austria (1369). Peraltro anche questo partito le tornava allora inutile, imperocché quel duca ebbe ne' patti con Venezia pecuniario guiderdone. La repubblica spedi quindi in quella città Saracino Dandolo ed Andrea Zeno, il primo col titolo di podestà e il secondo con quello di capitano. Né questa soggezione fu a lungo, che nel 1371 volle Trieste darsi al patriarca Marquardo, succeduto a Lodovico, prendendo occasione dall'avanzarsi dei Genovesi impadronitisi di Umago. Àia stava ben presto per ritornare all'alta signoria del duca d'Austria, dacché questi, morto Alberto III, era subentrato nella contea d'Istria (1374) pel già ricordato patto di successione : contea (da non confondersi col marchesato) che restò poi a quella casa qual provincia distinta, non mai immedesimatasi colla Carinola. Caduta e ricaduta infatti essa città ai Veneti, si approfittò nuovamente di quella gran guerra di Venezia con Genova, detta di Chioggia, che quasi condusse la prima a totale rovina, per compiere, dopo essere stata consegnata invano al patriarca (1380) dall'ammiraglio genovese Matteo Marufio, la definitiva sua dedizione ai duchi d'Austria nel 1382. Siamo corsi di proposito alcun poco innanzi con la storia speciale di Trieste, per dimostrare il carattere delle ostilità impegnatesi nel 1375 tra i duchi d'Austria e Venezia circondata cosi da gran numero di antichi e nuovi nemici. E l'Istria doveva dividere con essa le maggiori peripezie. 1 Genovesi battono i Veneti condotti da Vettor Pisani nel canale de' Brioni presso Pola (1379), e, arse Pola c Parenzo, vanno a Chioggia. Mentre allora la repubblica versava nel maggior pencolo, il patriarca d'Aquileja voleva vendere perfino i beni della chiesa a sostenere la guerra in Istria, e, morto Federico conte di Porcia, vicedomino generale della chiesa aquilejesc, spediva Artico di Udine nella nostra provincia ad occuparla, com'ei fece. Ma Venezia doveva sorgere più grande dai suoi pericoli. Tolto dal carcere Vettor Pisani (1380) e richiamato dal Levante Carlo Zen, riassediò in Chioggia gli stessi Genovesi c li costrinse ad arrendersi. Restavano ancora gli Ungheri, che Francesco Carrara dirigeva sopra Treviso, e un'altra armata genovese nell'Adriatico sotto Gaspare Spinola. Questi si volse all'Istria, che di nuovo venne desolata da saccheggi e da incendi, per quanto vigorosa fosse stata la difesa degl'Istriani. 11 Castel-Leone di Capodistria specialmente, comandato da Rizzolino Azzone di Trevigi, oppose una resistenza degna di particolare memoria. Vi accorse allora lo stesso Vettor Pisani e, unitosi a Parenzo ed a Pirano con le navi istriane, si presentò a Capodistria e, rotto il ponte, che la congiungeva con la terra ferma, vi die l'assalto, secondato dalla gente del castello. La città fu conquistata ai Genovesi, che vennero con grande risolutezza inseguiti, e che, costretti ad abbandonare tutte le coste, se ne partirono, portando seco in segno di trionfo i corpi Santi rapiti a Capodistria, a Cittanova e a Parenzo. Si gran guerra terminò con la mediazione di Amedeo Conte di Savoja, e la pace venne firmata in Torino l'anno 1381. Circa l'Istria, fu stabilito che rimanessero fermi i patti vecchi col patriarca. F nuova particolarità di que' tempi si è la convenuta restituzione dei corpi Santi. Cosi nella nostra provincia, dopo tanti disastri, di nulla s'erano avvantaggiati della Slo ria dell'h I ria. 35 quei patriarchi, che li avevano in gran parte provocati. Succeduto a Marquardo Filippo d'Alencon nello stesso anno della pace, i dissidi, sospesi per poco tempo in Istria, ribollirono nel Friuli. E fu in quelle guerre che Giovanni di Mo ravia, successore (1387) di Filippo nel patriarcato, restava morto (1395)- Antonio Gaetani, detto il cardinale aquilejese, subentrato nella sedia patriarcale, governò egli pure brevi anni. E quando Antonio Pancera veniva eletto a succedergli nel 1402, i disordini del Friuli s'erano accresciuti. Rimosso nel 1408, venne posto in' sua vece Antonio III Daponte. Cosi i litigi si raddoppiarono anco per motivi di religione tanto più gravi, che allora appunto si disputava la cattedra di S. Pietro da Gregorio XII e Benedetto XIII. Traendo partito da queste dissensioni, il conte d' Ortemburg cominciò a signoreggiare in Friuli. Ma una nuova invasione di Ungheri doveva da prima accrescere e in fine risolvere (1412) la questione dell'esistenza del dominio temporale di Aquileja. Il re loro, Sigismondo, ch'era stato eletto imperatore di Germania, venuto, a suggestione del patriarca Lodovico Tech, contro i Veneti per le questioni di Dalmazia, si spinse pure contro l'Istria. Pippo Scolari, suo generale, prese Valle e Dignano, ma sotto Parenzo e Pola a colpi di cannone fu respinto. E tutto l'inverno fu speso a tentare infruttuosamente le piagge d'Istria. Nel Friuli intanto e nel Feltrino stava acquartierato il grosso dell'esercito di Sigismondo, che continuava a molestare il Trevigiano. I Veneziani allora aprirono trattative di pace e conchiusero una tregua di cinque anni. Ma Sigismondo la violò e fece occupare parecchi luoghi dell'Istria da Federico d'Or-temburgo (1)13). Spirata la tregua (i.|i8\ rinfieri la guerra su quel di Belluno, e tosto arse in tutto il paese, eh' era stato prima occupato dagli Ungheri confederati al patriarca d'Aquileja, al conte il'Ortcniburgo e a Martino di Carrara. I Veneziani sotto il comando di Filippo d'Arcelli entrarono nel Friuli e batterono le truppe del patriarca capitanate dal conte di Gorizia. Crescendo le vittorie di Venezia, il patriarca sollecitava Sigismondo a spedirgli soccorso. Ed egli, sebbene impegnato in Boemia nella guerra contro gli Ussiti, mando a difenderlo ottomila uomini. Ma non gli valsero, che il Friuli fu tutto assoggettato dai Veneti al pari del Feltrino, del Bellunese e del Cadorino. Tentò bensì la mediazione di papa Martino V, ma pel perduto Friuli dovè accontentarsi d'annuo emolumento. Gli Ungheri tenevano ancora in Istria alcune terre, e Filippo d'Arcelli vi si portò a scacciameli. Unitosi ai militi istriani, assalse i nemici e li disfece. Ma in uno di questi gagliardi attacchi fu ucciso ed ebbe sepoltura in Capodi-stria. Taddeo, marchese d'Estc, che lo seguì nel comando, compiè lo sgombro dell'Istria dalle truppe ungheresi e patriarcali, accogliendo Albona, ultima sede dell'autorità patriarcale, in volontaria dedizione, e conquistando tutto che del marchesato istriano rimaneva al patriarca, vale a dire Pinguente, Portole, S. Giovanni del Cometo, Moggia, e Castel Venere. Di tal maniera aveva fine il governo patriarcale, e il marchesato d'Istria passava sotto quel dominio della veneta repubblica, in che s'erano via via mutate l'antica alleanza e la più recente protezione. In compenso delle perdute Provincie della Cargna, del Friuli e dell'Istria, ebbe poi il patriarca, fino allora il più ricco prelato d'Italia dopo il pontefice, l'annuo stipendio da Venezia di 5000 zecchini, cosi stabilito nel 1445, e la giurisdizione dei castelli friulani di S. Daniele e di S. Vito. Ad avvistare il governo de' patriarchi e a darne breve giudizio non é a tacersi il bene e il male, che recarono alla nostra provincia. Fu certo opera lodevole quella di conservare il parlamento composto del marchese, del conte, dei baroni e dei deputati delle città e dei comuni, e se questa provinciale adunanza, sia per la separazione della contea d'Istria, sia per le dedizioni a Venezia, andò ognor più scadendo, non sono eglino da accagionarsene. Vuoisi ancora che per formarsi una città, la quale avesse a prepotere sulla provincia tutta, non solo arricchissero Capodistria di terre e di giurisdizioni, ma vi favorissero pure gli studi e appunto per diffonderli stabilissero il privilegio a quella città di mandar rettori in altri luoghi. Né può passarsi sotto silenzio la pena minacciata dal patriarca Ottobono dei Razzi di 100 bisanzì per ogni sasso, che dall'arena o dal teatro di Pola si fosse levato. Ma se ciò vien detto per sola giustizia, esige pur questa che si condanni un governo, il quale, agendo contro il voto delle popolazioni, tendeva a spogliarle degli antichi loro privilegi, il quale fu causa di tumulti nella provincia, il quale di fronte ad una potente repubblica, senza saggezza ostando all'inveterata unione dell'Istria con quella, rese questa teatro di guerre e di sciagure. L'Istria era stata sempre veneta, e dopo aver veduto con rammarico stabilirsi nelle sue campagne un sistema baronale, il quale non ebbe altro merito che d'essere spesato dagli abitatori, comportava ancor meno i patriarchi, avversi alla loro libertà, desiderosi di porsi in mezzo tra gli Istriani e i Veneti, e che per giunta aumentavano gli aggravi con imposizioni del quintuplo più forti di quelle sopportate al tempo de' Greci e dei Goti. Fatto è che al cessare del marchesato patriarcale, la provincia si trovava ridotta alla più misera condizione. Le pestilenze e le guerre hanno avuto certo non poca parte alla sua decadenza. Ma in ogni modo non ne sono incolpevoli quei J8 patriarchi, che, oltre gli errori già notati, commettevano quello di dare in appalto gli stessi poteri governativi e giudiziari, essendovi esempi, e di arrendatori marchesi, e di ar-rendatori vicari (i giudici baronali) e di gastaldi (altri giusdicenti) e di procuratori e di questori nella pubblica amministrazione. Gli avvenimenti della quarta epoca del nostro racconto, eh'è del dominio di Venezia, non sono pili fatti speciali dell'Istria, ma si fondono con quelli della repubblica. A noi basterà quindi accennar solo quanto ha relazione speciale con la nostra provincia. Dobbiamo peraltro premettere alcun che, da cui formarci concetto del nuovo governo dell'Istria sotto la veneta signoria. Era mente di questa il restringere la libertà provinciale, ma nello stesso tempo estendere la comunale. Non più dunque parlamenti per quella, né alcun'altra complessiva rappresentanza popolare. Ogni comune aveva il suo podestà eletto dal veneto senato, per governare, giudicare, punire, vero rappresentante del potere. Il governo provinciale adunque di tal guisa diviso in provincia non si accentrava che in Venezia. Siccome poi le introdottesi tribù slave chiamate genti nove, il rispetto de' confini della provincia e l'importanza dei boschi esigevano particolari terminazioni, cosi troviamo le altre autorità dei provveditori o capitani di Raspo, di Pola e di Montona, posto quest' ultimo a guardia del bosco di Montona, che chiama-vasi di S. Marco, e che pei legnami di costruzione tornava tanto utile all' arsenale di Venezia. Quello di Raspo rappresentava, per cosi dire, l'antica autorità marchcsale, ed era quindi una dignità tenuta in si grande considerazione, che vi aspiravano i principali senatori di Venezia. Nò tanto basta a toccare del veneto reggimento provinciale in Istria, che in Capodistria si formò poscia (1584) un magistrato composto di due consiglieri e del rettore, che accoppiava in sé le mansioni di podestà e capitano, e ne portava il duplice titolo : magistrato, che decidesse in appellazione su tutte le cause civili e criminali e su ogni altro oggetto di amministrazione e di governo della provincia, meno alcuni argomenti, anco giudiziari, riserbati a Venezia. La milizia infine distinta in corpi, detti alla veneziana cernide, ossia cerne, aveva, oltre ai già nominati capitani, i sei di Capodistria, di Pinguente, di Buje, di Montona, di Dignano e di Albona. Ciò riguardo al governo provinciale. Ciascun comune poi godeva di autonomia. Un consiglio cittadino dava le leggi, amministrava i beni del comune ed eleggeva non solo i propri officiali, ma alcuni pure dipendenti dal governo. Quattro erano le città con nobile consiglio, cioè Capodistria, Pola, Parenzo e Cattano va. La nobiltà non si acquistava che mediante l'aggregazione ad uno di questi nobili consigli. I baroni, a cui Venezia concedeva agevolmente i titoli delle rispettive terre, erano bensì titolati, ma senza la detta aggregazione non avevano grado di nobiltà. Venezia in generale favori molto i comuni e poco le baronie. A quelli infatti ne assoggettò parecchie. E Capodistria n' ebbe fino 40, dette anche ville. Le baronie, non soggette ai comuni, ritennero le attribuzioni di giustizia civile e criminale. Nella campagna pertanto il diritto feudale, le consuetudini e gli arbitri. Nei comuni il diritto romano, quale fondamento, lo Statuto di Venezia, come analogia, e per le ordinarie applicazioni, consuetudini e statuti propri. Ciò detto, giova osservare, che l'Istria, senza curar qui le piccole frazioni montane, attribuite parte alla Carinola e parte alla Gorizia, era distinta in tre parti ben diverse tra loro, Di gran lunga più colta, più importante e più estesa era la veneta, costituita dell'antico marchesato e ordinata nel modo, che vedemmo. Notabilmente minore e ristretta ai monti su quel di Bollai e di Pisino e in alcune altre terre più brevi, era la contea passata all'Austria, che vi mandava un capitano a reggerla secondo il sistema feudale e colla legge datale dal nominato conte Alberto III nel 1365. La minima infine riducevasi a Trieste, governata a comune sotto l'alto dominio del principe austriaco, che vi era rappresentato da un capitano. Ma siccome i reciproci confini non erano ancora ben precisi, dovevano nascere discordie tra Venezia ed Austria, e già ne troviamo cenno fino dal 1451. Se dunque vediamo i comuni dell'Istria cingersi di mura o rifarle, è questo un fatto non immeritevole di menzione, rivelando l'intendimento di Venezia intenta a raffermare il possesso dell'Istria e a guardarlo dai pericoli d' oltralpe. Le prime ostilità si aprirono per motivi di commercio da Capodistria contro Trieste. Stavano le truppe di Capodistria sotto gli ordini di Santo Gavardo, al dire degli storici veneziani, soggètto ardilo di anclla cillà, molto esperto negli accorgimenti di guerra, e degno crede del nome di quell' altro Gavardo Gavardo, che nel 1366, qual sopraccomito della galea di Capodistria nella veneta flotta spedita contro Candia ribelle, fu primo a scalarne le mura e a piantarvi lo stendardo di S. Marco. 1 nostri inflitti andavano ognor più educandosi anco alla milizia terrestre, c nelle guerre di terraferma davano belle prove di sé. Cosi i presidi Capodistriani di Mestre, Padova e Verona tra le occasioni più favorevoli alla prodezza; e cosi quel Tiso de Lugnani, che fu contestabile di Gatamelata e dichiarato benemerito della repubblica. Santo Gavardo ' adunque attaccò Trieste e prese Moccò, S. Servolo e Castclnuovo. L'imperatore Federico III, che patrocinava i Triestini, dirizzò allora sue truppe sopra Capodistria. Il perchè anche la repubblica die nell'armi e, sol- " Vcili in fine. Iecitata dai Giustinopolitani, spedi soccorsi. Ma, interpostosi il pontefice Pio II, eh' era prima Enea Silvio Piccolomini, vescovo di Trieste al tempo dell'assedio, si segnò la pace e si riapri il commercio. Trieste dovette cedere ai Veneti Castelnuovo e S. Servolo (1463). Ma guerre ben più importanti doveano impegnarsi coi Turchi, che già infestavano la Dalmazia. Molti villici di quel paese ripararono alle isole, e sembra che allora siasi trasportata in Istria dai Veneziani la prima colonia slava presso Salvore. I Turchi si avanzavano, ed occupata la Bossina (1470), minacciavano l'Istria. Scorrono infatti il Carso, giungono a Castelnuovo danno alle fiamme Prosecco, Duino, Monfalcone, e, varcato l'Isonzo, si spingono fino ad Udine. Ritiratisi, ritornano due anni dopo, e nuovi incendi tracciano il loro passaggio pei territori di Gorizia e di Monfalcone (1472). I Veneziani per difendersi armano Mainizza, Gradisca e Fogliano; ma scontrati i Turchi all'Isonzo, Antonio da Verona, generale di quelli, fu sconfitto con grande eccidio de' suoi. E l'anno 1477 nuova vittoria dei Turchi presso a Fogliano. Tutti quelli pertanto, che avevano possedimenti all'Adriatico, si affrettarono, di fronte a tali pericoli, a riconoscerne ai Veneziani il dominio. Lo stesso imperatore Federico III lo confermò. E i Veneziani, non solo provvedevano per mare contro i nuovi nemici, ma proseguivano alacri nelle fortificazioni di terra, tra cui specialmente Gradisca. Fu poi nel 1478 che mentre i Turchi, giunti a Monfalcone, tentarono invano di superare il passo dell' Isonzo, si stipulò con essi da Venezia una pace. Ciò non impedi peraltro che i Turchi saccheggiassero Rozzo nel 1482, e che ritornassero a molestare la frontiera dell' Istria nel 1493, nel M99> e nel 1501. Né bastavano le guerre coi Turchi, che altra ne insorse tra Venezia e l'imperatore Massimiliano, Quella inspirava a tutti gelosia, e chi aveva l'alto dominio di Trieste vedeva a malincuore ristretto il commercio di questa città a breve tratto dell'Adriatico. D'altronde l'Austria, che aveva estesa la sua signoria su Fiume e Castua, aspirava ognor più a partecipare al commercio. A queste cause vecchie si aggiunsero nuovi incentivi alle ostilità nelle vicende d'Italia. Èra Massimiliano I avverso ai Francesi e già accordavasi col pontefice Giulio II per combatterli. Venezia all'invece tenevasi a quelli. F quando l'imperatore scese in Italia, mosse contro l'Istria (1506), scorrendola fino a Fola. Ma i Veneti gli si opposero forti. Ricuperarono, non solo quanto possedevano nell'Istria (1508), ma espugnarono altresì Trieste, Duino, Fisino ed accolsero in dedizione Piemonte, Visinada, Mcdolino e Madonna dei Campi. Momiano fu occupato dai Piranesi per la repubblica. Le vittorie dei Veneti procedevano cosi che la contea d' Istria e Fiume da una parte e la contea di Gorizia dall'altra furono loro assoggettate. Aqui-leja, tolta agl'imperiali, venne restituita ai patriarchi. Se non che in quello stesso anno s' era formata la famosa lega di Cambrai contro Venezia. Quindi nuovi cimenti per lei. Abbandonò Trieste e quasi tutte le altre conquiste. Perduta poi la battaglia di Agnadello contro i Francesi, e ridotta all'estremo, ricorse al partito saggio in uno e semplice di sciogliere dall' obbedienza i sudditi di terraferma, affidando ad essi la propria difesa. Noi non seguiremo le vicende della guerra nel resto d' I-talia, ma, limitandoci all' Istria, diremo che gli Austriaci diedero il guasto al castello di Raspo (1510): avvenimento, che fe' trasferire a Pinguente la sede di quel capitano. Gl'Istriani peraltro vanno alla riscossa sotto gli ordini di Damiano Tarsia, che conquista sugli Austriaci molti luoghi, tra cui Barbarla, Carsano, Sovignacco e Linciarci. Gl'imperiali, condotti da Cristoforo Frangipane, ritornano ad assalire, e il castello di Moccò, tolto ai Veneti, viene spianato. L' anno seguente facevasi tregua tra Massimiliano e Venezia; e gl'Istriani, che s' erano difesi da sè, ne imitarono l'esempio l'anno Ì514. Nel 1516 fu segnata la pace di No-yon, e Venezia riebbe tutti gli stati suoi di terraferma. La fortezza di Gradisca peraltro restò all' Austria, già signora dal 1501 della contea di Gorizia per patto di successione dietro la morte di Leonardo, ultimo di quei conti. I dissidi con l'Austria (1518) non cessarono per questo quanto all'Istria. Fu bensì conchiusa la tregua di Andegavia ad interposizione del re di Francia, e fu bensi nel 1521 stabilita dalla convenzione di Worms la restituzione di alcune terre all'impcrarorc; ma in effetto non si venne ad un accordo. E lo stesso dicasi della libertà di navigazione convenutasi nella pace del 1523 con molte restrizioni da parte della repubblica. Scoppiò poscia la guerra tra Carlo V da una parte e la Lega di Francesco I re di Francia, del pontefice Clemente VII, dello Sforza e dei Veneziani dall'altra: guerra, che durò dal 1526 al 1529. Di quell'anno è la pace detta di Bologna fra l'Austria e Venezia. In questa tornarono alla repubblica Piemonte, Vi-sinada, S. Maria di Campo, e Medolino. Nemmeno con ciò era tutto composto, che la impreci- k sionc dei confini e le pretese su qualche terra rese confuse dagli antichi ordinamenti feudali e del marchesato e della contea d'Istria, venivano sempre riaccampate. Per appianare Ogni differenza Venezia ed Austria aprirono congresso di delegati in Trento, e poscia in Gradisca. Si transige bensi, e certe questioni particolari son tolte: ma non tutte, ed aggiungevasi l'affare d'Aquileja, della quale s' erano impadroniti gli Austriaci. I patriarchi la chiedevano inesauditi. Erano i tempi delle religiose discordie, che provocarono il Concilio di Trento. Intanto le incessanti violenze dei Turchi sviavano l'attenzione dalle controversie circa V Istria, Col Turco fermarono i Veneti una pace per la Dalmazia nel r5jo, e fu allora che parecchie colonie di Morlacchi vennero trasportate dal territorio di Zara nei contadi di Molitoria, di Umago, di Cittanova e di Parcnzo. Dal canto suo l'Austria ordinava una frontiera di popoli slavi contro il Turco fino alle coste del Quarncro. E sia per meglio contrastare le piraterie dei Turchi, sia per entrare ad aver parte nel commercio dell' Adriatico, pose opera a mettere assieme una flottiglia a Trieste. In ogni modo questa fu adoperata a secondare 1' occupazione da parte degli Austriaci del forte di Maruno, il quale da Pietro Strozzi, dichiarato ribelle, era stato ceduto alla veneta repubblica (1542). A favorire poi il commercio triestino ordinavasi che tutte le merci dirette dalle provincie austriache verso l'Istria passassero per Trieste (1550). In tutte queste misure vi era sempre alcun che di ostile a quella Venezia, che signoreggiava l'Adriatico, e con cui anco nel 1563 fu trattato invano della libertà del mare. Venezia, scorsi già 70 anni dalla scoperta dell'America, vedeva perduto il suo primato nel Mediterraneo, divenuto lago tur-co-spagnuolo; né pensava certo, avvezza a contrastare il mare ai potenti, di cedere a chi forze marittime non aveva. Ella restò sola a lottare col 'Porco e prima e dopo la battaglia di Lepanto (1571). Ad accrescere poi le nimistà tra Venezia ed Austria si aggiunsero le depredazioni degli Uscocchi. Questi, riparatisi dal Turco alle coste del Quarnero, che formavano un'appendice dell'Ungheria austriaca, furono accolti dall'Austria come gente, buona in allora, da opporsi alle ottomane invasioni. Ma ben presto mossi della sterilità dei luoghi a ladroneccio, divennero pirati, e cosi rapaci da non perdonare né a Maomettani, ne a Cristiani. Il loro nido era Segna, e il Quarnero sparso d' isole e battuto da fieri venti offriva loro ogni opportunità a pirateggiare. Venezia, che soffriva molto pel suo commercio in tal modo molestato, e che vedeva, non solo desolate le popolazioni d'Istria e di Dalmazia, ma che dagli stessi Turchi veniva pressata a porvi riparo, spedi navi sotto gli ordini di Ermolao Tiepolo a bloccar Segna e incaricò Vincenzo Tron suo ambasciatore alla corte imperiale di sollecitare la punizione di chi violava il diritto delle genti. Ma nulla si ottenne allora, e le rapine continuavano più feroci. Forse per aumentare le forze della popolazione istriana contro si pericolosi vicini, pensò Venezia di trasportare e Greci e Slavi nella nostra provincia già decimata dalle pestilenze. Pola specialmente era ridotta a pochissimi abitanti. Leonardo Fioravanti, Sabba dei Franceschi e Vincenzo Dall' Acqua avevano ottenuto fino dal 1562 di tradurre in quella città 124 famiglie per ripopolarla. F. di nuovo nel 1578 un nobile di Famagosta per nome Francesco Calergi ebbe licenza dal veneto Senato di trapiantare nella stessa Pola 100 famiglie greche. E quivi pure passavano P anno seguente moltissime famiglie della contea d'Istria devastata più di ogni altra terra dalle scorrerie degli Uscocchi. Altre colonie di Greci venivano da Candia nel 1580, poi di Morlacchi al Promontore nel 1585, e quindi ancora di Albanesi nei territori di Parenzo, Pola e Rovigno P anno 1595, nonché nuovamente di Morlacchi presso Fontane nel 1596. Cosi provvedeva Venezia per le difese dal lato di terra, mentre i comuni e le castella mnnivansi di nuove fortifica- zionh Le navi istriane, unite a quelle di Venezia, correvano il mare, sempre in gravissimi cimenti contro le insidie degli Uscocchi. Il governo austriaco intanto, sia per la lontananza dal teatro di tante enormità, sia per la natura selvaggia ed indisciplinata degli Uscocchi, e sia ancora per la corruzione di alcuni de' suoi governatori, avversi a Venezia, non effettuava con successo alcun provvedimento tla infrenare quo barbari. Nuovi malumori adunque tra Austriaci e Veneti, che venivano pure inasprendosi pel commercio di Trieste. Vigeva patto tra questa e Venezia che il sale triestino non avesse ad introdursi neh' Istria E a ciò si contravveniva cosi, che Venezia aveva nel 1578 assalite e danneggiate le saline di Trieste. Tali discrepanze condussero perfino a nuovo assedio di questa città da parte dei Veneziani nel 1599 e nel 1608, e a nuove rappresaglie contro le saline nel 1609: anno, in cui Trieste dovè privarsi con nuova convenzione della libertà di trasportare il sale fuori del proprio territorio A trarre pertanto Venezia ed Austria ad aperta guerra si aggiungevano le sempre vive gelosie commerciali alla gran questione degli Uscocchi, i quali dal 1599 erano divenuti più arditi ed avevano in quel-1'anno dato l'assalto, sebbene senza frutto, alla piazza di Albona, saccheggiata bianona con inaudita crudeltà e spinte le loro orde fino a Rovigno. Erano infatti Austriaci e Veneti già venuti all'armi nella contea d'Istria l'anno 1600, e da quel tempo in poi gl'Istriani doveano resistere agli attacchi e degli Arciducali e degli Uscocchi. I.a guerra dichiarata si apri infine nel 1612. Avevano gli Uscocchi fatta irruzione nell'isola di Veglia e tradotti a Segna prigionieri il governatore Girolamo Marcello e il siio cancelliere, che barbaramente trattarono. Ago- stino Canale, provveditore generale in Dalmazia, ebbe ordine di prenderne vendetta, ed egli assediò il castello di Mosche-nizza, eh' era uno degli asili più sicuri dei pirati, né avendo potuto espugnarlo, piegò contro Lovrana, che diede al sacco. Gli Uscocchi allora entrarono nel territorio di Raspo, facendo sperpero di molti villaggi. Dal canto loro i Veneti posero a ferro e a fuoco altrettanti villaggi della contea austriaca per rappresaglia. In presenza di avvenimenti cosi orribili, che minacciavano di far trapassare l'Istria da civiltà a barbarie, 1' arciduca Ferdinando, governatore dall' Ungheria, mosso pure dall' imperatore suo fratello, comandò punizioni contro gli Uscocchi. Ma indarno. E nuovo caso orribile venne a concitare gli animi l'anno 1613. Con sei barche entrarono gli Uscocchi di notte tempo in Mandre, porto dell'isola di Pago, dov'era ancorata la galea di Cristoforo Venier. La ciurma, che dormiva, fu trucidata, e con sevizie venne torturato ed ucciso l'istriano Lucrezio Gravisi dei marchesi di Pietrapelosa insieme col fratello, col nipote e col cugino. Il capitano poi tradussero a Segna per serbarlo a fine più atroce. Durante un convito, come a renderlo più allegro, svenarono l'infelice Venier, e cavatogli il cuore, sei mangiarono. La notizia di si esecrando misfatto inorridi Venezia, e i più commossi discorsi si tennero nel Senato. Dimandossi il castigo de' rei ; ma questi non si rinvennero, e ognor più imbaldanziti, gli Uscocchi traboccavano nell' Istria, lasciando ovunque ficrissimi segni di nequitosa barbarie. Venezia spinse allora sue truppe contro l'Austria. Avanzarono esse contro Trieste, s'innoltrarono verso Gradisca, e chiusero il mare ( 1614). L'Istria, le rive dell'Isonzo, le spiagge della Dalmazia e le isole tutte le arrabbiate armi dei guereggianti sentirono e ne furono desolate e guaste. f.8 Il veneto generale Lorenzo Venier assali la fortezza di Novi, ch'era del conte Frangipane, comandante austriaco di Segna. La piazza fu presa e la città ridotta in cenere. Stringevasi intanto ognor più l'assedio di Gradisca, e l'arciduca Ferdinando, temendo di perdere quella fortezza, implorò il soccorso dell'imperatore Mattia. Ma questi che attribuiva al fratello la colpa della guerra, si limitò a commettere al gran-duca di Toscana e al duca di Mantova l'ufficio di patteggiare accomodamento (1615). Anche la .Spagna s'intromise, e, inviato a Venezia il marchese di Lara, pregò il Senato a voler richiamare le truppe dall'assedio di Gradisca. Venezia, che non voleva inimicarsi la Spagna, potente allora nella Lombardia, acconsenti di levare l'assedio, purché si ponesse termine alla questione degli Uscocchi. Se non che veduto che di tale accondiscendenza voleva trarsi profitto a scendere a minori concessioni, rigettata ogni istanza, proseguì la guerra. Sulle rive dell'Isonzo si affrontarono gli eserciti di Venezia ed Austria. Da prima quello ebbe la peggio, ma poscia si riebbe e vinse. Il conte di Trautmanns-dorf, che comandava gli Austriaci, fu costretto a ritirarsi : successo felice, ma amareggiato dalla morte del veneto generale Pompeo Giustiniani. Nello stesso tempo in Istria guereggiavasi con ogni furore, e i prigionieri uscocchi venivano condannati alle forche senza misericordia. ] mediatori andavano da un capo all' altro per riuscire a pace. Ciò non arrestava il blocco di Gradisca, continuato da Lorenzo de' Medici contro il conte di Marradas, succeduto al Trautmannsdorf. Militavano per Venezia Istriani, Friulani, Dalmati ed Albanesi, e neh'esercito austriaco vi erano Ungheresi, Croati, Triestini e la stessa cavalleria di Wallcn-stein. Era Gradisca agli estremi (1617), quando si portò la nuova della pace firmata in Parigi e ratificata in Madrid. Con essa si stabili d'internare tutti quelli degli Uscocchi, ch'erano dediti alla pirateria. E difatti furono trasportati a Carlopoli, e cessò quel terrore, che aveva si a lungo oppresso le popolazioni dell' Adriatico. I possessi reciproci di Venezia ed Austria ritornarono allo stato, in che si trovarono prima della guerra. Se in questa vennero commesse grandi crudeltà dagli Li-scocchi per istinto e dai Veneti per rappresaglia, moltissimi furono gli esempi di maschio valore dati dagl'Istriani. Ricorderemo solo Francesco Gavardo da Capodistria, che pugnò contro gli Uscocchi con un drappello di prodi armati e mantenuti a proprio dispendio, e che nelle arditissime sue imprese giunse a (ar prigione il famoso capo di que' barbari, Giure Misnich. Né si taccia di Giambattista Negri di Albona, che fu capitano perpetuo alla sovrainten-denza dei confini dell'Istria di fronte agli Arciducali e agli Uscocchi, e che fe' a quest'ultimi toccare una grave sconfitta sotto le mura di Albona assalita invano da essi, come fu già ricordato, nel 1599. Erano questi valorosi degni coetanei di Giovanni de Giovanni da Capodistria, capitano intrepido alla difesa di Famagosta contro i Turchi, poi governatore della repubblica in Candia e molto encomiato nelle venete storie. La mutua diffidenza, che restò dopo la guerra tra Venezia ed Austria, fu cagione che nuove tribù straniere si traducessero in Istria dall'una e dall'altra potenza. Tosto l'Austria dispose colonie di Morlacchi lungo il veneto confine. E i Veneti trapiantarono nuovamente nei contadi della nostra provincia Albanesi nel 1623, Dalmati nel 162^, Dalmati e Trevisani nel 162S. E come aveano fatto prima, si diedero nuovamente a costruir fortificazioni. L'ingegnere francese Deville, che s'era adoperato in questo genere di lavori nei possedimenti di Levante, ebbe da Venezia l'incarico di erigere la fortezza di Pola sopra le ruine della rocca de' Sergi, altra volta Campidoglio romano (1630). Pur troppo nell'opera militare si dimenticò la civiltà, e fu veduto distruggersi il bel teatro, che vantava Pola, e costruirsi colle pietre e co' marmi d'insigne patrio monumento le mura di un forte. Che Venezia guardasse poi con pari gelosia anche i suoi diritti sul mare di fronte alle due case austriache di Germania e Spagna, desumesi dal fatto, che avendo voluto una llotta spagnuola accompagnare a Trieste Maria di Spagna, destinata in isposa a Ferdinando III d' Ungheria, vi si oppose e volle condurvela colle proprie navi (1631), minacciando che altrimenti avrebbe data battaglia. Cosi fu rico-sciuto di nuovo il veneto dominio sull'Adriatico. Desolata l'Istria negli anni 1630 e 1631 da fìerissima peste, che fu 1' ultima, e eh' era stata portata in Italia dalle truppe del Collalto, si continuò a trapiantar colonie neh' Istria per ripopolarne il contado. Vennero Morlacchi nel 1635 e nel 1647, Serbi-Montenegrini nel 1657 (stabilitisi in Pcdrolo o Peroi presso Pola), Trevisani nel 1668, e Vcneti-Candiotti dopo la caduta di Candia, 1669. Di questo tempo, burrascoso per la guerra dei 30 anni, terminata colla pace di Vestfalia, l'Istria non fu teatro di ostilità, ma i suoi militi presero parte a quelle, ch'ebbe Venezia nel resto d'Italia, e specialmente poi in Levante contro il Turco, che, sebben vinto in due grandi battaglie navali, arrivò a impadronirsi di Candia. E qui dee commendarsi Biagio Giuliani da Capodistria, che, comandante del forte di S. Teodoro nell'isola di Candia l'anno 1645, sostenne da prima P impeto turco con massimo valore, e poi, quando i nemici avevano già invaso il castello, dio fuoco alla polveriera, seppellendo con essi sè e i propri nelle rovine. 5i La guerra col Turco viemmaggiormcnte divampò. Dal 1684 pugnossi per 15 anni con invitta costanza. E gli Istriani vi si distinsero come per lo addietro sotto il comando di quel Morosini, che fu per Venezia l'ultimo grand'uomo di guerra e di mare, e che, conquistate alla patria la Morea, Egina, Santa Maura e parecchie terre in Dalmazia, si meritò il nome di Peloponnesiaco. Tali conquiste vennero sancite alla pace di Carlovitz, che segnò il primo decadimento dell' ottamana potenza (1699). L'Istria ebbe in questi anni a combattere, non solo in Levante, com'è detto, ma anco alle proprie coste e in Dalmazia. Quelle venivano infestate da pirati, e narrasi fatto di grande arditezza eseguito da due Puste dulcignotte, che nel 1687 sbarcarono in Cittanova e ne trasportarono prigioniero in Albania il podestà con 36 cittadini. In Dalmazia poi sostennero militi istriani i maggiori cimenti, e il colonnello Giuseppe dal Tacco da Capodistria, comandante all'impresa di Narenta,ebbe la gloria principale nel conquisto di quella piazza • e nel successivo governo della stessa contro le forze più gagliarde dell'inimico. Due anni dopo la pace di Carlovitz scoppiò la guerra della successione di Spagna (1701) tra Prancia, Spagna, Baviera, Savoja, Mantova da una parte, ed Austria, Inghilterra ed Olanda dall'altra. Venezia neutrale. Ma non le mancarono imbarazzi. Da prima si trasportarono da Trieste per mare provvigioni di guerra pegl'imperiali di Lombardia, e poscia di riscontro una squadra francese, uscita dal porto di Napoli entrò francamente nell'Adriatico per fermare ogni altro convoglio triestino e, presentatasi a Trieste sotto il comando del Eorbin, la bombardò (1702). 11 veneto Senato, che vedeva cosi leso il suo dominio sull' Adriatico dalle parti belligeranti, si lagnò presso le due corti di Vienna e di Parigi, protestando che, non fatta ragione alle sue rimostranze, a- vrebbe usata la forza. E ad appoggiare quanto prometteva spedì flottiglia a Parcnzo. Francia ed Austria, interessate a non inimicarsi i Veneziani, rispettarono P impero loro del golfo. Appena assestata la questione della neutralità, tornò a farsi temere il nome esecrando degli Uscocchi, che, vista tutta Europa in armi, si diedero nuovamente a predare. Ma vennero tosto incalzati d'ogni parte dagl'Istriani, dai Dalmati e dai Veneziani, e puniti con tanto rigore che vennero ridotti impotenti a recare alla navigazione nuove molestie (i703> Del resto l'Istria, meno questi trambusti, fu in pace nei 13 anni della gran guerra d'Europa, uè soffrì quelle contribuzioni, onde le altre provincic d'Italia trovaronsi aggravate (1705). Unicamente nella contea, a modo feudale più volte venduta e rivenduta (1712), avvennero tumulti contro il nuovo conte Ercole Taurinctto, marchese de Prie, che P aveva a-vuta in permuta nel 1708, e che s'era dato a gran rigori nello esigere i diritti baronali. Poste le armi pel trattato di Utrecht (171 | l'imperatore Carlo VI rivolse l'animo a Trieste, confermandole privilegi commerciali con Napoli e Sicilia. Voleva egli aprire alle sue provincic tedesche un porto di mare, e Trieste ebbe la preferenza su Aquileja imprigionata da Grado e dai paduli e su Piume bloccata dal veneto cannone di Chcrso e di Veglia. Carlo VI dichiarò quindi porto franco la città di Trieste nel 1717, a suggerimento del principe Eugenio di Savoja, potente nei consigli di Vienna. E il pontefice aveva adoperato della stessa guisa riguardo ad Ancona. Venezia non era più la robusta dei secoli precedenti. Invecchiava, nò reggeva più gli eventi, ma cominciava a subirli. D'altronde in altra guerra col Turco, detta di Morea, vedevasi ella impegnata l'anno 1714, né voleva, minore com'era nei generosi ardimenti, perdere l'alleanza dell'imperatore, che infatti attaccò subito la Turchia. Si combattè per terra e per mare, c non possiamo rimanerci dal ricordare il nostro Antonio Benussi da Rovigno, che, essendo stato ferito il Plangini, gli succedette nel comando superiore dell'armata, tanto più lodevole, quanto maggiore fu il suo valore nelle prove di rilevare una scaduta fortuna. Nel 1718 si fermò la pace, e la recente conquista di Morca andava perduta per Venezia. Carlo VI riapplicò la mente al commercio di Trieste, c-mettendo ordini per la costruzione di navi da guerra e favorendo la formazione di una Compagnia Orientale (1719), la quale nel 1722 aveva già un capitale di 10 milioni e stabilimenti alle Indie: fatti, che nel 1726 trassero ad oppor-visi le altre potenze, le quali non assentivano all'Austria forza marittima. Venezia invece non impediva il progredire di Trieste sempre pel timore dei Turchi, e cosi limitavasi a semplici ollici diplomatici, allorché Carlo VI veniva di persona a visitare la stessa città di Trieste nel 1728 e ad ampliarvi le prese disposizioni. La flottiglia di guerra invero fu aumentata sotto il comando del genovese Parravicini (1729), si apri fiera privilegiata, si comperarono le saline per disporvi la nuova città (1730), e la si tolse alla giurisdizione del magistrato per meglio dirigerla giusta P intendimento di Vienna (1736;. Le opposizioni delle potenze per altro debbono aver influito sui consigli di Carlo VI, se la flottiglia austriaca fu sciolta nello stesso anno 1736, e non si ebbe più di mira da quel tempo che di formare un porto commerciale, e non un arsenale di guerra. Venezia intanto restringevasi a stabilir franchigie pel suo porto c a conchiuder trattati di commercio (1739), concorrente e non più dominante nelle ragioni del trafiko. Succeduta poi nel r745 Maria Teresa a Carlo VI per la prammatica sanzione, e finita la guerra della successione austriaca colla pace di Aquisgrana nel 1748, la imperatrice prosegui riguardi) a Trieste i divisamenti di suo padre, animata da inglesi consigli. Durante il suo impero si vide crescere Trieste a novella città, moltiplicarsi i suoi bastimenti, [■istituirsi la Borsa mercantile, spedirsi -consoli in porti forestieri ed accogliersene altrettanti. Al privilegio della compagnia d' Oriente si era sostituita la libertà del commercio, c questo prosperava. Nel 1749 l'imperatrice sollecitò Venezia a cederle alcuni luoghi, che desiderava sulla frontiera del Trentino e del Milanese, offrendole in cambio parecchie terre d'Istria. Ma il veneto Senato, che temeva di rafforzare il potere imperiale in Lombardia, ricusò decisamente la proposta. Allora Maria Teresa proseguì con maggiore impegno gli ordinamenti legislativi del commercio, normeggiatisi su quelli ili branda e di Ragusa. E qui basterà riferire il notorio Editto politico di navigazione (1758), che venne poi pubblicato pel litorale austriaco nel 1771. Nell'Istria intanto succedeva da un canto nuova alienazione della contea di Montecuccoli 1766, e dall'altro il Governo veneto poneva opera ad estendere e migliorare le saline istriane (1767). Fu di quel tempo che, essendosi levata gran bufera, la quale riversò il mare su largo tratto di spiaggia con tale un impeto da denudarla, vennero a disscppclirsi tra l'mago e il vecchio castello di Sipàr le rovine di antica città accennanti a grande ricchezza e vastità di fabbricati (1770). Quale dei nomi dell' età grecanica le sia proprio, è ancora ignoto. E qui in sul proposito di antichità meritano particolare menzione le ricerche, che intorno ad essa venivano fatte anco in Istria da distinti ingegni. L'inerzia in quel secolo del governo locale non ispegneva gli studi, che furono anzi fiorenti, in ispecie a merito del giustinopolitano Gian Rinaldo Carli di fama non meno italiana che europea. In epoca morta di fatti di vero storico interesse, ci gode V animo di poter almeno segnar progressi della coltura in terra già patria ai Vcrgeri, ai Muzi, ai Santori, ai Carpacci, ai Tar-tini. Vi avevano non pochi stabilimenti d'istruzione ed Accademie. E specialmente Capodistria vantava un Seminario, in cui educavasi la studiosa gioventù cosi nelle ecclesiastiche discipline, come nelle umane lettere, altre due facoltà teologiche presso i Domenicani e i M. M. Osservanti, e un collegio di gran rinomanza diretto dai P. P. Sommaschi, e poi dai Piaristi, e che ne' suoi corsi elementari, ginnasiali e filosofici accoglieva alunni fino dalle isole Jonie. F Trieste dal canto suo sviluppava maggiormente le in-stituzioni nautiche e commerciali. Nel 1775 la Compagnia delle Indie acquistò privilegi, e si tentarono colonie in Del-lagoa, nell'Africa, nelle isole Nicobare del Bengala, e sulle coste di Malabar. A questa Compagnia si associò la stessa Anversa. L'anno seguente avveniva novello mutamento nella costituzione di Trieste ( 1776 ì, essendo subentrato all' intendenza commerciale formale governo politico. Morta Maria Teresa nel 1780, Giuseppe II si adoperò invano a raffermare lo stabilimento della Compagnia delle Indie, che questa falli nel 1782, e le colonie vennero abbandonate. Quasi a compenso all'incontro, divenne animatissimo in Trieste il commercio coi Greci, particolarmente dal 1786 in poi. Ma già la Rivoluzione di Francia attirava gli sguardi di tutta Furopa, e nuove sorti felici ed infelici si maturavano cosi pcgli Stati maggiori, come per le piccole provincie destinate a subire i grandi eventi. , Con la caduta della repubblica, che seguiva nel 1797, si chiudono questi nostri cenni riassuntivi della storia d'Istria. Diremo solo che maggiori dei governanti furono i governati, tra cui gì' Istriani, levatisi a gran tumulto alla notizia della caduta di Venezia, figlino non s'erano mai intiepiditi nell'affezione verso la repubblica tra gli errori e le incuranze di questa negli ultimi anni della senile sua esistenza. E aggiungeremo ancora di volo che, passata l'Istria nello stesso anno 1797 con Venezia c Dalmazia all'Austria, entrò nel regno d'Italia l'anno 1806, poi nel regno illirico, ideato a suo modo dal capriccio di Napoleone nel 1810 e inline, occupata dal generale Nugent l'anno 1813, nell'Impero d'Austria, del quale anco in oggi fa parte, ascritta al governo del Litorale. Nè per avvenimenti, né per uomini, che in essi figurarono, va inonorata la storia nostra. Nello avervi adunque applicato l'animo, per quanto da noi si poteva, se non ha vanto l'ingegno, trova quel conforto, che gli studi patri recano a chi intende, com'essi tornino mai sempre di eccitamento, non meno al ben sentire, che al ben oprare. 1 Perchè il lettore sia posto in grado e di formarsi un giusto concetto della condizione dell'Istria a que' tempi e di giudicare coni' ella pure po^s.i guardare all'avvenire colla fiducia, che viene dalla testimonianza del passato, si dà qui tradotta la epistola XXII del libro XII di Cassiodoro : Senatore Prefetto del Pretorio ai provinciali dell' Istria. « I pubblici dispendi, incerti per la varietà dei tempi, non altrimenti possono equilibrarsi se non col porre le esazioni delle pubbliche imposte in giusta proporzione co! reddito dei terreni; perchè facile torna l'esazione, quando copioso è il raccolto e perchè, richiedendosi ciò, elle la sterilità ha negato, la provincia viene a soITcrirc, c non si consegue ciò che si aveva in animo di avere. « Persone, che visitarono la provincia ci hanno riferito, che l'Istria, già in fama per eccellenza di prodotti, sia stata in quest' anno benedetta da Dio con copia di vino, di olio c di formcnto. Vi concediamo quindi di pagare con altrettanti generi siffatti l'imposta fondiaria, clic in questo primo anno d'indizione vi verrà prescritta; condonando benignamente gli altri tributi alla devota provincia. <• Siccome peraltro noi abbisogniamo di questi generi in maggior copia di quella, che ci darete in equivalenza dell'importa dovuta, noi abbiamo spedito altrettanto danaro nella provincia, traendolo dalla nostra cassa, per comperare abbondantemente i vostri prodotti senza alcun vostro disagio. Perchè essendo voi costretti di vendere le derrate a mercadauti forestieri, grave pregiudizio vi deriva, quando compratori mancano; c senda mercadauti danaro non ne vedete. Miglior cosa è quindi il secondare la volontà del principe, che il dare le proprie cose agli stranieri ; preferibile assai è il pagare debiti con proprie produzioni, che l'avere i fastidi inseparabili dal vendere. Oltreché equa è al tutto la misura, che prendiamo, non volendo noi né recarvi pregiudizio nei prezzi, ni caricarvi delle spese di nolo. ■ La vostra provincia, a noi prossima (a Ravennai, collocata nelle acque dell'Adda-tico, popolata di oliveti, ornata di fertili campi, coronata di viti, ha tre sorgenti copiosissime d'invidiabile feconditi, per cui non a torto diecsi di lei che sia la campagna felice di Ravenna, la dispensa del palazzo reale; delizioso e voluttuoso soggiorno per la mirabile temperatura che gode dilungandosi verso settentrione. Ned è esagerazione il dire che ha seni paragonabili a quelli celebrati di Baja, nei quali il mare ondoso internandosi nelle cavità del terreno, si fa placido a somiglianza di bellissimi stagni, in cui frequentissime sono le conchiglie e morbidi i pesci Kd a differenza di Baja, non trovasi un solo avemo, un sol luogo orrido e pestilenziale; ma all'invece frequenti peschiere marine, nelle quali le ostriche moltiplicano spontanee anche Senza che l'uomo dia opera alcuna; tali sono queste delizie, che non sembrano promosse con istudio, ed invitano a goderle. Frequenti palazzi, che da lontano fanno mostra di sè, sembrano perle disposte sul capo a bella donna; e sono prova in quanta estima, zionc avessero i nostri maggiori questa provincia, che di tanti edilizi la ornarono. Alla spiaggia poi corre parallela una serie d'isolettc bellissime e di graudc utilità, perchè riparano i navigli dalle burrasche ed arricchiscono i coltivatori coll'abbondanza dei prodotti. Questa provincia mantiene i presidi di contine, è ornamento all' Italia, delizia ai ricchi, fortuna ai mediocri : quanto essa produce passa nella città reale di Ravenna. » 2 Di questo si ha che, trovandosi egli capitano della cavalleria di Ladislao re di Napoli, fu da Rossetto di Capua, condottiero della fanteria, trattato da barbaro istriano, come non fosse italiano d'Istria: insulto, che volle rintuzzare in duello alla presenza del re e dei cavalieri della ?ua Corte. Vinse ed obbligò col suo valore l'avversario a smentirsi. Fa molto applaudito ed ebbe dal re il privilegio di portare nello stemma una lingua infuocata fra due freni, a significare appunto frenata maldicenza. Nota degli Uditori. — A distanza di 22 anni dall'epoca, in cui il Combi compilava questo primo abbozzo di una Storia dell'Istria, il desiderio di tutti gii studiosi fu compiuto per opera di un cittadino già per altri motivi benemerito, Carlo De Franceschi, il quale sotto il modesto titolo di « L'Istria - Note Storiche » renzo, Coana, 1879) pubblicò in un grosso volume una completa storia della provincia, a cui rimandiamo chi avesse vaghezza di maggiori particolari. DELL' UNITÀ NATURALE DELLA PROVINCIA. (Dalla Porta Orientale, i8j8) Alpi Giulie, che al di là del confine settentrionale dell' Istria le girano a tergo dal N O al S E, formando il confine orientale d'Italia, spiccano dal Monte Nevoso un ramo, il quale si protende verso la nostra penisola e poi alzandosi al Monte Maggiore si bipartisce, correndo con un braccio fino a S. Giovanni di Duino nel golfo di Trieste, e coll'altro sino a Pianona nel Quarnaro. Ecco pertanto quest' ultima parte d'Italia costituirsi in unità naturale, esattamente circoscritta quinci dalle due catene della Vena e del Caldera, sproni dell'Alpe Giulia, e quindi dal mare, nel quale s'inoltra acuminata colla sua punta di Promontorc, quasi faro del golfo di Venezia. Ma l'unità naturale della provincia fu pur troppo più volle e per lunghi anni sconosciuta dalla polìtica. Una sotto il dominio di Roma, quale regione d'Italia, la penisola nostra ebbe a fiorire cosi, che torna a vera maraviglia di chiunque si faccia ad esaminare la storia di quei tempi. E all'epoca del regno di Tcodorico, egualmente una e tutta, conforme alla sua natura, entro ai confini d'Italia compresa, poteva dirsi a buon diritto, come fu detta allora, delizia ai ricchi, fortuna ai mediocri, piacevolissimo soggiorno per lutti. 6o Dell'unità naturale della Provincia. Conquistata da Carlo Magno c divisa per opera del feudalismo, si che da una parte gli stranieri marchcsani la volevano trarre a nuovi interessi, e dall'altra i Comuni istriani vi resistevano pertinaci, stringendosi sempre più ai Veneti, per conservare l'antico indirizzo alle forze e agli intendimenti tale contrasto non tardj a dimezzar quelle, e a laidi questi argomento alle continue avversioni tra il governo baronale, signore della campagna, e il cittadino, dominatore specialmente della costa. E quando ai detti marchesani succedettero i patriarchi di Aquileja, più forti e più vicini, e la lotta si fece più assidua e più impegnata, guadagnò bensi terreno anco nell'interno dell' Istria il Comune istriano pegli spiriti maggiori che gli venivano dall'imminenza del pericolo, ma non toglievasi per questo il malaugurato frangimcnto dell' unità provinciale, né quindi il contrario dibattersi delle forze tra gli stranieri, che la impedivano, e gli istriani, che, da prima alleati di Venezia, vedevano colla necessità di salvare gli interessi naturali congiunta quella di porsi sotto il protettorato della repubblica, transazione alla signoria. Né questa, dopo aver tolto di mezzo il dominio temporale di Aquileja ed esteso il proprio sovra la maggior parte dell'Istria, potè ricomporla all'unità sua; che la Contea d'Istria, da principio mero vassallaggio del Marchesato, poi, intenta a fare il conto suo, per lo più neutrale, e quindi, resasi indipendente, volta a giuocare il partito ora di amica ed ora di nemica del Comune istriano, conforme il preponderare di esso e del Patriarcato lo richiedeva, era passata per legge di successione sotto l'Austria, già d'altra parte divenuta signora di Trieste. Se Venezia non avesse trovato in Istria altro nemico che il conte, la nostra provincia sarebbe stata una già nel quattrocento ; e fino d'allora l'Italia per mezzo della repubblica avrebbe rivendicato il suo confine d'oriente. Gì Nel non essere avvenuto cosi sta il principio, da cui dee attingersi il giudizio intorno al veneto governo; imperocché le gelosie, le opposizioni, le lotte impedienti ogni stabile ordinamento continuarono, si accrebbero e, invecchiata la repubblica, e scambiati i magnanimi propositi colle paurose astuzie di una politica fiacca, non si mirò ad altro che a tener bassa la condizione della provincia per toglier esca alle voglie altrui, tarpando perfino le ali alla patria coltura, la quale, a giudicare dal suo carattere non mai perdutosi e dagli esempi dati tra le avverse condizioni, avrebbe portato l'Istria a grandezza degna del suo passato. Rozze colonie slave infatti ci vennero su quelle navi, sorelle alle quali le nostre, battendo Saraceni, Slavi, Ungheresi, avevano onorata l'età più povera di fatti italiani corsa tra le contese dei Carolingi; avevano custodito l'Adriatico, mentre Venezia partiva per l'Oriente a meritarsi la corona di regina del mare; e presso Salvore aveano avuto la loro battaglia di Legnano. L'Istria peraltro non perdeva di vista, quantunque vittima, l'onore di esserlo, e fu prode in ogni cimento contro i pericoli d'oltralpe; sciolta dall'obbedienza dopo la battaglia di Agnadello, entrò innanzi ad ogni altra provincia nel difendere da sé il vessillo, che avea per suo ; si pose argine contro le sanguinose invasioni de' Turchi e degli Uscocchi; e, caduta la repubblica sotto la spada dell'esordiente conquistatore di Europa, si levò a tumulto, dimostrando che sotto il povero abito, a cui era stata ridotta, serbava ancora 1' a-nimo ricco di generosi sentimenti. Ceduta all'Austria colla Venezia nel 1797, continuò ad aver forma diversa dalla Contea, e di più entrò per la prima volta nella cerchia di quell'idea, che avea già da' molto tratte alcune parti dell' Istria dalle condizioni loro naturali sotto l'influenza delle provincie transalpine. 1 Ritornata all'Italia nel 1806, quantunque senza la Contea 6 2 della Provi ne i it. prese lena; ma tosto, passata a formar parte del regno il lirico di Napoleone, assieme alla stessa Contea, siìdù, nè a ben progredire ebbe tutto l'impulso dei tempi e delle riforme. Sebbene il secolo delle invenzioni, degli avanzamenti, delle conquiste intellettuali sia corso oltre il suo mezzo, l'Istria, volgendo lo sguardo addietro, vede breve assai il cammino consentitole dalla vicenda. Nè il solco si allarga. Che Trieste possa essere il porto principale, il mercato dell' Istria, è questa cosa, che nè scioglie, né lega la questione. In ogni tempo lo sarebbe egualmente, se voluto dalla natura, che ormai il commercio affratella tutte le nazioni, e non si trascina già sulle linee degli amministrativi scompartimenti, ma va col torrente degl'interessi universali. Né contra di ciò sta il passato, che ben diversi volgevano i tempi, quando, non solo Venezia, ma quasi tutti gli stati di Europa guinzagliavano il commercio. E d'altra parte che ha da fare qui Trieste del secolo scorso, se allora ella era poco più di un'umile borgata? Si svolgano queste idee, si raccostino meglio, e ben di leggieri si farà aperto che ci sarebbe d'uopo passare invero per molto semplici, se a certe fiabe in giro avessimo a prestare orecchio. Andiamo a maggior fretta nel rendere il più possibile migliori i nostri prodotti, perché possano sostenere ai mercati la concorrenza, né ci fallirà il tempo. Ma ad altre considerazioni ancora si fa la niente nel riflettere sopra P unità naturale della provincia. Questa da parte di terra è determinata da tale un succedersi di catene di monti, che difficilmente si saprebbe indicare altra provincia meglio disgiunta dalle regioni d'oltralpe. Un naturale passaggio dal di fuori direttamente neh' interno della provincia non si apre che sul fianco settentrionale Dell' unità naturale 63 del Monte Maggiore. Ma prima di giungere a questo vi ha altra barriera da sormontare. Abbiamo detto come dal Nevoso si protenda il tronco di monti, che mette capo al Maggiore, nodo della Vena e del Caldera Ora tra il versante orientale di questo tronco e del Caldera, il meridionale del Nevoso, e l'occidentale di que' monti, che dallo stesso Nevoso si prolungano verso la Dalmazia, havvi la Liburnia, regione tutta balzi, spiaggie ed isole. Chi tiene il confine orientale d'Istria, ch'é quello d'Italia, può ben dominare tutta questa cinta esterna, la quale s'erge alta e scoscesa contro le regioni della Culpa, della Croazia e della Slavofilia, e superata, qua serrasi in forma d' arco teso cosi, che ne abbia i capi schiacciati a cerchio, e là dirotta al mare rilevasi in arcipelago e si barra l'ingresso d'isolotti e scogliere. Dal lato del confine settentrionale la Vena si afforza di più trincee parallele, tratto tratto raunate in ridossi e sempre dirupate, sempre le une sopra le altre elevate. Essa prospetta a settentrionale la valle silvestre del Timavo superiore e la stringe agli scoscendimenti orientali del Nevoso e a quelle giogaje meridionali dell'Alpe Giulia, che mandano ancora le loro acque all'Adriatico attraverso a terra italiana. Ed invero l'altra vallata subalpina, che a questa sovrasta, ed ha nome di Piuca, piega già al versante della Sava. Quivi a settentrione e il varco di Nauporto, secondo dopo quello del Monte Maggiore, ma unico, per le cose dette dell'altro, che schiuda la via alle provincie del Danubio e della Sava. Esso per le valli della Piuca e della Reca si allarga bensi a ponente verso il Friuli, dov'è la strada percorsa da molte invasioni di Barbari; ma volgendosi verso l'Istria, e imboccate le gole della Vena, che si aprono petrose all'esterno della catena, si divide, si rompe, che quelle di trincea in trincea qua vanno a chiudersi, e là riescono ad un altipiano asserragliato da ripidissime rupi, attraverso le quali non vi ha naturale passaggio che pel Monte Spaccato e pel S. Lorenzo, l'uno e l'altro presso a Trieste. L'Istria dunque non è aperta che al Friuli e al mare di Venezia. Queste condizioni geografiche si prestano facilmente a commento della storia. Fu per esse che gl'Istriani, prima del dominio di Roma, poterono mantenersi indipendenti dai popoli d' oltralpe e serbare il carattere di stirpe italica, quantunque limitrofi alle tribù estesissime dei Celti. F Roma, ben compresa la posizione naturale dell' Istria, pose tosto opera a difenderla, qual porta orientale d'Italia, Al passo del Monte Maggiore oppose la colonia di Fola e a quello del Monte Spaccato e di S. Lorenzo la colonia di Trieste. Anzi vi è ragione di credere che, a meglio guardare il primo, stabilisse un comune militare, dipendente da Pola, in quella Valdarsa, dove tuttora si riscontra qualche vestigio di lingua romanica. Così a meglio coprire il passo di Trieste e a trar profitto dal viluppo di monti, che signoreggiano il passo di Nauporto e le valli della Piuca e della Reca, si porta opinione avesse locato altro comune militare in Castelnuovo. L'estensione dell'agro polese sino a Fiume e del triestino sino a Nauporto viene a conferma di questo sistema di difesa ed è solenne documento dell'importanza nazionale già da quel tempo della nostra provincia associata alle Venezie, come loro necessaria continuazione e baluardo, e però decorata del bel nome di Venezia superiore. Gli assalti dei Giapidi, che faceano forza accanitamente contro la colonia di Trieste; le prime invasioni dei Barbari, scendenti dall'Alpe Giulia, sfuggite o rimosse; la maggior libertà di reggimento goduta dall' Istria assieme alla Venezia sotto il regno di Teodorico ; la indipendenza loro dai Lon- gobardi per quasi due secoli; l'alta signoria di Bisanzio per tutto questo tempo nulla, un nome; fatto, la veneta alleanza; con essa non pochi comuni salvi dal feudalismo di Carlo Magno; ma questo, ai monti appoggiato, già padrone dei varchi, iniziatore della decadenza dell'Istria, la quale tra i nemici di fuori e quelli di dentro ostinata si dibatte; ella non di meno contro i primi vincitrice, e sia dai ciglioni delle sue rupi, sia sulle prore de' suoi navigli della patria italiana benemerente; spossata invece dai secondi, marchesi laici, marchesi preti, conti, di qualunque nome; l'alleanza di Venezia mutatasi tra gli accresciuti pericoli in protezione e quindi in dominio; ma questo tardato dai patriarchi e dall'Austria, vigile da prima dietro Trieste e dietro la Contea, e poi nell'uno e nell'altra ai due ingressi della provincia; quelli tolti di mezzo, quando a questa aveano già ben servito coli' indugiare la repubblica; gli adopramenti dei Veneti a ratte-nerla, poi svogliarla; la fortezza di Raspo alla vedetta tra il Monte Maggiore e Trieste; il cannone di Veglia colla bocca sulle spiaggie della Liburnia; le questioni pel passaggio di S. Lorenzo assidue; le guerre ai commerci di Trieste desiderate; — sono fatti, che legano strettamente la storia alle discorse condizioni geografiche della nostra provincia. Tanto la provvidenza col porre tra nazione e nazione gl'immutabili confini della natura fa che per essi in ogni tempo si svolga il criterio, onde giudicarne le sorti liete o funeste. Imperocché quest' ultime non cancellano mai 1' impronta della natura, e quando pure arrivino talora ad ingannare chi ignora, crescono fiamma di affetto a chi sa, dovunque e sempre. Ora se il libro della storia dell' Istria fu chiuso prima da una mano e poi da un'altra, sì con diversi intendimenti, ma per guisa ch'ella, vittima tranquilla, o vittima sdegnosa, ebbe a soffrire il maggiore de' sacrifizi, la patria annegazione di sé stessa, la fraterna calunnia, — ben le 66 Dell' iniilà naturale spetta il diritto all'onore di studi, che dagl'ingegni d'Italia prendano larghezza, e dal cuore della nazione, calore e vita. COSTITUZIONE OROGRAFICA E GEOLOGICA DELL'ISTRIA. Dei monti, che si levano a tergo dell'Istria, si è già toccato. Ora uno sguardo all'ossatura interna della provincia, Per coglierne il vero carattere conviene allàcciarlesi dal lato di SO. Quantunque infatti la penisola metta nel mare la estrema sua punta di fronte a meriggio, e il convergimento a quella dell'una e dell'altra costa sembri secondare a primo aspetto questa meridionale direzione, ella scende invece da NE a S O, scompartita in tre regioni, la superiore, la media, l'inferiore. L'alta, già in parte descritta siccome quella, che può dirsi tutta a contine dell'Istria ammonticata, declina da scilocco a maestro. Appoggiata al Monte Maggiore, corre in iscaglioni paralleli e va mano mano allentando, fino a cadere presso alle foci del Timavo. La chiamano Carso, e dall'antico nome della Vena, Ocra, la distinguono coi nomi di Carso di Raspo, di S. Pietro, di Trieste e di Duino. La media invece divalla dai fianchi della Vena. I suoi monti, sempre trasversali, volgono prima da levante a ponente, e più giù si protendono cosi, da determinare l'adagiamento di tutta la penisola in verso libeccio. Ha due coste, l'una al NO, l'altra al SE. Quella tra la punta di Grignano oltre Trieste e la punta di Salvore, a largo semicerchio rientrante, lacerato da profondi frastagliamenti; questa tra le insenature di Fianona e di Albona ad arco brevissimo, che il Caldera si snoda dritto di contro ad ostro, e assottigliando cosi a levante la fascia dell'Istria media, le abbrevia la costa là, dove col suo dirompere nel Quarnaro la taglia fuori dai lidi della Liburnia. Sono i monti di questa regione mediana, che tracciano il movimento alle acque dell'Istria, delle quali le maggiori hanno alla Vena le loro sorgive. Ma il corso loro non é originato da un solo elevamento montuoso, che a due soli versanti inclini la distesa del suolo. Ve n'ha due. Da Socerga, quasi a mezzo il corso della Vena, si svolge l'uno per S. Antonio fino a Pirano, dirigendosi pure con un ramo verso Semi sopra Buje. L'altro, eh'è il maggiore, si stacca da Lesischie pressoché al principio della Vena, sviluppa tre principali diramazioni, quelle di fianco fino a Sovignaco e a Galignana, e l'altra di mezzo fino a Pisino, centro dell'Istria. Scorre il Risano tra la Vena e le prime sue dipendenze; tra queste e le seconde il Quieto; e tra le seconde e la barriera del Maggiore e del Caldera l'Arsa. Le minori acque si formano nei compluvi. Cosi tra il ramo di Pirano e quello di Semi la Dragogna, tra il braccio di Sovignaco e quello di Pisino la Bottonegla, e tra il secondo e l'altro di Galignana il ruscello della Foiba. La obliqua successione adunque dei territori di Pirano, di Buje, di Mon-tona, di Pisino, di Pedena e di Albona da Salvore a que-st'ultima città segna il confine dell'Istria media. L'inferiore pertanto è di forma triangolare, cogli angoli a Salvore, a Promontore e ad Albona, avente lunga costa in faccia al golfo di Venezia, breve al Quarnero. Dal rigonfiamento maggiore del centro della penisola ella va deprimendosi a lieve discesa fino al mare. I suoi colli l'attraversano senza movimento di regolari diramazioni, disordinati e quasi direb-besi tumultuari'. Quivi non s'inalvea nemmeno un rivolo, e solo il Quieto e l'Arsa trovano passaggio al mare, il quale, rottosi due lunghi canali, si porge loro in contro ad accoglierli. II terzo canale di Leme e più addentro ancora quello di Draga, che accennano ad un sol letto, sembrano voler ricevere le acque del Valpisino. Ma esse e molte altre si sprofondono in caverne e per vie sotterranee mettono al mare. 68 Dell'uni là ìintiinile Questo è il più aperto fenomeno, che avverta l'affinità di natura tra il suolo dell'Istria superiore e quello dell'inferiore. Nell'una e nell'altra infatti il terreno si squarcia in affondamenti, ora imbutiformi, ed ora tutto al contrario a guisa di pozzi allargantisi in basso. L'una e l'altra sono inacquose alla superficie e percorse invece da fiumi e da torrenti sotterra, si che da un istante all'altro si veggono in quella gemere e fluir copiose le acque dai crepacci delle pareti, e in questa inondare ad un tratto i terreni depressi, anche a tempo sereno, e per modo da scomparir con la stessa rapidità, con cui sgorgarono. Ma queste assomiglianze delle due regioni dell' Istria si fanno ancora più evidenti a chi pon mente ai caratteri loro geologici, e rendono legittima l'ipotesi che l'Istria inferiore siasi formata nei rivolgimenti della massa terrestre, per violento distacco dai monti della superiore; tanto il lembo settentrionale dell'una serba e forma ed altezza tale, da poter quasi combaciare col lembo meridionale dell'altra. Cosi l'Istria media apparisce cresciuta dalle disgregazioni successive della prima e della seconda. E queste sono calcari, quella marnosa. Il calcare nero, che si presenta schistoso dietro 1' ultima Vena e bituminoso dietro il Monte Maggiore, fra la dolomia sua modificazione, sembra costituire la roccia inferiore del suolo d'Istria, ma fin' ora non fu rinvenuto allo scoperto. Soltanto le dolomie di questo calcare formano larga zona da Rovigno a Pola, prima per costa e poi più internamente, ora cristalline ed ora compatte. Più su si stendono da S. Lorenzo a Villanova Ma il calcare ippuritico, che da svariatissime conchiglie di forma allungata ha il nome, occupa in Istria la maggior estensione, sviluppandosi largamente nella superiore e componendo la formazione calcare dell'inferiore, specialmente alla costa, ov' é per lo più ben sodo. Qui pure notevole differenza dell' Istria media, che ne ha solo frammezzo una diramazione ed oppone quindi ai flutti lidi men forti. Questa roccia calcarea è per lo più grigia, spesso bianca e talvolta giallastra, ovvero di roseo colore venata. In molti luoghi si presta a bel pulimento, come a Sesana, a Santa Croce, a Nabresina nell'Istria superiore, e a Veruda nell'inferiore, che diede ai magnifici edifizi di Pola romana i bianchi suoi marmi. E alle cave, che furono già aperte, come d'esempio ai Brioni, a Rovigno, a Orsera, a Moncalvo, a Barbana, a Castelnuovo d' Arsa, a Novaco di Montona, a Grisignana e in più luoghi ancora ben altri bei nomi potrebbero aggiungersi. Sovra il calcare ippuritico sta alle volte il nummolitico, che è di conchiglie discoidi, ma disgiuntone talvolta da depositi bituminosi e di carbon fossile, come a Carpano, presso Albona, a Chersano, presso il lago di Cepich, a Gherdosella fra Montona e Pisino, a Berda fra Buje. e Portole, a Baso-vizza sopra Trieste. Il carbone di Pinguente non ha per letto il calcare ippuritico, ma il nummolitico. Questo, di grigio fosco o di una sbiadita tinta giallastra, fiancheggiando da prima al nord l'Istria media e poi ricomparendo a cingerla a meriggio, offre altra singolare corrispondenza tra la regione superiore e l'inferiore. La media é formata di marne argillose e sabbiose. Ora si distendono esse piane o a contorcimenti, in sottili stratificazioni friabili, ora si addensano a più piedi di spessore ed ora si trasformano in pietra arenaria punteggiata di verde pei grani di silicato ferroso, a cui si trova unita. Così la massa terrosa delle marne, delle argille, delle sabbie e del tassello, le quali avvicendano il color grigio al celeste, si trova attraversata da larghi strati di sassi, che al contatto dell'aria imbrunano. Qua e là infine sull'arenaria altre nummoliti, dette stipe- riori, si aggregano, cementate dal calcare, in roccic durissime, le quali talora, come sui fianchi del Monte Maggiore, si ergono in iscaglioni grandiosi. La diramazione ippuritica, la quale, come si è fatto cenno, penetra ncll' Istria media, taglia questa longitudinalmente in due parti, da Salvorc sino quasi a toccare il bordo delle nummoliti inferiori del Carso. Pingucnte, che siede colà a cavaliere ed è tra le due sezioni dell'Istria media, prossima cosi alla supcriore, come al ramo anzi detto delle ippuriti, ricca altresì di nummoliti della seconda formazione e di depositi bituminosi e carboniferi, può dirsi il centro, intorno a cui si aggruppano quasi tutti i fenomeni geologici della nostra penisola, degna anche sotto questo riguardo delle investigazioni della scienza, e specialmente degli studi italiani, stretta com' é intimamente alle condizioni geognostiche delle altre provi ride d' Italia. Congiunta ai calcari, clic fasciano al nord i terreni d' alluvione della vallata del Po, ella presenta le maggiori analogie col Nizzardo e col Vicentino. Inoltre dalla miglior conoscenza della ricchezza, che ha l'Istria in quelle pietre e in que'marmi, di cui va sì bella Venezia, verrebbe nuova lena ad aprire nuove strade per mettere ogni cava dell'interno dell'Istria in comunicazione col mare. Cava senza via é pozzo senza corda e senza secchia, e le vie trarotte o lunghe, specialmente se pesanti sicno i trasporti, tolgono di mano la mercede a chiunque vi si spenda intorno. Le strade, che abbiamo, sono ben lungi dal bastare ai bisogni della provincia, la quale non dovrebbe certo lasciarsi abbandonata, come lo fu, quasi alle sole proprie forze in argomento di sì grave importanza. Se buone vie portassero a così dire l'odore dell'Adriatico, e con esso gli allettamenti delle lucrose speculazioni ad ogni nostra cava, più non si direbbe mancare le braccia a dis- sotterrare i sepolti tesori; che dovunque il lavoro frutti, si moltiplicano le attività, le imprese, gli opera], e ben oltre alle fortificazioni di Pola, oltre al ponte della laguna, alla diga di Malamocco e alle calcare del Polesine si avviverebbe il commercio delle pietre e dei marmi istriani. Trieste, sulla via del mare, ne manda perfino alla lontana Odessa. Ora per rifarci a capo a considerare il suolo nei riguardi della vegetazione, noteremo brevemente che le montagne appiattite dell' Istria supcriore presentano per lunghi tratti brulli i fianchi, o solo qua e là tra sasso e sasso da erbe smorte o da bassi cespugli brizzolati. Per la marra non é che qualche avvallamento, ove maggiore sia la polpa del terriccio. Ma colà pure non mette l'olivo. Solo ai Carsi di Trieste e di Duino, riparati da monti più alti, crescono la vite e il gelso. L'Istria media spiega invece rigogliosa vegetazione ; ma P opera dell' uomo vi é voluta assidua, che facilmente le acque staccano, travolgono e decompongono le marne e le argille. Di qui le coste franose di non poche montagne specialmente alla marina, corse di traverso dagli strati sporgenti della pietra arenaria; le colline solcate da spessi torrenti, che si precipitano al mare ad allargare i fondi saliferi; le sommità tondeggianti e tratto tratto scarnate cosi, da svolgere pittoreschi dirupi; i boschi d'alto fusto nelle valli; la necessità di ristorare coi letami i terreni dimagriti dalle pioggie, di disporre i campi a ripiani, di ritenere i divelti con muri e siepi. Fertilissima infine, quantunque calcarea, è l'Istria inferiore a valli serpeggianti senz'ordine, giusta i diversi andari delle spesse colline, e stesa in altipiani sulle coste marittime. Il suolo, coperto da terra ocracea, rossa per l'ossido di ferro, sviluppa ottimamente i germi perfino di piante tropicali, spontaneamente ubertoso. Ma se P Istria fu privilegiata dalla natura di fecondi terreni, cosi che di cento parti non possono aversi che tre re- T2 stie a rispondere guadagno al cultore, saranno a dirsi distribuiti a buona legge di proporzione i generi di coltura? Le seguenti cifre dimostrano il contrario. Quasi la metà del suolo è lasciata ai pascoli promiscui, dei quali solo due decimequinte parti sono prati. L'altra metà si dividono pressoché a porzioni uguali i boschi e i colti. Ma di 25 parti non più che sei tolgonsi i boschi di alto fusto. Le altre sono pei cedui. Donde questo? La risposta a si grave quesito prende ben troppe cose intorno a sé, che non per ogni parte della provincia nostra potrebbe suonare eguale. Qui adunque solo il fatto. L'esame poi delle condizioni, che in tale bisogna sono speciali ai vari distretti, verremo mano mano svolgendo, se il potremo, negli anni appresso. CONDIZIONI metereolog1che. L'Istria, situata fra il 44 : 46 e il 45 : 55 di latitudine boreale, spetta alla zona temperata. Anzi ha clima ben più caldo di quello porterebbe la sua posizione atmosferica. Gli è però che si fa più brusca la dilferenza tra questa provincia estrema d'Italia e le regioni transalpine bagnate dalla Sava, che le stanno a tergo. Di qua l'olivo fino sul lembo meridionale del Carso, e di la nemmeno la vite. Quei paesi, ben 900 piedi sopra il livello del mare, sono spesso e di primavera e di autunno tristi per rigore di verno, mentre le pendici dell'Istria si allegrano di bella fronzura, o la rinnovano. Per questo rapido passaggio dal settentrione al mezzogiorno, dalle nevi e dai ghiacci delle terre volte verso il Mar Nero, alla tepida atmosfera dell'Adriatico viene sorpresa al viaggiatore, e se altro non ne lo rendesse avvertito, questo solo basterebbe a fargli conoscere il confine italiano. L'Istria pertanto sotto questo riguardo è meglio che porta d'Italia. Ma come per ogni provincia il carattere generale della regione si trova modificato da speciali condizioni climatiche, cosi pure avviene della nostra. Ella è tutta un grande ammasso scoglioso vestito da terre vegetabili di piccola profondità, il quale prima al suo confine settentrionale e poi qua e là dagli ondeggiamenti del suolo leva brulle e per lo più biancicanti le sue vette calcari. Per sua natura adunque deve, e assorbire e riflettere molto calore. D'altra parte le evaporazioni del mare, che cinge largamente la penisola istriana e s'interna in ogni maniera di insenature, non possono non avvolgerla in umida atmosfera. La siccità dovrebbe quindi moderarsi coli' umidità, e se questa legge, inerente alla condizione geologica e marittima del nostro suolo, avesse sempre suo compimento, avventurosa l'Istria, corsa com'è da venti, che rinnovando spesso l'atmosfera, tolgono ai vapori il nuocere con azione endemica continuata. Ma niun paradiso in terra. Sono appunto i venti, che avvicendandosi in modo da lasciare ora alle pioggie il predominio ed ora all'aria asciutta, serena, trasparente, fan si che le regioni della natura secca e dell'umida si disaccordino. Di qui le alternative e non le contemperanze tra P una e l'altra. La bora, il greco, il maestro dileguano le nubi o le rat-tengono; dispongono la pioggia lo scirocco e l'ostro, e nel determinarla si associano spesso col ponente e colla tramontana; il libeccio la interrompe, ma addensa vieppiù le nubi, e cagliando dà luogo a pioggia più sformata; il levante infine la tiene in sospeso e, a così esprimersi, in aria, se spiri moderatamente disteso ; ma se rompe in bufera, come suole presso al solstizio d'inverno, chiama quasi tutti i venti a contendersi l'impero del golfo, e dopo l'acquaz- 74 Dell'unità naturale zone lascia padroni del campo o lo scirocco o la bora, quello a spingere dal sud nuove avvoltolate di nubi, questa a spazzarne il ciclo in poco d'ora, gagliarda, asciutta, ravvivante. La bora, che può chiamarsi vento speciale di questa regione, mettesi tra il greco e il levante e si forma propriamente sull'Alpe nostra. Ed in vero tra il Nanos e il Nevoso i gioghi degradano di quasi due mila piedi per t8 miglia all' incirca di larghezza. Quivi i due climi del sud e del nord si affrontano, l'uno basso, alto l'altro. Naturale quindi il precipitarsi dell'aria costipata sulla rarefatta e, stretta com'è dai monti, sprigionarsi a rifoli sulle nostre terre e sul nostro mare veemente, strepitosa, e quasi dicemmo ingorda. Spesso dalle gole, tra cui si caccia, ne vien l'urlo foriero, come grido di scolta d'in sulle vette alpestri, in uno colf attoscarsi della montagna e collo sfumare delle nubi sparnicciatc per l'aria. Vera bufera con furiosissimi pie di vento nell'Istria supcriore, lo è pure, sebbene con minor forza, nella media. Oltre la punta di Sài* vorc invece si equilibra a condizione comunale di vento. Ma non cosi alla costa orientale, nel tempestoso Quarnero, ove mette il mare in fortuna ben oltre il Promontorc, terribile corrente fra la Dalmazia e l'Istria. Però sotto alla punta di Salvorc, su tutto il rimanente della costa occidentale non meno che su quella d'oriente, P ostro e lo scirocco, ancora caldi e rilassanti, sebbene depurati nel loro tragitto per l'Italia pcnisolarc, vanno a gara di forze col ponente e col libeccio, gonftatori del mare, i quali sono bensi men caldi, ma più irritanti pei salsi vapori, di che s'impregnano, attraversando l'Adriatico. E il maestro, che soffia più gagliardo nel golfo di Trieste, supera quest'ultimi in umidità, che le secche di Aquileja, gli stagni della Sdobba ben più delle paludi di Comacchio ci sono vicini. La tramontana invece, il greco, la bora, che ci vengono da terra, sono eccitanti, freschissimi; e il levante, essendo breve il tratto di mare, che passa, ad essi in questo si agguaglia. Di solito diurni i venti occidentali e gli australi; notturno il levante; la bora specialmente vernale; e più insistente nelle stagioni medie lo scirocco. Siccome poi i contorcimenti della costa ora a questo ed ora a quel vento pongono ostacolo, non è raro che più venti muovano e si scambino ad un tempo attorno la penisola: Fenomeno, che si manifesta pure a fior d'acqua nel vario incresparsi dell'onda e nel correre delle nubi più alte e più basse in direzione opposta. Ciò non toglie peraltro che gli agitamenti maggiori e più decisivi dell'atmosfera la sbilancino cosi, da produrre l'anzidetta alternativa delle umidità e dei seccori. L'umidità non ha un solo periodo annuale, come nelle regioni tropicali. Per l'incalzar dei venti australi suole essa regnare prima nei mesi di Febbraio, di Marzo e di Aprile, e poi nel Settembre, nell'Ottobre e nel Novembre. Allora una fitta acqueruggiola attrista con monotono piagnucolio per più giorni alla dilunga; e non raro accade che la luce del sole, smorta o, per dirla con frase nostra popolare, ammalata, ora splenda, ora si celi più volte al giorno e per più fasi lunari, tra le sospensioni e i ripigli dei brevi rovesci. Ma non é a dirsi che l'umidità vada ogni anno soggetta a questa vicenda; che il periodo delle pioggie ora si allunga ed ora si accorcia, ora s'interrompe ed ora si trasporta a mesi non suoi, secondo il vario imperversare o P incrociarsi dei venti. S'ella forma uno dei due caratteri del clima nostro, quest'é tra per la prevalenza dell'umidità, che breve o protratta in ogni autunno e in ogni primavera si appalesa, tra perché i più lunghi suoi periodi riprendono il loro ciclo meteorico ad ogni terzo o quarto anno. 7« Dell'imita mi tur ale Inoltre e da avvertirsi, non essere l'umidità nell'Istria cosi assoluta, cosi radicale, da non subire, anco a brevissimi intervalli, le opposte influenze dell'atmosfera variabilissima. Perciò negli stessi giorni piovigginosi lo sparire ad un tratto delle traccie d'umidore negli abitati, l'incrostarsi dei terreni, le oscillazioni clastiche di nuova corrente tra l'aria floscia. D'altra parte le nebbie, per lo più nei mesi di Novembre e di Marzo, non sono né lunghe, né fitte. E l'Istria non ha stagnanti acque, che la funestino. Vi sono bensi vallate le quali, per mancanza di buon governo agli sbocchi, rimangono sott'acqua, ove la pioggia ruini, ma non immolano che per breve tempo, poiché o altro vento secco o il caldo, soccorsi dalla natura calcarea del suolo, le rasciuga prima che gli effluvi si espandano e le nocive loro combinazioni si compiano. Che se ai lidi minori dell'Istria marnosa, la quale di sua natura lascia scorrere facilmente le acque sulla superficie, si formano sedimenti per le terre che quelle menano seco, come a Muggia, a Capodistria, a Pirano, il danno, che dalle paludi potrebbe venire alla salute, é tolto parte dalle saline, in che le melme marine furono convertite, e parte dai flussi del mare, il quale, battendo limpido a rive scogliose, l'onda viva rinnova, stempera le sostanze mefitiche e ne corregge le esalazioni, spogliandole dei più crassi umori. Per l'acqua piovana segna qui l'udometro la media di circa 990 millimetri; le giornate di pioggia, pure a termine medio, sommano a no in un anno. L'Istria cosi fu ascritta per tale riguardo all'Italia padana, la quale porta la media jctogralìca di 930 millimetri. Quanto all'Italia tutta, ella conta una media di circa 100 giorni di pioggia; ma delle sue provincie ve ne sono alcune, come la Garfagnana, che più dell'Istria ne annoverano, e più umide si giudicarono. Se poi consideriamo le cifre di 130 giorni piovigginosi ol- tre l'Alpe nostra, di 140 all'alto Danubio, di 150 all'Oder, di 160 al Baltico, di 180 in Olanda, e perfino di 210 sulla costa orientale d'Irlanda, dobbiamo confortarci che l'Istria sia ben lungi da proporzioni, per cui possa esserle tolto il sorriso del suo cielo d'Italia, sempre bellissimo, quando é bello. Ed é anche troppo bello, allor che i lunghi giorni di siccità volgono sulla misera campagna, si ch'ella scolora, arde e fa lagrimevole contrasto col vivo azzurro di un sereno oltre ogni dire limpidissimo. Questo, specialmente nei mesi di Luglio e di Agosto, si ferma in cielo, per cosi dire, implacabile. I venti orientali ed occidentali, scambiandosi quasi con periodo diuturno, spingono quinci e quindi della penisola i vapori a formare altrove le nubi, che da una parte e dall'altra sorgono alte montagne ad attirargli, e quelle dell'Istria, diboscate e più umili come sono, non vi possono di mezzo. E quando lo scirocco o il maestro a vicenda si caricano sull'estremo lembo dell'opposto orizzonte, addensandovi i neri nugoloni, e a vicenda l'uno sull'altro si rifa rimandandoli, promettitori di larga pioggia, allora, mentre il nembo neh' obliquo suo traversamento sovra il golfo largo intorno si dispiega stracciato dai lampi, ad un subito o a greco o a libeccio solvesi le più volte nell'aere un gruppo di vento, il quale da prima rompe la fitta distesa delle nubi, spirandovi di fianco, poi le piega dal loro volo, e togliendole cosi all'impulso della propria corrente, termina in brevi istanti collo sperderle dall' orizzonte. Che se pure si gitta in questo cozzo una spruzzaglia sul suolo affocato, più perniciose ne sono le conseguenze per la maggior evaporazione che ne segue e il più vibrato agitamento dell'aria. Né rara sebbene non larga, é la gragnuola in si repentini trabalzi di temperatura. Cosi lo sperato beneficio o viene rapito o torna a maggior danno. Per rimediare a tanto male si pone studio da qualche anno ad imboscare i Carsi, che le povere acque dell'Istria non permettono alcun progetto provinciale d'irrigazione. L'impresa è lunga, ma il bene, che se attende, sia stimolo a proseguirla con assiduità e costanza, degne di un' opera grande Le cose dette intorno agli umidori e alle siccità vengono a comentO della temperatura. Non è vero che l'Istria di solito conosca solo due stagioni, la calda e la fredda. Si interpongono bensì, sempre per la grande varietà dei venti, giornate calde o fredde nelle stagioni medie, ma queste hanno buon corso di due ed anche di tre mesi. La primavera anticipa a spese dell'inverno, e d'ordinario comincia a farsi sentire già nel Febbraio, si che in sui primi di questo mese si apre la violetta e mettono fiori i mandorli. Da altra parte l'autunno, se tarda, continuasi poi innanzi nel Decembre, eh'è solo di nome mese autunnale anco in paesi più meridionali dell' Istria. Fatinosi i maggiori algori dalla terza decade di Decembre alla metà di Gennaio, e se pungono nuovamente nel burrascoso Marzo, tanto più funesto, quanto più mite e di bei giorni lieto sia stato il Febbraio, poco dimorano, capricciosi o, come qui suol dirsi, matti nelle loro vicende. H dunque mite il nostro verno, e la neve, che viene apportata dal levante, é rara al piano e non si gela mai, che anzi con danno della campagna ben troppo presto dimoia. E il forte caldo non ha regno che nei mesi di Luglio e di Agosto, ma asciutto, non umido, non soffocante, e a certe ore mitigato dai venti maestrali e levantini, pei quali non possono dirsi molte le notti di copiosa guazza, sendo questa amica a sottil brezza e non a spiro più gagliardo. La media termometrica in Istria è di + 7" 4 2" d'inverno, e di + 23" + 20" di estate. La barometrica, di 759 millimetri. Quantunque poi breve assai sia la penisola nostra, pure vi ha qualche divario di temperatura tra le due coste e le terre centrali. Quelle per le sinuosità, dove più difficilmente si sperde il calore, sono men fredde delle seconde nel verno e men calde nella state, perché più aperte ai venti di mare. Gli é però che nell'interno dell'Istria si ia più sensibile e regolare la distinzione delle quattro stagioni. E tra le stesse due coste vi ha differenza, avendo l'orientale, battuta come é più presto dai venti freschi di N E, il periodo estivo più ristretto. Tutto ciò, che fu discorso dell'umido e del secco, del caldo e del freddo, porta alla conclusione, che il carattere stabile del nostro clima si é la instabilità, e che da questa, e non mai dalle false ipotesi di aria malsana, deve ricercarsi il principio di ogni giudizio intorno alla condizione sanitaria della provincia. IGIENE. Le febbri intermittenti, che travagliano parecchi luoghi dell'Istria, sono l'unico morbo, che possa qui dirsi endemico. Ma lungi dall'aver causa da alcuna infezione atmosferica, vien esso attribuito ormai da tutti gli esperti delle scienze mediche ai repentini mutamenti di temperatura, ai subiti passaggi dal caldo al freddo nel periodo di poche ore, specialmente nei mesi, in cui l'umidità predisponga i corpi a sentire più presto i perniciosi effetti. Gli è però che 1' autunno e la primavera, che sono le stagioni umide, si rendono ad un tempo anco le più fatali per le febbri. E se a quella d'autunno segua inverno asciutto, facilmente gli ammalati riprendono lena e guariscono. Ma ove continuino spessi i mutamenti di temperatura, e la primavera vada tri- So Dell' miitù naturale ste per pioggie più dirotte, il morbo ricomparisce più grave, e le recidive allora tanto maggior nocumento arrecano al già infievolito organismo. I fatti, che qui furono accertati, corrispondono perfettamente a quelli, di che in altri paesi di analoga condizione fu ampiamente discusso. Le grandi variazioni atmosferiche si trovarono da per tutto proprie ai paesi marittimi, e tra questi più ai lidi occidentali, e più ancora ai meno elevati. Così in Istria. La costa occidentale, che va propriamente da Salvore al Promontore, è la più soggetta all'insevire delle febbri. Per essa bastano le mutazioni ordinarie dell'atmosfera a produrle, duella invece volta a maestro, e più ancora l'orientale, non vi soggiacciono che coli'imperversare di straordinarie meteore. Mano mano poi che dalla costa si avanzi nell'interno della penisola, e in un medesimo più graduali si avvicendino i mutamenti atmosferici, anco le febbri intercorrenti smettono, e vi sono molti luoghi, che non le conoscono, costantemente salubri. Ma sugli stessi lidi più. esposti e più molestati dai venti occidentali, i quali rendono massima la differenza termometrica dall'ombra al sole, dal giorno alla notte, le città patiscono ben poco, sia perché gli aggregati edilìzi gli uni agli altri fanno schermo contro il diretto soffio dell'aria del mare, sia perché più civili sono i costumi, e quindi più nette le abitazioni, più diffusi gli accorgimenti preservativi, più pronte le mediche assistenze. Parenzo da più di un secolo e Pola da parecchi anni ci offrono l'esempio del quanto possa contro le febbri intermittenti il moltiplicarsi di buone case. La prima, deserta dalle pesti del secolo XVII, ne fu per anni oltremodo desolata. Ma rifattasi, migliorò così anco nei riguardi della pubblica salute, da potersi dire già da molto uno dei soggiorni più salubri della costa occidentale d'Istria. E cosi Pola, accresciuta ora di edifizì, vede farsi ognor più ristretto il numero degli ammalati di febbre e si avvia a sempre migliore condizione igienica. Ma quelli, che sono costretti ad abitare nel contado, in vicinanza al mare casolari isolati, raccogliendo spesso, e la famiglia e quant' altro hanno fra quattro pareti mal riparate e peggio in essere di pulitezza, gl'infelici, che mal si nutrono, che ad acque non sempre pure si dissetano, che di vesti disadatte si coprono, e che logorano la vita in aspri lavori sotto la sferza del sole, senza darsi pensiero del contrasto dell'ardore, che soffrono, cogli umidi venti occidentali, che freddano loro indosso il sudore, é ben naturale che più degli altri sottostieno all'endemia, non essendovi mutamento atmosferico, che non trovi tutto pronto ad esercitare su di essi ogni maligna influenza. Veggasi dunque quale missione abbia anche sotto questo riguardo in Istria la civiltà. Non si tratta già di aria miasmatica, a cui venga meno umano provvedimento; si di male occasionato, è vero, dalle vicissitudini atmosferiche, ma disposto e svolto da un vivere non ancora dirozzato o non peranco tolto intieramente a pulirsi. E chi proseguirà a dare indirizzo alle molteplici forze dell'incivilimento? Eorse l'ignoranza di qualche tribù slava, quella stessa, che più ha bisogno di soccorso ? 11 bene é in mano di chi lo comprende, della coltura, e questo privilegio, fonte di doveri, che sono diritti e di diritti, che sono doveri (passateci il gergo \ pazzo chi sogna di rapirlo. Fisso adunque lo sguardo in volto alla civiltà, svelto il piede, larga la mano. E a tela ordita Dio manda il filo! Intanto facciamoci ad alcun che di speciale, alla questione dei medici di condotta. Essi mancano affatto alla campagna. Ecco pertanto manifestarsi malattia anco d'indole grave, e questa trascurarsi, o peggio ancora inasprirsi dai bizzarri 6 suggerimenti delle donnicciuole del villaggio, perchè non è a mano il medico. Avviene quindi ben di frequente che gli ammalati lo chiamino dalla città o da qualche borgo maggiore a guarigione quasi disperata, se pure non preferiscano di dare l'ultimo crollo alla vita col recarvisi in persona, perfino a piedi, miserevoli a vedersi. K in ogni modo come ripetere ad intervalli adequati le visite degli infermi tli lontani villaggi; e per quanto generosi sieno i medici della città, come risarcirne per lo meno le spese di viaggio? Le più imperiose necessità vogliono adunque la institu-zionc di medici condotti, esposti pei villaggi d'ogni distretto nei più grossi comuni rurali. I tìsici distrettuali, sorveglianti governativi di pubblica igiene, e non sempre clinici pei privati bisogni della campagna del distretto, non possono certo rispondere allo scopo e se, come corre voce, verranno tolti, la pubblica amministrazione dovrà recarsi sempre più a coscenza l'obbligo di metter mano ad altro più efficace provvedimento. Né dovrebbe ella rimanersi estranea all'altra questione vitalissima dell'acqua potabile, povera com'è l'Istria di sorgive, e bisognevole quindi di ricorrere allo spedicnte delle cisterne, dove accogliere e depurare l'acqua piovana agli usi della vita. Colle proprie forze fanno già molto gl'Istriani: tanto lo spirito del progresso del secolo, anco senz' altri ajuti, valse ad inanimarli. Ma ben molto ancora resta a farsi, che gli abitanti di non pochi villaggi debbono recarsi tuttora a più ore di distanza, per attingere acqua non sempre buona, talvolta pessima, con che spegnere la sete e cuocere le vivande; e vi ha qualche luogo non povero di fortuna, dove (cosa orrenda a dirsi) si rinnova lo spettacolo degli schiavi di Babilonia, ai quali era in bocca il lamento: aquaiii nostrani pecunia bib'uuus. E che taluno tardi il bene, perchè il povero abbia a gettargli ancora nel pozzo qualche vile moneta, noi vogliamo credere, né lo crediamo. della Provìncia. »3 La cisterna, se scavata senza lusso di apparenze, non esige poi tale un dispendio, che possa sembrare troppo arduo all'associazione di più luoghi, tra cui ella avesse opportuna posizione centrale. Ed é questo spirito di associazione, che spetta alla classe colta di diffondere e di governare cosi, da francarlo, e dalle insidie dell'avarizia, e dalle imprese senza consiglio di chi neh'operare non misura quanto dal fare al dire sia che ire. Maturo n'é il tempo e il campo si presta a ricevere buona semente. N' è prova la necessità dovunque riconosciuta di condurre nuove strade, di congiungersi alle principali, di scendere al mare. E sia pur tenuto per fermo, che a questo si rannoda ogni idea di miglioramento. DELLE STRADE. Simile a corpo, in cui ristagni il sangue, é terra senza strade. Vecchia verità, ma sempre nuova per chi non si vede tra' piedi che 1' ombra del campanile. Ne sono di questi in Istria? No, la Dio mercé, e il poterlo dire é buon conforto a sperare il meglio. Pur troppo non sempre le più costose imprese si videro qui riuscire ai migliori risultamenti, non sempre le più utili furono prescelte, né avvenne che sempre fossero attenute le promesse, fosse posto il buon senno al governo dei lavori, avesse trovato coscienza la fede dell' Istria, che pagava. Ed ella fece molto, e si può dir tutto a proprie spese, sia per le strade provinciali, sia per quelle di distretto e di comune, in questo veramente splendida nella sua povertà. • Ma P errare insegna e il maestro si paga, né senza gravi sa-grifìzì si può arrivare ad un bene come quello delle strade, il quale abbia a rimanersi fondamento d'ogni morale e materiale prosperità per la provincia nostra. S'intreccino le vie di comunicazione in ogni miglior modo e quanto é più possibile, e le conquiste della civiltà si allargheranno, ella farà suo, nostro, quanto suo e nostro dev' essere, le occasioni, gli incentivi a più pingui vantaggi cresceranno, si avrà riconoscenza, lode, fidanza in casa e fuori. Né chi é in umore di fare il grave, spacciandosi per tirato al positivo, chiami queste parole che si dicono, poiché basta un girar d'occhi a vedere i fatti, li per picca dei contraddicenti. E riandando i tempi, la vita, che auguriamo all'Istria, ci viene veduta all'ombra del genio latino floridissima. Allora una rete di strade stendevasi dall'un capo all'altro, da mare a mare. Da Trieste, ch'era unita alla gran piazza di Aqui-leja, al bacino della Sava e al golfo Elanatico, scendeva la strada principale, passava per Tribano di Buje e, giunta al Quieto sotto Grisignana, piegava per Castellier fino a Pa-renzo, donde, montata alle alture di S. Martino e condotta presso alla punta Barbariga, bordeggiava la costa fino a Pola per poi uscirne a raggiungere Abbona, Moschenizzc, Piume. E le strade intermedie erano volte cosi alla gran via del mare, che tutta l'Istria le fosse fianco. Ma trascorsi i secoli di prosperità, il feudalismo paralizzò la provincia, e nei morti membri fu mestieri si dissolvessero in polvere anco le strade E il male sotto questo riguardo fu ben lungo. Quando l'Istria si trovò nel Regno d'Italia formato da Napoleone, poteva dirsi senza strade, tanto le poche, che si segnavano quasi da sé, fondandosi, inerpicandosi, cosi da farsi innanzi alla meglio, vagavano incerte, interrotte, senza scopo provinciale. Ai nostri tempi adunque il primo pensiero di una strada provinciale fu del governo italico. Ed ella fu condotta da Trieste per Zaule, Ospo, Covedo, Luchini, Socerga, Pin-guente, lambendo buon tratto dell'Istria superiore, poi per della Provìncia. 85 Tuttisanti, Grimalda, Novaco di Pisino e Pisino attraverso l'Istria media fino al centro della penisola e infine (più tardi sotto l'amministrazione illirico-francese) per Gimino, S. Vincenti, Digitano a Pola. Questa linea tagliava l'Istria pressoché a mezzo, cosi peraltro da tenersi alquanto più ad est, specialmente da Pinguente a Pisino, dove affaticavasi su per monti affannosi, arduo passaggio ad ogni men leggiero trasporto. Fatto era il primo passo, né il tempo lasciava posare. Fu quindi applicato l'animo ad altra linea, che meno si discostasse dalla via del mare: e sotto il governo austriaco la strada provinciale prese altro cammino più ad occidente nel suo tronco superiore fino a Pisino, fermo l'altro da questo luogo a Pola. A piccolissima distanza da Capodistria presso S. Michele, fu tolta giù dalla strada, che congiunge quella città a Trieste, e per S. Antonio e Gradigna fatta salire a Portole, scendere alla valle di Montona e quindi per questa città, per Novaco di Montona e per Vermo riuscire allo stesso centro di Pisino. Fu detta di Montona, a differenza della prima chiamata di Pinguente. Ma di nuovo prevalendo l'idea di farsi più presso al mare con altra linea ugualmente almeno fino a Pisino, dal ponte di S. Nazario, a pochi passi da Capodistria, si fece andare con varie ritorte la strada provinciale per Gazone alla Dra-gogna e avanti per Castelvenere e Buje al Quieto sotto Grisignana; e quivi il pensiero di proseguire il cammino più dappresso alla costa anco nell'Istria inferiore avanza e dà addietro, tanto é il torcere, che fa la via, spinta da prima per Visinada al monte Tizzano, dalle radici di questo fin oltre Caroiba sotto Montona, per raggiungere l'altra linea provinciale di Novaco e Vermo. Questa é al presente la postale, mutata tre volte al di sopra di Pisino, nodo di ogni progetto, e sempre la stessa 8é Dell' unità mil urtile invece al di sotto, con ciò solo che ne fu staccato un ramo da GiminO, centro dell' Istria inferiore, il quale si protende per Canfanaro fino a Rovigno. Si tornò bensi al piano di spingere la via provinciale oltre Tizzano diritta per Mon-paderno e S. Lorenzo a Valle, sulla strada, che va da Rovigno a Digitano, e quindi a Pola. Ma condotta con grande spesa a S. Lorenzo del Pasinatico fu lasciata lì, strada cieca, che aspetta da molto le venga a dar luce il buon senso comune. Questo e gli altri tronchi di Montona e di Pingucnte, abbandonati dalla manutenzione erariale, restarono strade distrettuali, vale a dire da conservarsi dai singoli distretti, che percorrono; che l'ultima soltanto delle tre provinciali o postali, che si vogliano dire, viene ora dall'Erario tenuta in governo. Presentemente poi lo Stato prese a condurvi la posta altra strada ancora apertasi attraverso la sezione orientale della penisola. Ella va da Pisino a Fia-nona, ch'era si triste nella sua solitudine, ed è quasi fune (diasi passata all'immagine) gittata agli abitanti di quell'ultima sponda italiana per toglierli ai fiotti del Quarnaro. Dove poi P aspro piede del Caldera si porge in mare, la stessa via fa volta e corre su per costa a prendere Mosche-nizza, Lovrana, Volosca, la strada di Fiume. Né questa é la sola via, che metta P Istria in comunicazione coli'intimo seno della I.iburnia, che antica strada della Contea si parte da Pisino, volta a greco, e su per Vragna, valicato il Monte Maggiore, a quella regione si cala. Fu l'unica, fino a questi ultimi anni, che siasi lavorata a spese dell'Erario. Havvene ora una seconda. Al di là della Vena presso a Divaccia esce ella dal fianco della strada ferrata di Trieste e, preso perciò il nome di commerciale, si viene a noi per Rodic, Cernical, Covedo fino a Galanti, sulla prima strada provinciale, quasi a mezzo la distanza fra Capodi-stria e Pingucnte. Ivi tra il continuarsi su di questa o il correre diritta ad infilare poc' oltre la seconda strada provinciale, si arrestò in forse. Vuoisi ora deciso il primo partito, e con esso stabilito il ritorno alla prima strada provinciale, la quale dovrà essere postale e commerciale ad un tempo da Cerni-cal in giù; più su propriamente commerciale nel suo tragittarsi a Divaccia, specialmente postale invece nel giro, che ha già fatto per ismontare al Risano ed accostarsi a Capo-distria, anziché riprendere il passo per la Noghera. E scopo provinciale, scopo commerciale, fu detto avesse pure l'altra strada aperta a congiungere Pinguente per Vodize a Obrou sulla strada, che va da Trieste a Piume ad oriente di Divaccia. Predicevano strette di mano, baci, abbracciamenti fra l'Istria e la Carniola. Non ne fu nulla, e s'incolpò il vino, che marci sulle viti. Ora neanche questo, niente, la strada deserta. Ma torniamo alla recentissima, postale e commerciale. C'è da lanciarsi ad abbajarc alle ruote della posta? Non ringhiamo per cosi poco. Vedrà il commercio risurrezioni? Comunque; una strada verrà ricostruita, corretta, per lungo tratto dell'Istria interna più bisognevole di soccorso, ed ecco buono in mano, se non a ciò che altri si creda, per quello vogliam noi. 11 male si fu da principio nel mettere il primo scaglione in alto, quando più sotto non vi era alzata. Lo stesso ingegno poi pel secondo scaglione, sempre dall'alto al basso, quasi non convenisse prima salire, perchè si discendesse e non fosse officio della coltura, spedita della persona, lo ascendere a sdormentire la raggricchiata selvatichezza. Si venne alla terza pedata, si andò innanzi quasi a mezzo del cammino, si tornò addietro, si tornò ad avanzare, si fe'punto, quando il sagriiicio maggiore era già fatto e si correva alla meta. Ma era troppo anche cosi, la scala andava formandosi in senso inverso, non bene, ma si da potersi in qualche modo fare e rifare. Ed ora? Ora anche il malfatto ó fatto, c meglio cosa fatta che cento da fare, dice il proverbio. Si conservi, si migliori ciò, che si ha, si compia ciò, che va compiuto, e la provincia avrà di che avvantaggiarsi. Intanto proseguiamo a costringere la mente tra le linee delle strade nostre, passando da quelle, ch'ebbero scopo provinciale alle altre più notevoli, e in uno alle vicendevoli loro connessioni ed avviamenti a migliore intreccio. Abbiamo già detto che l'Istria va distinta dalla stessa natura in tre regioni, la superiore, la media, l'inferiore. Ora al lembo settentrionale di ciascuna di esse vediamo formata o presso a formarsi dall'un capo all'altro strada continua. L'Istria superiore è fiancheggiata da quella già detta, che si muove da Trieste a Fiume. Fra la superiore e la media, prima il nuovo tronco fino a Galanti o la via di Capodistria per S. Antonio prolungata fino a questo luogo medesimo; quindi la prima strada provinciale, che va a Pinguente. Da questa città poi vi è battuta per Rozzo e Lupoglavo fino a Vragna e merita di essere presa in grande considerazione pegli opportuni lavori, attaccandosi ella alla via del Monte Maggiore cosi che viene a formare senza interruzione alcuna la linea più breve e più comoda, che possa tracciarsi dalle coste dell'Istria media a quelle di Fiume. L'Istria inferiore ha strada già compiuta per tutto il suo fianco settentrionale. Pirano infatti si congiunge con Buje per mezzo della distrettale, e da questa città la terza provinciale corre fino a Pisino, dove passa direttamente in quella, che giunge Fianona. Ciò delle strade, che si succedono parallele, e orizzontali all'inclinazione da greco a libeccio della provincia. Prendendo poi a considerarle pel lungo della penisola, se ne presentano cinque, tra cui una già quasi a termine, le altre non ancora, divergenti tutte inverso settentrione per attaccarsi a lunga linea da Duino a Fiume, convergenti invece a meriggio per far capo a Dignano, e di là, unite in una, prolungarsi fino a Pola. La prima linea più davvicino al mare di Venezia é la più spezzata, quantunque apparisca del maggior momento a congiungere porto con porto della costa, e sia scolpita dalla natura a veicolo tra P Istria e il basso Friuli. Da Duino a Trieste, a Capodistria non interrotta, sta ora inoltrandosi lungo spiaggia franosa ad arrivar Isola, e continuarsi sulla via, che va da questa città a Pirano. Utilissima per Capodistria e Pirano, essenziale per Isola. L'altra strada, che da Pirano si dirige a Buje per la valle di Siciole, può dirsi costiera fino a questa, non più oltre, quantunque per la ottima via di Verteneglio vada a riguadagnare il mare a Cittanova. Savio consiglio adunque, se quella in vista al Porto Rose si portasse con un ramo per la Madonna del Carse a Umago, e di là scendesse per S. Lorenzo di Daila e Daila al gran porto del Quieto. Dicesi che una strada verrà dallo Stato aperta di fianco alla foresta di Montona lungo la destra sponda del Quieto fino all'ultimo corno di quel seno di mare. Sarà allora migliore opportunità, partiti per questa da Cittanova, di passare il Quieto più su, e tra i villaggi di Torre, di Fratta, di Abrega, di toccare il porto Cervere, e colla via della Valle di S. Martino a brevissima andata di entrare in Parenzo. E Parenzo e Orsera sono già unite. Ma ecco frapporsi il canale di Leme. Il passo non è facile, ma non é da lasciarsi cadere l'animo. E che infatti S. Lorenzo si rimarrà sempre lassù? Troppi interessi si premeno in quel ronco senza riuscita, da non isfondarlo, e certo non andrà molto che si verrà giù al chiudersi del Leme per passare a Valle. Quivi la linea cade a perpendicolo ed e parallela alla via da Parenzo ad Orsera. Come dunque dall'una all'altra estremità meridionale delle due strade al Lcme, non si metterà per cosi dire da sé una traversale, se poco più oltre il canale, si va quinci a Gimmo e quindi a Rovigno, e di più si procederà diritti per Valle a Pola? La zona infine, che da Rovigno a quest'ultima città si mette di mezzo fra la strada loro e il mare è si stretta, che non potrà non farsi più costale, spiccando mano mano, dove meglio, tragitti alla costa. Cosi già fece da Dignano a Fa-sana, e cosi volevasi facesse da Valle a questo porto medesimo, dove animato commercio di legna ha scalo. Così, presa pur cura di Medolino, andrebbe a compiersi per la lunghezza della provincia la prima linea. La seconda, eh'è una colla prima fino a Capodistria, va sulla terza provinciale lino a Tizzano e recasi a S. Lorenzo su quella, che dovea essere la quarta, e che quinta o sesta, provinciale o non provinciale, a Valle, a Pola andrà. La terza comincia colla commerciale, in viaggio sui monti e da Galanti vuol dar la mano a Gradigna, per correre colla seconda provinciale fino a Pola. La quarta ha prima la strada da Obrou a Pingucnte, essa pure presentatasi col nome di commerciale in viaggio, ma che sembra abbia finito di viaggiare; prende poi la prima provinciale, e con essa se ne va fino a Novaco di Pisi ho, destinata a dirizzarsi un giorno, che affrettiamo col desiderio, a Galignana e a Pcdcna, e quindi ad attraversare, piegata a mezzogiorno, il paese più morto dell' Istria lino a Rarbana, là dove ritorna la vita, e si farà maggiore mercé la strada proposta a condursi per questo luogo da Albona a Dignano. L'abbandono di una buona sesta parte dell'Istria degna di miglior sorte, come già altra volta lo fu, le speranze di quella costa disertata per cosi dire d'ogni conforto, fuorché dall'onore e dal coraggio de'suoi marinai, reclamano (e la civiltà di Albona e di Dignano vi sta presso a guarentigia) questa via di comunicazione, la quale sarà poi invito all' altra, che dicemmo, appiglio alle trasversali dal mare, nonché parte vitalissima della quinta linea. La quale infatti, sulla strada del Monte Maggiore fino a Passo, lascia la direzione verso Pisino per mettersi a Chersano, correndo via da aversi ben cara; e di là e poi da Vosilla riesce ad Albona, a cui per lo stesso tronco vien pur l'altra dalla costa liburnica. Toccato cosi di ciò, ch'é o dovrebbe essere delle strade sia per lo lungo della provincia, sia nel senso del suo adagiamento, prendiamo ad avvistar quelle, che la percorrono nella sua larghezza, o tornerebbe utile la percorressero dall'una all'altra costa nell'Istria inferiore, dal mare alla cinta montana più sopra. Di presente non havvene ancora alcuna, che compia suo uffizio. Ma si spera fra non molto di possederla, e propriamente per mezzo all' Istria. È già da qualche anno infatti che fu progettata una strada da Parenzo a Pisino per linea diritta, al bivio colà dalle due strade, che vanno P una al Monte Maggiore, l'altra a Pianona. Ella pertanto al privilegio di essere la più centrale aggiungerebbe quello di servire ad un tempo al doppio scopo di condurre e dall'una all'altra costa e dal mare ai monti. N'é dunque ben troppo grave l'interesse, perchè piccole differenze di ondeggiamento a toccare questo o quel luogo, abbiano ad indugiarla. A settentrione di questa linea dopo i tronchi notevoli di Villanova e Visignano e di S. Domenica, che menano da Parenzo alla strada provinciale, altra dal mare ai monti si presenta non meno naturale che vitalissima. Eu già detto della strada in voce da Cittanova al ponte sul Quieto sotto Grisignana. Così, secondato questo cammino, suggerito dal fiume, s'imbocca la strada della valle di Montona, e per quella dei bagni di S. Stefano si approda Pinguente. Da un canto la posizione importante che, va ad occupare questa città al confluire delle vie dai monti, sulla quarta linea longitudinale e a mezzo la discorsa strada fra il golfo di Trieste e quello di Fiume; e dall'altro ubertose vallate, boschi, le sorti del porto Quieto additano alla provincia questa linea come voluta da vantaggi di gran prezzo : linea, su cui inoltre per la strada provinciale e per la comunale di Grisi-gnana scendono da Buje le altre due di Umago e di Pirano. Ancora più su poi è Sterna, che accenna ad altra strada trasversale. Ella infatti, a non lunga distanza dalla stessa Pinguente, e in comunicazione con Umago per Buje, e con Pisino, quantunque non direttamente ancora, per Mondano e pel nuovo tronco da Valcastelvenere a Valsiciole, mostra breve il tratto a conseguire un nuovo pegno di unione tra l'Istria montana e la costiera. Ora a recare lo sguardo sui paesi, che stanno a meriggio della detta linea centrale, non e mestieri avvertire che la strada progettata da Digitano ad Albona, servirà pure, colle sue propaggini di Fasana e di Pola da una parte e di Albona dall'altra, a congiungerc il mare di Venezia col Quar-nero. E tra questa e la centrale medesima la postale, che va da Rovigno a Gimino, angolata solo ad occidente dalla provinciale, aspira ad esserlo pure ad oriente, spinta per cosi dire dallo stesso suo andamento a farsi su quella linea, che porta i nomi di Galignana, di Pedena, di Chersano, di Pianona. E come ora da Canfanaro, quinci per S. Pietro in Selve e quindi per S. Vincenti, vi ha buona strada a far base ai due triangoli N O e S O di Gimino, sì che or dianzi vi attirò per qualche tempo la posta, vi ha ragione a sperare ne verrà imitato l'esempio anco sull'altra convergenza di linee ad oriente, per que' luoghi, che non furono certo condannati a rimanersi da meno degli altri. Molte cose ancora del già fatto e più assai del da farsi resterebbero a dirsi, ma diramandosi esse dall'idea complessa della provincia, più specialmente si appartengono alla vita dei distretti, i quali man mano ci richiameranno negli anni appresso a speciali ragionamenti. Aggiungeremo per altro che se l'Istria paga e strade provinciali e distrettuali e comunali, dovrebbe avere un centro di comune indirizzo, da cui le venisse miglior sicurezza di spendere con profitto. La Società Agraria d'Incoraggiamento, l'istituzione della quale ci vien detto maturarsi ora da buoni ingegni, a cui l'amor di patria é stimolo, ben sarebbe da tanto. Ella infatti ad esaminare i bisogni, farli comprendere, valere, interporsi mediatrice, associare gli animi, vigilare all'eseguimento dei formati progetti e intendere altresì alla partizione e alla qualità dei contributi; imperocché alle addizionali sull'imposta diretta potrebbonsi, non solo per le strade comunali, ma anco per le distrettuali, sostituire riguardo a questo o a quello meno in essere di fortune, le prestazioni di lavoro. Le vie di comunicazione si moltiplicano dovunque, e il miracolo del vapore toglie le distanze. Da Trieste parte la strada ferrata per Vienna, e un ramo ne andrà a congiungersi con quella del Friuli, a Casarsa. La via del mare, a cui l'Istria é chiamata, ci* sta di mezzo, e come dall'una all'altra sponda ci salutiamo, dall'una all'altra dobbiamo animarci a progredire. Il ristarsi per noi sarebbe l'isolamento, la povertà. Produrre viemmeglio e aprire quanto più di vie alle produzioni, e non vi avrà timore di gelosia verso terra sorella I mercati comuni dividono gl'infingardi, gli operosi invece ognor più affratellano: e gl'Istriani, di spiriti alacri alla fatica, si mostreranno sempre quai sono, e non quai li dipingono, per ignorare o per far che s'ignori, i falsatori de'loro intendimenti. NOTIZIE STORICHE INTORNO ALLE SALINE DELL'ISTRIA (Dalla Porta Orientale, 1858) La fabbricazione del sale in Istria rimonta a tempi antichi. Ella ne faceva traffico prima ancora del veneto dominio, e quando passò sotto di questo, fu lasciata libera di continuarlo senza restrizione alcuna, la decima all'infuori, che andava alla città. Vendevasi il prezioso prodotto, oltre che in provincia, a Venezia, nel Friuli; ed anco alle genti della Carniola, della Carinzia e della Stiria. E la repubblica patrocinò l'industria con ogni studio, ed anzi quando vide che il sale di Trieste faceva concorrenza a quello delle altre fabbriche istriane, prese perfino le armi ed impose a quella città condizioni restrittive del suo commercio. Fu allora che Capodistria, per dimostrarsi grata a si energica protezione, decretò si assegnasse al doge la decima dei sali e i dazi tutti. Ma a quest'epoca di prosperità per le saline dell'Istria segui altra di decadenza, che l'Austria, fatto suo il sale di Trieste, e di regio diritto l'altro, che le veniva dal regno delle due Sicilie, assoggettò quello d'Istria a grave balzello. Cosi ne fu di molto scemato lo smercio, e il prodotto impoveri. Venezia allora si appigliò ad estremo partito. Ordinò nel 1721 si acquistassero per conto della repubblica tutti i sali fatti e da farsi, non se ne potesse produrre maggior quantità di quella, che essa d'anno in anno avrebbe stabilito, secondo i bisogni dello Stato, e fosse proibita la costruzione di nuove saline. Comandava poi ad un tempo, si ponesse ogni cura a migliorar quelle che erano in lavoro, si perfezionasse la fabbricazione del sale, e questa si prendesse a tema di studi, insegnasse apposita commissione di periti in arte. Voleva insomma vincere colla bontà del prodotto. Ma i proprietari si tolsero giù d'animo e anneghittirono, avvegnaché troppo mal rispondente al guadagno fosse la spesa. Fu quindi costretta la repubblica a ridonare, non solo le antiche franchigie alle saline d'Istria, ma a persuadere altresì, se ne fabbricassero di nuove. E tali disposizioni furono accompagnate da generose prestanze. Ma quando appunto cosi risorgeva l'industria, la presidenza economica del ducato di Milano si tolse da ogni obbligo con Venezia per l'acquisto dei sali d'Istria, di cui le venivano tardate le spedizioni. Quindi nuova decadenza e nuovi limiti alla produzione. E fu in quegli anni che le saline dell'Istria passarono prima all'Austria (1797), poi al Regno d'Italia (1805). L'Austria tolse la limitazione e, facendo ella pure del sale sua privativa, alzò il prezzo, a cui lo avrebbe acquistato dai proprietari. 11 governo poi del Regno d'Italia lo portò più alto ancora, né risparmiò sovvenzioni. Ma di ciò e dei tempi appresso, nelle osservazioni qui sotto intorno a ciascuno degli stabilimenti saliferi dell'Istria. DELLE SALINE DI MUGGIA. Lo stabilimento delle saline di Muggia si restò sempre addietro a quelli di Pirano e di Capodistria. 96 Notixje Storiche Nel decennio, che si compiva col 1806, esso non contava più di 440 cavedini in lavoro, e questi davano l'annuo prodotto di 3390 ccntinaja di sale. Seguì tempo migliore, che ai torrenti Rcbujcsc e Reca fu detcrminato il corso, mercé i molti lavori fattivi eseguire dal governo italico c dagli stessi proprietari delle saline per sottrar queste ai rovinosi allagamenti. E a ciò si aggiunse la generosità dello stesso governo, il quale fu largo di sovvenzioni ai proprietari, perché rifacessero i fondi disertati e quelli già in lavoro ristaurassero. Hrano questi miglioramenti di grande importanza, e tanto più adunque veniva opportuno allo stabilimento il considerevole accrescimento di prezzo accordato al sale dal pubblico erario. Siffatti provvedimenti non ebbero tutto l'effetto, a cui valevano, ma fruttarono e fruttarono bene. Cosi le saline di Muggia presentavano nel quinquennio 1818-1822, 907 cavedini in buona coltura con un prodotto annuale di 11878 centinaja di sale. Ma il progresso fu tardato nel 1824 da quella legge amministrativa, per la quale veniva tolta alle saline dell' Istria la facoltà di fabbricare quanto sale potessero: facoltà che avevano goduta dal 1797 in poi, e ch'era stimolo a farsi innanzi sulla via dei miglioramenti. In sua vece venne ordinata nel 1842 una limitazione, vale a dire fu posto il divieto di far sale in quantità maggiore alla prefissa dal governo, la quale era stata calcolata sul medio prodotto del detto quinquennio 1818-1822. Dietro ciò, se le saline di Pirano e di Capodistria poterono raggiungere il 1842, nel quale sulla base dell'area fu stabilita la limitazione meno stringente, che tuttora sussiste, sempre variabile d'anno in anno, secondo i bisogni dello dello Stato, non furono in grado di fare altrettanto le saline di Muggia, i proprietari delle quali erano ancora sbi- lanciati dalle gravi spese date ai restauri. La legge del 1824 fu quindi per esse mortale: avvenimento tanto più deplorabile che allora appunto cominciavano a consolidarsi i fondi e allora vedevasi di giorno in giorno meglio avviato a perfezionarsi il lavoro; si che già non più le sole donne, come per l'addietro, ma molti uomini ancora si adoperavano con impegno alla fabbricazione del sale. I proprietari, che a stento potevano far fronte agli ordinar] dispendi, visto il poverissimo frutto, che andavano a percepire dai capitali impiegati, caddero d'animo. Né minore si fu 1' avvilimento degli operai, che si trovarono scemato il lavoro, assottigliata la mercede. In breve adunque ogni cosa andò a disordine. Non passava anno senza che l'uno 0 l'altro dei proprietari abbandonasse qualche fondamento. E di ciò, che si continuava a coltivare, davasi nuovamente il governo alle sole donne, le quali, se non vi erano atte per lo passato, tanto meno allora potevano esserlo col più di estensione, che i fondi saliferi avevano guadagnato. Si trascorse quindi di male in peggio fino a non aversi nel quinquennio 1823-27 altra rendita dal cavedino che di 6 centinaja, quando pochi anni prima ella passava le 13. Pei proprietarj tutti poi l'introito di miseri fiorini 569. In si dolorosa condizione di cose venne in mente al governo di sopprimere nel 1829 le saline di Muggia, indottovi e dal poco sale, che ne cavava, e dal molto danaro, che vi spendeva per vigilare uno stabilimento, il quale, cinto a brevissimo andare da campagne, si prestava facile assai al contrabbando. I proprietarj ebbero in compenso una somma di denaro conteggiata sulla metà domenicale del reddito netto di sette anni, alla media dell'ultimo decennio. Di più furono loro rimessi i debiti, che avevano verso l'erario per sovvenzioni ricevute dalla Repubblica, dal Regno d'Italia e dall'Austria : debiti, che vuoisi sorpassassero il valore di allora di tutte quelle saline. I fondi furono lasciati a libera disposizione dei proprietari, e fu loro suggerito se ne vantaggiassero per l'agricoltura. Ma le fortune non erano da tanto. E vasto terreno paludoso restò per lunghi anni non più che scomposto avanzo e triste memoria della soppressa industria. Ora per altro non è cosi; che il sig. Tonello, proprietario di un cantiere sulla riva di Muggì a c di campagna limitrofa alle antiche saline, ne acquistò i fondi e merita lode per l'ado-prarsi, che fa a ridurli a peschiere, a prati, a campagne. DELLE SALINE DI ZAULE E SERVOLA. Di queste, spettanti al territorio di Trieste, non fa parola il Rapporto, perché nel iai confini dell' Istria, vale a dire a Sestiana, cosi che per le continue comunicazioni tra il campo e il deposito delle vettovaglie venne in breve a formarsi un vero emporio. Il console die subito opera a disporre l'opportuno per la difesa e per l'assalto. Ora seguiremo Livio a narrare l'avvenuta battaglia. A custodia del campo romano furono appostate guardie eia tutte le parti. Per dominare poi la via dell'Istria fu collocata una compagnia di Piacentini. Più verso il mare vennero loro aggiunti due manipoli della seconda legione, circa quattrocento uomini. La terza legione era stata condotta sulla via, che va ad Aquileja, perchè servisse di scorta ai forag-giatori. Dalla stessa parte, forse a mille passi, era il campo dei Galli, in numero di tremila o pochi più, comandati da Carmelo, luogotenente del re loro. Agli Istri infatti si era collegato un corpo di Galli, alleati di mala fede, poiché non, solo non presero parte alla pugna, ma dimostrarono di volersene stare col vincitore. GÌ' Istriani erano condotti da Lpulo, loro capo, detto redolo dai Romani con termine di sprezzo. Come videro il campo nemico muoversi al lago del Timavo, si trassero dietro di un colle in luogo nascosto. Ma poi per vie traverse, vigili a cogliere il destro d'ogni accidente, seguitarono di fianco l'esercito romano. Tutto che si facesse per mare e per terra era loro noto, e poiché scorsero deboli le guardie del campo e senza difesa la turba dei mercatanti,, che popolavano le vie tra il mare e gli alloggiamenti, presero il partito di dar primi 1' assalto e furono addosso a due appostamenti romani, l'uno della coorte piacentina e l'altro della seconda legione. Celati da fitta nebbia s'avanzarono, e quando il sole cominciò a diradarla, il non certo chiarore fe' apparire ai Romani maggior che non fosse il numero degl' Istri. Le guardie allora, ritrattesi nel campo spaventate, vi portarono lo scompiglio, credendosi i nemici già dentro agli steccati. Al grido: ^4lla marina alla marina! tutti, come se ciò facessero comandati, e i più inermi, si gettarono a precipitosa fuga alla volta del mare. Lo stesso console, adoperatosi indarno a rattenerli, dovette fuggire. Il solo Marco Licinio Strabone, tribuno della terza legione, osò far fronte con tre manipoli alle irrompenti schiere degl'Istri. Aspra fu la zuffa, né prima ebbe fine che il tribuno e tutti i suoi fossero uccisi. GÌ'Istri, avuto cosi il campo romano, e trovandovi copia grandissima d'ogni maniera di cibi e tli vini, furono tutti alla gozzoviglia, dimentichi dei nemici c della guerra. I Romani intanto, affollatisi intorno alle navi per avervi salvamento, si trovavano esposti al maggior pericolo. Tra i militi e i marinai si venne alle mani con molte ferite e morti. Volevano gli uni ricoverare sulle navi, e temendo gli altri non si empissero quelle di soverchio, contrastavano loro l'imbarco. Finalmente, per comando del console, l'armata si allontanò dalla riva e si cominciò a raccogliere la truppa. Ma di tanta moltitudine non più di mille e duecento si trovarono in armi, e quasi tutti gli equiti senza cavalli. Manlio rianimò i soldati, mostrando quanto facile dovesse riuscire la vittoria, ove i nemici venissero tosto con impeto assaliti, mentre erano solo a predare intenti ed assonnati, e quanto importasse ai Romani il levarsi dal volto la vergogna di una tanta sconfìtta. Richiamò la terza legione ed ordinò che, scaricati i cavalli somieri, sovra ciascuno di essi montassero due soldati più gravi d'armi, e che tutti gli altri cavalieri prendessero in groppa un giovane soldato. Fattosi questo con la maggior fretta, il campo occupato dagli Istri fu invaso, e ne seguitò non già pugna, ma strage Ben ottomila degli Istri immersi ancora nel sonno, vi rimasero trucidati. Gli altri fuggirono, e tra questi lo stesso Epulo. I Romani non condussero alcun prigioniero e non perdettero, al dire di Livio, che duecento soldati. A fronte di tutto questo la vittoria di Manlio non fu certo decisiva, poiché invece d'inseguire il nemico, si tenne nel campo sulle difese sino all'arrivo dell'altro console M. Giunio. Questi, sparsasi la voce in Roma che tutto l'esercito fosse perito, aveva avuto 1' ordine di recarsi nella Gallia per levarvi quanti più soldati potesse e di correre in soccorso di Manlio. Di più furono decretate leve straordinarie, e si formarono in Roma due legioni cittadine. I latini dovevano prestare 10,000 fanti e 500 cavalli; e si ordinò al pretore F. Claudio di racco- gliera in Pisa la quarta legione, 500 soci e 250 cavalli. Si intimarono inline tre giorni di preghiere. — M. Giunio, arrivato al campo, e accertatosi che l'esercito era salvo, scrisse hensi a Roma in modo da tranquillare gli animi, ma visto che gl'istri stavano in gran numero accampati non lungi dal 'I'imavo, nulla intraprese contro di cs^i e ritirò le legioni a vernare in Aquileja. Anche gl'istri ritornarono alle città loro, e cosi ebbe termine la campagna del 197 a. C. OCCUPAZIONI-: dell'ISTRIA. — CAMPAGNA del 178 A. C L'anno seguente si raccolser o in Roma i comizi per eleggere i magistrati. Si cominciò a trattare con grande veemenza l'argomento della guerra istriana ; poiché da un canto n'era provata la molta importanza da L. Minucio, legato di Manlio, e dall'altro la sconfitta toccata dalle legioni d'Aquileja aveva tutti gli animi accesi d'ira. I più accusavano di ogni sciagura l'ambizione e la stoltezza di Manlio, il quale aveva osato maneggiare una guerra arrischiata di proprio capo, senza punto curare l'autorità del Senato. Marco Giunio, ch'era tornato a Roma per la nomina dei magistrati, accresceva lo sdegno del popolo, mostrando piena ignoranza delle cose istriane, ed anzi prendendone argomento a schermirsi dalle inchieste dei tribuni della plebe, Papirio e Licinio, i quali avrebbero voluto venisse Aulo Manlio tra loro a rendere ragione di sua inesperienza, fra questo l'elezione a consoli cadde sopra C. Claudio Palerò e T. Sempronio Gracco. Fatti i sacrifizi e le supplicazioni, i consoli sortirono le provincie. A Sempronio Gracco toccò la Sardegna, e a Claudio Pillerò l'Istria. Cosi per quella, come per questa fu stabilito lo stesso numero di soldati, cioè due legioni di 5200 fanti l'ima, con trecento cavalli, aggiuntivi 12,000 soci latini con 600 cavalli e 10 quinqueremi. Mentre tali cose passavano in Roma, M. Giunio, reduce dal campo, ed A. Manlio, in qualità di proconsoli, entrarono al principio della primavera i confini dell' Istria GÌ' Istri, soperchiati dalla preponderanza dei due eserciti, indietreggiarono, poco fidenti delle proprie forze; e i Romani ponendo ogni cosa a sacco, avanzarono nell'interno del paese fin sotto la città di Nesazio K Altri invece, per essere qui mancante il testo di Livio, e vedendo l'esercito romano presso ad una città marittima, vorrebbero che Giunio e Manlio avessero mutato il piano di guerra, ed anziché assalire gì'Istri a settentrione dalla parte del Timavo, come l'anno antecedente, si fossero portati sulle navi alla parte opposta dell' Istria. Questo non é possibile, poiché, fatta eccezione degl'imbarazzi molti nei trasporti marittimi, tornava meglio ai Romani pugnare in terra aperta, come si é quella presso le foci dell'Arsa, che tra i gioghi difficili, che si aggruppano alle frontiere superiori dell'Istria. Ma Livio, esattissimo scrittore e talvolta perfino minuzioso, ove ciò fosse proprio avvenuto, non sa-rebbesi limitato a dire, che i consoli, svernato in Aquileja, condussero nell'Istria l'esercito. Da queste parole si fa aperto 1 Ignorasi il luogo preciso, ove sorgesse Nesazio. Lo stesso Carli confessò di non saperlo (Lib. IV, cap. 4, P. I) Mauzioli vuole Nesazio presso Capodistria sul monte Serniino. Ma in appoggio di questa sua opinione piuttosto strana, non porta altro argomento che una vecchia carta geografica, cui egli medesimo non tiene meritevole di credenza. Pietro Coppo pretende che Nesazio fosse alla punta Cisana nel Polensc-Ma alla punta Cisana non v' ha traccia di fiume ; e di un fiume appunto, scorrente presso la citta, parla la storia di Livio. L'abate Giuseppe Berilli, cadendo nella stessa dimenticanza, la pone al Promontorc. Mons. Tommasini la immagina senza alcun fondamento presso il Quieto. Il Cluvcrio finalmente la vuole presso Castelnuovo alla estremità del canale marittimo dell'Arsa. Il parere del canonico Stancovich su tale proposito ò per cosi dire quello del Cluvcrio, poiché dietro alcuni scavi, fatti nel luogo detto del Molino di Scanipicchio, poco lungi da Castelnuovo d'Arsa, s'indusse a ritenere, che quello fosse il vero sito dell' antica Nesazio. Le opinioni del Cluvirio e dello Stancovich si accordano con quanto disse Plinio al Lib. Ili, cap. XIX: Parendo, la colonia di Pola..., di poi la città di Nesazio, e il fiume Aria, ora confine d'Il.i.'i'.i. Cnil pure Tolomeo al lib. III. cap. I: Parendo, Pola, Nesazio, fine d'Italia. che il piano d'attacco non ebbe cangiamento. GÌ'Istri, oppressi da due eserciti, lasciarono libero ai Romani il procedere fin sotto le mura di Nesazio, e questo è in relazione coi vasti depredamenti, di che lo stesso Livio tiene parola. Ritiratisi entro le foreste a levante, in tanto pericolo di totale rovina, raccolsero a tumulto un esercito di tutta la gioventù atta all'armi. Si venne a battaglia. GÌ'Istri da prima combatterono con maggior valore e costanza ; ma incalzati dalle schiere ordinate dei Romani, piegarono e sgominati presero la fuga. Ben quattromila ne restarono sul campo. I fuggitivi si ridussero nella città; poi domandarono la pace e diedero gli ostaggi. — All'annunzio in Roma di si rapidi progressi, il console C. Claudio, per invidia dei proconsoli e dubitando non gli sfuggisse l'occasione di un trionfo, che ormai facilissimo appariva, parti in tutta fretta da Roma e per rompere ogni indugio, senza prima soddisfare alle solennità dei soliti sacrifizi e senza i littori paludati. In Aqui-leja s'imbarcò per l'Istria. Giunto al campo, mostrò la stessa leggerezza, con cui si era tolto da Roma. Radunato il parlamento, usò violenti parole, trattò Manlio da vile, a Giunio rinfacciò l'essersi fatto collega del primo nell'infamia, e all'uno e all'altro, minacciandoli perfino di catene, fé comando di sgombrare la provincia. Tutto questo molto irritò i soldati, imperocché i rimproveri ricadevano sopra di essi, i quali, spregiando e i comandi e le preghiere di Manlio, aveano preso la fuga. Si rifiutarono tutti all'obbedienza, protestando ignorare l'esercito chi C. Claudio si fosse, scappato ch'egli era da Roma, senza offrire i solenni voti in Campidoglio e senza paludamento, né voler quindi riconoscere altra dipendenza, se non da Giunio e Manlio. Alle proteste seguirono gli scherni, e Claudio dovè partirsene nuovamente per Roma. Il suo viaggio fu sì veloce, che vi arrivò quasi ad una con le sue lettere. Non im- piegò più che tre di a compiere le dovute cerimonie, e con la stessa celerità se ne tornò in Istria. Giunio e Manlio avevano intanto rotto ogni accordo coli'inimico e dato opera ad espugnare la città di Nesazio, in cui s'erano riparati i capi istriani. Claudio, sospese tosto ogni lavoro, ed arrivate le due legioni, che per lui erano state coscritte, rimandò il vecchio esercito. Si cominciò a combattere la città con macchine di guerra. Narrasi pure, aver Claudio deviato il corso del fiume, che bagnava le mura della città, togliendo così agli assediati le acque ed il più forte loro baluardo. Perduta ogni speranza di salvezza, gl'Istri al rendere le armi preferirono l'uccidersi, gettandosi trafitti dalle mura, perché ai nemici fosse la vittoria scena d'orrore. Epulo stesso si passò il petto con un pugnale. In mezzo a tanta strage entrarono i Romani in città, ove i pochi sorvissuti furono parte presi e parte uccisi. Nesazio sembra non sia stata abbattuta, e la troviamo esistente ancora ai tempi di Plinio. Mutila e Faveria all'invece furono espugnate e distrutte. I prigionieri venduti e i caporioni della guerra frustati e poi morti. Dati gli statichi da tutte le città, l'intiera provincia fu assoggettata alla romana repubblica l'anno 176 a. C. Né l'essersi detto da Livio, che l'Istria fu allora pacata, può dare argomento a ritenere che la provincia fosse stata già prima soggiogata, e che la ribellione avesse provocato la guerra ■ora discorsa, imperocché né giusta é la questione di lingua, a cui si ricorre, né v'ha storico, che di una più antica sommissione dell'Istria ci renda fede. Portate le novelle della felice vittoria a Roma, furono ordinati due giorni di preghiere a ringraziare gl'iddii: il che dimostra quanta fosse l'importanza, in che si teneva il nuovo conquisto, certo, come notammo, per aver tutta la frontiera «T Italia. Il poeta Ostio cantò la guerra istriana in un poema, 156 Studj Storiografici che andò perduto. — Claudio, vinti anche i Liguri l'anno dopo, ottenne il trionfo dell' Istria e della Liguria insieme. INDUZIONI CIRCA IL GUADO DI CIVILTÀ DELL'ISTRIA PRIMA DELL'OCCUPAZIONE ROMANA. Poche sono le notizie rimasteci di tempi si lontani, e le poche versano in tante dubbiezze, che vano tornerebbe l'accingersi a stabilire con qualche sicurezza di giudizio il grado e l'indole della coltura tra i primi abitanti dell'Istria. Pur se è vero, come tutti ammettono, che i Pclasgi, dovunque fermarono stanza, sieno passati dalle arti della guerra a quelle del governare e dell' incivilire, dillondendo specialmente le industrie e il culto religioso, non è irragionevole il supporre che anco nell'Istria abbiano portato qualche lume di civiltà E alcun fatto viene a conferma di tale supposto. Del culto di Minerva, dell'insegna della Gorgone Medusa, e d'altre divinità, comuni agli Etruschi ed ai Pelasgo-Joni, si trovarono-vestigia non dubbio nell'Istria. Né mancano le monete, indizio certo di qualche coltura. E di città murate, che fecero fronte ai Romani, già abbiamo parlato coli'autorità di Livio-Cosi pure avvertimmo, come il nome di Lucumonc, che accenna al noto governo federale, proprio delle stirpi pelasgi-chc, non sia estraneo alle più antiche memorie dell'Istria. Vi sono perfino scrittori, però non antichi, che parlano di gruppi federativi a que'tempi nella nostra provincia e ne vogliono Pola città capitale. Ma siffatte particolarità sono troppo esatte, né si citano le fonti, a cui furono attinte. — A primo aspetto la menzione di Epulo, regolo degl'Istria farebbe contro l'idea di una confederazione; ma pensando che pei Romani era quel nome titolo di sprezzo, dato non-di rado al capo qualunque del paese nemico, non se ne può trarre giusto argomento in contrario. . L'ipotesi adunque di qualche civiltà nell'Istria prima dei tempi romani non è senza fondamento, mentre non sapremmo a che si appoggi quella del Tommasini, copiata oggidì da qualche scrittore, secondo la quale gli abitanti dell' Istria fino ai tempi del dominio di Roma sarebbero stati del tutto selvaggi, senza qualsiasi principio religioso, ovvero al più adoratori dei tronchi degli alberi. Se discordiamo da questa opinione, non é già per gloriuzza di prosapia, che sarebbe puerilità, ma perché é buon consiglio accettare nella incertezza le probabilità e non isdegnare quegli argomenti, che, sebbene annebbiati dal tempo, valgono pure a confermarle. È bensi vero che vi si oppone la pirateria, alla quale vuoisi sieno stati dediti gli Istriani. Narrasi infatti come nell'anno 301 a. C. Cleonimo di Sparta, navigando per l'Adriatico, diretto alla volta delle venete lagune, si fosse guardato dalle rive d'Istria per non essere assalito da quei pirati. Ma ciò. a dir vero, non farebbe gran prova, perché troppo naturai cosa é pensare il peggio d'ignoto paese, ed é poi fatto, posto fuor di dubbio, che del mare d'Istria e de' suoi lidi tanto i Romani che i Greci avevano allora pochissime e confuse notizie. D'altra parte é già posto in chiaro che la pirateria venne esercitata anco da popoli civili, come Fenici e Greci, e per qualche tempo tenuta anzi in conto di guerresco esercizio. Gl'Istriani erano potenti in mare fino da que'tempi e per l'eccellente legname da costruzione, che formava la prima loro ricchezza, e pel gran numero di buoni porti naturali lungo tutta la costa. E che non già pirati, ma commercianti adoprassero questa forza marittima, abbiamo chiara testimonianza in Floro al lib. I, capit. 18, che tratta della guerra tarentina (281 a. C.), ove si legge come dalla illustre città di Taranto, metropoli della Calabria, dalla Puglia e da tutta la Lucania partissero navi anco per l'Adria- tico a commerciare su tutti i Udi dell' Istria. Il vino e l'olio della nostra provincia erano molto celebrati fino dall'antichità più remota. Ora ci resta a dire se debba prendersi qual verità la notizia, ripetuta da alcuni scrittori, che gl'Istrioni avessero tratto il loro nome dall' Istria, che di qui fossero passati a Roma per la prima volta, e che per ciò debbano ritenersi antichissime tra gl'Istriani le arti della danza, della mimica e della comica recitazione. K vero bensì che ciò si appoggia all'autorità di Pesto (In Anct. littg. lat., pag. 295) e d'Isidoro (Orig., lib. XVIII, cap. 48), e che abbiamo di più una iscrizione riportata dal Carli (Aut. Hai. par. II, Append.) la quale dà all'arte istrionica il nome d'istriaca; ma nulladi-mcno non ci sembrano questi argomenti bastevoli a guadagnare piena credenza. Derivandosi in fatti, secondo Livio (lib. VIII, cap. 2), il nome d'istrione dalla voce Mister, che nell'idioma degli Etruschi significava qualsiasi giuoco, si che più tardi agli stessi attori delle commedie e delle tragedie fu applicato (Plinio ed Esopo), non v'è sicurezza a trarre dall'Istria l'origine dei giuochi italiani. NOZIONI GEOGRAFICHE RIGUARDANTI I.'EPOCA TRATTATA. Tutta l'Istria, compresa entro ai naturali suoi confini, vale a dire al nord dalla Vena, detta Ocra, e dal Caldera ad o-riente, sembra sia stata abitata dai Greco-Pelasgi, e più esattamente dalle primitive tribù pelasgiche nell'interno e dai Grecanici al mare. Confinavano gì' Istri coi Veneti al di là del Timavo. a settentrione coi Carni sul Carso di Trieste e coi Giapidi sull'opposto versante della Vena; e ad Oriente •coi Liburni ai lidi del Quarnero. I fiumi principali, che corrono la provincia, portavano fin d'allora i nomi di Timavo, Pormione (il Risano), Istro ed Arsia (l'Arsa). Alcuni vogliono che l'antico Istro sia l'odierno Quieto, il fiume maggiore •dell'Istria, e le stesse favole intorno a quello li raffermano in tale opinione. Narravasi che 1'Istro, sboccando nel mare •con lo stesso impeto del Po, andasse serrato in alveo ad incontrarsi con quel fiume, per cui molte volte tutto il mare frapposto ne venisse intorbidato. Da ciò, preso all'ingrosso il fatto, che la foce del Quieto è più settentrionale di quella •del Po, e considerato che nei casi di copiosa pioggia il Po intorbida veramente buon tratto di mare, deducono che Pietro fosse propriamente il Quieto. Ma troppo é il divario -di latitudine fra le due foci, perché alla detta favola si possa appoggiare siffatta induzione. D'altra parte più sotto del Quieto trovasi il canale di Leme, in continuazione a letto •di fiume, e forse é più verosimile, come accenna il Carli, riconoscere in quello 1'Istro degli antichi tempi. Il mare, che bagna l'Istria, portava da principio il nome di Jonio, e lo ritenne anche sotto i Romani. Perciò Dionigi •d' Alicarnasso ebbe a dire (Lib. II. c. 361-Chil Hist.), essere Italia tutta quella terra, che é cinta dal Jonio, dal Timavo <: dalle Alpi. Del vero sito delle Absirtidi non havvi precisa cognizione. Sostiene taluno fossero le isole del Quarnero, trovando analogia tra PAbsoro di Plinio e l'odierno Ossero. Altri le veggono nei Brioni, affidandosi all'autorità di Igino, che le segna dirimpetto a Pola; ed altri in fine, trovandosi scritto che le Absirtidi erano isole del Timavo, le cercano nell' e-stuario di Monfalcone. Fra i luoghi abitati fin da que' tempi vanno nominati specialmente i seguenti. Piquenttiiu (Pinguente) Rocium [ Rozzo) Petina (Pedena) nell'interno, e sulla costa: Pucinwn (Duino) Tergeste (Trieste) Aegida (Capodistria) Halictum (S. Simone d'Isola) Pyrrhamtm (Pirano) Sepomagum (Omago) Aemonia (Cittanova) Parenibìum (Parenzo) Cissa in isola Sluilj Storiografici sprofondata presso ai Brioni, Vislriini (Vestre), Pola, Mutila (Medolino), Faveria (Gradina d'Altura) Newclium (presso Ca-Stelnuovo d'Arsa) Arsia (S. Ivanaz) Albana e Flanona (Fianona). DEI l'OPOLI CIRCONVICINI ALL'ISTRIA AI. TEMPO DELLA ROMANA OCCUPAZIONE. Dei popoli circonvicini all'Istria, alcuni appartennero alla stirpe greco-pelasga, altri alla celtica. Quelli sono i Veneti, i Monocaleni e i Calali; questi i Carni, i Giapidi e i laburni. Veneti. Molte sono le opinioni intorno al ceppo, a cui appartenessero; ma non ispctta a noi il ragionarne. Noteremo solo che il parere più verosimile ci sembra quello che li vuole di stirpe pelasgo-grecanica e così adunque affini agli Istri. I limiti degli antichi loro possedimenti non possono con precisione determinarsi. Da principio pare ch'essi abbiano dominato gran tratto di paese intorno alla costa settentrionale dell' Adriatico. Poi si restrinsero tra P Adige, il Po e il mare, restando sempre controverso il confine a settentrione per l'incertezza del dominio nel Friuli, ora esercitato dai Veneti ed ora dai Carni. Monocaleni. A quale schiatta veramente spettassero, non può stabilirsi con sicurezza. La sola etimologia greca potrebbe farceli supporre di stirpe greco-pelasga, venuti forse ad abitare questi paesi assieme coi Traci dell' Istro. Sembra che il loro territorio si estendesse sui monti, che ora direbbonsi il Carso di Duino e di Comen. In seguito, oppressi dai Celti, sarannosi fusi con essi, sì che ogni traccia ne andò perduta. I nomi infatti, che si riscontrano nel detto Carso di Duino e di Comen, sono per lo più celtici. Calali. Anche dell'origine di questi non resta altro indizio che la greca etimologia del nome. Sembra che soggiornassero nella valle della Pitica fra Ciana, Adelsbcrg e il Ti-mavo superiore, dove vi ha un monte, che porta ancora il; nome di Catalano. Come i Monocaleni, anco i Catali avranno ceduto alle forze superiori dei Celti, e tra i medesimi sarà scomparsa la loro stirpe. Carni. I Carnuti erano gallici o celtici. Che i Carni poi fossero della famiglia dei Carnuti e debbano quindi aversi per Celti, è opinione dei più giustificata da buona tradizione e dal leggersi hei Fasti Consolari dato il nome di Galli ai Carni. Questi Carni o Carnuti discesero in Italia assieme alle altre schiatte galliche condotte da Belloveso, trovandosi pur essi nominati da Livio (Lib. V. Cap. v). Presumesi poi che passassero con Elitovio fino ai confini della Venezia, e che di là, cacciati dalle armi romane, si fossero ritirati nel Friuli, quindi ridotti ai monti, vale a dire alle Alpi Carniche. Fin dove giungessero a settentrione non havvi sicura notizia. Può dirsi per altro che tenessero eziandio delle terre nel Norico e perfino nella Pannonia. Le molte incertezze circa il dominio dei Veneti e dei Galli nel Friuli e quindi i dubbi intorno al lido carnico furono la cagione delle disparate opinioni riguardo ai confini dei Carni a meriggio. A noi basti sapere, essere stati i Carni, se non alla spiaggia fra Duino e Trieste, come vollero alcuni per l'autorità di Plinio e di Strabone, certo in molta prossimità alla stessa, sui monti, cioè, abitati dai Monocaleni e dai Catali^ i quali, come dicemmo, cedettero alla prevalenza delle celtiche popolazioni. Giapidi. Essi furono di sangue misto, gallico ed illirico. Il contatto e quindi la fusione delle due schiatte originariamente celtiche, progredienti in senso opposto, generarono questo popolo. I suoi confini sono molto incerti. Dal lato d'occidente sembra che il paese de' Giapidi toccasse quello dei Carni del Carso triestino tra i monti del Timavo superiore alla Vena. Plinio si richiama all' opinione di coloro, che affermavano trovarsi i Giapidi alle spalle degl'Istri. Egli 142 Sludj Storiografici, ecc. è però che il Timavo fu detto da Virgilio fiume giapidico. Questa Giapidia Transocriana pertanto ebbe nome di Gia-pidia prima; ma la parte più importante estendevasi al di là del Monte Nevoso, posto da Strabone fra i Giapidi, toccava il mare a Tersatica (Fiume) e giù per costa aggiungeva il Tedanio (Zermagna\ laburni. Mal note sono le origini dei Liburni. La più probabile è 1' umbro-celtica. Nei tempi più antichi pare che i Liburni occupassero grande estensione di costa sull'Adriatico e fossero la maggior potenza marittima di questo mare (Floro Lih. II, c. v). Ma in terra non erano ugualmente forti. Egli è però che dovettero cedere la maggior parte dei loro regni alla preponderanza dei Giapidi e ridursi alle isole o a brevi spiagge. Questo è pure il motivo per cui ne'tempi posteriori andò talora confusa la Giapidia con la Liburnia. In seguito sotto i Romani, e la Giapidia e la Li-burnia appartennero all'Illirico, quando i confini politici di questo vennero allargati. Più tardi ancora, la Giapidia fu paese di poco conto a tergo dell' Istria, e la Liburnia parte di Dalmazia. Valga questo ad evitare le confusioni e a ritenere, che l'Illirico nò allora, né poi ebbe ad abbracciare qualsiasi parte dell'Istria, da non confondersi con la Giapidia. All'epoca dell'occupazione dell'Istria per opera dei Romani, la Liburnia componevasi di due spiaggie continentali e di tutte le isole frapposte. La prima spiaggia era confinata dal Quarnero (Seno FlanaticoN, dall'Arsa e dal Monte Maggiore. Cosi l'agro albonese fu liburnico, e non pochi luoghi in quel distretto portano nomi, che tale origine rammentano. La seconda spiaggia stava fra il Tedanio (Zermagna) e il Tizio (Kerka). La parte insulare infine succedevasi dalla penisola di Zara (Jadera) fino a comprendere tutte le isole del Quarnero. DEI PROVERBJ ISTRIANE (Dalla Porta Orientale, 1859.) C^uanto vantaggio arrechi lo studio dei proverbi, i quali scolpiscono il vero le più volte meglio che noi farebbero le acutezze dei dotti, e lo vestono delle forme più originali e pittoresche, non é certo mestieri che ci facciamo a ripeterlo in tanto adoperarsi di pazienti investigatori a raccogliere ed illustrare quei documenti della volgare sapienza. Diciamo solo che l'importanza di tali studi si fa speciale all'Istria. Qui invero a fianco dell'italiana popolazione abbiamo Slavi, e Slavi di schiatte varie, e condottici in tempi diversi, e con diversi intendimenti. Dai proverbi adunque, i quali chiariscono si di sovente l'indole del popolo, le condizioni di sua coltura e moralità nonché talora gli effetti più intimi delle pubbliche vicende, potrà cavarsi profitto a meglio comprendere le relazioni delle due stirpi, che abitano l'Istria; ed anche da ciò verrebbe lume alla storia, accorgimento all' operare. Pertanto, e italiani e slavi proverbi dovranno cercarsi con uguale impegno. Ma poiché il lavoro di un solo in cotale argomento tornerebbe vano senz'altro, moviamo preghiera agi' Istriani di voler esserci cortesi d'ajuto. Alcuni, e di quelli pure, che intendono lo slavo, ce lo promisero. Quanto a noi, abbiamo posto mano a raccogliere 1 144 0« Pioverli proverbi italiani di alcuni luoghi dell'Istria, c ci venne fatto di averne finora alcune centinaja. Presone confronto coi toscani, molti ne trovammo identici, quali soltanto nel pensiero, e quali nella parola; altri solo di poco variati, ma pur talora di più svelta movenza, come a guisa d'esempio: Roba de stola la va che la svola (Quel che vien di stola, tosto viene e tosto vola). — Ciacole non fa fri/ole (Le chiacchiere non fanno farina;. — Rosso de pel cento diavoli per cavcl (Rosso, mal pelo). — Dai segnai de Dio sta cento passi iudrio, e da un xptQ cento e oto (Guardati da'segnati da Cristo ecc.) — Proverbi italiani, che spettino unicamente all' Istria, pochi finora, a nostro avviso. Nullameno pensiamo che tutti, quanti ne girino qui qual viva parola del popolo, simili o no a quelli del rimanente d'Italia e di Venezia in particolare, debbano trovar posto in una raccolta di proverbi istriani. Anche per tal guisa invero si vedrà il torto d'ignorare e, peggio, sconoscere una provincia, nella quale una famiglia italiana, non solo parla il linguaggio della sua nazione, ma ne pensa i più domestici pensieri, e questo in ogni azione della vita, anzi in ogni movimento dell'animo, sia che ai malvagi imprechi o faccia core agli onesti, tratti lo scherzo pungente o l'amorevole consiglio, derida o sospiri, diffidi o speri. Per incominciare, o, come suol dirsi, per rompere il ghiaccio e contrarre coi nostri lettori l'obbligo di proseguire, diamo subito quest'anno un manipolo dei nostri proverbi. Mancandoci ancora gli slavi, dobbiamo di necessità rimettere ad altro tempo l'idea principale del lavoro e il coordinarlo per argomenti. I proverbi, che ora sciogliemmo, sono di quelli, che ritraggono alcun che del carattere popolare, e che in uno ci sembrarono o speciali dell' Istria o almeno diversi dai toscani. In ogni modo il gentile, che Istriani. 145 vorrà occuparsi di questo annuario, ne giovi del suo consiglio. Chi no ga timor de Dio, s'el xe andà eh'el torni ind'rio. Niuna impresa di chi sprezza la religione può riuscire a bene. Chi ga religion no va in preson. Sempre?... Perciò dicono alcuni: Ai fati soi chi no voi guai. Ma il proverbio suona ai più consiglio di assennatela, non > di viltà. È tutti invero comprendono la importanza del vivere sociale e così la esprimono : Più popolo, più previdenza. Altrove, all'opposto: Dov'è popolo, è confusione; e questo, cosi largo, dà nel falso. L'altro invece, tolto comunque, è sempre vero. Ma tutte le volte non basta unicamente il senno a tirarsi in casa la provvidenza; occorrono mezzi, e perciò: No te ciapa la malora, se ti ga giudizio e roba. Avremmo, per altro, e più giudizio e più roba, se più mirassimo al mare. Diciamo : PI mar xe fachiri dela tera. Ma è da questo facchino che noi Istriani dobbiamo aspettarci la fortuna. Alla stessa agricoltura verrebbe nuova vita colla forza dei capitali, e l'agricoltore non sarebbe condannato a vivere quasi alla giornata, sempre nel timore della miseria ad ogni inclemenza del cielo. Così, nelle tristi sue condizioni, è ben raro gli torni sul labbro l'altro proverbio che El bon mercà strassa la scarscla. All'invece: Va in malora el pavolan, che la fa da cortesan. Vien detto pavolan il nostro popolano agricoltore, che ha " dimora in città e recasi ogni giorno al lavori della campagna È 1' antico cultore del libero agro delle colonie e dei muni- 10 146 Del Proverbi cipj romani, cittadino e villico in un medesimo. E tale si rimase, che i tempi, per incursioni e per guerre malvagi, not fidarono a tradurre la famiglia dai luoghi murati alla campagna. Sono si scarsi i suoi proventi, che ogni dispendio, il quale smodasse per voglia di figurare (lo che dicesi da noi farla da cortigiano) gli apporterebbe grave dissesto nelle fortune. Chi più lavora meno ciapa. ovvero Chi più strussia meno vadagna. A primo aspetto ha del paradosso; ma è lagno veritiero-per lo più dell'agricoltore, che dall'aspre fatiche ha magra mercede, mentre vede non pochi opulenti starsene in panciolle e godersela. Ben dice diversamente il toscano: Chi lavora lustra, e chi non lavora mostra. Ma Val più do soldi ben guadagnai che milioni robai. - Ed è molto che fra gli stenti lo si ripeta. Ne questi piegane* l'animo a servilità, e però Megio paron de caicio (ciucco) che mozzo de vassel. In famiglia poi Quiete e crostini megio che sussuri e colombini. Meglio povera la mensa, ma pace, che lautezze e discordia-Donna lesta, fioi vestii de festa. E non poche donne del popolo, oneste ed operose, salvano-la famiglia dall'indigenza. Qua la fia, qua la dota. Al momento del matrimonio di nulla resti creditore lo sposo verso i parenti della sposa. Si usa poi stortamente qual maniera di dire a significare che ogni servigio vuole immediata, la ricompensa. La madonna fa la niora. Com' è la suocera, così sarà la nuora. Istriani. '47 Madregna poco o gnente s'impegna. E a dir del numero, non dell'indole, vi son qui matrigne più del dovere. Fioi e roba fa cresser la goba. Recano in collo nuovi pesi. El fio, che no scolta rason, rompe el timon. Manda a male il governo della casa. Chi no fa ben in Cargna, gnanca in Friul. Col mutar paese non si muta cervello. Dal girare, che fanno in Istria calderai, arrotini, stovigliai di que'luoghi ò tolta solo l'idea del mutar paese, non quella del vivere scioperato. Fradei, cortei; sorele, Iadronzele. La prima parte del proverbio è in bocca delle sorelle, le quali accusano i fratelli di violenza per boria di comando in famiglia. Di rincontro si fa ad esse rimprovero di poco amore all'utile della casa, anzi di avidità nel raggruzzolare per se stesse oggi questo e doman quello da mettere in disparte e portarsi via assieme alla dote, quando vanno a marito. El bon bocon per el prete de famcgia. Gli agi migliori, che può dare la casa, vanno di solito goduti da quello della famiglia, che prctò. La bona boconada al prete de casada. Il prete aderente a famiglia signorile trova sempre qualche distinto vantaggio. Notevole sarebbe questo detto, se negli usi. patrizi di altri luoghi non trovasse applicazione. Chi non ricorda la satira impareggiabile del Porta? In casa strensi, in viagio spendi, in malatia spandi. L'istriano osserva questa e quella parte del proverbio, ma l'altra del tenersi corto in casa fa "cedere ad ogni costo, e sempre, c con lieto volto alle ragioni dell'ospitalità. Per alcuni poi Polenta, ma baiar. Non e che lo dicano, perchè a tal prezzo amino il ballo, sì per ismania di apparire, specialmente se ne va di mezzo la vergogna del rimanersi da meno degli altri. Bota piena, ciesa voda. Nel tripudio oblìo della religione, e lo vedemmo. Ora gli anni della miseria ci lascino la ricchezza di più temperati costumi. El megio vin volé? Fora de casa andò. Anche in Toscana suol dirsi che il pan di casa stufa. Ma dicono pure: Chi ha buona cantina in casa non va pel vino all'osteria. In ogni modo: Ogni vin fa alegria, s'el se beve in compagnia. E questa allegria va qui di solito in canti dalle lunghe cadenze. Stemo saldi in sentimento, che no vegna ci pentimento. Non perdiamo la ragione per ebrietà, se c'importa non far cosa, di che pentirecne poi. Intorno al fogolar nissun per mal no nominar. Allude al costume di raccogliersi in molti, casigliani e vicini, intorno al fuoco le sere d'inverno, e quindi al pericolo che di là se ne vada la maldicenza per la città. Maledission, tre di in qua, tre di in là, e po adosso a chi le dà. Prima de parlar movi la lengua dieso volte. » Chi parla assai pensa poco. El mato canta el so fato. E chi non vuol sapere i fatti altrui suol dire : No xe sordo più duro de quel, che no voi sentir. A coloro per lo contrario, che ne vogliono saper troppo per immischiarvisi, sogliono dire i prudenti : Troppe comare fa i fioi chilosi (stretnenziti). Quello, a cui voglion metter mano troppe persone, o abortisce o si sforma. — E poi si può dar del capo in un furbo, che faccia le sembianze del semplicione, e Mincion fa mincioni. Bessi, fede e carità, la metà della metà. Intendasi di quello, che ne vien detto. E della carità di alcuni se ne dice assai poco. Al ricco mai ghc basta. Di questo poi se ne dice troppo. El mercante e el porco se pesa dopo morto. Per rivedere le bucce a quello, conviene aspettarne la morte. Chi magna polpete,.....saete. li! per que' certi signori, che mai nulla di dolce hanno in bocca, che noi debbano al tegame. A chi spendi i soldi d'altri no glie diol la testa. La pena pesa poco. Spiccar comunque delle scritte è cosa facile; l'arduo sta neh' eseguire. Chi più studia manco sa. Per lo più vuol dire il molto, che sempre rimane a sapersi ; ma qualche volta va a pungere certi saputi, a cui manca la esperienza della vita. Beati i ultimi, se i primi ga creanza. Beati i piccoli, se discreti sono i grandi. Ma a tavola suolsi usare per ischer/.o da coloro, che son ultimi ad essere serviti. E per finirla quest'anno: Chi baia senza son xc mato de rason (cioè nel pieno senso della parola). Pazzo chi si dà all'allegria in condizioni non atte a destarla. ETNOGRAFIA DELL'ISTRIA. (Dalla Rivista Contemporanea di Torino — 1860 e 1S61.) N 011 ultima delle italiane sciagure fu quella d'ignorarci tra noi, si da lasciar agio allo straniero, padrone e calunniatore se ad un tempo, d'invilire ai nostri occhi alcune Provincie d'Italia, che, meno aperte o sottratte del tutto alla guardia della civiltà, passarono per terre tedesche o slave abitate da certe sconciature d'uomini, i quali non avevano nome, e incresciosa vicinanza a noi, che, sconosciute le Alpi Giulie, accettavamo dall'Austria per nostro i. r. confine di oriente il rigagnolo dell' Isonzo. Tutto fu ignorato per essi e, dimenticati i fasti di Roma e Venezia alle frontiere dell' Adria, accadde ben di sovente che gareggiassimo a chi sapesse ripudiare con più fine scherno que'gelosi ed onorati vestiboli di casa nostra. È dunque tempo di metter mano alle oneste riparazioni, ed è con questo intendimento che cominciamo a svolgere l'argomento dell'istriana etnografia, siccome il più frantcso, valendoci a tal uopo di un lavoro della Porta Orientale, annuario di quella provincia, nonché di parecchi studj, che leggemmo in proposito nel giornale Y Istria. In questo primo discorso, premesso per maggior chiarezza un cenno su'la struttura della regione, ci limiteremo a se- gnarvi l'attuale distribuzione delle schiatte, indicandone assieme le più notevoli loro differenze. L Le Alpi Giulie, che dal Tricorno, al trifinio della Carinzia, •della Carniola e dell'Alta Gorizia, scendono in direzione di S. E., separando il bacino della Sava da quello dell'Adriatico, fanno nodo al Monte Nevoso sopra Fiume, e di là piegando al Sud si elevano all'ultimo gigante alpino, il Monte Maggiore, per scendere e morire poi oltre nel Quarnaro presso a Fianona. Quanto dalle tumultuarie vette di questa catena volge al golfo di Venezia, e terra italiana, e tutta alpe della più alta importanza. Quest'alpe va poi divisa in tre distinte contrade, perocché dal Monte Maggiore si spicca il ramo della Vena, il quale corre verso N-0 in direzione •opposta alla catena principale e poche miglia più sotto. La piccola penisola, che n'é al settentrione conterminata, chiamasi Istria : vero campo asserragliato dalla natura di faccia alla più depressa nostra frontiera. L'altra regione è la Gorizia, serrata per 'la maggior parte tra le prealpi friulane e il grosso delle Giulie. Di mezzo tra queste, la Vena e l'Isonzo, sta la terza contrada, che sotto il nóme di Carsia ! ——--—— y rintocca il gran varco orientale d'Italia, il fatalissimo Nau-porto. La Carsia, vera strada maestra dei barbari, ha naturalmente gli avanzi più sconvolti dell'etniche sue vicende. La Gorizia, incastrata ne'monti, fu la cittadella dello slavismo, quand'osso irruppe sull'orme dei Longobardi, e solo al piano, nelle ridenti campagne dell' Isonzo, rivissero gli Italiani. L'Istria infine, posta di fianco a questo gran movimento di popoli, se non potè sfuggirne le secolari conseguenze, nò salvare parto della campagna dalla immigrazione di stranie genti, conservò vergine l'antica stirpe italiana e 152 E biografi a con essa l'italiano indirizzo, c la coltura e la storia e tutto, che spetta a nazionale esistenza. 1 Questa provincia cinta, come vedemmo, al nord dalla Vena e ad oriente dall'ultimo tronco delle Alpi italiane, che è il Caldera, s'inchina tutta al mare, volta a S-O. La regione della Vena, ossia l'Istria superiore, è un altopiano dai fianchi dirupati, petroso, senz'acque, spoglio di vegetazione, e costituisce quasi una contrada a sé, detta Carso con celtica o grecanica denominazione a significarne la squallida natura. Lssa va distinta nei quattro Carsi di Duino, Trieste,. S. Pietro e Raspo: i due primi sovrastanti alla spiaggia più settentrionale dell'Adriatico, e gli altri due base alla penisola istriana. Là i varchi riescono tutti a quello di S. Lorenzo, eh'è sopra Trieste; qua se ne contano due, ai gioghi di Mune e di Collaz, ma solo per pedoni, e rovinosi. L'Istria mediana ha il suo lato orientale appoggiato alla estrema Ibntiera dell'Alpe, per la quale non v'ha passaggio naturale, ed è tutta corsa in vario senso dalle diramazioni della Vena. Una linea obliqua, che dal promontorio di Sal-vore all'apertura del golfo di Trieste tirasse per Huje e Pi-sino al piede del Caldera sul Quarnaro, traccerebbe il limite tra i monti marnosi dell' Istria media c i colli e le vallicela calcari, ch'empiono disordinatamente l'inferiore. I pochi e poveri liumicelli (Risano, Dragogna, Quieto, Arsa) nascono tutti in quella, e solo i due ultimi vanno al mare per la seconda, volgendo l'uno di contro a ponente, l'altro-al sud, ultimo fiume d'Italia. Ora, su questa breve provincia abbiamo due stirpi, l'italiana e la slava; la prima quasi intieramente unigena, incivilita, padrona di tutta la costa e d'ogni anco più piccolo centro di coltura nell'interno; l'altra dispersa nei più umili casolari della campagna, varia d'origine, di costumanze, di 1 (Per le note, vedi in line dell'articolo.) linguaggio, senza storia, senza civiltà. Gl'Italiani, compresa Trieste, sommano a 160.000; gli Slavi, tra puri e italianizzanti, a 112.Ò00. 3 GÌ' Italiani, sia che riguardi alle aperte sembianze, al fare-disinvolto, all'umor gaio, sia che ne esamini lo scorrevole dialetto, ti si presentano per la massima parte come fratelli dei veneti. Ma tra quei medesimi, che più somigliano ad essi, riscontri voci latine speciali del loro dialetto, 3 sì che,, ignorando pure le istriane vicende, formi l'opinione che quel piccolo popolo italiano vi é indigeno fino dai tempi di Roma, e che vanno errati tutti coloro, i. quali se lo fantasticarono come una veneta colonia, come una popolazione recente tradottavi dalla Serenissima ad occupare italianamente una terra italiana. Giustizia per tutti — la storia ci apprenderà invece che Venezia portò in Istria Slavi, non Italiani. — E l'opinione ti si muta in certezza al vedere come un dialetto italico, parlato da circa 18.000 istriani tra Rovigno e Galesano, suoni affatto diverso dal veneto 4 e presenti invece una sorprendente somiglianza con quelli dell'Italia mediana. 5 Né basta, perocché non pochi vocaboli di questo italiano antichissimo sono tuttora usuali a quegli stessi Istriani, che più ti rammentano la verbosa vivezza del gondoliere della laguna. 6 E così pensando alle parole del Poeta, che trovava in Istria la lingua del si non già dolce del veneto accento, ma aspra e simile a quella del Eriuli, ne trarrai, anche senza metter mano alla storia, nuova conferma per l'origine italica del popolo istriano. Quantunque a continuo contatto cogli Slavi, esso ne ignora affatto la lingua, e non ha traccia di loro usanze. Ove qualche abitudine slava accenni volersi apprendere ad alcuno, lo scherno la uccide tosto in sul primo nascere. Nò-v' ha tra gl' Italiani più miserabili chi non isdegni unirsi in» matrimonio con uomo o con donna slava, qualunque sieno- 1)4 gli allettamenti della fortuna. Eppure a fronte di tutto questo, non vi è, in generale, malevolenza di sorta tra l'italiano e lo slavo, avvezzi come sono, e l'uno e l'altro, a considerare non altrimenti che necessità di natura quel geloso purismo. Il vestire é il comunale d'Italia, meno a Dignano, dove uomini e donne vanno a nero, e le fogge, di che si compiacciono quest'ultime, ti trasportano tra le villanelle di Civita Castellana, ed eccettuato pure il berretto rosso alla greca, che i popolani della costa (favolimi) sogliono piegarsi a garbo sul destro orecchio. Quanto agli Slavi, essi vanno distinti in due stirpi principali: la serbica e la slovena. Il Serbo, vigoroso di membra e d'animo, dal colorito bruno olivastro, dallo sguardo penetrante, ha ingegno più sveglio e maggior fierezza di nazionale orgoglio; lo Sloveno, men alto di statura, dall'occhio azzurro e dalla bianca carnagione, ha mite aspetto, ma in uno costumi più fiacchi e minor senso di sua nazione. I Serbi, che gl'Italiani dell'Istria chiamano Morlacchi, sono in numero di 51,000, e abitano la campagna dell'Istria inferiore tra il Quieto, il mare e l'Arsa. 1 Ma prima di točil ■ care le sponde di questo fiume, si frammischiano ad clementi sloveni, si che la transizione dall'Una all'altra stirpe (circa 10.000j sta proprio nel centro della penisola. Sulla sinistra sponda del Quieto all'invece e presso la costa e' è il passaggio dalla schiatta serbica all'italiana, cioè Morlacchi italianizzanti, in numero di circa 6000 Altre distinzioni della famiglia de'Serbi potrebbero notarsi, sottilizzando le differenze; ma se anco, a guisa d'esempio, trovi a Peroi il tipo montenegrino, o l'uscocco nei villaggi di Altura e di Ca-vrìana fra Dignano e il Quarnaro, o l'epirotico nel territorio ■di Parenzo, la fusione delle varie tribù è quasi completa, e può dirsi che tra i Serbi, t quali non italianizzano o non abbiano fatto mistura cogli Sloveni, cioè tra circa 30.000
  • i (l'ultima del 1857 non fe' distinzioni di nazionalità! aggiudica a Trieste 12.000 tedeschi! Un nome non italiano di famiglia, un avolo, che abbia parlato lo slavo o il tedesco, l'impiego o altri simili riguardi della persona invitata a dichiarare la propria nazionalità sono argomenti sufficienti ad acconciare i numeri secondo i desideri del Governo. ' Il Carli lo riporta per esteso nell'appendice delle Antichità italiane, pag. J-i2. 10 Si cercò di acquietarli, concedendo alli Slavi le sole campagne deserte fra la Vena e la Dragogna, ciica una dodicesima parte dell'Istria: Mittamus eos in talia deserta loca, ubi siue vestro damno valeant siimmanere. Cosi il placito. E più su : Advenas Itomines, qui in vestro reseda ini, in vestra sin! palesiate . . . ubi ali'jucm damnietatem fa-cient, nos eos e/iciainus foras. 11 « Tre strade conducevano per le Alpi Rezie, le Carniche, le Giulie alla capitale dell'Austria. I.a prima a sinistra attraversava il Tirolo al Brenncr ; la seconda al ceniro saliva alla Carinzia a Tarvis; la terza a destra, passando il 'ragliamento e 1' Isonzo, condu-ceva nella Orinola. L'arciduca Carlo aveva il nerbo del suo esercito sopra l'Isonzo; per guardare la Carinola e coprire Trieste... Si collocò allo sbocco di quella e pose solo corpi accessori sulla strada della Carinzia e del Tirolo. E ciò quantunque sapesse che, volendo conservare la via montuosa della Carinola e coprir Trieste, si esponeva a perdere la strada della Carinzia. » Thiers, Storia della Rivolutone Francese, lib. I.II. 18 » Il Regno Subalpino comprenderebbe tutta l'alta Italia dalle Alpi marittime sino alle Alpi Giulie. « V. altrove: « Questo Regno Subalpino, formando la maggior parte d' Italia, varrebbe a tenere in equilibrio 1' Austria e la Francia e sarebbe poi il fondamento della indipendenza italiana. » Cosi il Tln'ers, clic soggiunge: Certo questa era generosa e sagace determinazione, per cui la Francia avrebbe ben potuto fare qualche sagrificio, se i giovani, che tenevano il governo della Russia, fossero start capaci di volere da senno e fortemente una gran cosa. » Storia del Consolato e dell'Impero, lib. XXI. 13 A Bruna, Napoleone dichiarava al generale Giulav che non consentirebbe più che 1' Italia, divisa tra Austria e Francia, continuasse a formar tra loro soggetto di diffidenza e di guerra. .. Voleva per tanto ottenere colla pace il completamento del regno d'Italia, cioò la Venezia, il Friuli, l'Istria, la Dalmazia, insomma l'Italia fino-ali'Alpe Giulia e le sue costiere dell'Adriatico. Thiers, op. cit., lib. XXIII. " Vedi la corrispondenza tra Berthier e Marmont nelle Memorie di questo ultimo, lib. IX, lettere da Schonbrunn 28 e 31 dicembre 1805, da Linz 28 gennajo 1806, « da Monaco, $ e 26 febbrajo. i" Convicn prendere assai leggermente la cosa, mostrando di credere che quando si dice Isonzo s'intenda esclusione dell'Istria. Vedasi all'invece in Thiers (Consolala' e Impero, lib. XXVI11), come Napoleone, parlando della linea di quel fiume e ordinando in pari tempo una strada militare pel regno d'Italia attraverso l'Istria, ben diversamente la intendesse. >« Memorie del duca di Ragusa, lib. XIII, pag. 34 e lib. XIV, pag. 437 e seg. 17 Non eravi separazione vera, perchè Napoleone non voleva in Italia appigliarsi ad assestamenti, che avessero carattere definitivo, ma lasciarvi invece tutto in cotai dubbio, che non interdicesse li ulteriori divisamenti. — Thiers, Consolato e Impero, lib. XXVIII). 18 Ora rendono allo Stato otto millioni netti, e potrebbero rendere facilmente i} doppio, ove fossero riattivate le soppresse saline, e ne venissero incoraggiati i proprietari, anzi che avviliti col misero prezzo, che si da loro di 27 soldi austriaci il ccntinajo, quando l'erario lo rivende a 7 fiorini in Istria, e più caro altrove. 19 V. Memorie del duca di Ragusa, lib. IX, pag. 369-371, lib. XIV, pag. 437-38-756 ecc. 20 Sebbene adunque l'asservire a prò d'Italia oltramontane provincie sembrasse •come nota il Thiers, politica detestabile e buona luti'al più per VAustria, che ha sempre voluto possedere l'opposta china delle Alpi, molto per noi vantaggioso n'era l'intendimento; e può dirsi invero che Napoleone rinnovasse sulle nostre frontiere orientali li esempi della antiveggenza romana. 21 Scoprirlo era necessiti; e quindi fu accortezza il farlo subito. Disse Napoleone essersi ottimamente veduto in quella guerra che la difesa era impossibile nel Friuli. 23 Da Canale al mare (nn terzo del suo corso) è del tutto scoperto, (Marmont lib. IX pag. 569-71) Che tal linea dovesse difendersi coll'Istria, si vede da lettera del viceré al duca di Ragusa in data 27 Settembre 1806. Ivi non si puà che noìare alcun poco l'inimico, lettera 13 Marzo 1806 di Napoleone al viceré. — Palmanova Sion rende padroni dell'Isonzo. L'Alpe Giulia è il compimento del possesso del Friuli. Nota di Napoleone. 28 Vedi in conferma il recente opuscolo sulla marina austriaca attribuito all'arciduca Massimiliano. 84 Sono queste le ragioni, che fanno della costa orientale dell'Adriatico la vera costa orientale d'Italia. E giova per maggior evidenza analizzare le forze marittime austriache del litorale. Queste al principio del 1859 sommavano, tutto compreso, a 9635 navi, della portata di 378.516 tonnellate con 35.456 uomini d'equipaggio. Per limitarci ai bastimenti di lungo corso e di gran costeggio, confrontando i lidi veneti colla rimanente costiera occupata dall' Austria, appare che quelli, appartenenti a paese fiorente di popolazione e ricco, avevano 168 navi di 29.148 tonnellate con 1307 marina), mentre questa, spopolata e povera, ne contava 885 di 252.579 tonnellate con 8544 marinaj. La Società del I.loyd, alla fine del 1858, possedeva 70 navi della forza di 13.320 cavalli con 39.918 tonnellate. 25 Tra ancoraggi e porti per grossi navigli se ne contano 69 da Duino a Fianona. 80 Per l'importanza dei boschi istriani, vedi il rapporto del cons. Bargnani al viceré Eugenio. Quanto al carbon fossile potrebbe scavarsi in tutta l'Istria orientale. 81 Patente del 2 Marzo 1820 nella collezione delle leggi austriache. 28 Servano alcuni esempj tratti dalla Porta Orientate, annuario istriano per l'anno i8j9: « Fatalissimo (cosi a pag. 257) fn l'essersi tardata l'apertura della ferrovia. Tutto ne sofferse, ma specialmente il commercio dei coloniali .. I Paesi Bassi ed Amburgo dominano ormai il commercio del caffè... Quello delli zuccheri è contrastato dai porti settentrionali. Amburgo, che nel 1853 importò 425.000 quintali doganali di zucchero grezzo, mentre Trieste ne importò 788.000, nel 1857 importò 470.000 quintali e Trieste 270.000. A proveder la Germania di cotone bastano ora le città di Amburgo e Brema.. Quest'ultima, che nel 1853 ebbe una importazione di cotone della metà inferiore a quella di Trieste, l'ebbe nel 1857, dopo costanti aumenti, di oltre un terzo superiore. » Per altri confronti rimandiamo il lettore allo stesso annuario c al Rapporto della Camera di Commercio di Trieste pubblicato or ora. Da questo rileviamo, che il commercio dello zucchero andò perduto per Trieste. Pochissimi eziandio sono i prodotti industriali austriaci, che prendono la via di Trieste. E se le importazioni dall'interno di quella monarchia si accrebbero nel 1859 di circa 9 millioni di fiorini, ciò va attribuito, come nota la stessa Camera di Commercio, al li approvi-gionamenti dell' esercito. Degno di speciale nota invece è il fatto, che le importazioni per l'interno, calarono d'oltre un millionc. Ove si considerino infine le partenze « li approdi per la via di mare, abbiamo per le prime una diminuzione di 1 ; millioni di fiorini tra il 1857 e il 1859, e di 35 millioni pei secondi tra il tSjS e 1859. Il rapporto si chiude colle seguenti parole : « Questo emporio è assai decaduto dall' anteriore sua floridezza, ed è tuttavia minacciato da ulteriore deterioramento. » 89 L'Istria importa principalmente dal Veneto, dalla Lombardia e dalle Romagne quanto consuma; e colà esporta quasi tutti i suoi prodotti. IMPORTANZA DELL'ALPE GIULIA E DELL' ISTRIA PER LA DIFESA DELL'ITALIA ORIENTALE. (Dalla Rivista Contemporanea di Torino — Aprile 1866) Troppo spesso avviene che, discorrendo la questione veneta, non si rivolga il pensiero a tutta P estensione del suolo italiano, che manca all'integrità del Regno, né si rilevi esattamente ove sia il baluardo de' suoi confini orientali, il quale, assieme alle provincie della regina dell' Adria, vuol essere a noi rivendicato. — Una parte degli Italiani (sarebbe debolezza e danno oggi il tacerlo) non é arrivata ancora a disimparare la lezione delle geografie austriache, che serra la Venezia entro ai capricciosi termini, che le posero intorno i reggitori di Vienna. La comunanza di origini, di favella, di storiche vicende, di coltura, di aspirazioni, d'interessi d'ogni maniera non basta ancora a rimuovere la inesplicabile reverenza all' aulico confine dell'Isonzo o dell'Judrio, quasi una sbarra giallo-nera valesse a dividere ciò, che natura e diritto reclamano per la compiuta unione d'Italia. Questo errore o pregiudizio, povertà di studi o d'animo che ne sia la cagione, é ormai tempo che' cessi, e più non vi abbia Italiano, al quale possa apporsi la vergognosa colpa d'ignorare e, peggio, sconoscere casa propria. Già parecchie pubblicazioni mirarono a questo scopo, e noi qui non ci faremo a svolger di bel nuovo il non breve argomento sotto i molti suoi riguardi. Ci prefiggiamo invece di comprovare più dappresso la importanza militare della italiana frontiera d'oriente: assunto non meno opportuno per le cose ora dette, che per lo scarso numero di scritti, che finora ne abbiano ragionato. Anzi, a dire tutta intera la verità, non ve n' ha alcuno, se eccettui gli studi del Saluzzo e dei Mezzacapo x, il quale contenga più altro che cenni fuggevoli e quasi di fantasia. E gli studi medesimi dei due fratelli Mezzacapo sembrano quasi condotti con alcuna prevenzione e acconciati più ai mutabili criteri dei narratori delle guerre, di cui queste contrade furono teatro in sul principio del secolo, di quello che attinti all' esatta conoscenza delle cose e al giusto loro apprezzamento sulla faccia dei luoghi. Certo che neppur nostro può essere l'intendimento di esaurire il grave tema : ma pure confidiamo che quanto più importa sapere e ritenere a comprendere l'importanza della nostra frontiera orientale per la sicurezza d'Italia può essere da noi con onesta sicurezza di convinzioni esposto. La frontiera orientale d' Italia è quanto dire l'Alpe Giulia, la quale corre dal monte Canino nel Friuli al promontorio di Fianona in sul Quarnaro. Essa può distinguersi in supcriore ed inferiore, prendendo a punto di divisione, quasi in sul centro della catena, i monti, che si levano sopra le sorgive dell'Idra. La superiore è anche nelle vette più continua ed alta ; l'inferiore, digradandosi in terrazze, é più depressa. Gira quella nel primo suo tratto per guisa, da accogliere in grembo le due orride vallate di Trenta sul versante nostro e di Wohein su quello della Carniola. Le più alte vette dell'Alpe Giulia spiegansi lungo questa sinuosa (Per le note, vedi in fine dell'articolo.) linea come a dire il Mangert (2665 m.\ il Tricorno (3046 m.), il Vagatin (2000 m.), il Montenero, quasi a giusta distanza tra loro e segnante i termini delle due curve, per cui si svolge la imponente giogaia. Dal Montenero ad Idra scende essa quasi diritta al sud, dirompendosi ai fianchi nelle valli silvestri del Bazza e del Zayer a levante e in quelle del Bazza e dcll'Idria a ponente. Questa Giulia superiore non ha che il solo passo naturale del Prcdil (116S metri), quasi al suo cominciare tra la vallicella dello Schlizza, che scorre per Tarvis nel Gailitz, ossia nel bacino del Drava, e quella del Coritenza, influente dell'alto Isonzo. I viottoli rovinosi, che mettono nel Valtrcnta dai ridossi del Mangert, del Pres-nig, del Tricorno e nelle forre del Bazza e dell'Idria dal Montenero e dal Plegas, non sono varchi, di cui occorra tener conto. Fra la Giulia superiore e P inferiore, e precisamente all' anzidetto limite dei gioghi d'Idria, monta la strada, che da Sayrach sulle fonti del Zayer guadagna P altipiano della Selva Piro (Bimbaumcrwald, 840 m.) proteso poi nell'altro di Tarnova (791 m.). Ed è questo quel tratto, dove l'Alpe più si dilata ed abbassa i suoi gioghi. Quivi i monti, sebbene seguano a comporre il dosso della frontiera per Godovic, Velkiverch, Kaltenfeld e Adelsberga, muovono a gruppi tumultuari e prendono forma di giganteschi tumuli di mezzo all'ampia terrazza petrosa. Ad essa conducono la via già detta di Sayrach e quella di Nauporto (Oberlai-bach, 370 m.) Longaiico (Loitsch, 915 m ), la prima dalla valle del Zayer e la seconda da quella di Lubiana. Ambedue riescono all'infossamento di Poldkay e Zoll, che da levante a ponente taglia l'altipiano e smonta nella valle del Vippaco o Frigido poco più sopra di Aidussina. Se non che la via maestra, ossia il passo principale dell'Alpe Giulia, non valica la Selva Piro, ma continuando 1' adito di Lon-gatico, sotto la gira per la conca dell' Unz e poi per la insellatura di Adelsberga (590 m.) e la vallicella del Piuca e del Nanonizza fino al piede del Nanos (1295 m.), in cui l'altipiano, del quale ora dicemmo, si appunta, spiccandosi alla maggiore sua altezza. Più oltre di Prewald (554 m.), posto a cavalliero della strada, che svolta questo monte, corre essa da una parte lungo la valle del Vippaco, raggiungendo la via della Selva Piro fino a Gorizia, e dall'altra supera per Senosecia e Sessana la seconda terrazza calcare dell' Alpe Giulia, cioè il Carso dell' Istria, per por ridiscendere a Trieste. Dalle alture di Adelsberga (673 m.), dove arriva la schiena della giogaia alpina, si alza questa verso sud-est a forma di larghissima piramide, agitandosi in molteplici accidenti cosi sulla valle del Piuca e dall'alto Ti-mavo a ponente, come sulle acque intermittenti dell'Obrech e del lago di Cirknitz a nord-est. La punta delle piramidi è quel Monte Nevoso (1686 m.), che sorge ultimo termine orientale d'Italia. Sotto di esso, verso Fiume, l'Alpe sfianca nuovamente, si, che da Castua ad Adelsberga sale altra via per Lippa (285 m.), che indi tragitta le anzidette due valli del Timavo e del Piuca. Ma ben tosto si rizza maestosa, al gruppo del Planich (1268 m.), nodo dei monti dell'Istria e principio di quel secondo altipiano, che vedemmo sopra Trieste, e che, percorso dalla Vena (1107 tà.\ fascia l'istriana provincia poco di sotto al grosso della frontiera, cominciando dalle sommità, che dominano il seno di Fiume, sino alle foci del Timavo nelle lagune di Monfalcone. Infine dal nodo di Planic, chinatasi alquanto di sopra a Lo-vrana, là, dove passa (950 m.), altra strada, che da Fiume volge nel centro dell'Istria, si erge l'Alpe Giulia ancor più alta al Monte Maggiore (1394 m.), e quasi muraglia procede di contra al mare, spingendo in esso il promontorio di Fianona. Il Goriziano e l'Istria sono i paesi italiani, che l'ora de- scritta frontiera abbraccia. Oltr'essa vi soggiace la Carinola, -per breve spazio al nord la Carinzia-e a sud-est la Croazia. E a queste tre regioni si schiudono i varchi nella nostra penisola, vale a dire quello del PrediI dalla Carinzia, l'altro di Adelsberga, con cui si aggruppano i due minori dell'altipiano centrale dal mezzo della Carniola, e il terzo di Fiume, Lippa e del Monte Maggiore dalla Croazia. La via del PrediI non giunge al passo da contrada intieramente oltrealpina, perché la frontiera naturale d'Italia inchiude il Fella, che ha le sue scaturigini alla sella di Saifnitz (784 m.) e si scarica nel Tagliamento. — Errore adunque non piccolo dei geografi nostri quello di condurre i termini d'Italia pel Montacelo e il Mittagskofel (2083 m.) alla Pontebba (633 m.', anziché pel Vischbert e il Luscari (1785 m.) all'anzidetta sella di Saifnitz, e quindi alla catena, che sorge tra il Gail e il Fella. Questa costituisce il vero confine della penisola italiana lungo le Alpi dello Schinoutz (1994111.), dell'Hochw-pifel (2182 ni.), del Gemskofel (2114 m.) sino al Paralba (2670 m.\ che n'é Panello diretto, e al cui limite consentono tutti. Nostra é la posizione importantissima, che padroneggia Tarvis (748 m.), ossia il bivio alla regione carinziana del Drava e alla carniolica del Sava, il qual fiume, nascendo non molto lungi a levante, sotto i controforti del Mangert, scorre attraverso la Carniola e forma la esterna linea naturale di congiunzione del varco centrale di Adelsberga con Tarvis, da cui i due ingressi per la Pon-teba e pel PrediI. Questa, a brevi cenni, é la topografìa della nostra frontiera d'oriente, ed ora ci tornerà, lo speriamo, non difficile esporre al lettore le ragioni della grande sua importanza per la difesa del Regno. Qualunque opera prenda a discutere il modo di guar- dare l'ampia cerchia delle nostre Alpi mette in rilievo come la parte loro più esposta e più all' Austria vantaggiosa * sia l'Alpe Giulia. E le scientifiche conclusioni conferma la storia, mostrandoci ella per tutti i secoli d'onde venncro-all'Italia i pericoli maggiori. Da Roma, che quivi portò il nerbo delle sue forze allo schermo della penisola, come ne rendono solenne documento i molti avanzi dei guerreschi suoi munimenti sparsi su tutta la estensione della frontiera con cura degna di maturo studio, — e poscia dai duchi del Friuli e dai patriarchi di Aquileja, che a vigilare 1' Italia a difesa od offesa, secondo gl'intendimenti italiani o stranieri, a cui obbedirono, tennero fermo in ogni tempo a queste alpestri vedette, — e più vicino ai giorni nostri dalla accorta Venezia, che sempre e ad ogni costo volle sue le terre istriane e iteratamente provò le armi a recare a sé il dominio di tutto il baluardo alpino, — sino all'Austria, che pose opera si lungamente assidua a signoreggiarlo, — e sino alle poderose guerre napoleoniche, che insanguinarono più volte queste contrade nello intento di barrare o schiudere le più gelose porte d'Italia, — vi ha un solo giudizio rispetto all'alto valore per noi di questa estrema cinta dell'Alpe. Nè-basta ; che le previsioni stesse dell'avvenire vi consuonano, se l'avversario nostro più temibile sarà pur sempre ancora all' oriente o neh' Austria, che sognasse il passato, o nella superba Germania, o negli spiriti baldi della futura Slavia. Ben a ragione adunque va studiato l'argomento, quando si tratta per esso, non già solo di riconquistare un "lembo d'Italia, ma altresì di metterle in mano le più preziose nostre difese, e quando a veder ciò (lo ripetiamo per chiunque fosse per crederci propugnatori di cosa nuova) stanno a prodromo della dimostrazione diretta i fatti di ogni età. A non dire delle Alpi d'occidente e di quelle tra le settentrionali, che vanno dal S. Bernardo allo Stelvio, dove abbiamo contermini Francia e Svizzera, tre sono le linee di attacco, che si stendono attorno alla nostra frontiera, cioè quella dell' Inn, oltre il Brennero, la seconda del Drava di là del Toblach, della Ponteba e del Predil, e la terza del Sava, lungo l'Alpe Giulia. La linea dell'I un minaccia il Ti-rolo italiano per Sterzinga, Pens e Bressanone nel centro e per Rascno a ponente, in sull' alto Adige, e di quivi anche la Valtellina per lo Stelvio e pel Braulio. Non e nostro assunto di versare su questo argomento; ma pur ci sembra opportuno accennare che dalla base di Bolzano, munite d'opere le chiuse di Vilpiano e di Kuntensweg, si può bene, a giudizio degli esperti, intcrchiudcrc al nemico l'ingresso, mentre gli anzidetti varchi della Valtellina con buoni forti a presidio ci offrirebbero essi pure ogni sicurezza di buona difesa. Dalla linea del Drava può egli avanzare cosi nel Ti-rolo pel passo di Toblach (dove per altro sarebbe fermato dalla stessa chiusa di Kuntenweg) e di là pure nel Friuli per Colfredo e il Cordevole sul Piave, come per la Ponteba sul Tagliamento e pel Predil sull'Isonzo : varchi tutti, che la natura, ben giovata dall' arte, può rendere pressoché insuperabili. Per la linea del Sava infine può P offesa aver di mira o la via di Fiume, o quella di Adelsbcrga e può eziandio appoggiare a Tarvis i movimenti della linea del Drava. E-videntemente adunque due linee, dell'Inn cioè e del Drava, e a sussidio una terza in quella del Sava ha il nemico contro la frontiera nostra dallo Stelvio al Predil, alla quale soltanto vogliamo ora ristretto il ragionamento per meglio rendere palese quanto va conchiuso dell' altra nell' Alpe Giulia. Sono le due prime da difficili monti intercettate, e le congiunzioni loro colla terza romperebbe il nostro cannone di Tarvis, che per sentenza di Napoleone vuol essere italiana fortezza. Noi all'invece da Verona ad Udine teniamo una linea sola, la quale é più dal confine discosta che non sieno quelle dell'attaccante, ma senza confronto più breve e con ottimi scaglioni di contro agi' ingressi, sul Piave, sul Tagliamento e sull' Isonzo, e tale per conseguenza, da compensare assai largamente il danno della distanza. — Or qui si fa aperto, che a noi, raccolto l'esercito tra l'Adriatico e l'Adige, torna non poco agevole starci atteggiati a pronta e robusta difesa dallo Stelvio al Predil, si da togliere all'aggressore ogni speranza di sorprese da quelle parti, poiché tutti que'passi valgono per sicuro a tardarne almeno di tanto il cammino, da permettere alle forze nostre 10 accorrere sul punto più minacciato. E apparisce pur manifesto in uno quanto la guardia del Predil si connetta con quella dell'intiera cinta, di cui parliamo, coprendo Tarvis e 11 Fella e lo Schlizza, e riuscendo i due aditi, più dentro, ai secondi collegati appoggi di Vcnzone da un canto e delle gole di Ternova, di Caporetto e di Starasella dall' altro, per Malborghctto e la Chiusa Veneziana il primo e per la chiusa di Plczzo il secondo; luoghi tutti capaci di ricevere ogni miglior lavoro d'arte, mentre più su i valli del To-blac contrastano non meno P assalto diretto dei ripari del 'Pirolo che i movimenti giranti sulle fonti del Piave, e indi sugli stessi baluardi ora discorsi delle Carnichc. Ma se questa nostra linea nella pianura veneta è altrettanto vantaggiosa che necessaria a provvedere efficacemente alla tutela di si esteso tratto di confine, la nostra destra, ove l'Italia sia arrestata all' Isonzo, rimane con grave pericolo scoperta. Difatti, senza mettere a gran rischio le altre difese, non ci è dato adunare l'esercito su questo fiume, e cosi necessariamente deboli a quel fianco, non reggeremmo certo ad inopinato assalto. Ed ecco come quello, che brevemente riferimmo degli altri aditi all'Italia si attiene a questi importantissimi del suo oriente, perché il nemico, mantenendosi padrone dell'Alpe Giulia e della sponda sinistra dell'Isonzo, ben potrebbe, dissimulando dietro alle alture suoi movimenti, e valendosi in parte degli altipiani, che dominano questo fiume nel suo corso inferiore e, in parte di quel suolo piano e facile alle improvvise marcie di grossi corpi di esercito, che si allarga tra le radici settentrionali dell' ultimo Carso d'Istria e le gole di Salcano giungerci addosso all'Impensata, forzare il passo dell' Isonzo, e girare di tal guisa i superiori delle Gamiche e lo stesso di To-blach, essendo guadabili e il Tagliamento, e la Livcnza, e non sicuro il Piave stesso, e di niun valore, egualmente pei molti guadi, il Brenta. Basta rammentare le campagne del principe Eugenio nel 1809 e nel 1813 per rimanere certi che P abbandono della linea dell' Isonzo trae subito a quella dell'Adige e lascia cosi tutto il Veneto in mano al nemico. E questo abbandono, che infallantemente terrebbe dietro ad una sorpresa fatta sì probabile dalle imperiose necessità del complessivo sistema di guarnimento non sarebbe già fuori di questione nemmeno allora che l'esercito nostro campeggiasse numeroso in sulle rive dell'Isonzo. La marcia di Nugcnt da Eiume su Trieste bastò già a rimuovere dalla linea del Sava il viceré d'Italia e bastò puranco a costringerlo a frettolosa ritirata ben oltre l'Isonzo stesso. D'altra parte, quale saggezza a confidare le sorti della frontiera non ad altro che a battaglia in campo aperto? È mestieri adunque veder modo, per cui le armi nostre trovino agio di raccogliersi anche da questo lato, prevenendo il nemico almeno sull'Isonzo, e quivi pure non la sola prodezza del difensore ne giovi la fortuna. Ora, l'uno e l'altro scopo si raggiunge appunto col possesso dell' Alpe Giulia e per conseguenza dell'Istria, che n'é P appendice marittima e la naturale cittadella. Abbiamo già detto come la Giulia superiore non ischiuda altro varco che quello del Predil. Fino ad Idria pertanto terremmo da quella forte posizione ben guardato il confine. È dunque solo nella Giulia inferiore che vanno per noi erette le opere di difesa. L'altipiano da Idria ad Adel-sberga fu già irto di militari baluardi nei secoli di Roma, che in su quei termini aveva alzato are sacre all'Italia. Avanzi di torri e di mura in esteso giro vi si riscontrano ancora, e ne viene manifesto come i Romani, con accorgimento invero da maestri nell'arte della guerra, avessero chiusi gli sbocchi e nella valle dell'Idria, e nei burroni di Podkray e Zoll, e nelle strette di Longatico, di Planina e di Adels-berga 3. La moderna scienza nulla detta di più giusto alla difesa dell'oriente d'Italia. Gli è perciò che il maresciallo Marmont, il quale tenne il governo di queste contrade, proponeva egli pure una fortezza in Adelsberga e minori opere all'intorno ad ogni capo di via, non solo sull'altipiano, ma anche a Prcwald, sul vertice della valle del Vipacco ••. Mu-nimenti di guerra pertanto, ben collocati su questa terrazza alpina e lungo gli aditi di fianco, nonché ai piedi di essa a ponente sulle rive dell' Hubel, presso alle quali fiorì già la colonia di Castra signoreggiante la retta via traversale, che va all' Isonzo, darebbero al certo bastevole forza a contendere lungamente il passo all'invasore, si da permettere al grosso dell'esercito ogni miglior movimento. Di più lo stesso adito per la valle dell'Idria, che sembra da prima il più facile, diviene poi il più duro a vincere, perché scende a mezzo il corso dell'Isonzo là, dove i monti, che aspri ed alti e intransitabili si levano di fronte in sull'altra sponda, forzerebbero l'inimico a ripiegarsi o verso settentrione o sotto a meriggio fra perigliose strette, e dovendo superare lungo la prima via i forti di Caporctto e di Staraseli.! per gittarsi nelle forre del Pulfero sopra S. Pietro c Cividalc, e lungo la seconda quegli altri baluardi di Canale e di Salcano, di cui il genio militare francese affrettava tanto la costruzione. E se i tempi burrascosissimi, per cui era interdetto il raccogliersi ad attuare quanto suggeriva prudenza, 10 avessero permesso, noi non discuteremmo su disegni, ma su lavori compiuti, e più luminosa apparirebbe la verità a noi, cui mancò finora l'occasione o il volere di applicare l'animo a si vitale argomento. Ad ogni modo, per quanto riguarda le dimostrazioni storiche di qucll' epoca fortunosa, sta, oltre ai progetti delle accennate fortificazioni, il fatto che il sommo capitano aveva stimato urgente, a guaran-tigia d'Italia, portare al Sava la linea dì difesa, creando 11 provvisorio amalgama delle provincie illiriche sotto il diretto reggimento di Erancia per meglio tutelare il nascente Regno, fino a che tempi più riposati avessero dato comodo di costruirgli le piazze di presidio e di rivenire così sulle naturali frontiere. 5 Codesto trasporto della linea di difesa oltre l'Alpe nel cuore della Carniola mirava solo, e le attestazioni sono molte e concordi e irrefragabili, ad allentare la marcia dell'aggressore, sì che rimanesse tempo all'esercito di appostarsi ai varchi o almeno all'Isonzo. Il concetto, adunque, che veniamo esponendo in questo nostro scritto, trova diretta sanzione anche nei più recenti fatti di guerra e nel giudizio dei più autorevoli ingegni. — E nello stesso modo che a meglio francheggiare la frontiera mediana delle Giulie le armi di Francia occuparono il Sava, così a coprire l'accesso all'Italia per Fiume e Lippa, con che si viene a circuire lo stesso varco di Adclsberga, si tenne la Croazia. E se a noi conviene intendere allo stesso fine, non vorremmo poi al certo imporci alle genti d'cltremonte; ma dobbiamo proseguire l'idea, che ci chiama nel centro dell'Alpe Giulia anche al suo meriggio, per rafforzarci cosi ai ridossi dell'alto Timavo come sui fianchi del Monte Maggiore. Sono questi gli aditi, alla cui guardia Roma, per richiamare ancora una volta la storia, avea condotto le due colonie militari di Castelnuovo e di Felicia collegate l'una con Trieste e l'altra con Fola; e fu da queste chiuse che lo straniero feudalismo lottò per lunghi anni coli'italiano comune, e, strumento di possenti principi d'oltr'alpe, fece testa persino a Venezia, comecché signora di quasi tutta l'istriana provincia. Noi, edotti dagli insegnamenti del passato, non meno che dalla chiara intuizione della difesa del nostro confine, dobbiamo proporci di riavere quei gelosi posti e di renderli forti propugnacoli d'Italia, acconci come già sono per natura a tal line. Se ciò non avvenisse, a nulla ci servirebbe tenere in mano la stessa rocca di Adelsberga e l'intiero sistema, per cui dimostriamo il modo unicamente valido a difendere l'oriente del Regno, ne andrebbe distrutto. Vero é bene che il varco di Lippa é forse men atto degli altri tutti ad essere compiutamente munito, ma v'ha compenso a ciò nel lungo cammino, che fa il nemico per tradursi dalla linea del Sava, e precisamente dal suo fianco sinistro di Zagabria, già ben discosto dal centro di Lubiana, primieramente nel bacino del Culpa e poi attraverso le Dinariche in quello del Quar-naro. Se non che il possesso dell'Alpe Giulia darebbeci ben altro schermo ancora la mercé dell' Istria, come abbiamo più sopra avvertito Quanto essa valga a presidio della stessa linea dell' Isonzo, lo abbiamo da Napoleone. Ei la chiamava il complemento del Regno d'Italia 6, perocché, e lo scriveva al principe Eugenio, Palmanova non rende padroni dell'Isonzo 7, ma sì l'Istria, come notava quest'ultimo al duca di Ragusa s. Gli é perciò che nel 1S05, dopo la battaglia d'Auster- litz, ordinava l'imperatore non si ripassasse l'Isonzo, la cor sinistra sponda doveva ancora con Trieste rimanere all'Austria, finché l'Istria, ch'era da congiungere e fu congiunta al Regno d'Italia, non fosse occupata, e, occupatala, si tenesse Monfalcone quale anello con essa Egli é per questo ancora, che, sebbene l'Alpe Giulia fosse tuttavia lasciata all'Austriaco, veniva ordinata negli intendimenti difensivi del Regno una strada militare attraverso l'italiano dipartimento dell'Istria ». L'Istria in vero, battuta dal mare per quasi due terzi del suo ambito, é vasto campo asserragliato dalla natura, cingendola a levante 1' ultimo braccio della catena delle Giulie, ch'é il Caldera, e a settentrione il Carso, ossia la Vena, che va rinterzando i suoi petrosi filoni dal Piante a Duino e per estesi tratti scoscende quasi a piombo o sul mare, o in profondi affossamenti. Le vie di Fianona e del Monte Maggiore da un canto e quelle dall'altro dr Pinguente-Obrou, di Divacia, di Trieste-Sessana e di Monfalcone, che attraversano la elevata regione carsica, sono tutte egregiamente difendevoli, quale più innanzi nelle strette dei monti, e quale al ciglione stesso del pianoro. Le diramazioni poi della Vena da Socerga a Pirano e dar Lcsischine a Montona e sopra Pisino, nonché le alte sponde del Quieto, della Draga e dell'Arsa offrono buone linee di riserva. Un nostro corpo di esercito pertanto, postato sugli ingressi dell' Istria con le valorose milizie della provincia potrebbe sostenere ben a lungo gli attacchi di assai più schiere d'armati e, padrone delle posizioni, che sovrastanno si ai varchi di Fiume, che agli sbocchi dell'adito centrale, cui giace proprio di Tronte la penisola istriana, presterebbe opera efficacissima a contenere l'invasore. Inoltre, vinte pure da questo le resistenze, ei dovrebbe o di molto affievolire le sue file, distaccando forze contro le nostre della Vena per non lasciarle al fianco e alle spalle fran- che all'offesa, o, procedendo raccolto, subire il rischio di vedersi mutata la sconfitta all' Isonzo in disastro e ad osili modo tagliate o per lo meno gravemente molestate le comunicazioni e provvigioni a tergo. E questo deve apparire ben chiaro a tutti, se oggi stesso, che non teniamo ancora l'Istria, qui si consente pur tanto all'idea di operarvi una di versione, e fu ed è questa dall'Austria e dai' pubblicisti suoi cosi temuta. D'altra parte, se Inglesi ed Austriaci stu-diaronsi più volte di ferire noi, stabilitici nell'Istria, da questo lato, come ne rendono fede le spedizioni di Èpine e di Montechiari nel 1809 e di Lazzarich nel 1813 I2, la verità <ìa noi esposta trova anche la conferma dei fatti. È dunque impossibile non riconoscere che le condizioni topografiche dell'Istria la rendono atta a prestare anche di per se sola officio validissimo a coprire il Regno, senza che i soldati nostri possano mai, nel renderlo su quei mirabili trinceramenti, correre pericolo alcuno di vedersi tagliati fuori con quella vasta piazza di guerra, ch'é il porto di Pola alle spalle, dov' essi avrebbero non solo scampo sicuro, ma ogni opportunità di essere tradotti, così richiedendo le sorti infelici della pugna al confine, sulle seconde linee e in ogni caso su quella importantissima del Po propria tanto a ristabilire la fortuna delle nostre armi. E con ciò noi entriamo ora a discorrere brevemente dell' importanza militare di questa provincia anche sotto i riguardi della difesa marittima. « Al quadrilatero, in sul confine terrestre, sta esercito « degno di un grande Stato, e vi sta pronto alla battaglia. a Ma è confine eziandio la costa, e confine di molto più « periglioso, perocché il mare sia libero e le navi a va-« pore valgano ad assalirlo rapidamente su qualunque punto « meglio convenga. Abbiamo si fortificazioni marittime; ma « esse son punti e non mura chinesi... E stanziassero pur « truppe sui nostri lidi, non potremmo considerarle che « quali posti perduti, incapaci d'impedire sbarchi vigoro-« samente condotti. » Cosi scriveva, or non é molto, un arciduca austriaco fatto poi imperatore di lontano regno, ben giustamente trepido di quanto dee volere l'Italia nell'Adriatico. E ripeteremo anche noi, per nostro conto, che pur le coste sono frontiera e frontiera assai difficile a guardare, se forte naviglio non Io copra. Ora tutto il lido orientale d'Italia, da Aquileja a S. Maria di Leuca, né ha, né può avere porto di guerra, basso com'è, piano e sabbioso, con rade malsicure ed ancoraggi pochi ed infidi, incerto, instabile, profondamente corroso e smarginalo da gran copia di fiumi, di canali e di stagni, nonché esposto al venti levantini, che ne contrastano la navigatone, e colla corrente dal golfo, che di là volge e non è meno ad essa nemica. Gli studj del Menis e del Palcocapa sull'Adriatico, le pubblicazioni politiche del contrammiraglio austriaco de Wùl-lerstorf '3, e le gravissime discussioni sòrte nel nostro Parlamento intorno ai lavori del porto di Ancona possono bastare appieno per chiunque più senta il bisogno di autorità, cui conformare il proprio giudizio, a mettere intieramente fuori di questione quanto abbiamo affermato. La natura, e non l'arte schiude un gran porto, e dove non sia frastagliata la costa, ma uniforme e per cosi dire allineata, ogni maggior dispendio torna vano a crearlo. Ancona potrebbe si con denaro molto essere accomodata per la marina militare a stazione navale di secondo ordine, ma nulla più, come per buona ventura (tale essendo per noi ogni abbandono dell'impossibile) fu già formalmente dagli ingegni più competenti riconosciuto. D'altra parte, il nostro porto di guerra nell'Adriatico dovrà pur essere ad un tempo il nostro arsenale marittimo del golfo stesso, dovendo una armata, che batta in guerra il mare aperto, avere facili le provvigioni e trovare vicino tutto, che meglio le abbisogni a prontamente rifarsi, se offesa da burrasche o da battaglie. Né si potrebbe le molte volte imprendere il giro della penisola per ridursi agli arsenali dei lidi d'occidente, e ad o-gni modo il ritardo porrebbe a estremo rischio le sorti dell'intiero naviglio. Ma se a porto militare non é adatta Ancona, e non lo é nemmeno Venezia, a cui approdano soltanto piccoli legni da guerra, né quella, né questa, né alcun altro luogo della costiera adriatica valgono ad accogliere un grande arsenale, che dee sorgere in sito si afforzato che sicure vi stiano da colpi di mano e dall' enorme iattura, che ne seguirebbe, le ingenti ricchezze, ch'esso custodisce. Venezia, quanto a forza di difesa, sarebbe a ciò opportuna; ma i suoi accessi, dove non pescano, come dicemmo, che i minori legni, la rendono molto inferiore a Pola. Cosi noi, senza porto e senza vero arsenale nell'Adriatico, avremmo sguernita di ogni difesa tutta quella frontiera marittima, e il nemico dall'opposta riva potrebbe a mezzo dei navigli a vapore aggredirci nei modi più repentini e micidiali, sbarcandoci su punti diversi o truppe o briganti, secondo meglio gli tornasse ai nostri danni. Non può esservi adunque chi non vegga che, fermata l'Italia all'Isonzo, non solo non avremmo una frontiera terrestre, ma nemmeno la marittima, e il Regno, che al suo oriente ha i pericoli maggiori da rimuovere e il più nobile scopo, a cui mirare, porgendo la mano alla sorgente civiltà della Slavia del sud e alle belligere schiatte del Danubio, starebbesi proprio da quel lato svigorito ed inerme. L'Istria, adunque, dee compiere le difese italiane, non solo in terraferma, ma anche sul mare, essendo essa tutta un porto, come già ebbe a dirla il Nelson con espressione non al certo poetica, se lungo le sole sue 90 miglia di costa vi si noverano pressoché 80 fra ancoraggi c porti per ogni maggior flotta, e se Pola tra questi ultimi meritò il nome di Spezia dell'Adriatico. Ben vide questo Venezia, che stimò condizione essenziale al suo dominio del mare il possederla, rinnovando cosi quanto prima ancora aveva fatto Roma. Là invero a fianco dei nuovi stabilimenti erettivi dall'Austria si ammirano ancora i ricordi di due altre età, che attestano del pari la importanza per l'Italia di quell'avventuroso seno di mare. Esso domina all'estrema punta dell'Istria e il golfo di Venezia e il Quarnaro. « Pola, cosi il contrammiraglio Wùl-« lerstorf nel rammentato suo scritto, ha il più alto valore <<• per la marina di guerra e per la difesa dei punti più im-« portanti della costa. Senza dire che ricetta il nuovo arce senale marittimo e le riserve dell' armata, copre essa ance cora ad un tempo e Venezia, e Trieste, e Piume. Il na-« viglio nemico non varrebbe né ad assalire la prima, né « a minacciare le altre due, ove tal forza attiva di legni ce fosse accolta in Pola, da poter con essa aggredire il ne-cc mico alle spalle. » Ma tal forza P Austriaco non possiede, e lo stesso riferito scrittore lo confessa, scongiurando lavori, che solo in parte poterono consentire le finanze austriache. Si per lo contrario quella marina, che non ha, né può avere l'Austria, avremo noi, e gli argomenti del nemico, con cui egli va esprimendo i desideri suoi di assoluta signoria dell'Adriatico, si ritorcono contro di lui. Ove tenes-simo noi a Pola una squadra, pur non conseguendo cosi il dominio dell'Adriatico tutto, certo avremmo assicurato contro esterne aggressioni e sorprese tutto quel nostro lido. Quando Pola sia in nostro potere, se non é resa impossibile, certo diviene quasi innocua e a noi, e ad altri P esistenza d'altra squadra nell'Adriatico, per quanto appoggiata alle fortezze di Lissa e di Cattaro. — In conseguenza Pola in mano all'Italia assicura un avvenire di pace, ed é ciò quindi interesse, più che italiano, europeo. « Perduta Venezia (così altro ufficiale austriaco in notevole opuscolo '■», vòlto a dimostrare la necessità del Veneto per l'Austria e per la Germania) imperioso bisogno di sicurezza trarrebbe l'Italia nell'Istria. » E ben a ragione, soggiungeremo noi, essendo certo, come ci siamo studiati di provarlo, che non si compie l'Italia a Venezia, ma nei porti dell'Istria e sui varchi dell'Alpe Giulia. Prima di conchiudere questa breve memoria, cui di proposito volemmo restringere alle cose, che più interessa rammentare, non possiamo rimanerci di aggiungere, avere la storia d'ogni tempo posto in sodo la verità, che quanto è alto il valore per l'Italia dell'Alpe Giulia, tanto n'è facile la conquista per chi è vincitore nel Veneto. Diffatti l'invasore, rotto nel Friuli, deve immancabilmente sgombrare tutta quella regione, per non vedersi sopravanzato sulle vie della Carinzia, E vogliamo esprimere ancora un voto, che cioè i nostri uomini di Stato, i quali non possono non vedere come la questione della Venezia racchiuda in se P altra dei confini naturali e dell'Adriatico, non s'infingano più oltre a mettere innanzi un monco o almeno ambiguo programma di compimento del Regno, quando non v' ha in Europa mente politica così ingenua, da credere dimenticato dal Governo italiano quello, che esso tace per prudenza, ma dee volere per logica ineluttabile dell'italiano risorgimento. NOTE. 1 l.e Alpi che cingono l'Italia, ctnsilerate militarmente così nell'antica come nella pre-tenie loro cotulirionc. — Torino, Tip. Mussano, 1845. .9/u> 18 É pur troppo cosa sciaguratamente frequentissima, che le menzogne, le quali riguardano paesi piccoli e non abbastanza illustrati da locali studi, trovino copiatori o ampliatori devotissimi. Cosi uomini gravi ci narreranno di sollevazioni in Istria contro il governo di Francia nel 1809 e nel 1813, comecché nulla di vero abbia il fantastico racconto per ciò che riguarda gli elementi indigeni in qnei moti. Il fatto è che nel 1809 ebbero anzi le guardie nazionali dell' Istria a respingere e sperdere i rivoltosi sbarcativi dall'Inghilterra, e che nel 1813 associò bensì il Lazzarich a'suoi Croati circa duecento villici d'oltremonte, come attcstano gli stessi Austriaci relatori del fatto; ma essi non erano già Istriani. (V. Istria, anno I, pagina. 248.) 18 II Mare Adriatico descritto e illustralo con notiate topografiche, idro-geologiche, fisiche etnografiche e storiche, raccolte e ordinate dal dott. G. Menis. Zara, 1848. — Considerazioni sul protendimento delle spiaggie e stili' insabbiamento dei porti dell' Adriatico, di P. Paleocapa. Nei n. 2 e 3 del Bollettino dell' Istmo di Suez- Torino, l8;6. — Ueber die Wichligìtcil des Adriatischen Mceres ftir Ocsterreich una àcssen Vertehidigung, vou B. von Wùllerstorf. Wicn. 1861. 14 Der Besitz Veneliens, Eulgegnungen voti Aresin, Capitano di Stato Maggiore. — Vienna, Gerold, s. a. APPELLO DEGLI ISTRIANI ALL'ITALIA. * (Dalli Alti del Comitato Triestino-Istriano — Firenze - Agosto 1866) V^/ggi che alla breve ragione delle armi segue lo studio-delie condizioni più opportune ad assicurare la pace d'Europa, non v'è interesse italiano, il quale non abbia diritto di farsi udire, non v'ha causa di qualsivoglia parte d'Italia, la quale non meriti di essere compresa appieno, perché gli uomini di Stato, in tanta maturanza di civiltà, abbiano a risolverla secondo il giudizio della pubblica opinione. Noi Istriani, piccola famiglia della nazione italiana, durata fra mille sciagure sulle rive dell' Adria superiore e ai piedi dell'Alpe Giulia, noi pure facciamo appello alla coscienza, alla saggezza dell'Italia; noi pure invochiamo a favor nostro e suo il sommo principio nazionale e la sovranità del suffragio del popolo. Ma non si tratta già solo di noi. La questione é ben più grave. Trattasi invero di una importantissima regione d'Italia, della frontiera orientale del Regno, della più urgente necessità di coprirlo lungo tutto quel confine terrestre e marittimo, che va dalle acropoli alpine dell'Austria all' Ionio. " Vedi alla fine l'atto, con cui il presente .4]fello fu rassegnato al Governo. E cotesta importanza, che risulta dalla stona di tutti i secoli e che eziandio nel presente fu argomento di attente disquisizioni tra i maggiori Stati di Europa, non potrebbe non essere approfondita dalla nazione italiana, ora eh essa, costituitasi a libero e forte corpo politico, é chiamata per la prima volta a propugnarla e a trarne ti suo migliore van- U*1?altra parte l'Austria deve essere rimossa dalle palestre delle secolari sue prepotenze, dev'essere esclusa di Germania e Italia e ripiegata sul suo oriente, perchè riprenda, se •• r la sua missione di regno orientale espressa dallo stessso suo nome. Nessuna ragione pertanto, e per nessuno, a conservarla guardiana delle Alpi e padrona dell'Adriatico. Anzi lisciarla "ancora in posizione si minacciosa contro il centro è l'occidente di Europa, sarebbe, ancor più che ingiustizia e imprevidenza, assurdo anacronismo. Ci ascoltino dunque i fratelli italiani; ci ascoltino i generosi, i giusti d'ogni civile nazione e quanti presiedono alla stupenda opera della trasformazione europea, combattendo le pretese della forza col diritto dei popoli, il cui trionfo è Storia dell'età nostra e presagio di tempi ancor più splen-didi e compiuti. Perchè l'Italia sia guarentigia di pace all'Europa, conviene ricomporla a famiglia politica in tutta la sua unità tipica Monca, e quindi scontenta e bramosa di altri e-venti ella avrebbe in sé la ragione, la necessità di nuovi dissidi e conflitti. Ogni signoria cisalpina non italiana sarebbe offesa e pencolo a lei, e, peggio ancora, la schiavitù della sua politica, impedita nel più largo e più fruttuoso e più « 'Per le note, vedi in nnc dell'articolo.) nobile suo sviluppo, e nominatamente nella libera scelta delle alleanze, dal bisogno precipuo d'integrare lo Stato (*). Ora, le Alpi, che formano l'intero confine della penisola italiana, girano a tergo dell'Istria non meno che nel Piemonte, nella Lombardia e nella Venezia più propriamente detta. Anzi quel tratto, che inchiude nell'Italia queste Provincie, dette fino da Roma la Venezia Supcriore, pigliò bene a ragione il nome di Alpi Venete, mantenutosi assieme a quello di Giulie, eh'è non meno italiano e glorioso, attraverso a tutti i tempi. Dal Tricorno, il gigante alpino, che si alza sopra le scaturigini dell'Isonzo, corrono esse tra le regioni della Drava, della Sava e della Culpa e quelle dell'Adriatico; fra contrade, che mandano il tributo delle loro acque ai piani del Danubio, e quindi al Mar Nero, e le terre, che s'inchinano sullo stesso continente italiano, e i cui fiumi si confondono nello stesso mare con quelli della vallata padana. La natura adunque non fu incerta nemmeno sui termini orientali di Italia, elevando si notevole barriera a separare paesi, che in tutto il loro aspetto ricisamente si differenziano, si che anche l'occhio profano scorge tosto, allo stesso colore dell'aria, alla temperatura, alla vegetazione, quanto va disgiunto od unito per legge inalterabile 2. L'Isonzo 3, l'aulico confine d'Italia, impostole da Vienna, e fiumicello, che rimarrebbesi pressoché ignorato, ove all'Austria, ch'é astuta nelle sue previsioni, non fosse caduto in mente di formare, poc'oltre alla sua sponda destra, una distinta amministrazione per la luogotenenza imperiale di Venezia. Allora pure che su quel fiume imperavano i conti (*) Il Combi fu veramente profeta : oggi, a venti anni di distanza,, noi tutti vediamo avverarsi quanto egli allora presagiva. Nota delti Editori. di Gorizia c poi gli arciducali d'Austria di faccia alla veneta repubblica, non era già tutto il suo corso il confine dei due domini, ma altre acque ancor minori, e fossati, c segni da privati poderi più addentro nella pianura e nei monti del Friuli, duelli adunque, che appresero in confuso ad arrestare la Venezia al suo oriente in sui margini di un rigagnolo, dovrebbero, per mostrarsi conseguenti alle loro reminiscenze storiche, cedere all'Austria anche la riva destra dell'Isonzo, già accordatale, per la fretta degli ordinamenti non definiti, nella prima formazione del napoleonico Regno d'Italia, quando pure, a fronte di ciò, si annetteva al Regno stesso il dipartimento dell' Istria +. Cessino quindi alla fine tali nozioni di geografia d'Italia, le quali non abbiano altro fondamento che nelle insidiose mire delle cancellerie austriache. La geografia della nostra patria va per noi imparata dalla natura, che ce 1' ha fatta, e non da quanto vorrebbe l'Austria per serbarsi le sue lusinghe di rivincita. E conoscere e volere casa nostra ò il primo nostro dovere, né le civili nazioni potrebbero non ammettere ch'esso ò pure un diritto nostro. E quali popolazioni stanziano su questa estrema regione d'Italia? Si prendano ad esame le stesse statistiche austriache, e si vedrà, come, all'infuori di alcune rustiche tribù di Slavi sparseci sui monti dal turbine degli eventi, tutto sia qui italiano -'. Prima ancora che Roma portasse sulle vette dell'Alpe Giulia le sue aquile vittoriose, un fiorente popolo italico, di cui v'hanno memorie non poche, abitava queste contrade 6: popolo italico, della cui lingua si hanno ancora preziosi avanzi nel dialetto di alcune parti dell'Istria, e che, fuso da prima col popolo latino e poi col veneto, si mantenne cosi saldo nel suo genio nazionale, da durare incorrotto tra i più gravi pericoli, e in sulla porta dei bar- bari, e con razze straniere propriamente a ridosso, e nel-Fobblio sciagurato degli stessi fratelli, in quel lungo periodo di schiavitù .austriaca, che decorse dai trattati di Vienna 7. L'Istria, eh'è una parte distinta della regione italiana di oltre Isonzo, nò va confusa coli'Istria amministrativa, a cui furono aggregate anche popolazioni transalpine, l'Istria, nella sua unità naturale e storica e colla sua capitale Trieste, conta di popolazione italiana ben oltre i due terzi, si che per la stessa ragione del numero pretende a buon diritto di essere annoverata tra le famiglie etniche d'Italia 8. Ma che sono poi gli Slavi, che troviamo sugli ultimi lembi del nostro confine, come ne troviamo nel Friuli occidentale e troviamo Francesi nella valle d'Aosta e Albanesi nelle terre napoletane? Sono Slavi di venti e più stirpi, non già scesivi a mano armata, ma pacificamente importativi dai dominatori di queste provincic per popolare le terre disertate dalle guerre e dalle pesti. Avvenne appena nell'ottocento il primo trasporto di siffatta gente e poi mano mano fino al secolo XVII a più di cento riprese, le cui epoche sono segnate con esattezza dalla patria storiografia 9; opera infelice, a cui fu intesa particolarmente la repubblica di Venezia, che in luogo di permettere si facessero fitti gli Slavi nella slava Dalmazia, qui nell'Istria li traduceva, dove tutto era pronto a togliere loro la nativa fierezza e italianarli. Stranieri fra loro fino a non intendersi e stranieri agli Slavi d'oltralpe, essi sono foglie staccate dall'albero di loro nazione, e nessuno per fermo avrà potenza di rinverdirle sul ramo, da cui furono scosse. Essi vissero e vivono senza storia, senza memorie, senza istituzioni, tutt' altro che lieti di loro origine e desiderosi anzi di essere equiparati a noi (*\ Vencra- (*) Pur troppo ciò non è più vero, dacché i mestatori di Zaga- tori del leone di san Marco e memori di quel mite reggi mento, imprecano all'Austria, che li ridusse all'indigenza, nò mancherebbero per sicuro, tolta che fosse loro la paura del carnefice, di votare tutti e di grand'animo, non meno degli Italiani, l'unione al Regno d'Italia ir>. Non sorge invece un villaggio, in cui si agiti un po'di vita civile, il quale non sia prettamente italiano. Il carattere nazionale é spiccatissimo in ogni sua esteriore manifestazione. Il vestito, gli usi, le tradizioni, le leggende, i canti, i proverbi sono italiani; italiana l'architettura dall'umile casolare al palazzo pretorio, alla cattedrale; italiano il pennello e lo scalpello, che decorano i tempj e i pubblici cdifizi; italiane le istituzioni tutte di beneficenza, di istruzione, di chiesa; italiane non meno le fraglie del popolo che le accademie degli studiosi; italiano il pulpito e italiano il teatro; italiane infine le leggi, di cui si hanno luminosi documenti fino dal milleduecento in quegli statuti municipali foggiati alla romana, che regolavano la vita civile di questi paesi, mentre in non poche illustri parti della rimanente Italia non vi aveva che signori feudatari e plebe inconscia di sé, del suo passato e del suo avvenire ". E bellissimi nomi vanta l'Istria tra i migliori ingegni d'Italia. Chi non conosce il Vergerlo e il Flaccio, tanto celebri nella storia della riforma, il Santorio, capo-scuola nelle scienze mediche, il Muzio, emulo del Davanzati, l'economista Carli, il Carpaccio e le sue tele, le musiche del Tartini, a non dire di cento altri, che di qui partirono ai seggi più onorati nelle università di Padova, di Pisa, di Bologna e di Roma? 12 bria e di Lubiana, fomentati o per lo meno aiutati dal Governo austriaco, che vorrebbe sradicare dall'Istria ogni traccia di italianità, impresero ad aizzare le rustiche plebi slave contro la popolazione civile italiana. (Nota detti Editori.) all' Haliti. 225 La civiltà dunque è tutta nostra, nostro tutto, che costituisce la vita di un popolo, il suo decoro, il suo diritto a corrispondenza di affezioni e di cure presso i fratelli, e ciò dai più lontani tempi fino a noi, dai tempi, in cui sorsero qui i grandi monumenti di Roma »3, fino a questi giorni, nei quali, se la povertà fu retaggio di noi Istriani, non ci e venuto meno il sentimento per ogni italiana grandezza, come lo attcstano le costanti nostre aspirazioni associate con fatti ad ogni opera patriottica, che sia stata prodotta per affermare V Italia, e punite dallo straniero colle carceri, coi bandi, con ogni maniera di tirannie; aspirazioni, di cui certo non sono ultima prova gì'iterati scioglimenti delle nostre Diete e dei nostri Consigli municipali, con esempio superiore ad ogni altro nell'impero austriaco, anche solo in ragione di numero, e di confronto a provincie cento volte più popolose e alle stesse provincie italiane compagne nel servaggio: aspirazioni infine largamente tradotte nel più bell'atto nazionale di quella numerosa schiera di giovani nostri, che accorse presta sotto le armi d'Italia, e che già ebbe a suggellare colla vita l'amore della patria comune '•». In che dunque saremmo da meno degli altri, per subire l'indicibile sciagura di vederci sacrificati all'Austria, di portare ancora le catene del secolare nostro nemico, mentre ogni altra famiglia italica avrebbe trovato pietà o giustizia ? Se poi ci facciamo a chiedere alla storia i titoli di questi paesi ad essere ricongiunti all'Italia, sorgono vanti per essi, di cui andrebbero liete non poche delle provincie sorelle, comecché più illustri per rumorosi avvenimenti e fatte maggiormente oggetto di attenzione all'universale. Con Roma essi furono sempre regioni d'Italia, e fuor di dubbio la più gelosa, come Io provano i monumenti militari, di cui ammiriamo ancora i numerosi avanzi, e che 2 26 Appello itegli Istriani lungo tutta questa frontiera aveva cretto il genio romano di contro alle nazioni d'oltralpe 's. E quando queste, fiaccata la potenza dell'impero, irruppero di qui a depredare ed asservire l'Italia, furono le genti della Venezia marittima e dell'Istria, che meglio d'ogni altra ne salvarono il nome, costituendosi a reggimento di liberi comuni (i primi comuni italiani dell'evo medio) sotto la nominale signoria di Bisanzio l6. Continuò poscia sempre generosa la lotta contro gli stranieri, Longobardi, Slavi, Avari, Unni, Saraceni, si che sappiamo sino d'allora affidato l'onore del veneto vessillo, o, come dicevasi in que'tempi, Yonore del bealo Marco alle galee, alle armi alleate degl'Istriani. Nò il feudalismo della campagna, imposto da Carlo Magno, franse i tradizionali propositi di questa provincia, che, sebbene italiana fosse la corona, a cui ne veniva ascritto il territorio rustico, i municipi preferirono Venezia e pugnarono, per lungo volgere d'anni, con tanta tenacità e concordia di voleri contro la signoria dei marchesi e contro il succedutovi patriarcato di Aquilcja, che fino dal millequattroccnto si trovò anche l'Istria marchesale sotto il diretto dominio della repubblica Che se Trieste segui, per fatale necessità di tempi, altro destino, costretta a dedicarsi al protettorato degli arciduchi d'Austria quale libero comune, che continuò a governarsi da sé, e ad esercitare perfino i diritti internazionali, ciò nulla toglie all'indirizzo storico della parte principale di questa regione, ch'é l'Istria, e che restò sempre, senza interruzione qualsiasi, legata alla fortuna della più italiana potenza d'Italia l8. I nipoti dei prodi, che militarono a Legnano e a Sal-vore '9 (le più splendide battaglie della storia degl'Italiani) vanno pur essi superbi della più bella e più legittima nobiltà, nò questa dovrebbe essere disconosciuta da alcuno dei all' Ha Hit. 22~ fratelli, i quali, a dire senz'irà il vero, non hanno tutti intieramente pure le memorie dei loro avi, per quella maledizione delle guerre civili e degli invocati stranieri, di cui la piccola Istria non si macchiò mai, e senza la 'quale vergogna essa potè lunghi secoli brandire armi repubblicane per glorie italiane, mentre altrove in Italia si faceva corteggio a francesi, spagnuoli e tedeschi dominatori. Non v'ha fatto d'armi, in terra o in mare, segnato dalle venete storie, che non ci rechi illustri ricordi del valore di capitani istriani, e vivono ancora le famiglie loro, che, dimenticate forse sulle scogliere dell'Istria, non dimenticano esse gli obblighi di onore, che vengono da onorate memorie. L'Istria cadde sotto il giogo dell' Austria soltanto allora che vi soggiacque Venezia e per lo stesso delitto del trattato di Campoformio. E se la riparazione del 1805, che fu comune, come voleva giustizia, alla Venezia e all'Istria, andò sperduta sotto le rovine dell'impero del primo Napoleone, essa non deve, non può compiersi ora a metà, senza venir meno al sentimento, che non cessò mai di marcare d'infamia quell'atto, senza sconoscere l'essere stesso di Venezia, la quale non si dirà punto restituita integra all'Italia, quando rimanga spoglia delle sue marine e condannata a guardare ancora da serva al campo più bello delle sue glorie e dell'esclusivo suo dominio. Già ci toccò vedere, ne'suoi arsenali, notati a lettere alemanne i trofei delle cento sue battaglie; ma la stolta offesa veniva dalla mano del signore straniero. Ora voi, Regno d'Italia, fareste peggio, sottoscrivendo di vostro pugno un trattato, che lasciasse austriaci i suoi marinai, i suoi porti, il suo golfo, che abbandonasse ai Tegcthoff il mare dei Dandolo e dei Pisani; voi, Regno d'Italia, di tanto più grande della repubblica di Venezia e tanto più responsabile dinanzi alla storia dell'onore d'Italia. Ma non é già la sola preoccupazione del lustro nazionale, il solo senso di giustizia verso un popolo non meno italiano d'ogni altro cosi nel passato come nel presente, il solo concetto dell'integriti d'Italia, che domandi l'unione di queste provincie al Regno. Meglio ancora di tutto ciò la vogliono le più urgenti ragioni della sua sicurezza. E questo é invero tal campo di politica discussione, su cui vorranno seguirci anche i più positivi, i più rigidi ragionatori. Anzi tanta ò la nostra fiducia che siffatto ordine di considerazioni basti di per sé solo a rendere piena ragione al nostro assunto, che di nuli'altro facciamo richiesta agli uomini di Stato, che non sia lo studio dell'importanza strategica della frontiera orientale d'Italia, lo studio della necessità, in cui versiamo, di prendere le nostre posizioni sull'Adriatico per riparare la lunghissima costa della penisola, che corre dalle venete lagune a Santa Maria di Letica. Possiamo noi Italiani pretendere meno da Italiani? Dalla sella di Saifnitz sopra Tarvisio (la precipua fortezza, che Napoleone I proponevasi di edificare allo schermo d' I-talia) sino al promontorio di Fìanona, ch'é l'ultimo termine italiano alle spalle dell'Istria, apronsi tre varchi nel grembo dell'Alpe Giulia, cioè quelli del Predil e di Ciana-Fiume ai due lati, e il centrale di Nauporto o di Adelsberga, ed é attra\-crso a quest'ultimo che fila la via maestra dell'Austria verso il mezzogiorno, é di quivi che sull'unica strada ferrata, la quale tragittisi oltre la intiera cinta delle Alpi nostre, si versa propriamente dal mezzo della monarchia, come avvenne pure da ultimo, il nerbo delle sue forze contro l'Italia. Ora la linea dell'Isonzo non copre alcuno di questi passi, e nettamente lo disse il gran capitano, che schiuse gli eventi dell'età nostra. Se l'Italia non vuole le più gelose chiavi del Regno nelle mani dell'Austria, se non la vuole inse- all' Haliti. 229 diata sul nostro suolo al più esposto suo fianco, signora delle alture, che dominano l'Isonzo, e della pianura del Frigido, ossia del Vipacco, ch'é una continuazione naturale di quella del Friuli, é mestieri che sull'Alpe Giulia, ch'é quanto a dire sul proprio confine geografico, pianti pure il proprio confine strategico, come suggeriva e pressava si facesse il maresciallo Marmont, già governatore di queste provincie. E a tale officio di difesa si presta mirabilmente l'Istria, posta com'è di fronte allo sbocco del varco principale, e di fianco cosi alla vallata del Frigido come all'altro passo di Ciana o di Lippa Campo naturalmente asserragliato dai monti della Vena e del Caldera, essa ci permette d'impiegare un corpo del doppio minore del nemico per barrargli l'ingresso nel Regno; essa può realizzare il progetto di un quadrilatero italiano sugli ultimi nostri confini d'oriente in quella avventurosa posizione che, mentre comprende tutto ch'é nostro, é ad un tempo l'unica per tutta coprire l'Italia dal suo lato orientale Bene a ragione dunque il primo Napoleone la segnalava siccome il complemento ilei regno italiano, dopo averla già fino dal 1797 chiamata provincia importantissima della Venezia ao. E se così giudicava chi tanto sapeva e non era condotto a rilevare il bisogno d'Italia dal dovere che stringe noi, quale non sarebbe la colpa nostra a non pigliarne cura! La cagione non potrebb'esserne che l'inscienza. Ma quando ne va la salute della patria, l'inscienza é assai più che colpa. E i pubblicisti lo rammentino tutti, essi, che a buon diritto si attribuiscono non le ultime mansioni nella grande opera del fare l'Italia, ma che ad un tempo contraggono con ciò l'obbligo di fare innanzi tutto italiani sé stessi negli accurati e coscienziosi studi di tutti gl'italiani interessi. Né basta la necessità del sistema difensivo terrestre, che l'altra della tutela delle nostre coste é di eguale e forse maggior momento. « Noi (cosi gli Austriaci in celebre scritto di uno de'loro ammiragli, ora imperatore di lontano parse) noi abbiamo bisogno di una flotta nell'Adriatico, la quale protegga i nostri lidi, se non vogliamo considerarli quali posti perduti, abbandonati a subire gli sbarchi del nemico; abbiamo bisogno di una flotta, la quale difenda quel lungo confine, essendo pur confine le coste, e confine di molto più periglioso, avvegnacché il mare sia libero e le navi a vapore valgano ad assalirlo rapidamente su qualunque punto meglio convenga, nò rispondano all' uopo del coprirlo i fortilizi. Questi sono punti e non mura chinesi, e soltanto mura chinesi potrebbero dispensarci dal naviglio di guerra » 2I. Ora chi non vede, essere questo il preciso ragionamento, che dovremmo fare noi? Da Aquileja a Lecce quale costa, quale confine marittimo non abbiamo noi a difendere ! Sarebbe dunque sommo difetto il non possedere una flotta nell'Adriatico e sommo errore il crederci regno solidamente costituito, senza che la nostra flotta superasse di forze l'austriaca. Di ciò vanno persuasi al certo anche i più sbadati, anche quelli perfino, che stimano degnazione loro l'occuparsi di si alto interesse italiano. Ma non tutti misurano le conseguenze della indisputabile necessità, non tutti pongono mente che noi non terremmo flotta nell'Adriatico, senza aver nostro sul mare stesso un vero porto, un vero arsenale di guerra, e che questo porto e questo arsenale assieme non possiamo lusingarci di conseguirlo né da Venezia, né da Ancona, né da Brindisi, che sono pure il meglio, che si abbia a ciò su quel lido: lido basso, piano e sabbioso, senza sviluppo d'insenature, con rade mal sicure ed ancoraggi pochi ed infidi, incerto, instabile, profondamente corroso e smarginato da gran copia di fiumi, di canali e di stagni, nonché esposto ai venti levantini, che ne contrastano la navigazione 22. Venezia è per sicuro opportunissimo deposito di stro-menti da guerra, ma non già porto militare, specialmente dopo i grandiosi progressi recati nell'arte delle costruzioni e degli armamenti navali, essendone molto difficili gli accessi pei banchi di sabbia, che ne avvicinano le ristrette imboccature, pel lido bassissimo, per la poca profondità dell'acqua, pei venti contrari, che vi dominano, per la corrente del golfo, che di là volge: impedimenti tutti assai gravi al rapido movimento delle squadre così nelle operazioni di attacco in sull' uscita, come in quelle di difesa sul prendere rifugio. Egli é però che Venezia tenne sempre l'allestito naviglio nei porti dell'Istria. E rispetto ai porti di Ancona e Brindisi, non fu ormai posto in evidenza che, per quanto denaro vi si profondesse, non ne otterremmo che stazioni navali di secondo ordine? Non sono poi essi, e particolarmente quello di Brindisi da serbarsi ai commerci più vitali della penisola ? Ed anche senza ciò, dove mai vi sarebbe modo, come pur dovrebbesi, di formarne fortezze primarie per custodirvi le ricchezze di quell'arsenale, senza di cui il porto stesso é pressoché nullo? 23 Ma é bensì Pola, che ci dà pienamente quanto ci occorre, Pola, ch'é testa di ponte di Ancona, come già lo fu di Ravenna e Venezia; Pola, che ben può dirsi la Spezia dell'Adriatico, e con posizione strategica ancor più felice, aprendosi il vasto e sicuro e ben difendibile suo porto propriamente sulla punta estrema di quel campo naturale dell'Istria, che sta si dappresso ai varchi dell'Alpe Giulia e s'filtramene, come a dividerne il mare, non meno delle terre e delle nazioni, che là s'incontrano, fra il golfo di Venezia e il Quarnaro, che Italia chiude 2*. Occupando quel porto, fossimo pur battuti al confine, noi saremmo in grado di rifare le nostre sorti. Padroni dell'A- dria invero, noi di là ricondurremmo al campo c sui fianchi del nemico le nuove schiere, le munizioni e provvigioni nostre e varremmo a tagliargli le vie dei rinforzi, a staccarlo dalle basi di Carniola e Croazia. E tutto ciò senza rischio, perocché negli ultimi casi é sempre da Pola che riporteremmo in seconda linea, dietro il Po e sull'Appennino, le nostre divisioni dell'Istria. Questo diciamo non già noi soli. Uomini competenti lo hanno veduto e sostenuto, e fu grande sciagura che ad altri cimenti sia stato chiamato quel prode, che la spedizione dell'Istria diceva il suo ideale e l'opera più acconcia ad assicurare il trionfo delle armi nostre in uno all'integrità d'Italia. Di fronte a tale complesso di ragioni, le quali spingono al riscatto di queste provincie, che importano i riguardi di Germania, e la bugiarda convenienza di tenere avvinta ad essa o ad Austria la città di Trieste? La utilità presunta dei Tedeschi dovrebbe prevalere alla ragione nazionale degli Italiani, alle necessità della difesa del Regno ? Ma dimenticando pure tutto ciò, l'Istria non fu mai della Confederazione germanica, e sarebbe pur tempo che si elementare e si incontrastata notizia, volgarissima tra gli stessi Alemanni, non fosse più mestieri di ripetere tra noi 25. Né Trieste medesima, che l'Austria pretendeva legata a Erancoforte, vi appartenne di diritto, avendovela ascritta una semplice dichiarazione dell'imperatore d'Austria l'anno 1818, atto unilaterale, all'infuori d'ogni consenso degli altri Stati intervenuti al Congresso di Vienna, e però senza efficacia 2Ó. Ora poi ch'é veramente morta quella informe istituzione politica, a che parlarne? Meno ingiusto potrebbe sembrare a taluno quanto viene affermato intorno ai rapporti germanici del commercio di all' 11 ti Ud. 233 Trieste. Lo erroneo asserto, messo innanzi nel Parlamento italiano da illustre generale e ministro, s'ebbe già contro le proteste de' Triestini, e le proteste furono lasciate sussistere in tutto il loro valore della stessa Dieta di quella città, quando, ammonita dal Governo a disdirle, coraggiosa vi si rifiutava, e però veniva sciolta. E noi pensiamo innanzi tutto che saranno bene i Triestini i giudici più competenti dei loro interessi. Che se vogliamo toccare anche in sé la questione, ci torna facile, comecché astretti a molta brevità dalla natura di questo scritto, di togliere ogni dubbiezza. Ormai il gran fatto, su cui é vano chiudere gli occhi, sta in ciò che la Germania commerciale va tutta a settentrione. Ivi i suoi porti naturali di Amburgo, Brema e Lubecca; ivi le relazioni colla Erancia, coli'Inghilterra, col Belgio, col-P Olanda, colla Scandinavia, colla Russia e coi paesi transatlantici , dove ha diretti rapporti quasi unicamente per mezzo di quegli empori; ivi una triplice linea di strade ferrate, che fanno pendere i suoi mercantili interessi verso il Baltico e particolarmente verso il mare del Nord, a tutta ragione detto germanico ; ivi la defiuenza delle principali vie fluviatili della patria alemanna; ivi gli aiuti di fianco, che già vanno e andranno meglio in appresso, degli stessi porti di Marsiglia e Genova ; ivi lo sfogo della corrente centrale dei commerci italiani, appena siano aperte alla locomotiva le Alpi della Svizzera e del Tirolo sull' antica strada veneziana di Norimberga; ivi infine la Prussia, che terrà l'egemonia politica ed economica della nazione germanica. Quale necessaria connessione invece del porto triestino con quei paesi, se perfino a Lubiana, a brevissimo tratto dall'Adriatico, giungono da Amburgo i coloniali; se i manifattori di Boemia e Moravia reclamano quella città come il loro principale stabilimento; se gli stessi centralisti di 234 Appello degli bilioni Vienna, instando per la soppressione del portofranco di Trieste, fanno palese il loro interesse di piegare a un solo versante commerciale anche la Germania austriaca; se infine non é già la Germania a tergo di Trieste, ma si la Slavia colla sua Carinola e con parte di Carinzia e di Stiria? E dopo ciò sarà necessario a Trieste di rimanersi congiunta a uno Stato, che ha si poco interesse economico di tenerla e si poca voglia e forza di giovarla? Questa vieta teoria, a cui rispose qualche fiuto allora soltanto che l'Italia era divisa e serva ed accettava la sovranità di Vienna anche nelle tariffe, non si accorda più alle condizioni del presente, e meno potrebbe accordarsi a quelle dell'avvenire. Ragionare in adesso sui rapporti commerciali del passato sarebbe assurdo. Adesso abbiamo il regno d'Italia sulla faccia di Trieste; abbiamo un grande Stato con ricco sviluppo di marine e ricchissime risorse 4'°gni maniera, il cui vasto corpo si protende nel mezzo del Mediterraneo, quasi approdo gettato dalla natura ai commerci di Levante. Questa e la novità importante, che deve entrare nei calcoli, quando si voglia rettamente giudicare dell'avvenire dei commerci triestini, i quali, volti per oltre le tre quarte parti al Levante e all'Italia, ben potrebbero essere avviati nelle altre piazze italiane. E cosi, come avrebbe Trieste a lusingarsi di vincere la prova sul regno d'Italia, quando fosse un porto austriaco da combattere, anziché un porto italiano sulla naturale via marittima dell'Adriatico da favorire? Non rimarrebbesi invece sconfitta dalle tariffe, dalle ferrovie, dai capitali, dalla concorrenza d'Italia per ogni dove, essa abbandonata alla discrezione e ai casi di una monarchia, a cui non é serbata per lunghi anni che una continua vicenda di crisi economiche e monetarie? — Ritornata invece all'Italia, Trieste é l'anello di congiunzione tra i produttori italiani e g' industrianti austriaci, tra il Mediterraneo e il Danubio dell'Ungheria, che altrimenti si farebbe tributario pressoché unicamente del Mar Nero 27. Sono queste le più indispensabili linee, su cui si disegna l'avvenire commerciale di Trieste, ma esse basteranno, lo speriamo, a rimuovere giudizi, che più non hanno iscusa, perocché le verità per sé evidenti divengono assai facilmente convinzioni comuni. Per l'Istria poi é questione suprema di vita o di morte. Ed invero ben presentiamo noi che l'Austria sarebbe tutta nel già tentato divisamento di spegnere la nostra italianità per toglierci dal cuore degli Italiani e sopprimere cosi l'incentivo delle affezioni patriottiche alla loro politica. Quindi e scuole e tribunali fatti tedeschi o slavi, e una burocrazia straniera investita di pieni poteri a infliggerci ogni guisa di tormenti (*;. E di tal modo, se la Slavia, la quale é sveglia anch'essa e balda di giovanili spiriti va incontro all'avvenire, farà tutto suo nell'Adriatico, che potrà o vorrà allora l'Italia? Sostare é prudenza, se ciò, che non tocchiamo in presente, non ci può mai sfuggire in appresso, ma non cosi, quando urge il pericolo di non conseguirlo mai più. Né meno dei morali seguirebbe sempre più rapida la rovina dei materiali interessi, che la massima parte dei nostri prodotti si smercia da noi nel Veneto, e questo ci diverrebbe niente meno che provincia estera. Estero per noi il campo quasi esclusivo dei nostri traffici giornalieri! Estero la Venezia all'Istria, dopo duemila anni di vita indivisa, e quando l'Austria medesima, visto ch'essa nemmeno economicamente potevate appartenere, fu costretta, con esempio unico, a porla fuori delle sue cinte doganali! (*) Anche qui il Conibi fu profeta. (Nota (ietti Editori.) Unita al regno, invece, diverrebbe l'Istria, eh'e1 tutta un porto secondo il giudizio di Nelson *8, il principale suo stabilimento marittimo; e noi saremmo condotti finalmente a cogliere prospere sorti sul mare, a riprendere il naturale nostro officio di traghettici de'commerci tra il Levante e il centro di Europa. Né sono queste esagerate speranze, che il Governo italiano porrebbe senza dubbio cura solerte a rialzare una si importante provincia di confine, d'onde é il mezzo migliore di porgere la mano alle nazioni della Slavia e dell'Ungheria, nella tradizionale missione del genio italiano di spandere sulle terre orientali il lume della civiltà dell' occidente. Bene avveduti pertanto e diremo anche giusti ci debbono apparire quei pubblicisti austriaci, i quali fino a ieri ci ripetevano che, tolta all'Austria la Venezia, doveva andarle perduta anche l'Istria: sentenza da scrittori, a cui si uniformò a cappello la sentenza dei marescialli dell'esercito austriaco del Sud in quelle leggi marziali, che compresero sotto gli stessi rigori, quasi ad insegnarcelo, precisamente ciò, che va rivendicato all'Italia. E gl'interessi nostri, che il nemico sa, noi ignoreremmo? Difatti l'Italia troverebbe qui, oltre alle già discorse difese della sua frontiera, spertissimi marinai, ricchi boschi per le costruzioni navali, carbon fossile 29. E vedemmo quindi l'Istria anche per questo formar parte del primo regno di Italia, allora pure che Gorizia e Trieste n'erano escluse, e una strada militare esservi stipulata nei trattati internazionali e condottavi con molto interessamento da quel Governo 3°. E quando si formarono sotto il diretto dominio di Francia le provvisorie provincie illiriche, mostruoso amalgama di genti e di cose disformi, lo stesso Governo italiano appoggiava insistentemente i voti e le proteste dell'Istria a non essergli sottratta e otteneva per allora gli fos- sero mantenute almeno le leve dei marinai e le amministrazioni delle saline e dei boschi i*. L'Istria inoltre non é già tutta la costa austriaca, ma anzi la parte minore, rimanendo senza lei all'Impero il lunghissimo litorale della Croazia civile e militare e della Dalmazia cogli stupendi porti di Lussino, Portoré, Lissa a Cattaro. Si tratta dunque di dividere la signoria dell'Adriatico, perchè tutto non resti all'Austria e nulla affatto si accordi all'Italia; né ciò dovrebbe parere esorbitante ad alcuno 3*. Che mai dunque consiglia a ristarsi dal chiedere, se non tutta la frontiera dell'Alpe Giulia, almeno l'Istria? Sarebbe forse miglior partito vivere sulle armi o, peggio, comprarsi la sicurtà mercé di una politica di abdicazioni indecorose e di timidi abbandoni ? L'Austria insiste a voler sue le posizioni più offensive di contro l'Italia, e l'Italia invece altro non domanda che le naturali sue difese. Chi potrebbe negare adunque che considerazioni di gran valore, agli occhi della stessa diplomazia, parlano per noi, se assurdo è apporle ch'essa brami alimentare le lusinghe dell'Austria di rifarsi sull'Italia e metta suoi gusti a prepararsi lo spettacolo d'altri conflitti e commovimenti europei? 33 E noi siamo forti, se volenti: abbiamo esercito e flotta, il cui valore fu provato, e se ci mancò la fortuna, non subimmo per nulla alcuno di que'disastri, che costringono a ritrarsi dal cimento e permettono di piegare il capo al destino senza arrossire. Non ci fermeremmo anzi alle spalle di un nemico, che, prostrato altrove, leva di qui le tende per rivalicarc le Alpi? Dove dunque la ragione dell'atteggiarsi a vinti e spandere ignobili lamenti e più ignobili consigli di rassegnazione? Più delle sconfitte in ogni modo nuoce le molte volte alle sorti di un popolo la esiguità degli spiriti. Il nostro giovine re^no, che tanto ebbe d'uopo del soccorso straniero, non può aspirare a potenza, senza glorie assolutamente proprie. La virtù delle armi, che pure abbiamo pronta a mostrarsi anche negli effetti, ò condizione indispensabile a cementare l'unità della nazione, avvegnacchè altrimenti il più legittimo orgoglio resti insoddisfatto, e i partiti addoppiino passioni e pericoli allo Stato, e il Governo si faccia molle nella umiliata sua coscienza e nello spregio, che lo incoglie in casa e fuori. Noi questo diciamo non per egoismo d'interessi, che a tai sensi ne conformi l'animo. No; e lo protestiamo sul nostro onore, non é la carità della terra nativa, pur tanto giustificabile e giustificata, che ci detti queste parole. Sebbene schiavi ancora dell'Austria, noi ci vantiamo già, come scrivemmo altra volta, concittadini nell'animo dei liberi fratelli e compartecipi nel comun vincolo nazionale d'ogni italiana grandezza. Allo splendore dei nuovi destini d'Italia, noi dimenticheremmo le domestiche nostre sciagure, assai più lieti della maturità di consiglio, che li avesse assicurati, che dei nostri ceppi impazienti. Noi ci sentiamo la virtù di sottoscrivere di gran cuore a qualunque nostra condanna di schiavitù, se questo richieda il bene dell'intiera nazione. Ma ciò non è. È invece l'interesse appunto della nazione tutta, che domanda sia rivendicato al Regno il baluardo dell'Alpe Giulia, e non sia esclusa l'Italia dall'Adriatico, nò si chiuda cosi poveramente la guerra della italiana indipendenza, mentre, volendo davvero, volendo ispirarci al genio iniziatore del padre immortale del nostro risorgimento, avremmo ancora con noi, se vigorosi aiutatori, i nuovi nostri alleati, né certo, per necessità più forti d'ogni gelosia, trasformati in Austriaci gli alleati antichi, e assicurato poi in ogni caso il voto del generoso popolo italiano e lo slancio dei prodi nostri soldati e il plauso delle civili nazioni. Né se in noi parla assieme alla ragione l'affetto, ci crediamo men giusti argomentatori di chi impone silenzio al cuore, e a questo prezzo, ma non senza offendere in uno la logica dell'onore nazionale, si dà pregio di riposato ingegno e di saggezza. Ma tra la cieca passione, che esige l'impossibile, purché ne venga arma di partito, e la singolare saggezza di chi pregusta, come pure lo udimmo in questi giorni, la buona amistà d'Italia coli'Austria signora di provincie e di frontiere italiane, e i cordiali nostri rapporti coi fucilatori dei naufraghi di Lissa ancor padroni del già sempre nostro Adriatico, vi é una saggezza ben diversa, la saggezza di chi si rispetta e rispetta meglio la nazione, confortandola a non mostrarsi al di sotto del suo nome e della sua fortuna, a non abdicare a'suoi più gravi interessi, solo perché men facile dell'addormirsi nell'ingloriosa quiete ne sia il conseguimento. La nazione italiana nella voce de' suoi municipj, delle popolari adunanze e della stampa, e il suo Governo negli alti consigli della Corona, confidiamo saranno saggi di tale saggezza, ed ecco la ragione, per cui proferiamo ancora la povera nostra parola in difesa di una causa, ch'é causa anch'essa, e non ultima, d'Italia. Dall'Istria, il 27 luglio 1866. NOTE. 1 Che l'Itali* indipendente nella sua Integrità sia pegno di pace all'Europa, lo disse anche Napoleone 1 [Mimi, di Saint Hclint, Paris, 1823). * Tutto questo è perfettamente conforme a quanto affermarono ed affermano innumerevoli geografi. Vedi, ad esempio, quanto all' epoca romana, Plinio, Tolomeo, Dionigi Afro. Sulle Alpi Giulie, quas Vtnetat apptllabat antimiitas (A. Marceli., libro XXXI, cap. XVI), sorgevano are per segnare i confini naturali d'Italia, secondo quello che narrano Agostino, Teodoreto e Ruffino. Paolo Diacono (Rtr. il. script., t. I, De Fast. Long.) scriveva Vcnetiat et Histriae prò una provincia habeitlur, e più oltre (lib. II); Terminus Vcnttiat a Pannoniae finibus usane ad Adina m jluvium. Dove rcst» dunque la capricciosa opinione di coloro, che vorrebbero oggi l'italianità dell'Istria una importazione della veneta repubblica in sul principio dell'evo moderno? Dove l'altro capitale errore che l'Istria appartenesse all'antico Illirio, quando essa non ne apprese per se l'odiato nome che in questo secolo? (Carli, Antichità Italiche — Istria fuori dell'Illirio, pag. 194-206 del t. I; Milano, S. Ambrogio, 1788-1791.) B dopo Dante, i cui versi ognuno rammenta, il Biondo trattava dell'Istria nel-V undecima regio lialiat. E il veneziano Coppo (Del sito dell'Istria, Venezia, Biondoni e Pasini, 1 $40) : Due gran montagne, aderenti alle Alpi, separano V Italia dalla barbara natene, una chiamata Monte Caldiero, l'altra, sopra il Carner (Quarnaro), chiamata Monte Maggiore: confine questo, che da pure l'Alberti nella sua descritlione di tutta la Italia et isole ad essa appartenenti (Venezia, Bonclli, 1553, P*g. 443-446). Nè diversamente il Giambullari, nella cui Istoria dell'Europa leggiamo: L'Istria attinta provincia d'Italia dalla banda dove il sol nasce; e prima di Ini il Sanuto (Itinerario ; Padova, M83. P»g- M«)-' L'Idia ultima regione d'Italia, fine et termine. Il Guicciardini poi, nella descrizione d'Italia, che verrà stampata in un prossimo volume delle sue Opere inedite, fa menzione di Pola ultima città e di Albona e Terranova, ultimi luoghi d'Italia e dice l'Istria inclusa tra il mare Adriatico e le Alpi, che dividono Italia da Alemagna, come vediamo riferito nel lavoro di Giuseppe Canestrini / confini fra l'Italia e la Germania inserito nella Nuova Antologia luglio 1866. E colla stessa chiarezza e certezza discorrono altresì i geografi stranieri d'ogni tempo. Per essere brevi, ci limitiamo a riferire il Cluverio e Luca da Linda tra i vecchi, e 1' autorevolissimo Maltc-Brunn tra i nuovi. Dalla Géogr. Univ. lib. CVI, di quest'ultimo ci piace riprodurre il seguente brano: Consìderit dans ses limites natu-relles, la partii septentrionale de etite contrée (l'Italie) compremi tout le versant des Alpes depuis la branche appelie Alpes Cotiennes jusqu'i celle, que l'on appelle Alpes Julienne!. — A peine arrivis sur le versant meridional des Alpes, nous voyons (bangi» lout-à-coup la ve'gètaliou, les hammes et les usages. Il semble qu'un clima! favorable au laurier, au m\rt et à V Olivier porte V homme à Y amour de la gioire et aux bienfaits de la civilisation. Citiamo finalmente, dei nostri geografi e statisti più recenti, il Balbi (Scritti geografici e statistici — Dell' Italia e de' suoi naturali confini, vol. V, pag. 87-101), il Marmocchi (Descrizione d'Italia, p. Ili, lib. V. cap. 1), i fratelli Mezzacapo (Sludi topografici e strategici sull'Italia, P. I. cap. I, 5 8), Io Stato Maggiore Piemontese (Le Alpi che cingono l' Italia, al capitolo Altipiano Giulio), il Bonfiglio (Italia e Confederazione germanica, app. L — I termini d'Italia), l'Amati (Confini e denominazioni della regione orientale dell'Alta Italia; Milano, Bernardoni, 1866). Che più, se la famosa espressione di Napoleone III: dall'Alpi all'Adriatico ha il pieno suo commento nelle parole di Napoleone I dettate a Gourgaudct e Montholon, e che sono le seguenti : La divisione naturale dei monti passa tra Lubiana e t'Isonzo e tocca l'Adriatico a Fiume (Mémoires de 'Njtpolcon, vol. IL) 8 Anzi nemmeno l'Isonzo, ad essere esatti, perchè la linea di confine tra il Veneto e il Goriziano ò ancor più a destra di questo piccolo corso d'acqua. Ricuperando la sola Venezia amministrativa, rimarrebbero all'Austria niente meno che Plezzo, Ca-poretto, Starasella, e i distretti di Cormonsio, Gradisca e Cervignano con Aquilcja e Grado ! * Queste dovrebbero essere notizie volgari. Nondimeno citiamo il trattato di Campoformio 17 Ottobre 1797 (Neumann, toni. I. pag. 576, e Marleus, toni. VI, pag. 423), confermato, rispetto a queste provincic, dal trattato di Luneville 9 febbraio 1810 (Neum., toni. II, pag. 1, e Mari, tom. VII, pag. 286), perchè in relazione ai successivi trattati di Prcsburgo 26 dicembre j8o> e di Fontaincbleau 10 ottobre 1807 (Neum., tom. II. pag. 185, 198, e Mari. tom. Vili, pag, 388) si vegga come l'Austria possedesse dominj anche sulla destra sponda dell'Isonzo prima del 1797, e ne tenesse alcuni anche dopo Fontaincbleau, quantunque l'Istria allora, e fino dal 1801, fosse stata già ritolta al breve suo dominio e unita colla sua Venezia al Regno di Italia. Vedi il decreto di aggregazione 30 Marzo 1806, n. 34, art. III (Bollettino delle leggi del regno d'Italia, P. I del 1806, pag. 250), e poi quello di organamento 29 Aprile 1806, n. 55 (I. e, pag. 388) e l'altro della divisione definitiva dei dipartimenti 22 decembre 1807, n. 2J3 (I. e., P. III del 1807, n. 253 (I. e, P. Ili del 1807, pagina 1401). L'Istria, come all'art. VI, fu divisa nei due distretti di Capodistria c di Rovigno, e in sette cantoni, che furono Capodistria, Pirano, Piiigucntc, Parcnzo, Ro-vigno, Dignano e Albona. Dai riferiti atti risulta poi ancora che, fermato pure il regno d'Italia all'Isonzo, non ne rimaneva gii esclusa l'Istria. Anche nella peggiore ipotesi adunque confine dell'Isonzo non volle mai dire esclusione dell' Istria dall'Italia. Lo stesso Napoleone ordinava una strada militare, che congiungesse, attraverso i possedimenti austriaci di Trieste e Gorizia, il dipartimento italiano dell' Istria al maggior corpo del regno, quando questo aveva per termine la linea dell'Isonzo (Thiers, Cous. e http, libro XXV1I1) e giudicava an\i necessaria la provincia istriana alla difesa di lai linea (Lettera del viceré Eugenio al duca di Ragusa, in data dei 27 Settembre i 806). Trieste e Gorizia infine furono staccate dall'impero austriaco col trattato di Vienna 14 Ottobre 1809 (Neum., toni. II, pag, 309, e Mart., toni. I, pag. 217) assieme a parti di Carinzia, di Carinola e di Croazia, colle quali si formarono poscia quelle provincic illiriche, che recarono per la prima volta cotal nome straniero al di qua dell'Alpe. Lssc per altro, quale governo francese interposto a Italia ed Austria, non era una vera separazione dal regno italiano (Tiiilrs, Cons. e Imp., lib. XXVIII), ma ordinamento inteso a completare il possesso del Friuli (Note de Napoleon sur Ics provinces illyriennes. Mimoires du marèchal Marmont, voi. II, lib. IX): ordinamento provvisorio, che non doveva togliere all'Italia, nell'ultima sua rifusione, quanto era ed egli stesso avea giudicato suo per diritto e per necessità di esistenza (Tiiihks, I. e). b Attcsti ciò- ogni pagina dei sette volumi dell' Istria vasta e preziosa collezione di scritti riguardanti quella provincia eseguita per opera dell' i r. consigliere di luogotenenza, Pietro D. Kaudlcr. 0 Rimandiamo il lettore al capitolo Istria abitata dagli Etruschi e Pelasgi, e a quelli, che seguono nel toni. I delle Antichità italiche di Gian-Rinaldo Carli (Milano, Sauto Ambrogio, 1788-1791).' 7 Bellissimo attestato ci rilasciò lo stesso nemico nell'opuscolo Trieste e il suo avvenire (Trieste, 1861), che si sa scritto dal consigliere laulico signor Pascotini, già ff. di luogotenente del Litorale. * In conferma sta la medesima Etnografia dell' Austria del barone Carlo Czórnig, direttore della statistica dell' Impero. 0 Vedi Fasti istriani nel vol. V della citata collezione Istria. II prezioso documento poi, relativo alla prima introduzione di Slavi in Istria, e nn placito di Carlo Magno, tenuto nella valle del Risano V anno 804 da' suoi missi dominici, e leggesi učil' Appendice delle Antichità italiche del Carli, a pagg. 5-12. i° Nel 1848 quanti villaggi slavi furono interpellati intorno alla nazionalità, che desideravano fosse riconosciuta ncll' Istria, risposero italiana. I relativi protocolli sono custoditi nell'archivio del Municipio di Capodistria. E qnando il Governo domandò, or sono pochi anni, al villaggi slavi dell' Istria, se volessero italiano, slavo o tedesco il Bollettino delle leggi, tutti risposero italiano. Sono questi slavi infine, che, all' annunzio della caduta della repubblica di Venezia tumultuarono in pili luoghi, mentre fuori di qui. come narra l'Antonini nel suo Friuli Orientale (Milano, Vallardi, i86>), si abbatterono i leoni di San Marco. 11 Centinaia di scritti comprovano la civiltà esclusivamente italiana dell'Istria, c ognuno pmS convincersi, prendendone cognizione colla scorta della Bibliografia istriana (Capodistria, Tondelli, 1864), la quale annovera 3000 c più opere riguardami questa provinci* Noi qui ci limiteremo a riprodurre dalla Vénétie en iS6j (Parigi. L. Hachette et C.) il seguente giudizio: L'Islrie présente, avec dei proportions réduites, le tableau, que uous avons trace de Venise. I.a stessa Giunta Provinciale dell'Istria, composta d'uomini eminentemente governativi, lasciò scritto nella sua Relazione sulle scuole (Atti della Dieta, vol. II. pagina 484; Rovigno, Coana, 1864) quanto segue: L'Istria non ebbe mai altro indirizzo civile che a mezzo d'insegnamento italiano e lutto, che costituisce il patrimonio della sua coltura così nel passato, come nel presente vale a dire Uggì, istituzioni, lettere ed ogni altra manifestazione d' intellettuale e morale maturità, appartiene ad esso. — Anche lo scambio dei prodotti vedesi seguire la slessa legge, per poco che si veglia gettare uno sguardo sui progressi della coltura italiana nella campagna slava: progressi, che per nulfatlra operazione si compiono, che per quella dai traffici. Secondare dunque la natura é dovere e necessità, perchè altrimenti adoperando, si farebbe opera che andrebbe perduta. Né diversamente suonano i desideri delta provincia tutta. L'insegnamento italiano é necessario non meno agli slavi che agli italiani abitatori di questo paese, e ad ogni modo è l'unico, che qui si abbia c che fornisca quindi una base certa, su cui fondare il bene comune. Nò indegno d'essere riferito crediamo il fatto, che dei duecento studenti all'in-circa, i quali frequentano il Ginnasio di Capodistria, gli slavi (di nascita e non di cuore) non giungono mai alla decima, come ne rendono fede gli stampati Programmi di qucll' istituto. Anche la classe dei doviziosi infine è tutta italiana, e l'Osservatore Triestino nella parte officiale (21 e 22 Marzo 1861) ne contiene la prova, elencando pressoché duecento censiti istriani dei gran possesso, e fra questi non più di quattro o cinque slavi. Avvertiremo infine che 1' etnografia dell' Istria e trattata distesamente nella Porta Orientale, anno III (Trieste, Coen. 185S) e nella Rivista contemporanea (fase, di Settembre 1860, s fase, di giugno 1861 ). " V. tra le molte opere, che trattano degli ingegni illustri dell' Istria, la Biogra-phie universelle (Paris, Michaud, 1811-182S). e gli Uomini distinti dell'Istria, di P, Stan-covich (tre volumi; Trieste, Marenig. 1828-1829). 18 Pochi ignorano di certo l'anfiteatro di Pola, ed è notoria tra gli studiosi la bellissima descrizione dello splendore delle arti in Istria, che trovasi negli scritti di Cas-siodoro (lett. XXII del lib. XII). 14 Un saggio delle costanti dimostrazioni italiane a Trieste e nell' Istria da parte di ogni classe di persone trovasi nel citato opuscolo del consigliere Pascotini, ed altro, non meno interessante, nella Presse di Vienna del 6 luglio 1862. Ma a che allegar prove? Il giornalismo italiano non portò le cento e più volte a conoscenza del pubblico gli onorevoli fatti del patriottismo italiano dell' Istria, tra cui non ultimi i generosi contributi in ogni patria soscrizione ? E non leggemmo testé, come parecchi giovani istriani e triestini, appartenenti a stimabili famiglie, lasciassero la vita sul campo dell'onore? Rispetto poi agli scioglimenti delle nostre Diete e dei nostri Consigli municipali, richiameremo alla memoria del lettore la notevole dimostrazione della Dieta istriana del 1861, la quale deliberava ripetutamente che nessuno avesse a rappresentare l'Istria nel Parlamento di Vienna, e rifiutandosi in uno a qualunque indirizzo di fedeltà, vi sostituiva coraggioso atto di accusa contro le mali arti adopratc dall' Impero nell' I-stria. E però, mentre fu la prima Dieta, che sia stata sciolta nell'Austria, s'ebbe pure il vanto della schiettezza ardita sopra ogni altra. Seguirono quindi gli scioglimenti della Dieta triestina per due volte e del Consiglio di Pi sino. c alla vigilia della guerra quelli dei Municipj di Gorizia, Capodistria e Pitano, egualmente tutti per reato d'italianità. E in questi e in molti altri modi, ben più rischiosi ancora, provocammo anche noi, e quanto altrove mai. le ire di Vienna, sebbene non ci sorridessero le speranze di un vicino riscatto cosi piene, come alle consorelle provincie della Venezia. Né ciò tutto è nuovo al governo d' Italia, e se il patriottismo istriano non ebbe mai d'uopo di eccitamenti, vero é più che nemmeno questi mancarono, e con essi il conforto della richiesta opera nostra. ,R Rammentiamo fra altro gli Studi intorno a/la scoperta delle antiche chiuse d' Italia del cavaliere Sacchi, nei Rendiconti del R. Istituto lombardo di sciente e lettere (fase. I e II, vol. II, 1864), nonché le Millheilungen des hislorischen Vercins fiir Kraiu (anno IX, pag. 31 e anno X, pag 13). 18 Sperante d'Italia, cap. VII. 17 V. Carli, Antichità italiche (vol. Ili e IV); la collezione Istria; la Porla Orientale, a. I, II e III. E i documenti, che in queste opere si ragionano, rimontano ai più antichi tempi, come quello di Carlo Magno, tanto bello pel valore degli Istriani, eh'é riportato dal Duchesnc negli Historiae Francorum scriptores (Parigi, 1616-1649). '* Che la città di Trieste siasi conservata libero comune italiano, estraneo sempre al. l'impero germanico, si dà la prova la più documentata e convincente dallo Scussa (Storia cronografica di Trieste: Trieste. Coen, 1863) — dal Rossetti (Meditazione storico-analitica sulle franchigie della città di Trieste dall'anno y./y fino al iSjg: Venezia, Pi- 244 Appello degli istriani cotti, 1816 — e dal Kandler (Storia dei consiglio dei patrizi di Trieste dal al iSoo,; Trieste, I.loyd, 1858): «moti tutti, e lo si noti bene, distinti per devozione all'Austria. — Il Bonfiglio (Italia e Confederazione germanica) vi aggiunge nuovi e validissimi argomenti desunti dagli stessi statisti e atti officiali di Germania. Bene riassunti si leggono essi nella Memoria sulte condizioni politiche ed economiche di Trieste, presentala a S. E. il barone Bettino Ricasoli (Firenze, Barbèra. 1866). 19 Riguardo alla battaglia di Salvorc e a quanto si ragionò poi del dominio di Venezia sull'Adriatico, veggansi i numerosi scritti, che la Bibliografia istriana cita a pagina 121-11;. 80 L'argomento è svolto largamente, e colle rispettive citazioni dei più autorevoli giudizi, nella Frontiera Orientale a" Italia (Politecnico, vol. XIII. 1862). nella Importanza strategica dell'Alpe Giulia {Riviua contemporanea, fasc. di Aprile 1866), e nelle anzidette opere del Bonfiglio. Che il Veneto senza l'Alpe Giulia sia scoperto, lo videro tutti anche in passato. Leonardo Donato, procuratore di San Marco (come leggesi nella Storia del Friuli del Palladio) ammoniva caldamente il Senato a provvedere alla salvezza della Repubblica, essendo il Friuli non difeso dall'Isonzo, ma porta disserrata agli oltramontani. E lo stesso Palladio indica il cammino di costoro su quella Strada Hungarorum, che da Ciana appunto e per la Carsia, di sopra all'Istria, metteva nel cuore delle venete Provincie, e di cui dice anche il Giambullari nella sua Istoria, lib. II. E quindi ben ricorda l'illustre Correnti (Annuario statistico italiano, anno II), che la regione più insidiata all' Italia è la sua porta orientale, V Istria. Perciò Venezia mirò sempre a conquistarsi i confini naturali, e raggiunse Io scopo nella guerra contro Massimiliano, e non se ne sarebbe rimossa, ove la lega di Cam-brai non le avesse franto l'impresa. A convincersi di questi intenti della Repubblica, che pur era padrona dell'Istria, a rivendicare all'Italia tutta la sua frontiera orientale, veggasi, p. e. tra i vecchi storici Raffaele Caresino presso Muratori (Rerum, ital. script., vol. XII, pag. 473), e dei più vicini a noi. l'austriaco Morelli (Storia di Gorizia, vol. I; Gorizia, Seitz. 18^4-1855). il quale narra come l'Austria temesse che Venezia o presto o tardi avrebbe tentato estendere il proprio confine dalle rive dell'Isonzo ai sommi vertici delle Alpi Giulie per congiungere i suoi dominj di terraferma all'Istria e signoreggiare gli ampi varchi della Carsia. E difatti il Luogotenente della Patria Vito Morosini (Relation del Magnifico N. Vido Morosini ritornate luogotenente delta Patria del Friuli, presentala in collegio a dì 2) Febbraio r/70 ; Udine, Trombctti-Murero. :857) scriveva: A ovviare a questa furia turchèsca et impedire il suo passaggio, io stimo che non si po>sa farlo ni più facilmente ni più comodamente che alti medesimi passi del Camio e del Carso... Io tengo impossibile il poterti ostare ne al fiume Lisonz«, ni in altri luoghi della Patria. Che se non rimarranno a Vienna i preziosi documenti, relativi a queste provincic, di che si spogliano ora gli archivi della Repubblica, ben altro impareremo a Venezia, circa i nostri più urgenti interessi sui lidi dell' Istria. E nessuno dei dominj, che toccarono l'Isonzo, si tenne pago di questo confine. Cosi il Forum Julii, che imperò a tutta l'Alpe Giulia, e il Ducato c la Marca del Friuli, e i| Patriarcato di Aquileja e la stessa Venezia, quantunque arrivatavi troppo tardi di contro agli arciducali, col suo distretto di Monfalcone, a non dire dell'Istria, pur sua. Se poi veniamo al giudizi dei tempi nostri intorno alla importanza italiana di questa frontiera, ricorrono autorità ancor più gravi. Rimandiamo quindi il lettore a leggere quanto ne scrissero il Maresciallo Marmont (Métti., lib. IX, pag-369-371, libro XIV, pag. 457-438, 756 ecc.) — il Thiers (Coki, e Imp„ lib 52), — il cav. Annibale Saluzzo (Propugnacoli dell'Alia Italia nella Rivista Militare di Torino, a. IV, vol. Ili) II Marmont suggeriva, clic, essendo del tutto scoperto l'Isonzo, dovesse estendersi lo Stalo italiano alla linea di que'monti, che formano le leste delle valli dell' ldria e del Vi-pacco e si prolungano fino a poco oltre Trieste, capo e appoggio di una valida linea militare difensiva. E l'Austria, che ciò temeva, andava progettando, come progetta senza dubbio anche Oggi, le sue difese sul nostro suolo, e quali fossero, lo espone V Hi-stoire politique et mililaire du prince L'ugéne Napoleon par le general de Vaudroncourt (tom. I, pag. 127; Parigi, Mongie, 1828). Ma sopra tutto sarà bene Napoleone I che meriterà fede. Fa egli che chiamò la Alpe Giulia compimento del Regno Italico (Tihers, lib XXIII), — che giudicò non sarebbe Y Austria esclusa dall'Italia, senza che la linea dell'Adige fosse portata all'Alpe Giulia (corrispondenza tra Bcrihier e Marmont, nelle Mémoires di quest'ultimo, libro IX, Schònbrunn 28 e 31 Decembre 1805; Linz, 28 Gennaio 1806; Monaco, 5 e 26 Febbraio), — che disse Palmanova non atta a difendere nemmeno l'Isonzo (Mnnoir. Marmont, vol. II, lib. IX). — che distingueva l'Istria pclla sua importanza tra le altre venete provincie (Nota diplomatica di Bonaparte ai plenipolenzian austriaci, in data del 28 Luglio 1797, riferita da Daniele Pallaveri nel suo Campoformio (Firenze, Le Mounier, 1864) — e che dettò perfino, sia pure con frase esagerata, che l'Istrie l'empori par la convenance et par la valeur intrinsèque de beaucoup sur la Lombardie (Mémoi-res pour servir d l'hisloire de France sous Napoleon; Paris, 1S2;, vol. VI, pag. 54J). Onore quindi al generale Guglielmo Pepe, che nel 1848 scriveva al magnanimo Carlo Alberto: Sire, vi saluterò Re d'Italia quando avrete passalo l'Isonzo (Antoniki, Friuli orientale; Milano, Vallardi, 1865, pagina 463). *' Citiamo in proposito le seguenti opere: Die oesterreichische Marine von einem oesterreichischen Scematine (Vienna, Zamarski e Dittmarsch, 1860); — Betrachluttgen, eines Sce-Offiyers ueber die Verbindung der Donau mit dem ^Idriatischtn Metre (Vienna Gcrold, 1861); _ Uebtr die U'ichligHeit des adriatischen Mters far Oestcrreich und desiai Verleheidigung di B. Wììllkrstorf. (Vienna, 1861). 28 // Mare Adriatico di G. Kilt II (Zara, 1848); — Coinidera?ioni sul prolendimenlo delle spiagge e sul/'insabbiamento dei porti dell'Adriatico, di P. Paleocm»* (n. 2 e 3 del Bollettino dell'iiimo di Suez; Torino, l8j6); — e il citato opuscolo del WììllkksTour, 58 Vedi / termini d'Italia dell'avvocato professore S. Bonfiglio (Firenze, tipografia militare, 1866, pag $3 e seg ); — Confini e denominazioni ecc., del professore A. Amati (Milano, Bernardom', 1866, pag 28 e seg.); — Resoconti delle sedule della Camera dei deputati del Regno d'Italia (a. 1861 e 1862; interpellanza del generale Bixio sui lavori di Ancona); — Porlo di 'Brindisi ne\V Alleanza (Milano, 1862, mesi di maggio e giugno). M II consigliere di stato Bahgnani, nel memorabile suo Rapporto relativo all' Istria presentato l'anno i3o6 al viceré d'Italia e pubblicato dalla l'orla Orientale (a. II e III) scriveva (pag. 17 dell'a. II): / 'lue fiorii di Pola e di Ntuporto ostia Quieto mentano di essere annoverati fra quelli di prima classe, avvegnaché, atti come sono per la loro ampiezza e profondità a ricevere qualunque flotta, reggono al confronto dei più celebri di Europa. E difatti i porti di guerra di Roma e Venezia erano appunto Pola e Nauporto. Quivi sempre, e fino alla caduta della Repubblica armaronsi e svernarono le venete triremi, e quivi i nemici di essa facevano forza a ferirla, si che può dirsi ben giustamente, aver l'Istria, nelle guerre di Venezia, tributato con largo animo non solo il sangue de' suoi marinai, ma quello pure delle famiglie loro, su cui cadeva quasi intieramente il furore delle stragi. E il gran sacrificio continua, finché l'Austria tiene Pola contro l'Italia, l'Austria che vi sta, non gii a difesa propria, ma in nostra offesa. Come dunque potremmo noi rinunciare a quel naturale baluardo d'Italia, noi, che si bene lo sapevamo nostro, quando vi irrompevano le armi di Pisa e di Genova? Si dovri cominciare a dirlo non italiano ora che vi andremmo liberatori, e non più fratricidi di Venezia ? L'importanza di Pola ha poi le più autorevoli attestazioni anche da recenti scrittori P. e il dotto J J. Baudk, membro dell'Istituto di Francia, nella sua memoria La Marine de l'Aulriche, Calamoia, Trieste e Pola (Revue des denx Mondes, pag. 377-414, 15 novembre 1856) cosi si esprime: La position de Pola, protègèe par la configuratali du tcrritoire aàjacenl, dangereust d attaquer, facile à secourir, couvre mieux qu'aucune unire les élablisscme its situés au fonde du golfe.... Aucune des positìons maritiines de l'Europe n'est aussi favorisce que celle de Pola par l'abondance et la qualitè des vivres de bora, celle base de la vigueur et de la sauté des equipages.... Celle réuuion d'avantages stratégiques à Pola a faìt de celle place, en dijfércnts temps, le siège des principales forces navalts de VAdriatique, le bui d'ambilions inlclligentcs et le théàlre des combats sanglanls. Veggasi pure il citato opuscolo del 'Wui.i.erstorf, attuale ministro del commercio a Vienna, e il libro di 11 Amerò, che porta il titolo Italie et ses ressources mililaires. Evidentemente adunque Pola vuol dire per noi l'Adriatico, e ciò non solo nei riguardi militari, ma in quelli pure de' commerci e particolarmente della navigazione mercantile, che deve poggiare, come poggiò sempre, ai lidi orientali di questo canale italiano d'ogni tempo : canale italiano, come lo chiamò il Balbo, che non sapremmo invero per quale confusione di idee dovrebbe tramutarsi, e precisamente dopo l'Italia fatta, in Mare Germanico, del Sud, quale aggiunta generosissima al Mare Germanico del Nord. E qui, a confutazione di coloro, che stranamente riputassero, aver l'Italia le spalle, anziché la fronte sull'Adriatico, non potremmo certo mettere innanzi argomento più calzante di quello, che leggiamo nei Termini d'Italia del Bonfiglio. « Se si osserva " (cosi egli a pag. 40) primieramente che l'Italia, più che al Tirreno e al Jonio, è ■■■ inclinata all'Adriatico, a cui volgesi tutta la sua parte settentrionale interposta al-< l'Alpe e all'Appennino, e tutta la sua parte orientale del Po ad Otranto, ed in se-« condo luogo che quel mare, a cui più 1' Italia degrada, va ad essere campo prin-• cipale del commercio di duecento milioni di industri europei con trecento di asia-11 tici abitanti le terre più produttive del globo, ad evidenza si scorge com'egli é « sull'Adriatico che noi dovremo avere la massima nostra po-« tenza navale. » 84 Vi ha nn proclama 26 luglio 1848 dello stesso governatore del Litorale conte Salm (riferito per esteso dal Bonfiulio nell'opera Italia e Confederazione germanica, P;,g- /67)1 '1 quale dichiara esplicitamente, non appartenere, nò avere mai appartenuto l'Istria alla detta Confederazione, e ciò per togliere il sospetto, che s'era destato, volesse l'Austria levare truppe in questa provincia per l'esercito di Germania. E però l'Istria, nel chiedere coraggiosamente, sotto lo stato di assedio nel 1859, con atto scritto de' suoi Muuicipj, diretto all'Imperatore, la propria aggregazione alla Venezia e quindi alla immaginata federazione italiana, potò bene richiamarsi al fatto del nessun vincolo suo con Francoforte. 88 La citata opera del Bonfiglio ragiona largamente delle specchiate verità storiche, per cui rimane esclusa ogni appartenenza della città di Trieste alla Confederazione germanica, e riferisce testualmente le importantissime dichiarazioni dei governi di Francia, Inghilterra e Russia contro le mire austriache di germanizzare paesi, che non erano tedeschi tant sous le rapport de la languì qui de l'origine: dichiarazioni dov'ò detto perfino, e per bocca del Governo russo, « que en Autriche l'òlément révolution-naire c'est l'òlément germanique. » 8T Chi vuole rimanersi convinto, sulla base delle cifre, di quello, che abbiamo qui detto, ricorra alla più volte rammentata opera del Bonfiglio, alla Memoria sulle condizioni di Trieste, al Rapporto della Cimerà di etmmercio e d' industria di Trititi al Ministero di Vienna sul triennio i8f7-iS;o (Trieste, Lloyd, 1861), e all'altro Rapporto della stessa Camera, di cui fu or ora pubblicato un brano nella Triesttr Ztitung del 2} luglio corr. Quest'ultimo scritto supplica, che si provveda a conservare il carattere nazionale ai prodotti italiani destinati a rientrare in Italia dai porti dell'Austria. Una corporazione austriaca adunque chiede al Governo austriaco che Trieste sia da lui considerata • quale porto del Regno d'Italia per ciò che forma una delle più cou-« siderevoli partite de' suoi traffici I • Il Governo italiano ponga mente a ciò e alle domande, che non mancheranno di piovere al gabinetto di Vienna da quelle camere mercantili per un trattato di commercio coll'Italia. Codesto trattato, ch'ò assoluta necessità all'Austria, mentre per noi sta nei termini di una mera, e non larga convenienza, può esserci argomento utilissimo ad avantaggiare la questione politica. E da siffatte manifestazioni dello stesso ceto commerciale austriaco non può non risultare, come risultò altra volta, riprova ulteriore di quanto affermiamo rispetto all'avvenire dei mercati triestini in questo nuovissimo tempo, che avviò dappertutto e allargherà sempre meglio le comunicazioni dirette, ed esige quindi per lo slancio delle speculazioni il favore di ordini liberali, politici ed economici. Egli ò però appunto che perfino i più devoti all'Austria aggradirebbero che Trieste fosse città libera. Domandiamo quindi anche noi, se questo ordinamento, ove a Trieste toccasse la sventura di vedersi ancora disgiunta dalla sua nazione, non risponderebbe a buone ragioni internazionali? Se fiori tanto, per sè e per ogni Stato vicino la tedesca Amburgo sul Mare Germanico, perché non potrebbe prosperare sull'Adriatico a vantaggio non meno d'Austria che d'Italia la città di Trieste, quale Amburgo italiana ? 2s Vedi Frontiera Orientale il' Italia nel Politecnico, vol. XIII. Tra ancoraggi e poni, anche per grossi navigli, se ne contano pressoché settanta da Duino a Fianona. 50 Che ai prodotti dell'Istria fosse pur nel principio di questo secolo, come per lo addietro, quasi esclusivo campo di smercio la Venezia, e che il Regno d'Italia ne traesse largo vantaggio anche per lo Stato, espone chiaramente il surriferito Rapporto del Bargnani (Porta Orientate, ». II, pag 23, 26, 39-40, 44,3. III, pag. j-7). E i boschi e le saline erano, come sarebbero ora e in proporzione maggiore, di sommo profitto al pubblico erario. Le esportazioni poi dei vini, degli oli, delle pietre, gii considerevoli, prenderebbero ben altro impulso da leggi nazionali e nel conseguente sviluppo dello spirito di associazione. E però il Baude nell'anzidetto sno scritto, dopo osservato che « un intòròt de « premier ordre à considércr dans la fondation d'un port militaire, c'est la facilitò •< des approvisionnements cn maicriaux de construction, en combustible, en vivres de « bord, >> assicura, come « sous ce triple rapport le h.ivre de Pola laisse pcu de chosc « à désirer ». E nominatamente per ciò che riguarda il legname, nota che » le h.ivre « de Pola tirerà de la prcsqu'ilc d'Istria clle-mòme, et notamment de la foròt de ■1 Mommi.1, qui en ombrage le centre, des bois de elicne aux quels 011 ne connaìt, « meme i Naplcs, ricn de superieur en force, en souplesse et en duréc. » Né minori delle materiali sono qui le risorse morali per la marina italiana. « Ses « rcssources en hommes sont au moins au nivean de ses ressources en materici. » Cosi il Baunn, che chiama inoltre il litorale istriano « pepinière des marins... la première « officine d'hommes de mer, qui soit au monde » e conchiude, che « l'empire du « golfe ne peut appartenir qu'i ceux qui la possèdent ». E gii il maresciallo Marmont (Mèmoiret, lib. XIII, pag. 368-369), nel discorrere della guardia istituita in Istria per la difesa delle coste, cosi attestava in generale dello spirite della popolazione: « Jamais je n'ai vu nulle part, en aucun temps, une • gard si digne d'otre comparèe aux troupes de ligne. » 30 Per la strada militare, che congiungeva il dipartimento dell'Istria al Regno, vedi la Convenzione di Vienna 16 aprile 1806, il Regolamento di Trieste 29 luglio a. st., e la Convenzione 10 ottobre 1807, aggiunta al trattato di Fontainebleau (Ncumann, tom. II, pag, 198, 223 e 239). 81 II viceré Eugenio (Mém., Paris, Levy Frèrcs, 1858, vol. IV) scriveva a Napoleone in data dei 4 luglio 1810: 1 I.c ministre Aldini me fait connaitre que l'in-" tention de Vótre Majesté était que l'Istrie et la Dalmatie ne fassent plus partie de " soii Royaume d'Italie. Vòtre Majesté a déji compris la Dalmatie dans les provin-ces illyriennes; mais l'Istrie ex-vénitienne en avait été exceptée. Je me permcttrais » au sujet de cette dernière province d'observer i Vòtre Majesté qu'elle forme un « dèpartement organisé i l'instar des autres départements du Royaume, et que cette > organisation a eu licu dès la reunion au Royaume des pays ex Vénitiens. En se-« cond lieu le Royaume tire de l'Istrie la plus grande partie du sci pour sa con-< sommation, et la mirine du Royaume tire de l'Istrie tous les bois nécessaires aux « constructions. » A chi volesse prendere più esatta cognizione della cura posta dal Governo di Milano a governare l'Istria come vero dipartimento italiano, indichiamo dal Bollettino all' Italia. 249 delle leggi del regno d'Italia, i n. JJ, 63, 68, 96, 114, 149, 200, 218, 227 del 1806; 17, 26, j6, J7, 64, 78, 108, 131, 124, 18;, 186, 191, 196, 200, 214, 244. 247, 248, 280, »83, 284, 28J, 286, 289, 291 del 1807; 14-19, 40, 72, 73, 124, 12;, 129, 188, 222, 2:3, 248, 252, 268, 276, 334, 360 del 1808; 7, 8, 22, 23, 24 del 180). E un esempio del come fosse quasi unicamente nominale la separazione dell'Istria dal Ecgno nel 1810, abbiamo nel decreto 12 gennaio 1S12, n. 7 del Bollettino del 1812 (P. I, pag. 18), con cui fu « accordata la esenzione dal diritto di albinaggio « *• sudditi delle provincie illiriche ed a quelli del Regno d'Italia per le reciproche * successioni nei due Stati ». 3- L'Austria, comechè padrona anche di Venezia, veniva obbligata col trattato di Campoformio (art XI) a non tenere naviglio di guerra. E ciò egualmente nel trattato di Luncville all'art. XIV. Cosi si comprendeva allora l'importanza dell'Adriatico per la sicurezza dell'Italia, e, quantunque non si trattasse che di un principio di stato italiano, si ponevano condizioni di tan'.o'valore al potente impero vicino! 88 Che l'Austria voglia starsene in Italia, mantenendosi nell'Istria, e speri con ciò di non volgere per sempre le spalle alla Venezia, si fa aperto da tutti gli scritti delle arruolate sue penne. E penna sua, meritevole di speciale menzione, si è quella del sig. L. Debrauz « (Le rachat de la Vénétie est-il une solution? Paris, Amyof. » No certo, non è questa una soluzione, e conveniamo perfettamente con lui, che la Venezia negli attuali suoi confini amministrativi non può bastare in alcun modo all' Italia, e voglia il Cielo ne convengano pure tutti gl'Italiani, anziché soffrire che l'Austria si afforzi per guisa oltre l'Isonzo, da non poternela poi discacciare che a largo prezzo di sangue. Gii nel 1860 VAlìgemeinc Zeilung scriveva in articolo significantissimo : « L'Austria, perduto il Veneto, sarebbe costretta a costruire di li dcll'I-« sonzo nuove fortezze e campi fortificati, i quali dovrebbero ricostruirle un quali drilatero simile a quello dell'Adige e del Mincio » : concetto svolto più distesamente nell'opuscolo Ber Besit^ Veneliens, Entgegnungen von Aresin, capitano di stato maggiore (Vienna, Gerold, s. a.) — Né ciò tarderebbe a farsi, quando questi non fossero i prodromi della fine dell'Impero austriaco. La storia del passato invece ne insegna, e potrebbe insegnarcelo anche la storia del presente, che il conquisto dell'Istria costa nulla o assai poco al vincitore del Friuli, dovendo chi la tiene sgombrarla tosto, come segui appunto nelle guerre napoleoniche, sotto pericolo di essere disgiunto da Ogni aiuto, accerchiato e preso. (Tini us, 5/<'r;'a della rivoluzione, lib. III.) Dinanzi a tanta giustizia per noi di portare le nostre difese alle naturali nostre frontiere e a tanta faciliti di tradurla in atto, quando la vittoria ci seguisse fino all'Isonzo, come potremmo acconciarci ad erigere su quelle rive all'Italia le colonne d'Ercole? Ben altrimenti pensava il grande Cavour, se il discorso della Corona al Parlamento italiano del 18 febbraio 1861 usciva fino d'allora in queste memorande parole : « La nobile nazione germanica, io spero, verri sempre più nella persuasione, « che l'Italia OOStitUÌta nella SUa unità naturale, non può offendere i di-11 rini e gì' interessi delle altre nazioni. » DELLA RIVENDICAZIONE DELL'ISTRIA AGLI STUDJ ITALIANI. (Discorso letto ne\V Istituto Veneto - Dicembre 1877.) A mmesso all' onore dì formar parte di questo illustre Istituto, comincio oggi a recare il mio piccolo contributo di studi a quelli gravissimi con cui esso aggiunge si gran pregio alla scienza italiana. Non vi dirò quanto io mi senta peritoso per tale confronto, e come sinceramente invochi la vostra indulgenza. Poiché siffatte proteste sono esordi, di cui sogliono valersi anche i migliori ingegni, non sarebbe lecito a me prestare il linguaggio della loro modestia virtuosa alla mia, la quale altro non é che necessaria. Professando io in alcuna loro parte le discipline giuridiche, dovrei non dipartirmene. Ma questa volta, e forse più altre farò altrimenti, fiducioso che voi non me lo apporrete a colpa, tosto che al vostro patriottismo ne avrò spiegata la ragione Mentre la mia provincia nativa, italiana quanto ogni altra, si trova non solo disgiunta politicamente dalla sua nazione, ma ancora (non ispiaccia la franca parola) mal conosciuta da essa, se non anche dimenticata e talora perfino sconfessata, non mi riesce di far tacere nelP animo il sentimento di un altro obbligo, la coscienza di un'altra prò- fcssione, il vivo desiderio di adoperarmi quanto è da me, perché queir estrema nostra regione sia rivendicata almeno agli studi nostri. Eccovi adunque manifestato e insieme, lo spero, giustificato il mio intendimento. Né vi sorga sospetto, ch'io voglia di tal maniera condurre qui la politica, qui, dove tanti e tanto rispettabili motivi consigliano di lasciarla da parte. Io mi affretto ad assicurarvi che nulla porrò innanzi, che possa turbare i pacifici e sereni vostri offici. Nessun voto verrà da me proferito per un'azione qualunque la quale riguardi, palestre diverse dalla vostra. In cotesti argomenti rimanga pure ai governi tutta la cura di fare 0 non fare secondo la vicenda delle occasioni e degli ostacoli, ch'essi soltanto sono in grado di valutare pienamente. Per voi penso di non pretendere troppo, se credo indiscutibile il vostro diritto di abbracciare nei riguardi scientifici ogni famiglia del popolo italiano, ossia di riconoscere tutto, che a dispetto di ogni dimenticanza, di ogni divieto, di ogni sinistra fortuna porta il suo nome e vive del suo pensiero. Che se a taluno paresse opportuno il riserbo anche sotto questo rispetto, mi permetterei di soggiungergli, che non v'é pretesto, il quale valga a sequestare alla scienza l'esercizio delle sue ragioni. Essa non ha diplomazie, perché serve unicamente alla verità. D'altra parte mentre due particolarmente delle nazioni straniere, cioè quelle, che ci sono più vicine dal lato d'oriente, gareggiano tra loro nel fare argomento di numerosi ed estesi scritti la provincia dell'Istria (ch'é appunto la contraila italiana, su cui mi propongo di richiamare la cortese vostra attenzione , e sembra come una intesa di molti e molti de'loro scienziati e pubblicisti tentare così di stringerla con altri nodi ai loro politici interessi, sarebbe assurdo ed indegno che soltanto gì' Italiani avessero ad imporsi il silenzio, a condannarsi alla mortificazione d'ignorare o di fingere d'ignorare le cose proprie. Ed e specialmente la Venezia, che deve sdegnare tale vergogna, la Venezia, che sta si dappresso a quelF italiana regione e forma co'suoi abitatori una sola stirpe per identità di lingua, di costumi, di bisogni, di sentimenti e ne condivise le liete e le tristi sorti per ogni età fino a pochi anni or sono, e serba ne'suoi monumenti, ne'suoi archivi, nella ricca letteratura de' suoi avi i più preziosi documenti della sempre onesta e fida loro italianità. Non é già ch'io, nell'esprimermi di questo modo, mi scordi dei generosi, che ora pure seguono le vecchie tradizioni, movendo coi loro studi come in casa propria, ogni qualvolta l'argomento loro si presti anche oltre il nostro confine politico e sino alle rive del Quarnaro. Ad essi, anzi, di cui alcuni onorevolisimi appartengono a questo Istituto, colgo 1' occasione di porgere i più vivi Che Italia chiude e i suoi termini bagna ringraziamenti de'miei comprovinciali. Ma a fronte di si belle eccezioni, non si tratta appunto che di eccezioni, e queste sono troppo rare, perché non abbia a dirsi vero quanto deploro. — A me, che naturalmente mi trovo spesso condotto a parlare del mio paese nativo, accadde assai volte di udire dagli stessi uomini colti errori incredibili intorno ad esso. Né questi si dicono soltanto, ma si stampano anche, con una sicurezza meravigliosa, quasi fosse questione di qualche terra perduta nella vastità dei mari, della quale si possa narrare quanto meglio piaccia con nessuno o assai piccolo rischio di essere smentiti. E non é molto (concedetemi di riferirvi un esempio veramente singolare) che avendo io procurato ad una be- nemerita Società nostra parecchi soci istriani, non senza aver fatto loro considerare come ci convenisse far atto di presenza anche cosi nella comune patria, questi si videro arrivare le pubblicazioni della Società stessa con indirizzi, che li cacciavano d'Italia, trapiantando le loro dimore anche più notorie per istorica rinomanza italiana nella slava Dalmazia (*). Sono ignoranze queste, che destano bensi la ilarità, ma non senza disdoro nostro e indignazione di chi, soggetto al dominio straniero, si raccomanda almeno alla nostra memoria e al nostro affetto, e scorge invece con quello strazio delle ingenue sue fidanze, che ciascuno può immaginare ben facilmente, non essergli amica sicura qui da noi neanche la geografia, la innocentissima delle scienze, alla quale perfino un celebre cancelliere dei tempi nostri più sciagurati consentiva di riconoscere l'Italia. Perdonatemi, se troppo m'indugiai in questo preambolo al breve discorso, che sto per tenervi. Senz'altro vengo ora ad accennarvi i titoli dell'Istria per la sua rivendicazione agli studi nostri : titoli, che sono le prove indiscutibili, non solo dell' italiana sua cittadinanza, ma altresì del suo gran prezzo per nazionali riguardi, e che rilevano insieme gli svariati argomenti, ai quali può rivolgersi la vostra attenzione negli studi, che per diretto o indiretto modo li riguardino. Dai cenni generali di questo mio primo discorso mi porterò poi su temi particolari, quando la vostra benevolenza sia per darmi animo di farlo. (*) Per una curiosa ironia del caso questo grandioso strafalcione fu commesso dalla Società Geografica Italiana. (Nota delti Editori.) Se l'Italia geografica e, come ognuno ripete, il bel paese .. . che il mar circonda e /' Alpe, l'Istria ne forma, fuor di ogni dubbio, parte integrante. Bastano invero, gli occhi della fronte a vedere, come le giri a tergo, non altrimenti che ad ogni altra nostra regione subalpina, la gigantesca frontiera italiana, senza che filone qualunque interceda a romperci da quel lato la continuità del territorio nazionale. E due bei nomi nostri, l'uno de'quali rimase sino a questi giorni, furono dati a quclF ultimo tratto delle nostre Alpi, cioè di Venete e di Giulie. Perciò l'Istria fu già chiamala, e per secoli, la Venezia superiore ; perciò anche nei tempi più oscuri dell'evo medio Paolo Diacono scriveva: Veneliae et Histriae prò una provincia habenlur ; perciò, a dir breve, nessun valente geografo, da Plinio al Balbi e al Daniel, dubitò di comprenderla fra le provincie d' Italia. Se qui volessi semplicemente citare le autorità nazionali e straniere in appoggio di quanto affermo (e ne avrei pronto P elenco), sarebbe come rinunciare a parlarvi d'altro per quest' oggi e mettere a troppo dura prova la vostra pazienza. Meglio dunque ch'io, per quanto concerne questa prima ragione della causa, che tratto, mi limiti a richiedere che i nostri Corpi scientifici infliggano severa censura, a chi scrivendo dell' Italia geografica, massime in libri destinati a farla conoscere alla gioventù delle nostre scuole, copia ancora qualche vecchio testo timbrato a Vienna, ovvero, riproducendo le carte uscite da quelle officine, mostra di credere goffamente, che quel po'di colore, il quale segna il confine orientale già del Regno Lombardo-Veneto ed ora del Regno d'Italia, stia là a scindere anche l'unità naturale della nostra patria, quasi il pennello politico valesse a farle sparire i suoi monti o a condurseli dietro sulle proprie traccie. Né la natura è di tal guisa soltanto che stabilisce colà i termini d'Italia. Essi appariscono manifesti da ogni altra sua opera ed impronta, e quanti sono i cultori di scienze naturali, a qualunque nazione appartengano, i quali abbiano esteso le loro ricerche a quella contrada, possono essere addotti a rendere di ciò testimonianza. In questi campi delle indagini scientifiche la verità corre minor pericolo, perocché negli studiosi o suole mancare la passione, che persuade ad offenderla, o non è mai tanta la cecità, che tolga loro affatto di scorgerla. Ad ogni modo, come l'orografia, cosi i caratteri geologici e idrografici di un paese, il suo clima, la sua flora, la sua fauna e ogni altra proprietà sua naturale forniscono documenti, che sfidano la frode, che voler qui illudere vale lo stesso che illudersi della peggior maniera, cioè porsi fra gl'insipienti innoqui, che sono fra tutti i più umili e dispregiati. Ma anche senza soccorso di scienza, le italiane sembianze della natura dell' Istria balzano all'occhio di chiunque le riguardi. Chi dall'opposto versante dell'Alpe Giulia, cioè dal bacino della Sava, varca la frontiera e, superati i primi suoi divallamcnti petrosi, scende sui poggi istriani dello splendido bacino dell'Adriatico, vede rimutarsi di un tratto ogni scena. Per quanto egli sia cupido di raffigurarsi la sua Slavia o la sua Germania su quelle rive incantevoli, li vi trova tosto, e lo confessa, tutto il sorriso del cielo d'Italia, e i tepori del suo clima, e il nostro olivo fra le viti e i gelsi nostri, e quanti sono i vivaci colori profusi sul nostro suolo. Considcrce (cosi il Malte-Brunn nel libro decimosesto della sua Geografia universale) dans ses limi les naturelles, la par He seplentrionale de l' Italie compreud ioni le versant des Alpes depuis la branche appellcc Alpes Cotiennes, jusqu'à celle, atte V on appelle Alpes Julicnnes. À peine arri-ves sur le versimi meridional des Alpes, nous voyons changer tout-à-coup la vègètation, les hommes et les usages. Il semole qu'un climat favorable au laurier, ati myrt et à VOlivier porle V bomme a V amour de la gioire et aux bienfaits de la civili' sation. Ora che i naturalisti di altre nazioni si rechino per cosi dire, a frotte - e il mio Saggio di Bibliografia istriana ne dà la prova — ad investigare parte a parte queir estremo lembo d'Italia, e le loro fatiche vi trovino largo compenso di varietà e novità di tipi, di forme, di fenomeni dalle caverne del Carso alle scogliere della marina, non é a dolersene per sicuro, ma si invece a goderne pei progressi della scienza. Non sarebbe però più lieta cosa ancora, che, mentre alcuni Istriani, sulle orme del loro illustre Biasoletto, sostengono con onore, di fronte agli stranieri, la nobile gara di cotali studi, altri di qua si aggiungessero ad essi per vincerla, spingendo più oltre o più direttamente al tema, di cui ragiono, l'esempio dato in passato dallo Zannichelli, dal Bianchi, dal Donati, dal Ginnani, dal Fortis, dallo Spallanzani, dal Naccari, dal Chiereghin, e quello più recente ch'ò bello dei nomi dello Zanardini, del Nardo, del Visiani, del Cornalia e del Tamerelli ? Ma se cosi evidentemente nostra è la terra istriana, lo é del pari la sua popolazione ? Il fatto di alcune rustiche tribù di Slavi sparse per la sua campagna, come lo sono pure in alcune parti del Friuli, e come vi hanno Teutonici nel Veneto, Francesi nel Piemonte e Albanesi su quel di Napoli, le toglie forse di vantare pienamente la patria italiana nei riguardi etnografici? Io prendo qui in esame, comecché alla sfuggita, quell'unica delle condizioni del mio paese nativo, la quale può indurre chi ben non lo conosce a credere che una delle agii s I a d j Italiani. 257 sue ragioni di appartenerci non gli sia propria cosi assolutamente quanto ogni altra. L'Istria, o signori, di cui le statistiche austriache ci danno L anagrafe, non é già l'Istria, che sola porta questo nome nella storia e quale distinta unità topografica; si per lo contrario é l'Istria amministrativa, vale a dire un'aggregazione politica operata dai reggitori di Vienna coli' annettere alla vera regione istriana parecchi territori, anche d'oltralpe, occupati per intiero o quasi da gente slava, e che in ogni tempo le furono estranei. Non é di questa creazione artificiale e recente che cade qui di occuparsi. Qui va considerata unicamente l'Istria del suo nome secolare, del suo popolo, della sua patria italiana, l'Istria, che giace a' piedi della Vena e del Caldera fra Duino e Fianona, — e in essa anche la ragione del numero sta pegPitaliani suoi abitanti, i quali di un terzo superano gli slavi. Ma v' è ben altro, che li fa padroni del campo. Quella piccola, ma animosa popolazione italica, le cui origini rimontano alla più lontana antichità, e che rinvigorita dall'elemento latino e dal veneto tenne V Istria da sola sino al secolo nono (come lo attcsta il famoso placito dell'804 del codice Trevisan), e quasi da sola sino oltre alla metà del decimoquinto serbò sempre incorrotto attraverso ogni vicenda il suo carattere nazionale, sì ch'é tutta una sola famiglia dalle stesse sembianze e dallo stesso spirito, quando invece gli Slavi, che le furono importati in epoche diverse dalle signorie feudali e, pur troppo, anche dalla veneta repubblica, allo scopo di ripopolare le sue terre più interne disertate dalle pesti (i deserta loca dei documenti), sono di dicci e più schiatte diverse tanto e fra di loro e dalle finitime d' oltremonti che le une colle altre non s'intendono né coll'animo, né col linguaggio, e si trovano con- sociatc soltanto nel desiderio, più volte espresso, di possedere esse pure e scuole italiane, e italiani commerci, e italiano avvenire. E non basta ancora, che, mentre quei villici sorvenuti altro non sanno mostrare che le loro marre a chi della vita loro li ricerca, gì' Italiani possono additare con orgoglio i loro municipj, ricchi d'insigni memorie dai tempi di Roma ai giorni nostri, e i loro statuti, fra i primi d'Italia, come anche Balbo lo scrisse, e una storia tutta fusa nella nostra, e stupendi monumenti dell'arte pagana e cristiana dall' anfiteatro di Pola alla cattedrale di Parenzo, e istituti civili di ogni maniera, e celebrate opere d'illustri loro ingegni negli annali delle scienze, delle lettere e delle arti, e dovizia di tradizioni, di leggende di canti popolari, di proverbi, che ne ritraggono la vita, conscia di un passato glorioso da onorare e bramosa di future sorti, che vi consuonino, da meritarsi. L'etnografia di un tal popolo, che serba reliquie di dialetti italici anteriori all'occupazione latina, — che parla tuttavia non poche voci dell' età di Roma scomparse affatto dalle altri parti d'Italia, — che vanta colonie romaniche ancora viventi sulle rovine degli antichi spaldi corrosi dall'onda delle genti slave nel secolare abbandono di ogni soccorso, — che, sentinella avanzata della nostra nazione sulla porta più perigliosa d'Italia, non solo resse all'urto di tante forze avverse, ma piegò spesso ai propri usi i coabitatori stranieri e fe' penetrare nei loro idiomi molta parte del proprio, — è senza dubbio degno argomento di studio per qualunque ingegno, ma specialmente per gl' Italiani, che troverebbero in esso di che illustrare un episodio di non piccolo interesse della loro vita nazionale e tale una flora di memorie che per vivacità di tinte e robustezza di fibra non è da meno di qualunque altra. E qui entra la storia a confortare di nuovi argomenti il mio assunto. Dissi testé che la storia dell' Istria è tutta italiana. Ora non vi spiaccia che ne trascorra di volo i momenti principali, tanto che anche questo suo vanto suoni qui allo scopo per cui vi parlo. Costituita regione d'Italia già sotto il governo di Roma, l'Istria fiorì lungamente della più rigogliosa civiltà latina. Le sue colonie, i suoi municipi, come Tergeste, Egida, Emonia, Parentium, Pola salirono presto in fama di ricchezza e di forza; — eleganti e magnifici edifici, i cui avanzi si ammirano tuttora e contribuiscono largamente, con un assieme di oltre mille lapidi scritte a chiarire la civile potenza del genio romano, sorsero ad aggiungere i prestigi dell' arte a quelli della natura bella di colli e piani ubertosi, che sotto la mano di un popolo intelligente e felice divennero, giusta la descrizione, sia pure rettorica, fattane da Cassiodoro, la delizia dei doviziosi, la fortuna de' meno agiati, la campagna di Ravenna e ornamento d'Italia. E in mezzo a quest' opera grandiosa, più grande ancora fu lo spirito che Panimò, il proposito cioè di rendere quella provincia, che sta di contro al varco più geloso della frontiera d'Italia, quanto meglio si poteva gagliarda a tenerne la guardia, come ce lo dimostrano i molti fortilizi e i valli turriti, che vi furono costrutti, e le cui tracce restano tuttora custodi di un pensiero, che deve risorgere. Corsa poi anch' essa, ma non occupata stabilmente, prima di Teodorico, dai barbari, potè, quasi più di ogni altra italiana provincia, conservarsi ancora per lungo tempo, non solo la vita, ma lo splendore dell' età latina : il che avvenne per la ragione della sua postura di fianco alla via fatale che, superata l'Alpe, mena tosto ai più larghi orizzonti dei piani friulani e per la ragione inoltre del breve suo ambito, quasi intieramente sul mare il quale tutto lo frastaglia di seni, di porti, di rade, e dal quale le tornava agevole trarre gli aiuti a resistere o a rifarsi dei danni patiti. E cosi, mentre allora appena sorgeva entro ai ripari di questa laguna la più altera gloria, di che, dopo Roma, siasi riconfortata l'Italia, — mentre il nascente potere di Venezia apparecchiavasi agli alti suoi destini nelle umili sedi di Eraclea e di Malamocco, — e la già tanto doviziosa e formidabile Aquilcja giaceva estinta sotto i canneti della sua maremma, — Pola teneva il primato fra le città dell'Adriatico superiore, e dalla sua Istria, ancora vigorosa sotto le armi dell' antica fortuna, venivano qui, più in ausilio dei profughi che profughe esse medesime, molte e molte di quelle insigni famiglie, i cui nomi ricinsero poi di si luminosi raggi il gran nome della loro Repubblica. Il turbine dei tristi tempi si rovesciò più tardi anche sull' istriana provincia ; che anzi influi per sicuro a ricondurre alle avite spiaggie i Veneziani, appena loro crebbe l'animo di osare. Ed invero, P Istria, sebbene desolata anch' essa dal flagello delle invasioni barbariche nei lunghi anni luttuosi, che seguirono dalla guerra gotica al regno dei Franchi, era però sempre ricca dei mirabili suoi porti, dai quali soltanto potevasi guardare e signoreggiare il golfo. Ed essa, inoltre, s'era mantenuta quasi tutta e quasi sempre indipendente dai Longobardi sotto il nominale dominio di Bisanzio rappresentato dall'esarca di Ravenna, e più davvicino dal maestro dei militi, e con liberi ordini municipali, sull'antico modello romano, dell'età, in cui il correttore, o il preside, od altro consimile magistrato la governava assieme con la Venezia. Di tal modo la storia dell'Istria da Alboino a Carlo Magno é prova continua, che, anche dopo spezzata da quello 1' unione amministrativa delle regioni dell' Alpe Giulia col Veneto mediante l'occupazione di esso, le città istriane continuarono a tenersi collegate in vera società coi fratelli di questa laguna, loro ajutatrici da prima, ajutate poi da chi già si avviava a ridonar loro una nuova Roma sul loro mare. Quindi, se con Carlo Magno hanno principio nuove sventure per l'Istria, e prima fra tutte il feudalismo, erettosi allora per la prima volta nelle sue campagne, nuovo compenso le fu dato di vita italiana. E questa, volta coro' era a gran meta, fu piena di dure prove e di generosi ardimenti. L'istriana provincia traduceva da primo il sodalizio di fatto, che aveva stretto con Venezia in formale federazione, regolata da patti solenni, nei quali giurava di retine-re honorem beati Marci, di combattere sotto il suo vessillo absquc jussu imperatoris e prestare tributo di navi, di derrate, di prodotti delle sue industrie. Via via poscia che quel baluardo d'Italia rendevasi più forte e di maggiori imprese capace, passava dall' alleanza sotto la protezione e dalla protezione sotto il governo di esso. È questo un lungo periodo fortunosissimo, che si svolge dal secolo nono ai primi anni del decimoquinto, meritevole di essere profondamente studiato, non già solo da storie municipali e provinciali, ma da quella ancora di Venezia e d'Italia e dello stesso medio evo in generale, i cui fatti di si vario e intricato sviluppo hanno bisogno d'ogni loro profilo e d'ogni riscontro di colori e di ombre per essere ritratto con verità di disegno e di rilievo. Fu lotta estrema fra 1' elemento nazionale e lo straniero, le franchigie municipali e il despotismo feudale, le città guelfe e le baronie ghibelline, la civiltà e la barbarie, il diritto e l'usurpazione. E vinse la buona causa per le virtù della saggezza, del coraggio, della perseveranza di Venezia mirabilmente secondate dal patriot- tismo e dal valore degl'Istriani : virtù, alle quali la storia darà encomi maggiori di quelli dati finora, quando i nuovi studi sul passato, attinti a tutte le loro fonti in casa e fuori avranno ristabilito pienamente questa brillantissima parte dell'opera sua millenaria. Le nuove sventure, a cui l'Istria tenne fronte nel detto periodo, riassumo cosi : — Orde slovene importate dal Friuli su alcune delle sue terre montane ; — fatta una marca feudale di quelle frazioni della provincia, che non riuscirono a salvare la propria indipendenza dai nuovi ordini ; — ascritte bensì le une e le altre al titolo del Regno d'Italia, e non mai a quello del Regno germanico, per modo anzi che nella stessa età più infelice del feudalismo alemanno l'Istria si trova annoverata fra le regioni italiane obbedienti al diritto latino assieme con Roma, Venezia, Ravenna, Napoli, la Pentapoli, la Toscana, l'Umbria, l'Abruzzo, la Calabria; ma franta P unità del paese e modus vivendi per esso la guerra, a cosi dire, di ogni giorno; — i signori della Marca, cioè i comites limitatici o magravi, come furono chiamati in appresso, da prima francesi e poi tedeschi tramutatisi da elettivi in ereditari, e di tal guisa, sebbene assenti sempre nelle loro signorie d'oltremonte, divenuti mano mano più ostili a tutti i comuni istriani, dei quali gli uni erano obbligati al solo tributo, gli altri franchi del tutto da ogni soggezione ; — sórta sotto lo stesso nome dell' Istria, ma del pari estranea all'Istria comunale o civile, quell'altra fattura feudale, che fu la Contea, quasi non più che gastaldia del marchesato in sul principio, ma poi corpo a sé, temibile non poco anche nella ristretta sua cerchia, perché in possesso del varco del Monte Maggiore; — costituitesi agli altri passi dell' Alpe Giulia le altre contee della Carsia e di Gorizia, e alzata quindi, se non dentro agli accampamenti della popolazione italiana dell' Istria, bensì sulle linee più importanti della sua difesa, già sì lungamente e strenuamente tenute, la bandiera delle genti transalpine; — succeduti nel marchesato i patriarchi di Aquileja meno fidi, é vero, alle mire straniere e meno stranieri essi medesimi, ma non meno avversi all'antico e non mai logoro o stanco indirizzo della istriana provincia e più risoluti anzi a combatterlo colle insidie e colla forza, vicini com'erano e quasi presenti al campo della lotta: — l'Austria infine o già subentrata o prossima a subentrare, dalle sue acropoli della Carniola e della Carinzia a quelle piccole signorie, che le avevano prestato l'officio di avanguardie, l'Austria già spintasi fino ad una rada dell'Adriatico, vale a dire fino a Trieste, nella quale, pur lasciandola libero comune italico, stette quasi cuneo confitto fra l'Istria e il Friuli, le due estreme contrade italiane della Repubblica, e potè così impedire ch'ella riconquistasse a sè e alla nazione la frontiera tutta dell'Alpe Giulia secondo che aspirava costantemente dietro la guida dei ricordi di Roma. Confido non sia il solo amore della patria, che mi faccia apparire ammirevole e degna dello studio di ogni ricercatore dei fatti italiani, non meno la costanza dell'Istria nel pensiero e nell' opera nazionale contro tanto succedersi di avversità, di quello che la sagacia di Venezia, che seppe valersene, salvando almeno per l'avvenire interessi e destini d'Italia, i quali altrimenti sarebbero periti forse per sempre, e forse ancora senza neanche una voce di postumo compianto. — I comuni istriani non cedettero mai né ai marchesi laici, né ai marchesi chierici; — tentatosi da questi ultimi di formare per sé un partito in alcuno di essi, dopo quelle volontarie loro dedizioni alla Repubblica, che sono succedute fino dal secolo XII, e spintolo anche a qualche rivolta (si che certi cronisti veneziani, mal registrando questi singoli fatti, indussero anche storici diligenti a narrare conquiste di Venezia, non solo contro il marchcsa:o delle campagne feudali, ma anche contro la stessa Istria, tanto diversa, dei comuni, il patriottismo italiano trascorse pur là, come portava la fierezza di quc'tempi, a sanguinose e barbare vendette per furia di plebe, esempio la più atroce fra tutte, che fu detta la strage dei Sergi in Pola; — assalito per mare e per terra da Slavi, Saraceni, Ungari ed altre schiere di barbari e di predoni, né risparmiato, pur troppo, in quella maledizione delle guerre civili, da Pisa c Genova, che a ferire la potenza di Venezia facevano impeto principalmente contro i lidi istriani, quel popolo fu continuamente in armi cosi nelle rocche cittadine, come sulle navi degli arditissimi suoi stoli, ossia di quelle svelte flottiglie, alle quali il Governo di S. Marco commetteva il rischio e l'onore di guardare il golfo; — cento e cento combattimenti sostenne esso allora nel nome d'Italia cui se la ristretta scena e l'età oscura tolsero le segnalate testimonianze, è giusto ora salvare dall'oblio, che il merito delle azioni generose sta nella virtù loro, e non nel rumore, che se ne sia levato; — anch'esso ebbe la sua Legnano a Sal-vore, come un egregio storiografo triestino attende ora a dimostrarlo contro i dubbi, con che piace a molti di mettere in forse quel lontano avvenimento; — anch'esso vanta esempi molti di eroico valore, di cui alcuni sarebbero pari in tutto a quelli dei Mica e dei Bragadin, se loro pure fossero toccate in sorte le onoranze della fama seguace, illacriniabiles......, ignotique longa nocte, careni quìa vate sacro ; — esso infine, e qui esso solo veramente, può spiegare sotto gli occhi di ogni più rigido censore tutte le sue memorie, provocando a scoprirvi una sola macchia per fede mancata all' Italia, mentre tante invece se. ne trovano, pur troppo, in tante altre delle più illustri della storia nostra. Ma procediamo solleciti. Con Venezia, impadronitasi nel 1420 anche del marchesato, comincia per l'Istria un' èra migliore, nella quale la vita, fattasi più tranquilla e sicura, s'ingentilisce negli studi e sviluppasi variamente sotto sagaci ordinamenti, dei quali non pochi durano tuttavia negli usi ed anche in alcuni statuti e regolamenti, su cui non è passata ancora la mano del nuovo legislatore. L'antica civiltà nostra, non mai spentasi lungo quel-T estrema costa d'Italia, vi riprese vigore assai presto sotto l'azione delle stesse cause, che la fecero rinascere e fiorire si bene per tutta la penisola. Ed é qui, parmi, che cade di rilevare, come l'Istria vada superba di una numerosa schiera di cultori distinti delle scienze e delle arti belle, della quale tutta la nostra nazione si onora e non hanno l'eguale molte e molte delle minori provincie sorelle. Preceduta dal seniore Vergerio, che appartiene a età più antica, e che a ragione il Platina mette primo, per ordine di tempo, fra i migliori, i quali abbiano posto mano, dopo il Petrarca, alla ristaurazione degli studi classici, questa schiera (a trasceglierne soltanto un drappello e tacere di ogni contemporaneo) conta l'altro Vergerio e il Flaccio, rinomatissimi nella storia della Riforma, — il Muzio, che meritò di essere chiamato P emulo del Davanzati, — il Santorio, illustre caposcuola nelle mediche discipline, — il Carli, gloria della scienza economica italiana e insieme storiografo fra i più eruditi del secolo del Muratori, che pur tanti se n'ebbe di grandissimo valore, — il Carpaccio, le cui tele sono qui, in questa città monumentale, ammirate fra le più degne opere del purismo della scuola veneziana e ne contendono la palma a quelle del Giambellino e del Cima da Cone-gliano, — e inoltre il sommo Tartini, vero genio della musica, che lego alla posterità, non solo le immortali sue armonie, ma dottrine cosi profonde e nuove sulle leggi dei suoni che gli studi recenti riconoscono ogni di più meravigliose. — Quando pure l'Istria non portasse sul proprio scudo altro titolo che questo, lascio giudicare a voi, propugnatori delle ragioni dell' ingegno, se non dovremmo, meglio che riconoscerle, vantare la italiana sua cittadinanza. Ho precorso i tempi, di cui mi resta far cenno, tratto da sì confortanti ricordi. Rifacendomi ora su di essi, cioè sull'ultimo periodo della storia di Venezia nell'Istria (che così ormai va chiamata la storia di questa provìncia), soggiungo tosto, che sebbene a maggiori intervalli, nemmeno allora le mancarono memorande occasioni di distinguersi per larghi sacrifizi di sangue e di averi in difficili cimenti contro lo straniero. I Turchi, gli Austriaci, gli Uscocchi più volte la invasero, la depredarono, la coprirono di stragi, ed ella trovò in sé l'animo sempre pari al pericolo. E avvenne perfino che da sola respingesse talora i fieri assalti con armi proprie e con a capo quel nobilissimo suo patriziato, il quale si meritò a storico delle sue gesta, come tante ducali di questi archivi rendono fede, lo stesso Governo della Repubblica. Né questa, incontratasi coli' Austria, giusta quello che ho già notato, ai confini dell'Istria e del Friuli, dopo aver levato di mezzo il principato dei patriarchi di Aquileja, abbandonò di fronte alla crescente potenza del grande Stato vicino, la generosa speranza di allargare il suo dominio su tutto il versante italiano dell'Alpe Giulia, come lo comprovano molti pubblici documenti e relazioni dotte e sagaci, provocate dal Senato, di celebri uomini d'arme. Anzi, nella guerra contro Massimiliano le riuscì, comecché per poco, di compierla. Inalberato allora il suo vessillo al varco di Postoina (le Are Postumie dei Romani), forse non ne sarebbe stata più rimossa, se la lega di Cambrai non le avesse franta l'impresa. E nuovamente più tardi si slanciò alla stessa meta in guerra gagliarda, quando le atrocità degli Uscocchi, narrate dal Minucci e dal Sarpi, la trassero a ritentare la prova. Che se questa non fu più felice dell'altra, entrambe ci attestano del pari, quanto e per quale ragione suprema premesse a Venezia di vincerle. E non tarderà, giova sperarlo, chi nell'attuale risveglio degli studi storici, si bene promosso e diretto per nuove vie anche tra noi, sorga a bene illustrare questo importantissimo indirizzo della politica italiana di Venezia fin qui troppo trascurato, e pur si meritevole di essere fatto argomento di accurate ricerche e di giudizio attento, non solo in omaggio alla verità e per giungere onore al senno di quelP accortissimo Governo, come richiede la religione del passato, ma ancora a nostro ammaestramento nel presente e per 1' avvenire, affinché, data l'occasione, l'Italia unita non si mostri da meno di ciò, che fu una sola delle sue città. Ma é tempo di chiudere questo rapidissimo sommario della storia dell'Istria. Posseduta da Venezia, quando questa non teneva ancora, a cosi esprimermi, i margini della sua laguna, essa fu la prima a brandire le sue armi e fu P ultima a deporle; poi le sotterrò con tale lamento che fu la sola voce degna levatasi al tramonto di tanta grandezza. Non vi dirò dei brevi anni, nei quali l'Istria fu provincia del Regno Italico e provincia preziosa sia per ragioni militari del maggior momento, sia per la sua marina, giudicata dal Baude la premiere officine d'hommes de mer, e che può dirsi col Nelson essere tutta un porto, come pure per l'alto valore de' suoi boschi e stabilimenti salini. Troppo presto precipitarono que' nuovi suoi destini e ne segui il servaggio, che dura ancora per lei. Or qui, se potessi indugiarmi, volentieri vi esporrei, con cifre alla mano, come questo servaggio, il quale non valse mai a rimutarc l'animo degl'Istriani, non bastò nemmeno a sviarne gl'interessi economici. A stringere su di questo molte prove in una sola, basti rammentare, che si é dovuto escludere la penisola istriana dalla lega doganale dell'Austria, cioò rinunciarla ai commerci nostri. — E se Trieste serve ai traffici della Germania orientale, anche Venezia e Genova servono a quelli della Germania centrale e occidentale, senza che alcuno si lasci perciò cadere in mente di concedere su di esse alle signorie d'oltralpe qualsiasi diritto. — Né, ragionando tale argomento, si male compreso dai più, va dimenticato che lo straniero, il quale sta sull'Adriatico, non ne sarebbe già escluso, quando lasciasse l'Istria, secondo che suolsi credere per grossolano errore, ma terrebbe ancora, oltre ad ottime sue difese sull'opposto versante dell'Alpe Giulia, un litorale, da Fiume a Cattaro, sei volte più esteso dell'istriano e portuoso del pari: come non va dimenticato inoltre, per quello che riguarda le pretese ad un Mare Germanico del Sud nel golfo, già sempre italiano, dei Dandolo, dei Pisani, degli Zeno, protestarvi contro anche il fatto che nessuna stirpe tedesca s'incontra sulle sue rive né dappresso, dappresso essendovi, e per largo tratto di popolose provincie, la sola Slavia. Ma, lasciando ciò, conviene mi porti senz'altro a toccare di un'ultima ragione, che soccorre alla mia parola, e ch'io non potrei passare, intieramente sotto silenzio in questo mio discorso. È ragione, che si riferisce alla sicurezza del nostro Regno. — Sebbene essa sia tale, da condurre sul terreno della politica per ignes cineri supposilos, io ne la terrò fuori studiosamente, dichiarando che quanto sto qui per dirne di volo non mira ad altro che a provocare studi, sciolti da ogni carattere officiale, sulle condizioni e sugi' interessi d'Italia sotto questo riguardo. Neanche scrupoli di convenienza possono interdirceli. Sarebbe invero, a dir poco, pretensione ridicola volere che la nostra nazione, non solo tolleri pazientemente i suoi danni, come fa, non solo desideri pace ed accordo contro il comune pericolo con quegli stessi, che la costringono a subirli, ma si astenga perfino da qualuque atto, che possa condurre a vederli. Pur troppo dal vedere al provvedere non é sempre né breve, né piana la via. Ad ogni modo, noi qui non si mette piede in essa, né io mi rivolgo a coloro i quali, cosi piacendo al cielo, potrebbero percorrerla. Che se poi il conoscere è condizione e può essere avviamento al fare, perché pone in grado di vigilarne e coglierne le occasioni, ciò spetta a quell' ordine naturale, di cui nessuno ha ragione di richiamarsi. Con questa premessa, affermo, appoggiato alle autorità più competenti,-che dai piani del Friuli al capo di S. Maria di Leuca é sguernito di ogni valida difesa tutto il fianco orientale del nostro Regno, e va ben deplorato un assetto, per cui de'due Stati, fra i quali si addentra l'Adriatico, l'uno vi abbia ogni potere e punto l'altro, quello stringa ogni mezzo di offesa, e questo sia privo invece anche della più necessaria offesa. E, diffatti, il confine, che abbiamo nel Friuli, corre per gran parte in aperta campagna al di qua dello stesso Isonzo e sotto il cannone di chi occupa i contrafforti delle Giulie. Tutti e tre i varchi di quella barriera alpina (Predil, Po-stoina e Ciana) sono in potere altrui. Senza l'Alpe Giulia pertanto, senza l'Istria, che é campo mirabilmente chiuso dalla natura di contro alle vie d'oltremonte, molo d'approdo proteso verso Venezia, quasi a formarle di quell'ultimo seno dell'Adriatico il suo gran porto esteriore, e perciò testa di ponte e complemento della sua fortezza, — tutto il Veneto é scoperto fino all'Adige c al Po, e deve essere considerato nei riguardi militari, giusta una celebre frase, nulla più che un'anticamera d'Italia, senza imposte ne d' usci, ne di finestre. Né meno infelice é la nostra posizione sull'Adriatico. Il nostro litorale (per usare le parole del Menis, che trovano piena conferma negli scritti del Paleocapa e del Wùllers-torf) è basso, piano, sabbioso, senza sviluppo d' insenature, con rade mal sicure ed ancoraggi pochi ed infidi, incerto, instabile, profondamente corroso e smarginato da gran copia di fiumi, di canali, di slagni, nonché esposto ai venti levantini, che ne contrastano la navigazione. — Tralasciando di avvertire i gravissimi danni, che ne derivano a molti interessi della stessa navigazione commerciale per noi che non occupiamo nell'Adriatico il benché minimo tratto della sua costa di levante, alla quale pur si deve poggiare indeclinabilmente, qui mi limito a notare che non un solo vero porto di guerra si apre nel nostro lido. Venezia medesima, la quale non ha pel grosso naviglio che un solo, e non sempre facile adito, vale a dire il canale di Malamocco, non é perciò, propriamente, che un arsenale militare, come ben lo riconobbe anche la Repubblica, tenendo di consueto nei porti di Pola e del Quieto le sue triremi alla guardia del golfo. E basta, certo, porsi sott'occhi questi fatti per vedere, che, non potendosi difendere efficacemente un lungo litorale che mediante una flotta, né destinare flotta a tal fine, senza un vero porto di guerra, il quale le serva di base d'operazione, da cui muovere, e dove prendere rifugio agevolmente, la nostra frontiera marittima dell'Adria sta inerme, si che potrebbe essere aggredita e varcata in più punti ad un tempo e nel giro di poche ore, specialmente da chi tiene gli eccellenti porti del litorale opposto. agU sliidj Italiani. 271 Quello, che da tutto ciò consegue riguardo all'inapprezzabile valore dell' Istria per le più imperiose ragioni della nostra sicurezza, e perché Venezia non resti imprigionata nella sua laguna, quasi naviglio in disarmo, non ho bisogno di dirlo. Se il buon senso non si stimasse abbastanza sicuro delle sue conclusioni, verrebbe a confermargliele ampiamente la scienza. A ricercarne i giudizi possono servire le citazioni, che si leggono in molti lavori, che trattarono in causa istriana e ch'io mi recherò a debito di presentare a questo illustre Istituto x. Qui citerò soltanto le Memorie del Marmont, la Storia politica e militare del principe Eugenio pel generale de Vaudroncourt, i Propugnacoli d'Italia di Annibale Saluzzo, la Marina dell'Austria del Baude e le storie del Thiers. La sintesi poi di tutti i ragionamenti sta in una memorabile sentenza proferita dal più gran capitano dell' età moderna. L'Alpe Giulia, disse egli, è compimento del Regno d'Italia. Perchè questo non s'abbia il nemico in casa, la linea dell' Adige va portata a que' monti, à l'Istrie, qui Vem-porte, par la convenance et la valeur inlrinseque, de beaucoup sur la Lombardie. Or altro non aggiungo. Se narrassi ancora la lunga serie delle prove di patriottismo date dagli Istriani anche in questi ultimi anni e in ogni campo del fortunato nostro risorgimento, non mi riuscirebbe di stare ai rispetti, che mi sono prescritto. Ne ho già raccolte le memorie autentiche 1 Di quelli tra i miei, clic dovettero uscire anonimi e talora furono attribuiti ad altri, debbo, per non apparire colpevole di plagio, notare i seguenti : Etnografia istriana, nella Rivista Contemporanea di 'l'orino, settembre 1860 e giugno 1861 ; — La frontiera oiienlale d'Italia e la sua importanza, nel Politecnico di Milano, vol. XIII, 1862 ; — Importanza strategica dell'Alpe Giulia, nella Rivista Contemporanea, aprile 1866, e a parte col titolo l'Istria e l'Alpe Giulia, Monza, 1866; — Appello degl'Istriani all'Italia, a pag. 19-50 della pubblicazione La Provincia dell'Istria e la Città di Trieste, Firenze, Barbèra, 1866. e sto ordinandole in volume, che spero di poter pubblicare quanto prima. Quella parte di esse, poi, la quale ritrae il movimento intellettuale dell'Istria ai tempi nostri e il fecondo lavoro delle istituzioni e delle riforme civili, che lo accompagnò attraverso alle più aspre opposizioni, mi riservo di rappresentarvi un'altra volta, occorrendone relazione alquanto diffusa. E sarebbe ozioso infine, ch'io facessi perorazioni a voi qui, in questa rocca dell'immortale pensiero di Venezia, dove affettuosa sempre, e per secoli domestica, suonò la voce della mia provincia nativa. Possa io, o signori, avervi indotto a ripetere, guardando a lei, lo agnosco vcicris vestigia fiamma*. LA SOLUZIONE. (Dalla Venezia Giulia di Paulo Fambri — Venezia 1880) (*) ...A vete torto, voi e i vostri connazionali, quando desiderate la rovina dell'Austria. Ben sapete quanto io ami P Italia, io, che mi onoro di aver combattuto per la nobilissima causa della sua indipendenza contro i carnefici di Arad e di Mantova. Ma ciò non mi accorcia la vista nel considerare i vostri interessi in relazione a quelli dei vostro vicino di oriente. Forse, anzi, il vivo affetto, che porto alla vostra nazione, me la rischiara ed allarga, essendo anche di ciò capace il cuore. Lasciate dunque che vi dica, coli'intimo convincimento di dir giusto, che l'impero austro-ungarico non può essere più quello di una volta, per quanto pure gl'incorreggibili uomini del passato nella Corte di Vienna e nel partito militare tentino di negarlo, stoltamente desiderosi di scongiurare la grande trasformazione, a cui già si è vólto quello Stato e dee volgersi indeclinabilmente sempre più, se non vuole soccombere. Ritenendo questo per fermo, (*) Il lettore comprenderà agevolmente la ragione, per la quale il Combi nell'esporrc sotto forma di lettera al Fambri quella, che a lui pareva la soluzione più logica del problema dell'Alpe Giulia, Si finse Ungherese. (Nòta delli Editori.) voi dovete augurarvi che tale trasformazione si compia, vale a dire che l'Austria, tramutandosi dal dualismo al federalismo, si estenda via via al Mar Nero e all'Egeo; — voi dovete augurarvi ch'essa divenga per tal modo un valido antemurale di contro alla Russia, a tenerla lontana dal Mediterraneo; — voi dovete augurarvi ch'essa se ne stia ben ferma e vigorosa anche di fronte alla Germania, la quale non mancherebbe certo, altrimenti, di cogliere le propizie occasioni, per mettere all' aperto e più o meno direttamente in via le ancora custodite sue aspirazioni all'Adria. Questo e supremo interesse, non solo dell'Austria, ma anche vostro, e insieme delle potenze occidentali. Naturale pertanto, o presto o tardi, o in pace o in guerra, la quadruplice alleanza a si gran fine ; e naturale altresì, per conseguenza, che siffatta lega debba essere da voi considerata non solo come il miglior mezzo a salvarvi dal pericolo di avere un giorno a ridosso i due immani colossi del nord, ma ancora come la occasione più favorevole a ricuperare quanto vi manca ai vostri confini di oriente. Lasciando, invece, alle sole potenze occidentali l'assunto di aiutare l'Austria a ricomporsi su altra base, ne avreste immenso danno in ogni caso, sia, cioè, che vincessero i suoi e loro avversari, sia che vincessero esse, perocché nella prima ipotesi sareste ridotti, con Germania e Russia sulle vostre porte o dappresso a tristissime condizioni di vita politica ed economica, e nella seconda avreste l'Austria forte cosi dall'Adriatico all'Egeo, da togliervi ogni speranza di provvedere mai più alla sicurezza del Regno nell'Alpe Giulia e nei porti dell'Istria. Riassunti di tal maniera, sotto si importante riguardo, i miei calcoli politici, consentite che ve ne parli un po' par-titamente. Il mio pensiero, conforme a quello già molti anni addietro adombrato dal vostro illustre Cesare Balbo, è bensi ormai comune a molti de'miei compalriotti, ma ancora gli fanno guerra vecchi pregiudizi. Principalmente pel timore di accrescere troppo gli elementi slavi dell'Austria, lo si contrasta tuttora tenacemente al di qua e al di là della Leita. E voi, dal canto vostro, dominati sempre dall' idea fissa che soltanto il disfacimento della monarchia austriaca vi possa giovare, vi associate coi vostri più implacabili nemici di qui a temere, e, potendo, ad impedire ch'essa s'inorienti. Parlo dunque contro errori vostri e nostri ad un tempo, e per amore insieme e della mia Ungheria, e dell'Italia. Oh! arrivassimo presto, italiani e ungheresi ad intenderci e a farla intendere ! Ci accordassimo presto a camminare di conserva verso la stessa meta! Comincio col domandarvi, se non sia manifesto che in Europa lo Stato più minacciato nella sua sicurezza ed integrità e forse pure nella stessa sua esistenza, dopo la Turchia, è appunto l'Austria, e che precisamente per questo si appuntano su di essa le mire più ostili palesi 0 segrete prossime o remote, da una parte, e i propositi più risoluti dall'altra di non lasciarla opprimere, ma di rafforzarla con tale riordinamento della sua costituzione politica e territoriale, da renderla capace di resistere, sia alle insidie sia agli assalti de' suoi nemici. Dico che ciò ò manifesto. Chi, infatti, non vede i molti pericoli, che corre l'Austria, finché non si riesca a darle l'assetto, che può redimerla? Chi non vede che questi pericoli derivano principalmente dal contrasto delle diverse nazionalità, che la compongono, dall'impero attribuito a due sole di esse, dal fatto che le stesse due nazionalità imperanti non sono ben collegate insieme, ma guardano a due obbiettivi diversi, e dall'altro fatto, ancora più triste, che non mancano le tendenze interne le quali armonizzino coli'esterne cupidigie. Queste cupidigie, diciamolo francamente, scendono abbastanza scoperte da Pietroburgo, e chiuse ancora nelle neb- bie di una lontana possibilità da Berlino. Esse sono tanto naturali che più noi potrebbero essere. Potrebbe, invero la Russia veder adempiuto l'antico suo voto d'insediarsi al Bosforo, senza combattere P Austria ? E potrebbe la Germania, senza vincerla un'altra volta, muovere verso il suo Bosforo di Trieste, fosse pure, intanto, solo per mezzo di un allargamento federale dell'Impero germanico nel mezzogiorno, sulle orme della vecchia confederazione morta a Sadova ? dubitate che gli Alemanni mirino all'Adriatico? oh! quanto sarebbe ingenuo, scusate, il vostro dubbio! Esaminate gli interessi tedeschi, tenete conto dello spirito invasivo di quella nazione, ponete attenzione a certe scappate profetiche de'suoi dotti, i quali costumano, là assai più che altrove, di prendere la parola d'ordine dalle cancellerie politiche, né trascurate le vanterie de' suoi avventurieri tradottisi qua e là sulle rive dell'Adria a pescarvi denari, e converrete meco facilmente. Non é molto che un illustre uomo della Sprea ebbe a spiattellarmela presso a poco cosi: « La Germania, prima potenza militare, che occupa il centro dell'Europa ed é grande e animosa per molti rispetti, non può acconciarsi a rimanersene vòlta soltanto al freddo settentrione. Essa pure ha diritto ad uno sbocco nei mari del sud; essa pure deve possedere le sue calate, le sue banchine e i suoi ridotti e le sue corazzate a proteggerle nel gran porto delle genti civili e operose, ch'é il Mediterraneo; anch'essa vuole condursi per la via più breve a correre il palio del canale di Suez. Questo é, questo dev'essere un supremo suo intento. Bisognerà bene che P Austria ci faccia luogo. Noi guardiamo a Trieste, e i signori dell'Italia irredenta avranno colà a discorrerla con noi, che saremo pei loro denti un osso ben più duro di quello dell'Austria. Se la nostra prudenza politica allontana ora dall'orizzonte questo pensiero o ve Io mette fra le nebulose, state pur certo che lo vedrete sfolgorare di tutta la sua luce alla prima buona occasione. Non ignoriamo che i difensori dell'Austria ci staranno contro. Ma, ove non bastassimo da soli, sarà con noi altri, ch'é cointeressato a fiaccarla. C'è la Russia, che vuole anch'essa, come la Germania, riscaldarsi al sole del mezzodì. E Germania e Russia congiunte, perché il loro voto comune si adempia hanno ferro e fuoco per tutti. » Io non vo' dire col fiero mio interlocutore, che la Germania s'abbia, come lui, si piena e serena la sicurezza del ferro e fuoco per tutti. Chi sa anzi eh' essa, vedendo l'Europa bene decisa ad opporsi agli appetiti nordici, non lascerebbe la compagna, la quale avesse più fame che giudizio, sola nelle peste fino a tempi migliori ! Ma l'accennato indirizzo politico non si potrebbe negare seriamente. E vi hanno Italiani, pur sagacemente persuasi che l'Italia è senza difesa, finche non ricuperi la naturale sua frontiera d'oriente, i quali cadono nella stranissima contraddizione di cercare per tale rivendicazione gli alleati a Pietroburgo e Berlino! Perdonatemi l'esclamazione, e torniamo all'argomento, cioè all'argomentata unione della Russia e della Germania pel grande scopo di estendere o la loro signoria o la loro prevalenza e tutela P una oltre i Balcani, e l'altra oltre le Giulie, quando fra le discordie dell'Europa fosse lasciata l'Austria dibattersi da sola. Non importa qui fermarsi a considerare come sieno ingiuste coteste loro tendenze. Su di ciò, per quanto riguarda la Russia, io mi limito a farvi notare, che v' é molto maggiore differenza di caratteri nazionali fra gli Jugoslavi e i Russi di quello che fra voi Italiani e i Francesi. Chiamereste voi nazionale il dominio della Francia in Italia? Rispetto poi alle voglie germaniche, nemmeno un'apparenza di causa nazionale si lascia immaginare per esse. E mi stupisco che, mentre nella mia patria questo è veduto, si può dire, da tutti, vi siano costà in Italia, né già soltanto fra le classi ignoranti, molti c molti, che non lo sanno. Dove mai vi hanno Tedeschi indigeni, in qualsiasi punto, dall'Isonzo al Quarnaro? E sta forse la Germania almeno dappresso sul versante settentrionale dell'Alpe Giulia? Ma quale ragazzo delle nostre scuole non sa insegnare, che là, fra le genti germaniche e la frontiera naturale d'Italia sta largamente e popolosamente la Slavia con tutta la Carniola e con buona parte della Carinzia? Che altro dunque all'infuori della sola ragione dell'arbitrio e della forza di farlo valere potrebbe addurre la Germania a pretendere qualunque tratto del litorale adriatico? Nemmeno l'interesse dei commerci (a cui sarebbe del resto assurdo ed iniquo voler sacrificati i diritti nazionali) varrebbe a scusa, perocché Trieste può servire egregiamente ai traffici della Germania orientale, come fa Venezia per la centrale e Genova per l'occidentale, anche senza appartenerle politicamente, come né Venezia, né Genova le appartengono. Ma lasciamo la ingiustizia delle dette aspirazioni russe e tedesche. Per quello, che intendo di dire basta conoscerle, allo scopo di vedere quali Stati si trovino minacciati da esse, e quindi necessariamente collegati contro di esse. Ora é facile persuadersi che questi Stati (a dir solo dei maggiori) sono l'Austria, l'Italia, l'Inghilterra eia Francia. Li metto di proposito in quest'ordine, perché cosi mi sembra ch'essi si succedano l'uno all'altro nei riguardi della gravità della minaccia di cui parlo. Con una Germania e una Russia padrone o patrone dell'Adriatico e dell' Egeo, e con tanti Tedeschi e Slavi, che gli uni a quella e gli altri a questa spianerebbero le vie, che conducono alle ambite marine del sud, che mai sarebbe dell'Austria? Essa sarebbe o completamente abbattuta, o, nel migliore de'casi suoi, ridotta alle proporzioni e al valore di un monumento archeologico decorato a rao' di fregio della corona di Santo Stefano, in mezzo al mare magnum del pangermanismo e del panslavismo traboccanti e spumanti oltre alle loro chiuse secolari. Ma se la è questione di vita o di morte per l'Austria, gravissima si presenta essa anche per l'Italia. Ometto, per brevità, di considerare l'ardua posizione, che le sarebbe fatta da una Russia, che, sia pure indirettamente, cioè per mezzo di principi-prefetti nella penisola dei Balcani comandasse sulle portuose e formidabili coste della Dalmazia e dell'Albania fronteggianti il cosi infelice e scoperto vostro litorale adriatico. Astraendo pure da ciò, e fermandosi ad esaminare unicamente la vostra condizione di fronte alla Germania, quando vi accadesse di averla, comunque, nel golfo di Venezia, quale somma sventura non sarebbe questa per voi ! Non occorre essere profeti per prevedere che la gagliarda nazione metterebbe là tutto il suo vigore, tutta la sua alterezza, tutti i suoi propositi più ostinati a tenere fortemente il dominio o predominio conquistatosi su quelle rive e a trarne, sott'ogni riguardo, il profitto maggiore. Non sarebbero esse l'unico suo appostamento nel mezzogiorno, dove far punta colle migliori sue forze per muovere arditamente alle più larghe e promettenti palestre della vita dei popoli civili? Quale emporio commerciale non farebbe essa di Trieste, e quale fortezza, e porto, e arsenale militare di Pola! E con siffatto cuneo nel fianco, che diverrebbe l'Italia? Quale la sua sicurezza, spoglia com'è e sarebbe per sempre di qualsiasi frontiera naturale da quel lato? Quali i suoi commerci nell'Adriatico tramutato in Mare Germanico del Sud? Quale la possibilità di una sua politica indipendente? E senza libertà d'azione, pur rimanendo in figura di Stato a sè, che Stato mai sarebbe il vostro? Altro che grande Potenza! L'Italia meriterebbe appena il nome di Regno antonomo, e s'iniziercbbc per lei, comecché sotto altra forma, una nuova e forse più lunga legge di soggezione allo straniero. A me torna oltre ogni dire sorprendente che questo non si veda da molti e molti dei vostri pubblicisti, o, peggio ancora, vi si guardi con imperturbabile indifferenza. Non mi dimenticherò mai di aver letto la espressione di questo inqualificabile sentimento in un giornale di Venezia. Beffardo verso ogni aspirazione italiana alla frontiera dell'Alpe Giulia, esso si accontenta di avere nell'Adriatico i bagni del Lido! Siffatti animi a Venezia! A Venezia, nella patria dei Dandolo, dei Zeno, dei Pisani e d'altri molti dal nome immortale! A Venezia, che una Germania contigua condannerebbe inesorabilmente dalle prore di Trieste e dalle batterie di Pola al destino di Torcello! Ma non soltanto l'Austria e l'Italia, bensi ancora l'Inghilterra e la Francia sono tratte dalle ragioni più gravi ad impedire che l'impero austro-ungarico soggiaccia alla prepotenza tedesca e slava, e questa avanzi quindi a contender loro il Mediterraneo, a rafforzarsi sulle loro linee marittime, a turbare profondamente tanti loro interessi commerciali, politici e militari. Se l'Inghilterra mette si grande impegno a salvare Costantinopoli dalla Russia, come mai noi metterebbe del pari contro la Germania, che volesse affermare, non importa con quale congegno politico, il porto di Trieste? Quale differenza, se non in peggio, per la sua posizione nel canale di Suez, fra le conseguenze del primo e quelle del secondo evento? E la Francia si lascierebbe girare dalla Germania anche a mezzodi? Starebbesi colle mani in mano di faccia a tanto pericolo, a tanta estensione di potere della sua nemica capitale? Rinuncierebbe all'alleanza dell'Austria, dell'Inghilterra e dell'Italia, quando sorgesse il giorno di unirsi ad esse per la rèvancheì La Sohtzjonc. 281 Egli è evidente: la irresistibile forza di un supremo interesse comune spinge i quattro Stati ad allearsi tra loro. È da questo principio che voi dovete partire nei vostri calcoli politici; è per questa via che vi conviene andare, se volete compiere l'Italia, e procurarle la forza e la sicurezza, che le mancano. Quei vostri uomini politici, che si mostrano stoicamente rassegnati al disastro, più o meno lontano, di avere una Germania nell'Adriatico, bisogna credere s'immaginino che l'Italia troverebbesi infallantemente sola ad opporvisi, e che perciò essa debba lasciare fin d'ora e per sempre ogni speranza di sfuggire tanta sventura. È veramente singolare che essi, i quali sogliono condannare (come rilevo dai vostri giornali) tutte le congetture anche più ragionevoli e vicine, giudicando fantastica ogni previsione, che non si risolva in un giudizio dei più immediati effetti delle condizioni presenti, facciano poi pieno divorzio da questo loro sistema, quando si tratti di predire, come fanno, l'impero tedesco a Trieste. Qui si ch'é lecito, a loro avviso, ritenere per sicuro e indeprecabile ogni più tristo caso, per quanto avvolto in ipotesi remote. Di tal modo il futuro non sarebbe aperto, secondo essi, che alle loro malinconie e svogliatezze infingarde, — e chi altro pretendesse di leggervi, fosse pur cauto quanto più lo si può essere, non meriterebbesi il loro compatimento ! Ma non vi pare questa una contraddizione da menti boriose e ristrette? Non mi fate colpa, se esprimo con acre parola il disgusto, che provo all'udire opposizione cosi poco seria e virile. Non poco m'irrita pur l'altra, affatto diversa, di certi ottimisti, i quali si attendono dalla Germania ogni ben di Dio, dalla musica dell'avvenire all'avvenire del completamento di Italia. Oh ! com'essi s'illudono! Vi fosse anche, per inconcessa ipotesi, consentita la frontiera orientale qual prezzo di una vostra alleanza con Germania e Russia, nell'intendimento di sottrarvi ad altri accordi, che altro mai, se non precario sarebbe un tale compenso? È proprio il caso di ricordarsi del trito litneo Danaos et dona ferenles. Dopo aver concorso ad inalveare, attraverso alle provincie austriache, la gran fiumana germanica sino agli orli del bacino adriatico, come fareste a distoglierla dal riversarvisi ? Come dire alla strapotente nazione: « Fin qui, e non oltre; vedere si gli azzurri flutti dell'Adria, ma non toccarli; misurarne coll'avido sguardo l'ampiezza rallegrata dalla festa delle sue vele, e sentirsi la forza di percorrerla, ma rispettare la paura del debole e fermarsi! » No, no, a nessun prezzo, può tornarvi profittevole cooperare con Germania e Russia a prostrare l'Austria o a circuirla e stringerla cosi, che torni loro facile in altra occasione di assestarle il colpo di grazia. Comprendo bene ciò, che vi tenta ad ascoltare i consigli senza dubbio assai naturali dell'odio e dell'ira, anziché della ragione, dinanzi alle stolide ingiurie, di che vi onorano gli ebeti della decrepita politica arciducale e gli appaltati Juden-buben della stampa viennese. — D'altro canto comprendo del pari l'avversione alemanno-austriaca, che si aggiunge alle vostre renitenze nel contrastare l'intento, che vi consiglio con tanto calore, e sembrami invero assai arduo farla capire agli allocchi della Corte imperiale. Ma per quanto questo sia vero, e i nostri vicini del nord e dell'est abbiano tentato di cavarne vantaggio, cioè di trarsi dietro legata la monarchia austro-ungarica sotto colore di averla compagna in una nuova triplice alleanza, troppo sarebbe triplice la cecità del nostro Governo a non accorgersi del giuoco; e troppo é imperiosa la forza delle cose, perché non sia da confidare di veder vinti finalmente, assieme ai vostri, anche i nostri pregiudizi rispetto ad un'alleanza dell'Italia coll'Austria e di entrambe colle potenze occidentali. E poiché quest'ultime sono evidentemente interessantissime di avere con sé l'Italia, cosi per l'importante sua posizione di fianco alla penisola dei Balcani, come pure per le sue armi, che ormai contano anch'esse, e non poco, sarà loro la cura, se non Io é già, di accomodare per bene i patti fra Vienna e Roma. Abbiamo veduto risolversi in Italia ben altre questioni che quelle del Trentino e dell'Istria! Ma dunque, direte voi, é la guerra certa dei quattro con-« tro i due, che prevedete? E vorreste proprio che subito si avesse a montare a cavallo e a correre in campo in tanta necessità, che hanno tutti di starsene quieti in casa e forse anche a letto? Nemmeno in sogno, caro amico, mi cade ciò nella mente. Prima di tutto mi guardo bene dal dire che s'abbia a ritenere come certa si gran guerra. Per lo contrario spero che l'Austria, l'Italia, l'Inghilterra e la Francia, quando si tengano fermamente unite a resistere, occorrendo anche colle armi, agl'intendimenti della Russia e della Germania, possano riuscire ad evitare all'umanità una tanta sventura. Mi lusingo perfino che di tal maniera si giungerebbe forse anche a rompere l'alleanza dei due imperi del settentrione e a trarre negli accordi dell'Europa la stessa Germania, la quale, vista l'impossibilità di procedere coli'aiuto della Russia verso il Mediterraneo, potrebbe rimandare a tempi indefiniti l'eventuale adempimento di questo suo voto e, fatta di necessità virtù, accontentarsi intanto di contribuire ella pure a portare l'Austria sui lidi del Mar Nero e dell'Egeo, associandosele per modo, da fruire di quegli scali come di posti avanzati della propria vita economica, almeno indirettamente a lei congiunti. Voi vedete cosi ch'io non mi sto nella rigida cerchia di una sola previsione. Anzi credo l'ultima ipotesi meritevole di particolare attenzione, potendo derivare per aliam viam un pericolo di soverchio intervento tedesco nel campo degli interessi orientali, e importando quindi non poco vigilare che la Germania, ove fosse per passare dagli abbracci colla Russia a quelli coli'Austria, non avesse a stringersi la nuova amica troppo affettuosamente al seno, tanto più che questa é assai più del bisogno tedesca di là dei confini occidentali della mia patria e non sì poco di qua (sebbene al di fuori delle masse) da non allettare a voli pindarici, fosse pure soltanto nelle regioni del Kulturhampf, la temeraria fantasia teutonica. Ma abbordando pure l'ipotesi che cotesta gran guerra sia per essere inevitabilmente necessaria, io sono ben lungi dal desiderare che la si combatta presto. Desidero invece che si ponga ogni studio e direi quasi ogni artifizio a ritardarla. L'indugio é a tutto vantaggio della causa giusta. Mentre, invero, la Russia va incontro a terribili difficoltà interne, né la Germania può guardare all'avvenire delle difficoltà proprie senza grave preoccupazione, l'Italia, se avrà senno, potrà riordinare le sue finanze e rafforzare il suo esercito durante la sosta, — l'Austria prepararsi al federalismo, prendere salda posizione fra la Serbia e il Montenegro nelle nuove provincie, e di là, riformata radicalmente, porsi alla fine a capo della causa nazionale jugoslava, — la Francia riguadagnare pienamente la vigoria e gli ardimenti di una volta, — e l'Inghilterra attuare, almeno in parte, l'alto concetto che la condusse alle vedette di Cipro. Per tutto questo ci vuol tempo, ed io faccio i voti più fervidi ch'esso ci sia consentito dalla Provvidenza. Comunque, però, é mestieri fin d'ora veder bene quello, che si richiede e converrà mandare ad effetto (o prima, o poi — o nei campi della pace, o in quelli della guerra) per conseguire l'importantissimo scopo di salvare l'Oriente, il Mediterraneo, l'Europa dall'egemonia delle genti slave e germaniche. Ora, a ciò rendesi necessaria appunto un'Austria federale inorientata, ossia con altro nome, una Confederazione danubiana. Ponetevi, vi prego, sott'occhio qualsivoglia carta geografica di quella si importante parte del nostro continente. Non é egli vero che la smisurata conca, la quale, attraversata dal Danubio, sta fra le alpi tedesche e italiane ad occidente e i Carpazi, i Balcani e le Dinariche agli altri lati, costituisce nei riguardi territoriali una regione a sé? E questa regione non giace alle porte più gelose dell' Europa, di faccia alla Russia? Non s'interpone fra le nazioni nordiche e le meridionali?-Come dunque, senza gravissima imprudenza, scinderla in più Stati, che tutti sarebbero deboli a tenere validamente si gelosa guardia, anziché costituirla in una sola potente aggregazione politica? E poiché vi ha una vecchia dinastia militare, che già regge una gran parte di essa, perché correre la ventura con altri principati novelli, invece che raccoglierla tutta sotto gli stessi Abs-burgo ? Né vale minimamente l'opporre il fatto delle diverse stirpi, come la tedesca, la magiara, la jugoslava e la rumena, le quali abitano quel vasto paese. Nessuna di esse vi ha un territorio a sé; — bensì tutte si diramano P una nell'altra e si screziano a vicenda là, dove P onda delle trasmigrazioni passò e ripassò più grossa e frequente per secoli; — nessuna di esse basta a sé; — nessuna ha diritto d'imporsi alle altre; — nessuna affida da sola l'Europa; — nessuna da sola sarebbe altro che una dipendenza della Germania nella metà occidentale dell'impero e frammenti di Russia nell'orientale. Quale ordinamento, pertanto, potrebbe meglio di cotesta Confederazione danubiana garantire alle singole nazionalità dj quella regione la loro indipendenza e servire nello stesso tempo al supremo bisogno dell'Europa di avere colà una vigorosa e sicura alleata? E qui mi fermo. Voi, Italiani, concorrendo a tanta trasformazione, avreste senza dubbio il compenso della frontiera delle Retiche e delle Giulie, che tanto vi é necessaria. Un'Austria vòlta all'Egeo avrebbe mutato fronte e dividerebbe con voi senza difficoltà, alle sue spalle, il dominio dell'Adriatico, essendo appunto nient'altro che un dividerlo l'assegnare all'Italia il suo golfo territoriale di Venezia. Ragionate e vincerete. LETTERE. A V VER T EN Z A. Avremmo voluto presentare al lettore un epistolario possibilmente completo del Combi, persuasi, come eravamo, che dalla sua vasta c interessante corrispondenza l'uomo sarebbe apparso, meglio che da qualunque biografia, qual'era, dotto, arguto e tutto d'un pezzo nella bella serenità del suo carattere antico. Ma le richieste, che facemmo da più parti, non corrisposero che insufficientemente alle nostre speranze. Molte delle sue lettere, forse le più importanti, dovettero essere probabilmente distrutte dai destinatari tuttora soggetti alla sospettosa vigilanza dell'Austria; altri, che non avevano questa necessità, tralasciarono perfino di rispondere alle nostre domande, forse, come nota argutamente il Combi medesimo, in una di quelle lettere, che pubblichiamo, perchè « pare che sia legge « pegli esercenti la professione di uomini grandi di non rispondere ». Ringraziando adunque i gentili, che corrisposero al nostro invito, e pregandoli di scusarci, se non pubblichiamo per intiero la corrispondenza da essi trasmessaci, ci limitiamo a render pubblico un breve manipolo di lettere del Combi, nelle quali predomina essenzialmente il concetto politico. Vedrà da esse chi legge come nella corrispondenza privata, del pari che nelle opere a stampa, uno solo era sempre il pensiero, che affaticava la mente dell'ardente cittadino, la Patria, e come egli assottigliava, direni così, giorno per giorno, T ingegno per tentar di coordinare anche dopo il 1866 l'effettuazione del grande scopo della sua vita a seconda dell'andamento delle vicende politiche. Lavoro improbo, in cui si esaurirono le sue forze vitali, ma non la fede in lui inconcussa nel sicuro trionfo della causa istriana. Firenze, io agosto 1866. Curo il mio ..... Sebbene la carissima tua non chiamasse risposta, sentiva il bisogno di scriverti. Ma lo avrei fatto con animo sì nero che mi comandai di tacere. Io non mostrai ad alcuno, nemmeno a I...., quanto mi hai riferito. Sono cose molto dolorose, che vogliamo discorrere soltanto tra noi due, e non puoi immaginarti quanto mi dolga di non esserti appresso per questi sfoghi dell'anima ad un vero amico. Qui oggi tutto suona disfatta diplomatica : il Trentino è andato all'aria; non si è in grado di fare la guerra; vi è discordia anche tra i capi dell'esercito; la nazione non ha libra; la flotta è con tutti suoi cannoni in pieno disarmo d'intelligenza, e via di questo trotto. Se così è, pazienza, lo mi lagno per l'Istria; é il compromesso onore nazionale, che profondamente mi addolora. Qui lavorai da bestia: tanto è vero che un cane avrebbe cavato gli stessi effetti. Oggi abbiamo messo tutto ad acid. Se verrà opportuno momento, caveremo fuori ciò, che avevo già approntato. Ora non rimarrebbe altro che chiedere qualche condizione riguardo al commercio e alla navigazione tra l'Italia e Venezia e l'amnistia, come si fece nei trattati del prin- cipio di questo secolo. Ho steso anche perciò uno scritto, e coglieremo un'ora meno ladra della presente per recarlo al sig. Bettino. Ma lasciando stare i Bettini con tutte le Bette, che condurrebbero forse la politica meglio di essi (ed è tutto dire che lo dica io!), scrivimi cosa sia di........ P... se n' ò andato a mettersi addosso un nuovo strato di carnaccia tra i suoi pievani del Friuli, ma temo che anch' egli sarà a quest' ora in ritirata, tagliato fuori delle sue delizie dal maledettissimo ragliamento. Addio, saluta gli amici, e aggradisci un affettuoso abbraccio dal tuo Carlo. P.S. Mio padre mi scrisse di non ritornare. Vi sarà la sua gran ragione. Ebbene, pazienza anche per ciò, e coraggio a lavorare in qualunque campo ci ponga la fortuna, ossia (come credo io) la Provvidenza. Padova, 7 dicembre 1866. Giro ... Ti sono pure molto grato per la premura, che hai posto ad aggiustarmi bene le mansioni di corrispondenza del. . . ........Ma tu non prenderti soverchio pensiero per farmi assegnare una retribuzione eccezionale. Non voglio avere compensi superiori al comune apprezzamento di siffatte cose. Voglio peraltro scrivere di mia scienza propria, e quindi da Padova non mando verbo. Quando sarò a Venezia, vedrò se mi sarà possibile, come desidero, di spedirti le mie relazioni gratuite. Quanto alle corrispondenze dall'Istria, rimasi stupefatto al leggere l'avvertimento, ch'esse non vengono rimunerate. E potevi sognare eh' io toccherei denaro per adempiere a questo dovere verso il mio paese?... Su questo campo non ha Milano abbastanza oro per farmelo aggradire, e di cosa tanto naturale non saprei nemmeno compiacermene. Avvertii subito il T... di quanto mi scrivesti sul conto suo. Egli ti ò obbligatissimo e farà domani la sua domanda. Di me ho noia a parlarti. Cedendo alle istanze della mia famiglia e di molti amici, lasciai che alcuni benevoli si adoperassero per farmi ottenere un collocamento nel Regno. Io peraltro nulla chiesi, nò in iscritto, né a voce, nò direttamente nò indirettamente, come avrei potuto farlo senza disdoro. Non lo feci per indole riguardosa e tenera del pieno disinteresse, con cui mi recai a debito di trattare come poteva la causa della mia provincia. Chi approverà questo mio contegno e chi lo chiamerà o superbia o ridicolo puritanismo. Sia; di questi censori non muoverò lamento. Ma se è vero che un amicissimo, a cui non possono essere ignoti i modi di condotta, che mi sono imposto, abbia avuto a dire, ch'io domandai un impiego, questo amicissimo lo chiamerò maligno mentitore e avrò cura di disprezzarlo in cuor mio come si conviene. — Ciò detto di passaggio, ti confesserò che sono ormai molto inquieto pel mio avvenire. Qui, dopo un gran tuonare di benevolenze e di promesse agli orecchi de' miei benevoli e spontanei mediatori, non s'ò veduta goccia di tanto nembo. Di là, ossia oltre l'Isonzo, un drappello di amici, che mi tempesta con lettere, perché mi guardi dal ritornare, se non bramo di andarmene in gabbia. Sono specialmente i mici genitori, che mi scongiurano a restarmi qui e a domandare, come feci, l'espatrio. Se tutto ciò non fosse di mezzo, io non esiterei un istante: ritornerei. E aggiungi a tutto ciò che i miei vecchi non possono vivere senza di me. Mio padre non può tirare innanzi con tutti i suoi affari. Una delle due adunque: o io a Capodistria, perché non manchi il vitto alla mia famiglia, o la mia famiglia con me qui nel Regno. Vedi adunque se avevate ragione di sorprendetene, tu e M....1 Queste particolarità, che debbono infastidire chi non é tratto dall'affetto a occuparsene, io le scrivo per te solo. Non voglio confidenti, che non abbia scelto io. Pur troppo sono costretto a discorrermele queste miserie, ma ci tengo a escludere dal prendere parte a siffatte conversazioni chiunque non sia mio intimo amico. In altra mia ti parlerò delle cose patrie. Qui ti dirò soltanto, che regolai le comunicazioni colla provincia per qualunque oggetto da spedirvisi, che ci ponemmo d'accordo sul contegno legale ed estralegale da tenersi sotto il governo austriaco, e che qui ho già iniziato conferenze per alcune operazioni patriottiche, che avranno certo la tua approvazione. Delle elezioni municipali di Capodistria, riuscite egregiamente, avrai avuto già notizia. Addio, credimi il tuo Carlo. Venezia, 31 dicembre 1866. Carissimo... Rispondo subito alla tua gradita di ieri. Quanto alla corrispondenza, va tutto bene quello, che fai tu, a cui demando ogni riscossione e quando e come credi meglio. Scrissi subito a Padova per ricuperare la circolare, di cui mi parli, e non mancherò di farne menzione nella prossima mia relazione dell' Istria. Non accusare i X... di Trieste, perdio già ti dissi ch'essi manderanno o a te direttamente, o a me. Ora in questa seconda quindicina di dicembre ebbi da loro due lettere, delle quali mi valsi per comporre le corrispondenze, che ti ho spedito. Vedrò L... questa sera, e gli dirò quanto raccomandi. Il mio espatrio non fu ancora accordato. Si spera che lo sarà nella seduta di Giovedì. Io quindi non ne avrò il decreto che nella ventura settimana, e poi, prima di rimpatriare, sarà bene che ottenga la cittadinanza italiana. Anzi in questo proposito ti prego di istruirmi sulle normalità relative. Tu domandi delle cose mie, e puoi ben credere, se a te solo ne parlerei per lungo e per largo, se non temessi di annoiare te e me. Siamo sempre alle assicurazioni, ma i fatti mancano. Il mio sistema di astensione non può essermi dannoso, perché vi furono i benevoli, che spontaneamente si adoperarono per me. Non é dunque giusto il dire ch'io pretenda che il Governo venga a cercarmi col lanternino. Certo che se anche mi fossero mancati i benevoli, non mi sarei per ciò meno astenuto. Ma allora non avrei pure pensato ad un impiego. I benevoli, che si accinsero a patrocinarmi per un posto nella magistratura, furono a Firenze il Correnti e il Gigli, e a Padova Cavalletto, Colletti e Pepoli. Io avrei avuto assai più voglia per l'istruzione, ma non ebbi coraggio di dirlo, al vedere tanti miei amici, come Fiorioli, Occioni, Fichert, Tedeschi ed altri, che battevano la stessa via. E poi pensava che sarebbe stato più facile riuscire là, dove sono in maggior numero le nicchie. Se fossi stato senza famiglia, mi sarei esposto più volentieri ad aver nulla che a mettermi in campo che non é di mio genio. Ma .. ma ho i miei vecchi, a cui pensare, e a pensarvi ci ho gusto, anzi il solo gusto, che mi rimanga. Adesso il prof. L... ch'è mio amicissimo, vuole muoversi di tutta lena per l'istruzione, cioè perché mi sia affidata la reggenza di un ginnasio. Vedremo: io ne andrei certo ar-cipiù che pago. Non pensare poi che la facenda del mio vivere lontano dalla mia famiglia sia di poco rilievo. Mio padre conta i 73 anni, e non debbo, non posso, non voglio lasciarlo faticare in alcun modo. Ora, credilo, i proventi non sono tali, da stipendiare un collaboratore. E poi dov'è il collaboratore? Non saprei trovarne uno opportuno che accettasse, e credilo pure per fermo. D'altra parte i contadini dell'Istria hanno la loro fede nella persona, e senza la persona, voltano la terga. Adesso p. e. hanno fede in me. Lo studio rifioriva assai bene, e non puoi immaginarti il danno, che già ne derivò a me e ai miei della mia lontananza. Dunque è impossibile pensare ad altro partito che a quello di rimanere uniti. Le larghissime promesse mi portarono a decidermi' per qui, e quindi a far cose, anche dopo il trattato di pace e dopo la Risoluzione Imperiale del novembre, che non avrei fatte, avendo avuto in mente di ritornarmene. Quindi l'espatrio, quindi in una parola la impossibilità ormai di sognare il mio domicilio in Istria. Se potessi ricon-durmi al 3 di ottobre, non esiterei un istante a tradurmi nuovamente sul mio povero scoglio. In ogni modo ho coscienza, che se errai, non errai per inillcssione. Lui tratto in errore, e non ultima parte in ciò s'ebbero gli ammonimenti dei parenti e degli amici, i quali tutti mi volevano qui, alcuni per la bontà loro di riputarmi atto a fare alcunché di bene anche su quest'altra scena, ed altri, tra cui in capile mia madre, per la paura di vedermi finir male fra i tanti pencoli, che non avrei certo causati, come non li causai per lo addietro. Tu vedi adunque che la matassa e bene intricata, e che non ho tutto il torto di vegliare qualche notte. Quanto alle cose nostre, io sono animato dalle più belle speranze. Mi diranno ottimista, ma io vedo una guerra contro la Russia, fi sempre l'antica mia ipotesi di una coalizione contro quel colosso, che spinge le sue propagini vigorose fino nel centro di Europa e nella spiaggia dell'Adriatico. — Coll'Istria le comunicazioni, come ti dissi, sono molte e buone. — A Padova il Circolo, sopra domanda del comitato di emigrazione (ora sciolto) si occupò e si occuperà* a formare una commissione nel suo grembo per le cose di Trento e dell'Istria, e farà invito a tutti i circoli d'Italia di imitarne l'esempio. — Alcuni dotti qui c a Padova leggeranno e poi stamperanno memorie su di noi. — Un egregio mio amico francese, che si trova ora domiciliato in Padova, si presentò alle principali redazioni dei gionali di Francia, munito di un'ampia commendatizia del comitato di emigrazione, perché accettino sue corrispondenze intorno alle cose istriane. Col mezzo del capitano A... che conobbi qui in novembre, e che ora sta in Londra, c'è speranza di vedere accolte le nostre relazioni anche nel Times. Egli assicura che la cosa fu già appieno composta. Ci vorrebbe ancora un deputato istriano a Firenze. A Padova me ne hanno parlato alcuni del Circolo, ed io risposi che non ho diritto d'impedire una loro dimostrazione di simpatia pel mio paese. Di ciò peraltro ti prego particolarmente di non parlare, finché non si faccia chiaro. Ho sempre paura di vedere in tanta moda di ciarlataneria, che mi si porti con tali ampollosità, da farmi arrossire. Gli a-mici più caldi sono il conte Leoni, il Fiorioli, il Brusoni e il Leva, e i voli pindarici dei due primi, a cui li so inclinati per indole, mi mettono la febbre. — Finalmente (e non ti garantisco di questo finalmente) c'é un po' di la- voro, a cui attendo nella Marciana. Ho per le mani più oggetti, vale a dire il libro, di cui già ti scrissi, sullo stampo di Baisini, le lettere del Vergerio Seniore, e il processo del Vergerlo apostata, nonché il secondo volume della Bibliografia. Troppe cose: convengo, ma non si può lavorarne una sola, perché ora per l'una ed ora per l'altra capitano inevitabili soste, e allora conviene ripigliare ciò che lascia continuarsi. — Del resto questo é il programma di lavori letterari presenti e futuri, e non già dell'oggi soltanto e subito che vi attendo e tu me ne chiedesti, te lo sciorinai intiero. Lasciai a Monfalcone una ventina di copie per te dell'opuscolo sui celebri istriani. — Ne vedrai un cenno sul Tempo. Il tuo Carlo. Venezia, 3 giugno 1S67. Amico Carissimo. Ebbi la gradita vostra, e siamo in tutto perfettamente d'accordo. Sono già parecchi anni che a Capodistria abbiamo propugnato la opportunità di fonderci colla Società Triestina di orticoltura. Ma l'Istria al di sotto del Quieto, e particolarmente Rovigno, dove era il comitato promotore della Società agraria istriana, voleva che questa avesse vita. Noi, per non sembrare ostili a tale progetto per viste municipali, abbiamo lasciato fare. Ora per altro mi parvero persuasi anche i rovignesi del nostro concetto. La coopcrazione del Gigli tornerà fruttuosa e onorevole assai. Ottima cosa adunque Io impegnarlo, come avete fatto. State pur sicuro, che tutti gli amici comprendono la suprema necessità di concentrare gli sforzi a Trieste, ch'é città popolosa, ricca, intraprendente e in vista di tutto il mondo. Fu appunto su di ciò che stimai mio debito d'insistere maggiormente, come non aveva mancato di sostenere anche per lo passato. A Trieste le parate, oltre a tutto il resto; e nelle provincie il continuo lavoro attorno alle instituzioni civili, non senza prendere parte, tratto tratto, alle attestazioni più dirette delle nostre aspirazioni. Ora qui, dal canto nostro, conviene particolarmente attendere a risvegliare l'attività della Associazione nazionale. E vero bensì, ch'essa non esiste che di nome, e che il suo presidente A.., e il suo segretario B... non tengono su che l'insegna. Ma appunto perché non la fu sciolta mai, avremmo tutto pronto, purché si volesse. Fino dall'agosto ultimo decorso ne aveva parlato al F..., e l'ultimo atto, che abbiamo pubblicato nell'opuscolo, stampato allora presso il Barbèra, fu una conseguenza di quelle prime pratiche avviate. La faccenda peraltro delle trattative di pace ci obbligò a soprassedere. In seguito ne scrissi al C..., e egli mi rispondeva che troppo arduo era rianimare un cadavere. Ora peraltro il F... avrebbe qui assicurato, che il governo non disamerebbe una nuova attività della detta associazione, purché, come appunto avevamo proposto noi, essa versasse, non già ad agitare in senso rivoluzionario, ma ad illustrare i grandi interessi nazionali, che si connettono colla questione della frontiera e dell'Adriatico. Scrissi quindi immediatamente a parecchi amici di Firenze, e particolarmente al conte Antonini e al C..., e parlai qui col C..., il quale se ne interessò molto e si propose di trattare la cosa con tutto l'impegno a Firenze, dove ritorna quest'oggi. Il Tempo di qui sarebbe l'organo specialmente delle nostre regioni sull'Adriatico, e cosi andrebbe salvo da quelle altalene, che non fanno onore alla provincia, da cui esso emigrava. Nel suo onore, sebbene a torto, è pure un poco impegnato anche il nostro. L'A... è tutto ardore per lavorare anch' egli in questo senso, e vuole anzi recarsi di persona a Firenze per assicurare l'esito del progetto. Niente di meglio. Io di ciò scrivo a voi e agli altri amici di costà col mezzo vostro, perché vi poniate voi pure a giovare l'intento con tutte le vostre influenze e relazioni, e credetemi il vostro aff'"" C. A. Combi. Venezia, 21 aprile 1877. Amico Carissimo. Che pensate delle possibilità riguardo alla nostra causa, ora che la guerra d'oriente sta per cominciare od è già cominciata? Il nostro Governo non ha idee ancora, a mio credere, che ci possano far nascere delle lusinghe. Ma gli avvenimenti possono imporgli la saviezza. D'altra parte, s'esso venisse meno al debito suo, dovremmo noi starcene inerti? Non dovremmo, anche senza speranza di riuscita, richiamare, più strepitosamente che fosse possibile, sulla nostra causa la pubblica attenzione? Pur troppo, noi non possiamo ancora che mettere ipotesi in aria; ma anche sulle ipotesi ò bene ravviare le nostre idee circa Patteggiamento da prendere. L'amore, che portate all'Istria, mi rende certo che starete con noi anche in questa nuova fase del nostro gran tema, e ci soccorrerete intanto del vostro avviso. Scrissi ai due magnati pel vostro e nostro aspiro; ma pare che sia legge pcgli esercenti la professione di uomini grandi di non rispondere. Non dubitate della mia insistenza. Mia madre corrisponde ai cortesi vostri saluti, e così tutti gli altri di casa. Io poi vi abbraccio in ispirito con tutto l'affetto, e mi riprotesto il vostro afT."10 C. A. Combi. P.S. II Memoriale, che presentammo al Dcprctis, con parecchie pubblicazioni relative alle nostre provincic, s'ebbe il bellissimo effetto di una viva raccomandazione a non fare, né dire cosa, che potesse compromettere il Governo. Venezia, 21 dicembre 1877. Mio ottimo amico. Quanto agli affari pubblici, pur troppo l'amore per l'Istria del nostro partito é tanto circondalo da cautele, da prudenze, da raccomandazioni di non comprometterlo, che per ora abbiamo a sperare ben poco aiuto da esso. Non manco però di stargli addosso, perché data l'occasione, non s'abbia a ricominciare ab ovo. Il C......va sempre meglio, e penso di visitarlo quanto prima. L'egregio uomo fece del suo meglio nel discorso agli elettori suoi per conciliare il programma del suo partito coll'affetto, ch'egli ha sicuramente per la nostra causa. A dargli un attestato della nostra riconoscenza, volli ch'esso fosse stampato a spese del nostro Comitato ed egli ci fu gratissimo di questa dimostrazione della nostra riconoscenza. Anch'io m'ingegnai a parlare dell' Istria neh' Istituto Veneto la scorsa domenica. Trattai della sua rivendicazione agli studi italiani, e appena il discorso sarà pubblicato ve ne farò tenere alcune copie. Io non mi lusingo di prossimi eventi favorevoli alle nostre aspirazioni; ma la possibilità c'è più chiara che dopo il 1866, e quindi bisogna rianimare l'azione. Anche le stampe, comeché fatte malissimo, dell'Imbriani colla sua Italia degli Italiani giovano. Io mi sono recato a debito peraltro di avvertirlo che bisogna rendere più assennati quegli articoli e non confondere la causa nostra colla causa repubblicana. La causa nostra sta al di fuori delle lotte partigiane e deve essere caldeggiata da tutti i partiti, senza invidie puerili fra di loro. Del capitombolo del Ministero sono lietissimo...... E poi io credo che andiamo presto allo scioglimento della Camera, e che il paese non voterà più da pazzo, come fece la volta passata. Addio, mio carissimo amico. Mia madre, che grazie al cielo sta bene, vuol esservi ricordata. E cosi gli altri di casa e il L... Salutatemi P..., e voi aggradite assieme agli auguri per le Peste e pel capo d'anno un cordialissimo abbraccio dal vostro Carlo. Venezia, 22 gennaio 1878. Mio egregio amico, Le commozioni patriottiche di questi giorni mi valgano di scusa, se tardai a riscontrare la carissima vostra del 12 corrente. Noi siamo collegati dell'animo in tutto e per tutto, e si può dire con piena verità, che in quello, che fate voi per la nostra causa, entriamo noi, come fossimo presenti e cooperanti, e cosi del pari voi in ogni nostra azione. Abbiamo fatto del nostro meglio, perdio anche in questa circostanza luttuosissima le nostre provincic fossero all'altezza delle loro aspirazioni. Spero che avrete già letto nei giornali gl'indirizzi c le altre dimostrazioni spiccatissime al di qua e di al là dell'Isonzo dei compatriota dell'Alpe Giulia. Vostro C. A. Combi. Venezia, 5 marzo 1878. Caro... Ti sono gratissimo delle tue premure e del patriottico proposito di agitare quanto é più possibile la nostra questione Il momento è veramente decisivo e bisogna costringere il Governo ad almeno produrla nella prossima conferenza. Parmi che l'immediata nostra esigenza debba essere questa. Poi andremo avanti secondo le circostanze. Per muovere la stampa a nostro favore vorrei che in ogni maggior centro taluno di noi raccogliesse intorno a sé i migliori pubblicisti (direttori, redattori e corrispondenti», li istruisse bene delle- nostre ragioni, parte a viva voce e parte colle nostre pubblicazioni già fatte, e li impegnasse a gridare assieme con noi. Io qui col L... ho già composto un primo nucleo a tal fine, e per assorbimento andremo via via ingrossandolo. Tu... non potresti fare altrettanto ? Senza dubbio Milano s'imporrebbe alla nazione molto più che Venezia. Qualche cosa ai nostri interessi servirà la storia, che sto componendo, delle prestazioni patriottiche d'oltre Isonzo dal 1859 a questi giorni. L'avrei già compiuta, se avessi potuto raccogliere tutte le relative memorie. Invece, lo spoglio dei giornali di Trieste, nei quali vi hanno preziose confessioni a nostro favore, non è ancora fatto; e così attendo ancora i documenti, che riguardano il movimento civile, sul terreno legale, delle tre provincie dell'Alpe Giulia. Premetto ciò per venirti a pregar di voler tu pure ajutarmi. Mi manca Io spoglio della Perseveranza dal gennaio all'agosto 1860. T'é possibile averne i numeri di quel tempo, dove si parla delle dette provincie? Su questo argomento e su ogni altro invoco il tuo consiglio, ch'ò quello del patriotta altrettanto ardente che assennato. Passo ora a darti relazione di cose intime dei nostri Comitati e di una grave risoluzione che L... ed io abbiamo dovuto prendere or da ultimo, riservando però ogni diritto di agire diversamente, pur consigliandoli vivamente d'imitarci, ai nostri colleghi ed amici. l'ino dall'agosto dell'anno scorso L .., C... ed io ci siamo rivolti ai vecchi Comitati del Veneto per eccitarli a ricostituirsi nell'uno o nell'altro modo, come meglio fosse loro sembrato, a vantaggio della nostra causa, italiana e veneta insieme. Pur troppo, sebbene io abbia poi ripetute le pratiche col maggiore mio impegno, non si riusci ad alcun effetto. Il moderatismo si appalesò tutt'altro che erede dello spirito di Cavour. Ad ogni pigmeo, la cui azione sia pure le mille miglia lontana dal compromettere l'atteggiamento del Governo, sembra di avere una gelosa missione diplomatica di faccia all'estero, e quindi di dover essere ancora più riservato dei più riservati uomini di Stato. Non volli trascurare di indirizzarmi anche ai campioni della Destra per averne, almeno in ombra e per mezzo dei loro confidenti più sicuri, una qualche parola, che ci permettesse di camminare per la giusta via, di trattare la nostra causa senza venir meno al programma del nostro partito. Ma anche quest'altro tentativo falli intieramente. Il solo C..., pur distinguendo l'azione pubblica dalla privata, si mostrò uguale a sé stesso. Intanto si rinnovavano da Roma, da Napoli, da Trieste, dall'Istria, dove si moltiplicarono i Comitati di colore diverso, le più pressanti istanze per programmi di ogni genere, già avanzate fin dai primi moti delle crisi d'oriente, e alle quali s'era potuto corrispondere con atti presso il Governo e presso i capi-partito da acquietare i discordi progettisti. Le rinnovate insistenze mostravano poi questa volta indubbie velleità di parecchi a mettersi sulla scena. Grande era il pericolo che ne uscisse una babilonia da disonorarci. D'altra parte a richiamare energicamente, come si sarebbe dovuto, tutte queste schiere variopinte all'ordine dei vecchi Comitati, che funzionarono fino dal 1858, si sarebbe potuto prendere apparenza di volgari ambiziosi di faccia al mondo volgare. Infine, era pur d'uopo riconoscere che gli uomini di Destra già a capo del nostro movimento, e che non fecero mai questione di partito, erano lasciati a sé, qui nel Regno dai loro compagni di fede politica, mentre invece i nuovi capitani dei nuovi gruppi vantavano con verità di avere dietro di sé partiti nazionali in loro appoggio. L... ed io abbiamo quindi stimato necessario di propugnare una fusione di tutti questi clementi con rinuncia reciproca ad ogni idea partigiana e con solo scopo di giovare alla nostra causa al di sopra dei nostri partiti. Furono quindi costituiti due Comitati centrali, l'uno a Roma e l'altro a Trieste secondo questi principii, e i sub-comitati vengono ora composti colla stessa norma, avendo noi testé eccitato gli amici, dopo averne chiamato qui alcuno a favorire siffatta opera. Tutto ciò si succedette con tale furia c con tale varietà di casi di per di, che non ci fu possibile scrivere a te e a C... prima d'ora. Il più delle volte ci vedemmo costretti a deliberare da un'ora all'altra. Senza dubbio, non è più possibile a noi di rispondere di ogni atto del nuovo ordinamento, e quindi, pur avendolo suggerito, ed essendoci pur prestati a regolarlo nel miglior modo mediante l'avv. I7..., che mandammo a Roma, a Napoli c a Udine, abbiamo dichiarato di voler essere considerati d'ora innanzi come semplici gregarii e di riservarci soltanto quella qualunque nostra opera individuale, la quale senza fare opposizione all'opera altrui, ci fosse suggerita dalla nostra coscienza o da commilitoni di una volta. Eccoti sommariamente la storia dei nostri imbrogli e del modo usato a porvi riparo, per quanto si poteva. Sarebbe ora nostro voto che tu pure e C... lasciaste ciò fare, tenendoci però uniti noi quattro a vigilare l'andamento del nuovo ordine per adottare opportune misure, quando l'ordine degenerasse in disordine. E noto ancora che i Comitati, di cui ti parlai, sono affatto indipendenti dall'Associazjone per l'Italia irredenta del-l'Avezzana e delPImbriani. Tutti accettarono di buon animo, da una parte e dall'altra, la netta distinzione dei due so-dalizii. Se tratteranno fra loro, lo faranno sempre come da corpo a corpo, e la nostra società promise formalmente di guardarsi da ogni atto, che potesse anche solo parere ostile alla nostra forma di Governo. Ci farai sommo favore a dirci l'animo tuo su tutto questo, consultando previamente anche il carissimo nostro C..., a cui scrivo soltanto due righe, annunziandogli di aver e-sposto più estesamente a te lo stato delle cose. E se vi sembrasse necessario che ci vedessimo, ditelo francamente. Forse, per distribuire equamente il disturbo del viaggio, potremmo stabilire di trovarci a Verona o in altra città intermedia. Oggi mi risponde C. , che, sebbene la interpellanza Ru-dini sia stata una favola, egli si tiene pronto a parlare per noi, ove di noi cadesse discorso al Parlamento. 11 suo patriottismo è sempre giovanile e generoso. Tuo Carlo. Venezia, 6 marzo 1878. Caro... Sono pienamente d'accordo colle tue opinioni, per quanto esse siano penose per noi tutti. Ma io confido ancora, essendo il tempo assai bujo. Cogli avvenimenti, per amore 0 per forza, spero che si farà luce anche pei ciechi. Tu hai risposto egregiamente al........, e credi pure che gli egoisti non arrivano a confutar tutto, per quanto fingano di crederlo, nemmeno ai propri occhi: battono, ma ascoltano, e talora si sentono anche battuti. Io pure ho risposto qualche cosa al detto .... in forma di corrispondenza da Trieste nell'Adriatico, e sebbene qui pure gli animi siano male disposti a ricevere le nostre parole, mi propongo di ripeterle, s'intende nei debiti modi, ad ogni occasione. Quanto al tuo consiglio, lo abbiamo già in buona parte prevenuto con indirizzi e deputazioni parecchie. Dal D. . . . non ci vennero che fredde proteste di speranze future. Il C... invece ci manifestò tanto interessamento, che più non si potrebbe desiderare. Egli arrivò a dirci che si considera istriano, e che, conoscendo tutta l'importanza della nostra questione, ei vi metterà tutto il suo impegno. Saranno anche queste nient'altro che parole ? È possibilissimo, ma a noi è tolto il rimorso di non aver fatto quanto si doveva. Sarebbe si assai bene che, dopo un ragionevole intervallo di tempo, altra deputazione si recasse a Roma. E magari che tu volessi assumere questo ufficio ! Abbiamo sì a Roma nostri rappresentanti, che stanno ai fianchi del Governo ; ma sono tutti del suo colore, e vorrei quindi che anche un uomo intieramente nostro andasse a scrutare bene i suoi intendimenti. Egli completerebbe senza dubbio le relazioni avute particolarmente per mezzo del E... e del V..., che mandammo da qui e da Trieste. Relativamente allo spoglio della Perseveranza dal dicembre 1859 all'agosto 1860, il meglio sarebbe ch'io stesso potessi farlo sopra un esemplare di quei mesi, che mi venisse affidato. Qualora ciò non si potesse ottenere, bisognerebbe in compendio dire l'argomento, di cui vi sia relazione, e copiare soltanto qualche indirizzo, che vi fosse riprodotto. Naturalmente, le date non dovrebbero mai mancare. Il nostro R... non potrebbe dedicare un'oretta al giorno a questa briga patriottica? Il tuo afT."10 Carlo. Hai avuto mano nell'opuscolo L'Italia ai confini slavi? Venezia, 9 maggio 1878. Caro... Ecco (poiché lo desideri, e ci ò grato trattenerci teco comunque) quello, che ci parebbe buono tu facessi e dicessi a Roma. 1. Visitare il C.., il C..., il Z .. c possibilmente qualche altro..... 2. Presentare al primo, se credi, l'unito indirizzo, aggiungendovi la tua firma, e copia di esso al secondo cogli opuscoli, di cui vi si fa menzione. 3. Dichiararti mandatario del partito moderato della nostra provincia. E qui, se stimi opportuno, o di togliere gli equivoci, che potrebbero nascere dal confronto della tua deputazione con quelle precedenti del V... e del 1'.., 0 d'impedire che ci si creda scissi e gareggianti, od anche di rispondere a domande più o meno esplicite, che ti venissero fatte riguardo ai rapporti tuoi e de' tuoi mandanti coi nostri Comitati, fa comprendere, come meglio te se ne offrirà il destro, che il partito moderato delle provincie dell'Alpe Giulia ne diresse il movimento patriottico dal 1858 sino a pochi mesi or sono, senza far mai questioni di parti politiche, ma giovandosi della coopcrazione di tutti gli o-ncsti, e che ha promosso anzi esso medesimo la recente ricomposizione, con elementi d'ogni colore politico, dei Comitati di rappresentanza e di azione per la nostra causa, formandone anche in oggi il nerbo al di là dell'Isonzo; si che le precedenti deputazioni, lungi dall'essergli estranee, furono principalmente opera sua. E se ti cade di farlo acconciamente, aggiungi che gli uomini più influenti dello stesso nostro partito e del paese si tengono uniti a) per coordinare l'opera loro collettiva all'azione dei Comitati, /inehe essi agiscono in modo, da onorare la causa, che trattano, da mostrare piena devozione agli ordini costituzionali del nostro Regno e da rimanere fedeli alla norma fondamentale di non recare mai imbarazzo alcuno al Governo nazionale, e b) per fare anche le proprie particolari rappresentanze ogniqualvolta lo stimino opportuno, com'è il caso presente, desiderando cosi di esprimere agli attuali consi- glicri........quanto confidino pel proprio paese nella loro rettitudine e sagacia. Nò dire più di cosi nell'argomento dei motivi di lagno, che abbiamo riguardo alla condotta dei Comitati, e ciò per non iscoprire discordie, tanto più che. speriamo nel nostro C..., il quale metterà certo tutto il suo impegno a ricondurre al loro posto i fuorviati. Già, del resto, l'atto nostro speciale, che facciamo col tuo mezzo basta per sò medesimo a dar a capire che, mentre siamo tutti uniti allo stesso fine, possiamo non essere contenti di tutto ciò, che si opera per conseguirlo. 4. Svolgere quanto al merito della questione, le idee appena abbozzate nell'indirizzo, che ti mandiamo, e insistere particolarmente sul grande pericolo di perdere forse per sempre l'occasione di provvedere alla sicurezza del Regno al suo lato d'oriente, quando non si sapesse cogliere quella, che l'odierno sviluppo degli avvenimenti può offrire. E correggi due gravi errori assai comuni, cioè a) che l'Austria senza l'Istria sarebbe rimossa dall'Adriatico, mentre invece le rimarrebbe sempre un litorale sei volte più esteso e portuoso del pari, e /;) che Trieste, per essere un porto, come Venezia e Genova, che serve alla Germania, abbia ad appartenere di necessità all'Austria o alla Germania. Non é Trieste fuori della linea doganale austriaca, si che oggi stesso ò come una città estera appunto nei riguardi commerciali di confronto alle ragioni transalpine? Quelli, che con tanta pace fanno c risolvono contro di noi la ipotesi della Germania a Trieste, non pensati che ciò sarebbe per l'Italia e per Venezia una suprema sventura? Che diverrebbe il nostro Regno con quell'immane corpo a ridosso, sulle nostre Alpi, sul già sempre nostro Adriatico ? Non vorrebbe e potrebbe esso fare di Trieste il principale porto e di Pola la principale fortezza del Mediterraneo? Allora si che Venezia potrebbe dirsi condannata al destino di 'Porcello. E siamo noi soli, clic abbiamo interessi contrarli a queste cupidigie germaniche, o non sarebbe per l'Europa la questione della Germania in Istria come quella della Russia sul Bosforo? Sono veramente curiosi questi grandi politici alla B... ! Ove si tratti degl'interessi nostri, s'é poeti, s'è gente meschina e fatua a formare la più piccola congettura, la quale apparisca loro avventurarsi al di là di ciò, ch'essi dicono il campo della politica; ma appena guardano agl'interessi delle altre nazioni, come vi guardiamo noi, scorgendo pur troppo tutti i malanni, che ne minacciano, oh! allora si permettono d'immaginare ogni più remoto caso disgraziato come già presente e irreparabilmente certo. Lascio andare la penna, fuori d'ogni bisogno per te, su tale argomento, perdio la rassegnazione alla volontà d'oggi, di domani e di sempre della nazione germanica ò diventata legge del pensare e del sentire quasi per tutti in Italia. Perciò non si vuole nemmeno conoscere la nostra questione. E qui sta il pericolo massimo, perché chi non sa non vigila, e chi non vigila perde anche le occasioni migliori. Possibile che da noi tutti, tutti debbano fare i diplomatici, e che il nostro talento diplomatico pel gravissimo argomento delle frontiere orientali d'Italia e dell'Adriatico abbia a consistere, non solo nel fingere d'ignorarlo, il che pure sarebbe enorme, ma perfino nell'ignorarlo e volerlo ignorare davvero? Del resto, per dirne ancora una delle molte, che ricorrono alla mente riguardo alla Germania, pesta nel capo a taluno de' tuoi interlocutori romani la nozione elementare che la Germania avrebbe da passare sul corpo a vasta regione slava prima di arrivare al nostro golfo, e non ha ancora messo innanzi il proposito arditissimo, che si ama di attribuirle, e di cui le si consente de plano come immancabile la piena attuazione. Urge che si veda, che il senno e la fortuna possono maturare accordi coll'Austria, prima che il più formidabile nemico avanzi a toglierci ogni avvenire nell'Adriatico. 5. Per iscandagliare gli animi, offri l'opera nostra ad ogni richiesta del Governo, e chiedi, come meglio potrai, consiglio sull'atteggiamento, che dobbiamo prendere. 6. Importa ■sopra tutto trattare col massimo impegno l'affare del trasloco di C Il mezzo a ciò ci sembra quello del G..-C... non crediamo adattato all'uopo. Egli potrebbe dissentirne, ed ha poi certe idee sul preteso obbligo del nostro C... di attendere soltanto al suo officio didattico, che potrebbero renderlo piuttosto avversario che amico del nostro divisamente Ad ogni modo cerca di capirlo anche su di questo, e s'egli entra nel nostro concetto, niente di meglio. 7. Grandissimo vantaggio per noi sarebbe che lo stesso G .. assumesse le parti, che vogliamo assegnare a C..., finché questi non possa portarsi a Roma. Ala dubitiamo forte ch'egli voglia prendersi officio maggiore di quello, già promessoci, di amico della nostra causa nelle personali sue relazioni. Ad ogni modo, speriamo ch'egli possa lasciarsi persuadere a quanto più desideriamo da lui, e siamo certi che tu farai del tuo meglio a ottenere un si utile effetto. 8. Rinfresca a C... la memoria di quanto si è proposto di fare per noi, dietro la nostra conferenza di Padova, rispetto al gruppo di uomini autorevoli da raccogliere intorno a sé, perché anche il partito moderato del Regno ci continui il suo patrocinio, e non abbiano a dire gli avversari ch'esso ci abbandonò intieramente. 9. Intenditi più che puoi coi migliori giornalisti di costà, perchè smettano finalmente le indegne ostilità, che ci oppongono e ci lascino dire nei loro periodici almeno qualche parola riservata. io. Col Sella erompi in tutti i nostri lamenti e sforzalo a dire che debbasi fare da noi, che siamo cacciati da lui, né possiamo snaturarci tra i radicali. M'era proposto di scriverti poche linee, e ne uscirono troppe. Comunque, innliUa non vìlianl. In questo momento ricevo la tua del 9 e ne sono lieto, perchè giudico che il tuo Cesarino stia bene, se hai fermato di partire sahbato. — Quanto all'opuscolo da affidare al S... bisognerà che ne parli prima agli amici di là pel cumquìbus-, essendo in corso altri lavori. Addio, e a rivederci a Padova. C AULO Co.Mni. P.S. Ti aggiungo alcune copie degli opuscoli accennati nell'indirizzo, perché, occorrendo, tu le dia a chi ti pare. — Fa aggradire un esemplare del mio discorso al G..... Venezia, 30 maggio 1878. Amico citrissimo, Abbiamo lungamente considerato le gravi ragioni, che ci avete posto innanzi riguardo alla vostra aspettativa, e ne siamo scossi cosi, che crediamo opportuno di soprassedere alcun po' di tempo, tanto da vedere se le previsioni del futuro reclamino il grave sacrifizio, che voi siete pronto di fare col solito vostro patriottismo. Del trasloco, pur troppo, non è a parlare. Gli amici o i benevoli, a cui mi era rivolto tosto dopo i nostri colloquii a Pavia, mi fecero vedere pressoché impossibile un tale partito nel corso dell'anno scolastico. Di questo ebbi a tacere a B..., quando gli scrissi a Roma, pregandolo di adoperarsi col G.. allo stesso fine. Stimai ciò conveniente per non iscoraggiarli e avere da essi come un controllo libero da prevenzioni di ciò, ch'era stato fatto credere a me. E disgraziatamente anch'essi giudicarono allo stesso modo. Intanto facciamo altro memoriale al Corti, che sarà il nostro plenipotenziario al Congresso. Maledetti i memoriali ! Conviene sempre rifarsi da capo, ed ora forse più che mai. Chi avrebbe mai pensato che un ministero Cairoli sarebbe stato per noi come quello del Lamarmora, e forse peggio? Scriverò anche al G.., che conosco bene fino dagli anni, in cui eravamo compagni di congiura. Ma in verità che il consiglio in bocca sua di unirci tutti anche coi più esaltati non me lo so spiegare. Promotori dell'unione siamo stati noi; ma è pur necessario che almeno un drappello degli antichi commilitoni stia raccolto per una duplice azione allo stesso intento, cioò l'azione da gregarii nell'ordinamento generale dei nostri comitati (ora ridotti ad una vera babilonia a fronte di ogni nostro impegno a scongiurarla) e l'altra tutta sua particolare e personale, come sarebbe quella d'ogni singolo patriotta, che s'interessasse nella sua specialità, senza ombra di gretto separatismo, di comuni interessi della nostra causa. Non si tratta di divisione di forze, ma, nell'unione, di una coopcrazione e vigilanza distinta. Sta lavorando il Pambri, che scriverà un articolo coi fiocchi nella Nuova Antologia a vantaggio della nostra questione.... Il vostro Carlo. Venezia, io marzo 1880. Caro.... Il comune amico L ... desidera ch'io pure ti raccomandi vivamente l'affare di P .., di cui egli ti scrisse orda ultimo. Io lo faccio ben volontieri. Non è già ch'io mi dissimuli le difficoltà dell'assunto; ma penso ad un tempo alla necessità estrema di mettere assieme qualche soccorso anche noi, di fronte a quanto fanno e ostentano di fare, con gravissimo danno della nostra causa fra le ignoranti popolazioni dell'Istria, gli Slavi di Lubiana e di Zagabria. E se v'è la possibilità di riuscire qui nei Regno a combatterli anche su questo campo, l'unico centro a ciò è senza dubbio Milano, e tu la sola persona veramente adatta all'uopo sot-t'ogni riguardo. Non dico altro, conoscendo il tuo cuore e la tua sagacia. L'opera tua sarebbe di un altissimo valore politico. Una stretta di mano cordialissima dal tuo Carlo. Venezia, 2 imiggio 1880. Alio carissimo.... Le mando sotto fascia una copia della Venezia Giulia di Fambri e Bonghi e bisogna assolutamente ch'Ella scriva sul-P importante volume un articolo da inserire in uno dei giornali di costà. II volume merita di essere letto e studiato. Dunque i buoni e gl'intelligenti richiamino su di esso l'attenzione del pubblico. Badi, mio carissimo Carlo, che su questo favore conto sicuramente, e tanto più che si tratta di un atto patriottico c insieme sagacissimo, essendo il libro decisamente contrario a tutte le intemperanze, a tutto ciò, che può recare imbarazzo al nostro Governo nazionale. % al Governo soltanto che bisogna lasciare la direzione completa dell'azione politica dello Stato. Grazie in anticipazione e un affettuoso abbraccio del Suo Combi. Venezia, 29 settembre 1880. Caro.. .. Ti mando sotto fascia un mio libercolo sul seniore Vergerlo, e Dio voglia che presto mi liberi dal lavoro, di cui esso ò come il programma. Pur troppo, io non posso studiare queste cose che nei ritagli di tempo, tante sono le altre mie occupazioni, parte doverose e parte venutemi addosso cosi, da non potermene sciogliere. Colgo poi l'occasione per pregarti di volermi dire, se codesto Comitato per l'Esposizione Industriale del 1881 ò in animo di correggere l'enorme suo sproposito. Se lo corregge, niente di meglio. Se no, bisogna che anche noi moderati gli facciamo vivissima guerra. Ci vorrebbe altro che fossimo esclusi dalla vita nazionale anche nei campi estranei alla politica! Confido che tuo padre continui a star bene. La lietissima notizia della sua guarigione l'ebbi da lui medesimo fino da principio, e me ne congratulai con lui e con te di grandissimo cuore. Io pure fui afflitto da una disgrazia, che poteva essere per me la più tremenda. Ai primi del passato agosto mia madre fece una sciaguratissima caduta e si fratturò il braccio sinistro Ora, grazie al cielo, la ricongiunzione può dirsi perfetta, ma non ancora, come vorrei, ricomposto l'animo della povera vecchia. Dimmi di te e della tua famiglia, cui desidero ogni bene, e credimi II tuo afi".""0 Carlo. Venezia, 21 settembre 1882. Carissimo... Non occorre che ci parliamo per essere d'accordo a riprovare altamente la selvaggia follia della bomba scagliata contro la bordaglia dei cosi detti veterani triestini. Ma è impossibile non riconoscere che il reato fu politico. Il movente, che trasse qualche giovine fanatico a commetterlo, fu certo il proposito di protestare contro una dimostrazione ostile alla italianità di Trieste e di salvare a suo modo l'onore politico di essa. Tanto ò ciò vero che l'autorità giudiziaria austriaca, nel richiedere l'arresto di alcuni nostri comprovinciali qui domiciliati e creduti complici di quel delitto, parlò di allo tradimento, e non di omicidio soltanto. Ora il trattato fra l'Italia e l'Austria per l'estradizione dei delinquenti non va applicato in alcun modo, per esplicita disposizione, ai reati politici. Ed é poi canone di giurisprudenza, che, quando non può aver luogo l'estradizione dell'imputato, non possa aver luogo nemmeno il suo arresto. Fu dunque illegale l'arresto ordinato qui del Parcnzan e del Levi, e parecchi giornali di Venezia e di Roma hanno protestato giustamente contro l'arbitrio. Anzi i migliori nostri magistrati se ne lagnano anch'essi e accusano questo procuratore generale di leggerezza e vigliaccheria. So da sicura fonte ch'essi desiderano che la stampa più seria faccia sentire la sua voce a condanna di questa enormità. Io ti prego dunque, a nome anche di L...., di muovere contro di essa anche i migliori giornali di costà. Un tuo articolo vigoroso potrebbe giovare un poco ad impedire che si trascorra (e il pericolo non é fantastico a questi lumi di luna) perfino alla turpitudine della consegna degli arrestati alle autorità austriache. Conosco l'animo tuo, e quindi altro non soggiungo. Siamo pel disastro delle innondazioni costernati. Voleva mettermi in viaggio e forse visitarti ; ma non so più che fare. Il tuo Carlo. Venezia, 1 febbraio 188}. Carissimo.... Gravissime sono le domande, ch'F.Ha mi fa, e per rispondere ad esse bisognerebbe ragionare assai lungo e sopra tutto a voce. Creda che non le dico questo per pagare il mio debito nel modo più spiccio, ma si invece per intimo convincimento. Quello, che si stia preparando nel segreto dei gabinetti, e un mistero per tutti. Ogni ipotesi è possibile in tanto intreccio di mosse e di contromosse. La causa nostra, ritenga pure, ò bene compresa anche da chi sembra tra noi volerla avversare. Ma in politica tutto deve obbedire alla ragione dell'opportunità. Principalmente poi non deve arrogarsi alcuno di sostituirsi al Governo nazionale nell'arduo assunto di condurre la politica e interna, e esterna. Censurarlo, se stimisi faccia male, é diritto, é dovere di ogni cittadino; ma influire su di esso altrimenti che nelle vie legali é delitto di offeso patriottismo. Più non posso dirle, e mi auguro che ci rivediamo presto, perche mi sia dato di effonderle tutto l'animo mio. Mi ricordi con rispetto alla sua signora, ed Ella, carissimo...., aggradisca la più cordiale stretta di mano dal suo aff.1"0 Combi. INDICE Al lettore................Pag. v Carlo Comdi...............» xxi Prodromo della Storia dell'Istria........» i Dell'unità naturale della Provincia........» 59 Notizie storiche intorno alle Saline dell' Istria .... » 94 Delle Scuole serali in Istria..........» 113 Stud j storiografici intorno all'Istria........» 121 Dei Proverbj Istriani.............» 143 Etnografia dell'Istria.............» 150 La Frontiera Orientale d'Italia e la sua importanza . . » 179 Importanza dell'Alpe Giulia e dell'Istria per la difesa dell' Italia Orientale.............» 200 Appello degli Istriani all'Italia.........» 219 Della Rivendicazione dell'Istria agli stud j Italiani ...» 250 La soluzione................» 273 Lettere..................» 287 uu*