Izvirni znanstveni članek (1.01) UDK 341.512:161.225.12 BV 66 (2006) 2, 223-237 Branko Klun L'approccio esistenziale e il contributo teologico al fenomeno di speranza Povzetek: Eksistencialni pristop in teološki prispevek k fenomenu upanja Vprašanje upanja je neločljivo povezano z razumevanjem časovnosti in mesta prihodnosti v njej. Grška antična misel gradi na prvenstvu sedanjosti in razume upanje kot pričakovanje bodočih (zlasti dobrih) možnosti, za kar je potrebna racionalna utemeljitev. Nasprotno pa biblični pristop prinaša drugačno razumevanje človekove eksistence in ča-sovnosti. Ker je človek že vedno v relaciji z Bogom, časovni modus sedanjosti v primerjavi z absolutno preteklostjo Božjega nagovora in z absolutno prihodnostjo Božje obljube izgubi svojo primarno vlogo. Verni človek v vsakem trenutku živi to obljubo prihodnosti, ki postane pomembnejša od vsega sedanjega. Tako upanje ni zgolj ena izmed kreposti, temveč temeljni modus krščanske eksistence. Specifična časovnost krščanskega življenja pa odpira pomembna vprašanja glede razumevanja človeške eksistence nasploh in vloge, ki jo ima pri tem fenomen upanja. Ključne besede: upanje, krščanska eksistenca, časovnost, prihodnost, eksistencialna analiza. Summary : Existential Approach and Theological Contribution to the Phenomenon of Hope The issue of hope is inextricably linked with the understanding of temporality and the position of future within it. Ancient Greek thought builds on the primacy of the present and understands hope as an expectation of future (especially good) possibilities, which needs a rational explanation. On the other hand, the biblical approach brings a different understanding of human existence and temporality. Since man has always been in relation with God, the temporal mode of the present in comparison with the absolute past of God's address and with the absolute future of God's promise loses its primary role. A religious person lives this promise at every moment and it becomes more important than any present. Thus, hope is not just one of virtues but a fundamental mode of Christian existence. The specific temporality of Christian life raises important issues concerning the understanding of human existence in general and of the role of the phenomenon of hope within it. Key words: hope, Christian existence, temporality, future, existential analysis. 1. La concezione greca della speranza Il concetto di elpis nel mondo greco antico denota l'attesa umana di qualcosa che sta per accadere, dove ciò che è atteso non significa necessariamente qualcosa di buono, infatti ci si può attendere anche qualche male. A causa di questa neutralità il concetto di elpis, che conviene quindi tradurre neutralmente come »attesa«, viene di solito usato insieme ad aggettivi come buona o cattiva attesa. Appena presso Sofocle diventa possibile rintracciare una comprensione di elpis nel senso di una speranza che connette l'attesa buona con la fiducia soggettiva nelle possibilità future. Qui incomincia già a farsi manifesta la dimensione esistenziale della speranza, che è capace di consolare l'uomo nella gravità del presente inspirandogli fiducia riguardo al futuro. Ma i greci hanno ben chiaro di fronte a sé il pericolo dell'abbandono alle »buone attese«, alle illusioni prive di fondamento. Perciò il concetto di speranza diviene oggetto di riflessione razionale. Soprattutto nell'era classica della tragedia greca (Erodoto, Tucidide) viene esposta la necessità di una fondazione razionale della buona attesa. In questo modo il verbo sperare (elptzein) è legato alla previsione della probabilità, al ritenere probabile un qualcosa e quindi all'intendere e al valutare.1 Anche Aristotele, il quale distingue la speranza, nel senso della buona attesa, dalla paura, nel senso dell'attesa di un male, e le classifica entrambe come passioni (pàthe), sottolinea che la speranza deve essere fondata su una buona intuizione, che rende possibile una giusta previsione. Le virtù di ragione e di memoria presentano la base di una buona attesa (speranza).2 Platone nel dialogo Filebo definisce il concetto di elpis come una delle possibili attitudini dell'anima riguardo al futuro e distingue le attese buone da quelle cattive, come anche quelle vere da quelle false.3 Però Platone nel Simposio intende la speranza, o meglio, »la più grande speranza per il futuro«,4 ossia quella speranza che proviene dall'eros in relazione con il sommo bene, anche in un senso più profondo. Questa speranza va oltre la morte e tende a compiersi nella trascendenza del mondo ideale. In ogni caso questo concetto non è centrale per Platone ed è molto diverso dalla comprensione cristiana della speranza. Per Platone l'immortalità dell'anima si offre all'intuizione razionale ed è per questo che il futuro atteso nella speranza viene conferito come possibilità al presente ed al passato. Riassumendo la concezione greca del termine, possiamo dire che la speranza nel senso dell'attesa di un buon futuro è fondata sulla capacità dell'uomo, di prevedere, di anticipare il futuro grazie alla sua conoscenza del presente e del passato. Questo va inteso non soltanto nel senso di una relazione conoscitiva, bensì anche nel senso di uno stato d'animo ovvero della passione, come pure Aristotele definisce la speranza. Tuttavia, poiché la speranza dipende dalle possibilità passate e presenti, non si puč) riferire a qualcosa di completamente diverso e di nuovo, a pena di cade- 1 Di più sulla storia del concetto cfr. H. G. Link, Hoffnung, in: J. Ritter (Hrsg.), Historisches Wörterbuch der Philosophie, Bd. 3, Schwabe & Co., Basel / Stuttgart 1974, 1157f. 2 Cfr. De mem. 1, 449b; Rhet. II, 5, 1382a. 3 Cfr. Phileb. 32a-34c, 39a-41b. 4 Symp. 193d. re nell'illusione. Il concetto greco di speranza apre un orizzonte di comprensione del futuro, che è radicato nel presente, il quale è a sua volta l'attualizzazione del passato. 2. Il concetto cristiano di speranza La tradizione giudaica con la sua fede nel Dio trascendente e creatore, che si manifesta come persona nella storia d'Israele, offre una comprensione del mondo e dell'uomo molto diversa. Proprio il rapporto con Dio è l'elemento che fonda un nuovo concetto di speranza.5 Nell'Antico Testamento la speranza si identifica soprattutto con l'attesa della redenzione, che non è raggiungibile dall'uomo con la propria forza, bensì solamente con l'aiuto di Dio (Jahve si è rivelato agli Israeliti nella loro liberazione dalla schiavitù in Egitto). Come fondamento di questa speranza non troviamo la propria capacità intuitiva, come neppure quelle possibilità che si manifestano come potenzialità del presente, bensì la fiducia in Dio, nella sua potenza e bontà, che trascendono ogni scienza e che possono chiamare nell'esistenza una realtà (redenzionale) del tutto nuova, che non è riducibile alle nascoste possibilità del presente. Una speranza di questo tipo è possibile soltanto grazie all'effettiva rivelazione di Dio, soltanto grazie al fatto che Dio per primo parlò all'uomo, essendo questa parola già promessa di futuro. Sperare in Dio significa sempre anche sperare nelle sue promesse. Jahve stesso si rivela come colui che incessantemente viene all'uomo, la cui presenza (o il cui presente) si trova in questo avvento redentore.6 Il Cristianesimo condivide arrichendo questi spunti veterotestamentari fondamentali. La pienezza della rivelazione divina in Gesù Cristo trasfigura tutte le esistenti esperienze di dialogo fra Dio e l'uomo, posando così il fondamento di una speranza nuova. I testi di Paolo sono quelli che, tra i testi neotestamentari, esprimono la dimensione di speranza nel modo più forte.7 Per comprendere meglio il significato di speranza nella religiosità vissuta dei primi cristiani conviene dare un'occhiata più da vicino alle lettere paoline, soprattutto alla prima Lettera ai Tessalonicesi, che cronologicamente rappresenta il più antico testo neotestamentario. Paolo scrisse questa lettera molto probabilmente nell'inverno del 50/51 per la comunità dei primi cristiani di Tessalonica. In essa vi ritroviamo 5 Per una presentazione sistematica del concetto della speranza (sopratutto) nel contesto biblico cfr. K. M. Woschitz, Elpis - Hoffnung, Herder, Wien / Freiburg / Basel 1979. 6 Cfr. Ex 3, 14 (»Io sono colui che sono!«). Nel verbo hajah (essere) troviamo anche la modalità del futuro, per questo le interpretazioni recenti traducono questa frase nel senso redenzionale: »Io sono colui, che sono e che sarò qui per voi«. 7 Di tutte gli usi delle parole elpis, elpize nel Nuovo Testamento ne troviamo circa la metà nelle lettere paoline. tutte le piu importanti caratteristiche dell'esistenza cristiana. Come i Tes-salonicesi divennero cristiani? Accogliendo la parola annunciata da Paolo »non quale parola di uomini, ma, come è veramente, quale parola di Dio« (1 Ts 2,13). L'accettazione della parola è un atto di fiducia, di fede in questa parola. La conversione al cristianesimo comporta una trasformazione radicale nell'autocomprensione e nella comprensione del mondo come anche uno stile di vita del tutto nuovo. La conoscenza non è dissociabile dalla vita, e va capita come una delle sue modalità fondamentali. Paolo all'inizio della Lettera ai Tessalonicesi ripete la parola »sapete« (oidate) - si tratta infatti di quel sapere che riguarda ciò che i cristiani sono diventati, ossia si tratta della comprensione della loro trasfigurazione cristiana. La risurrezione di Cristo è il centro del annuncio cristiano. Dio non abbandonò il Cristo crocifisso alla morte, bensì lo risvegliò da essa. »Noi crediamo infatti che Gesù è morto e risuscitato; così anche quelli che sono morti, Dio li radunerà per mezzo di Gesù insieme con lui.« (1 Ts 4,14) In questo si manifesta il fine della speranza cristiana: nella risurrezione alla vita nuova, che è allo stesso tempo redenzione (elpis soterias). Le Lettere ai Tessalonicesi8 si focalizzano soprattutto sulla risurrezione di Cristo e sulla sua seconda venuta nella gloria (parousta), che comporta la redenzione di tutti coloro che credono in lui. I primi cristiani assieme a Paolo sono convinti che questa venuta sia imminente e che ne saranno testiomoni, il che genera in loro delle nuove preoccupazioni, soprattutto riguardo a quei cristiani che sono già morti e ai quali evidentemente non sarà dato di vivere la venuta di Cristo nella gloria. Per questo motivo Paolo in questa lettera si prefigge soprattutto di consolare e di incoraggiare la comunità cristiana ad essere paziente e vigile. La viva relazione con la parusia rivela la natura della speranza cristiana e la struttura specifica dell'esistenza cristiana. La speranza nel Dio che salva non è riconducibile ad una attesa presente di un avvenimento futuro. Neppure è possibile dire che la speranza sia una proprietà o un aspetto dell'esistenza cristiana. La speranza cristiana come attualizzazio-ne del rapporto con la trascendenza è in primo luogo un modo di vivere, è una modalità fondamentale dell'esistenza. Non esiste quindi dapprima il cristiano, che poi assume un atteggiamento di speranza, ma piuttosto è la speranza che rende possibile, fondandola e strutturandola, l'esistenza cristiana. L'»essere« del cristiano è un essere-nella-speranza. E questa speranza come vissuta esperienza della vita porta con sé un nuovo concetto di tempo o di »temporalizzazione« dell'esistenza, che non si puo 8 La seconda Lettera ai Tessalonicesi è considerata da molti esegeti un pseudoepigrafo e gli viene negata la sua origine paolina (cfr. G. Theißen, Die Religion der ersten Christen, WBG (Lizenzausgabe), Darmstadt 2003, 365). spiegare in termini di tempo oggettivo.9 I tratti specifici della temporalità della vita cristiana vengono illuminati da Paolo nella sua risposta ad una domanda, che gli venne senza dubbio posta molte volte: quando accadrà la seconda venuta di Cristo. »Riguardo poi ai tempi e ai momenti, fratelli, non avete bisogno che ve ne scriva; infatti voi ben sapete che come un ladro di notte, così verrà il giorno del Signore.« (1 Ts 5,1-2). Paolo in questo modo non evita la domanda, ma fa capire che la risposta si trova su un altro piano. »Ma voi, fratelli, non siete nelle tenebre, così che quel giorno possa sorprendervi come un ladro di notte [.... ] Non dormiamo dunque come gli altri, ma restiamo svegli e siamo sobrii.« (1 Ts 5,4-5) Alla domanda riguardo al quando della venuta Paolo risponde con il come vivere, da dove il »quando« riceve il suo pieno significato. In nessun modo è pronto a concedere una stabilizione temporale della parusia nel senso di un avvenimento sull'orizzonte del tempo »oggettivo« e non adopera neppure avverbi del tipo »presto« o »allora«. Il tempo della parusia ha per il cristiano un significato originario in quanto questo »avvenimento« vive ora ed adesso, in quanto esso viene »esercitato« nel modo della sua esistenza. Il futuro della seconda venuta di Cristo non è pura possibilità, che è inferiore rispetto alla solida attualità del presente, ma piuttosto il contrario - per il cristiano la »possibilità« della parusia e più sicura e più reale di tutte le attualità presenti e questa possibilità apre e rende possibile l'orizzonte del presente. Quei cristiani che non comprendono il significato della parusia (o della speranza cristiana) sull'orizzonte della specifica temporalità dell'esistere cristiano, che comprendono il futuro della parusia come qualcosa di assente nel presente, anche se credono che un giorno accadrà, sono, si può dire, decaduti dalla genuina vita cristiana. Certi hanno cessato di lavorare in quanto ciò non parve loro conveniente in vista dell'imminente seconda venuta, altri per lo stesso motivo caddero in uno stato di scoraggiamento. Tutte queste persone sono oggetto delle ammonizioni di Paolo (cfr. 1 Ts 5,14). Potremmo dire, che questi cristiani si sono abbandonati alla quotidiana, »secolare« concezione di tempo. L'accettazione dell'annuncio cristiano, che è il fondamento della speranza, secondo Paolo non significa una fuga dalla gravità del presente, dalla tribolazione nel mondo, verso un'illusione futura. Paolo sottolinea più volte la parola thlipsis (tribulatio) come una dimensione centrale dell'esistenza cristiana. I Tessalonicesi accettarono la parola di Dio »in mezzo a grande tribolazione« (1 Ts 1,6), e anche Paolo non annuncia loro pace 9 Per l'approccio fenomenologico di questo tipo che ricerca il significato fondamentale dei fenomeni esistenziali nell'esistenza vissuta (Existenzvollzug) e non nell'oggetivazione teoretica l'autore è in debito con il primo pensiero di M. Heidegger. Cfr. la sua interpretazione della religiosità dei primi cristiani in: Phänomenologie des religiösen Lebens, Ge-sammtausgabe Bd. 60, Klostermann, Frankfurt/Main 1995, 67-156. e serenità, bensì tribolazione (cfr. 1 Ts 3,4). Malgrado ciò la tribolazione è accompagnata dalla felicità, che Paolo collega con lo Spirito Santo (cfr. 1 Ts 1,6), e proprio in una peculiare connessione di sofferenza e felicità si rivela il sentimento di vita che è fondamentale per il cristianesimo. Il cristiano vive le tribolazioni nel mondo (aion, saeculum), dove il mondo non è identificato soprattutto col luogo dove si abita, bensì come quel modo di vita, che si richiude nella propria immanenza, che non è in rapporto con Dio, che si abbandona del tutto ai beni ed alla logica »mondana«. Poiché la speranza cristiana trascende la chiusura nel mondo, essa allo stesso tempo apre una distanza riguardo al mondo, che viene compreso in una nuova luce. Solo in questa luce del tempo di Dio, ovvero dell'eternità, il mondo diventa »temporaneo« e tutti i suoi beni ricevono un significato »temporale«. Il cristiano vive nel mondo ma non è di questo mondo - il che vuol dire che si trova imbrigliato nella logica della sofferenza e dell'ingiustizia, che il mondo lo »opprime«; però è proprio la speranza cristiana quella che gli da la forza di affrontare le difficoltà del mondo con pazienza, senza voler fuggire da esse. La pazienza si rivela come una delle caratteristiche essenziali della speranza cristiana (cfr. Rm 5,3-5). La tribolazione non caratterizza soltanto l'esistenza nel mondo, ma anche il rapporto con il fine della speranza cristiana, con la parusia di Cristo. Paolo ammonisce i Tessalonicesi, che la loro speranza comporta vigilanza e sobrietà. Il giorno del Signore verrà come un ladro di notte. Nella distinzione fra i figli del giorno (ovvero della speranza cristiana) e i figli della notte (ovvero del mondo) Paolo ai primi attribuisce la vigilanza, ai secondi invece il sonno. Questi ultimi si fidano del mondo e della propria conoscenza diventando portavoce della pace e della sicurezza, ma proprio loro andranno in rovina (cfr. 1 Ts 5,3). I cristiani invece sono segnati dall'inquietudine a causa della certa, ma allo stesso tempo indefinibile venuta del Signore. La speranza e la felicità cristiane quindi non sono portatrici di pacificazione, di sicurezza e di comoda serenità, bensì di vigile attenzione e di sobrietà. L'accettazione della vita cristiana comporta un ingresso nell'inquietudine e nella non-compiutezza, comporta un rifiuto di qualsiasi falsa pacificazione che proviene dal mondo. Allo stesso tempo è di gran significato il fatto che non soltanto le lettere paoline, ma anche gli altri scritti neotestamentarii scrivono molto sul tema della speranza come caratteristica fondamentale dell'esistenza cristiana, ma d'altro canto scrivono molto poco riguardo al contenuto ovvero all' »oggetto« della speranza. Per questo motivo si rimprovera a volte alla speranza cristiana una certa astrattezza.10 Ma in verità non si tratta qui di un difetto, bensì di una specificità o addirittura di una neces- 10 Cfr. H. Weder, Hoffnung. Neues Testament, in: Theologische Realenzyklopädie, Bd. 15, De Gruyter, Berlin / New York 1986, 490. sità che deriva dalla comprensione biblica dell'uomo e del mondo. L'attitudine greca verso il mondo si situa nel segno della teoria, dove la conoscenza è compresa primariamente come contemplazione (theöria) o intuizione di un certo contenuto, che esercita il ruolo di »oggetto« del nostro sapere. La conoscenza esige la disvelatezza del fenomeno (dell'oggetto) e si dirige verso essa. Per questo la verità è intesa come non-nascondimento (aletheia). La conoscenza biblica invece non comporta primariamente l'oggettivazione, non si riferisce alla verità come non-nascondimento, bensì si colloca sull'orizzonte della vita vissuta e presuppone il rapporto (con l'altro ossia con Dio) e la dimensione etica. Con Lévinas potremmo definire l'essenza della verità biblica come testimonianza (esistenziale).11 L'atto della speranza (spes qua speratur) non si fonda nella conoscenza del contenuto della speranza (spes quae speratur), bensì nella fiducia in Dio come persona. Al cristiano basta la promessa che Dio lo risveglierà dalla morte, anche se non possiede nessun tipo di conoscenza di questo genere di stato. La necessità di una maggiore esplicazione di quei contenuti, che sono l'oggetto della speranza cristiana (res bonae fu-turae), si fa innanzi con l'incrementarsi dell'influsso del pensiero greco nel cristianesimo. La tensione fra i punti di partenza del pensiero greco e quelli del pensiero biblico nello sviluppo successivo del cristianesimo segnarono in modo specifico anche la comprensione della speranza. 3. Temporalità dell'esistenza cristiana S. Agostino, la cui teologia manifesta l'influsso del pensiero greco, soprattutto quello di provenienza neoplatonica (ed anche stoica), situò la speranza, assieme alla celebre triade paolina di »fede, speranza, amore« (cfr. 1 Cor 13,13),12 fra le virtù cristiane fondamentali. Ma qui accadde uno slittamento nella comprensione riguardo a Paolo e alla comunità cristiana primitiva. Lo stesso concetto di virtù (arete, virtus) tradisce uno sfondo greco in quanto si tratta di una qualità (e potenza) del esistenza.13 Se per Paolo la speranza è la modalità fondamentale dell'esistenza cristiana in tutta la sua completezza, qui invece la speranza come virtù diviene soltanto uno degli elementi della vita cristiana, che Agostino connette con la felicità, il desiderio e la pazienza. Si tratta di un cambiamento sottile, ma importante. Non si comprende più la vita cristiana sulla base della speranza (Paolo), bensì la speranza diviene proprietà (virtù) della vita cristiana. Questo cambiamento tradisce un affievolimento dell'assoluta focalizzazione sulla venuta del Signore, caratteristica dei primi cri- 11 Cfr. E. Lévinas, Autrement qu'ètre ou au-delà de l'essence, Nijhoff, La Haye 1974, 5. capitolo. 12 Cfr. anche Col 1,4f; Ef 1,15ff, 1 Ts 1,3. 13 Cfr. l'uso della parola in ambito cristiano (»le opere meravigliose«) in 1 Pet 2, 9. stiani, il che è comprensibile in quanto il progetto di Dio riguardo alla parusia si mostrò diverso da quello previsto dalla comunità cristiana primitiva. Una simile impostazione riguardo alla speranza come virtù va trovata anche presso S. Tommaso d'Aquino, che oltre ad Agostino nella sua esposizione include anche l'impostazione etica di Aristotele con la sua comprensione della virtù. La trasformazione nell'esposizione porta con se un altra comprensione dell'esistenza cristiana e del modo di vivere il tempo che le è proprio. Si è già reso manifesto che la questione del tempo è legata in maniera specifica con la questione (comprensione) della vita e soprattutto con la comprensione della speranza. Ma questa connessione va spiegata in maniera più profonda. Come venne mostrato da Heidegger in Essere e tempo, la vita dell' uomo (dell'esser-ci) non può essere disgiunta dalla propria autocomprensione. Noi viviamo la nostra vita così come la comprendiamo. Un'altra comprensione significa un'altra vita. Non esiste nessuna comprensione di vita neutrale o »obiettiva«, così che la comprensione (e con essa la vita) assume il carattere di possibilità. Ogni comprensione comporta una corrispondente comprensione del tempo o come dice Heidegger più precisamente: il tempo è l'orizzonte di comprensione dell'essere (della vita). Questo vuol dire che si tratta di tre momenti, che sono in correlazione: vita, comprensione, temporalità. Proprio l'analisi della temporalità come tempo vissuto ci può rivelare la specificità di un certo tipo di vita. Allo stesso tempo però bisogna abbandonare l'ipotesi di un solo tempo obiettivo (o di una sola comprensione di esso), come lo postula p.e. la scienza moderna. In quanto l'analisi della speranza presso i cristiani primitivi ci rivelò l'impossibilità di chiarirla nell'ambito della comune comprensione del tempo, si rende necessaria una trattazione preliminaria della tematica temporale. La nostra comprensione quotidiana del tempo deriva dalla osservazione del mondo e dei sui cambiamenti temporali. Comprendiamo il tempo come una successione o una corrente, che comprende tre modalità: il presente, il passato ed il futuro. Il presente ha un posto privilegiato in quanto è l'unico che coincide con la vera presenza, è l'unico che è nel pieno senso della parola, invece il passato ed il futuro sono essenzialmente segnate da una certa negazione dell'essere ovvero da un certo »no« - il passato »non è più«, il futuro »non è ancora«. Questa comprensione del tempo è stata tematizzata già da Aristotele, che espose anche il momento del contare ovvero della quantificazione dei cambiamenti temporali.14 Il presente come attualità (enérgeia) significa perfezione, realizzazione, mentre le altre due modalità ricevono il loro significato dal rapporto con il presente: il passato come esser-diventato, il futuro invece come possibilità (dynamis), che può diventare attuale (presente). La svolta dal mondo esteriore al mondo »interiore« introdotta dal cristianesimo e che viene tematizzata da S. Agostino con il suo uomo interiore (homo interior), ci indirizza verso la questione della cosidetta esperienza soggettiva del tempo. In questa riflessione diviene presto evidente, che il tempo non è soltanto uno dei fenomeni dell'esperienza interna, bensì è un dato fondamentale, che rende possibile la costituzione del »soggetto« (se ci è concesso di adoperare questo termine della filosofia moderna). Per questo bisogna ridefinire le modalità temporali. Malgrado la primarietà del presente, è chiaro che il soggetto comprende anche il passato, il quale non è soltanto manchevolezza d'essere (»non più«), ma è nella modalità della memoria, come anche il futuro è nella modalità dell'anticipazione e della propensione. L'analisi husserliana della coscienza temporale interna - una delle più importanti trattazioni moderne riguardo il tempo - si basa sugli stessi punti di partenza e giunge fino a simili risultati. L'»essere« dell'uomo è un flusso continuo della coscienza, alla quale compete essenzialmente la »ritenzione« del passato e la »pro-tenzione« del futuro. Guardandoli complessivamente, questi punti di partenza per la comprensione del tempo sono essenzialmente »greci«. La speranza si può comprendere soltanto come capacità (potenza, virtù) del soggetto, che nel e dal presente attende l'avvenimento futuro e così lo anticipa nella speranza. Per questo Agostino introduce la distinzione »in re« ed »in spe«. »In re« significa l'attualità del presente, »in spe« invece significa il modo in cui qualcosa »è già posseduto« nel presente, anche se la sua piena at-tualizzazione avverrà nel futuro. La speranza è virtù teologica (e non naturale ossia morale) perchè ciò che viene sperato dal cristiano, non è evidente nel presente, non può essere anticipato dalle attuali circostanze 0 dalle proprie capacità, ma si basa solo sulle promessa di Dio. Una simile spiegazione riguarda anche le altre due virtù teologiche: la fede e l'amore. Entrambe trascendono le capacità naturali dell'uomo, in esse l'uomo »fa« molto di più di quello che può e per questo in esse si rivela un dono speciale (la grazia), che viene conferito all'uomo da Dio. Com'è noto si parla delle »virtù infuse« (virtutes infusae) proprio riferendosi a Paolo (Rm 5, 5). Ma non troviamo presso Paolo e presso i cristiani primitivi un attitudine molto diversa, un attitudine principalmente giudaica e non greca? Non troviamo in quei dintorni già dall'inizio una comprensione e un'esperienza del tempo molto diversa? Infatti, se lo sguardo greco vede la modalità primaria del tempo e il criterio dell'essere nel presente, per 1 primi cristiani tutto ciò fa perno sul futuro (l'avvenire). Il futuro della parusia è il dato più certo, è il punto di riferimento in rapporto al quale si definisce il significato del presente (e non il contrario). Il futuro è il criterio e la misura del presente. La ragione di questa inversione giudaica va rilevata nell'esperienza di Dio come primo e dell'uomo come di colui che si comprende a partire dal rapporto con Dio. Nella prospettiva greca c'è l'uomo all'inizio, che è cosciente di se stesso, del mondo e dell'altro. La sua conoscenza si definisce come sguardo, il che comporta il condurre ciò che si mostra (il fenomeno) nella presenza della propria comprensione. Nel giudaismo invece l'uomo è già sempre il »secondo«, è colui che arriva fino a sé soltanto dopo la chiamata da parte del Dio personale. Invece dello sguardo abbiamo qui il primato della parola e del udire. Dal punto di vista greco la prospettiva giudaica presenta un peculiare paradosso, che diventa particolarmente acuto quando si pone la questione della soggettività. La soggettività non si costituisce come indipendenza della propria sfera, che nel senso temporale significa una centralizzazione delle modalità temporali nel presente, bensì come rapporto, che è più originario della propria soggettività e che comporta una specifica »espro-priazione«. L'espropriazione di sé nel senso di un rapporto vissuto con l'altro - malgrado tutta la paradossalità - va però capita nel senso della più genuina realizzazione di sé. Esattemente questa è la vita della quale rende testimonianza Paolo. Il cristiano è colui che accoglie la parola che viene da Dio come Parola che viene dall'assolutamente Altro ed attraverso questa parola comprende e conosce se stesso. Allo stesso tempo questa parola è anche promessa di quello che sta ancora per venire. Nell'anteriorità della parola che ci viene data nell'ascolto si rivela la dimensione del passato, che va al di là del mio passato - si tratta di un passato che è proprio della trascendenza dell'Altro. D'altra parte nella promessa di Dio c'è anche la dimensione del futuro, che non è soltanto futuro delle mie capacità, bensì futuro di redenzione, da parte di Dio. L'esistenza cristiana si trova in tensione fra il passato della parola di Dio (la rivelazione) ed il futuro (l'avvenire) della promessa di Dio. Entrambe aprono un presente specifico che non è autopossesso e conferma dela propria soggettività, bensì espropriazione di essa. La temporalità del esistenza cristiana è la paradossalità del rapporto vissuto con l'altro, che è il primo. Questo viene riassunto da Paolo con le parole: »non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me« (Gal 2,20). La fede, la speranza e l'amore che caratterizzano sommamente la vita cristiana sono molto di più che virtù o qualità ed esigono un'esplicazione esistenziale più profonda. La nostra interpretazione tenta di comprenderli come modalità fondamentali dell'esistenza cristiana, nelle quali si rispecchia anche il loro carattere temporale. La fede significa il modo nel quale si vive ovvero »accade« il passato, la speranza significa il vivere del futuro, l'amore il vivere del presente. La loro struttura fondamentale è soltanto una: vivere il rapporto con la trascendenza. Questo significa il superamento della propria soggettività (immanenza), il che comporta anche il superamento della comune comprensione del tempo. In che modo possiamo connettere la fede con il passato? La fede presuppone un'altro che mi precede e che entra in relazione con me. La fede è una mia risposta ad un'appello che viene da fuori, dall'altro. Paolo dice che la fede deriva dall'udire (ex auditu fidei, cfr. Gal 3,2), che significa l'accoglimento della parola. Però non possiamo ridurre la fede alla credenza nel senso della convinzione, del »ritenere vero un qualcosa« che si distingue dalla certezza del sapere soltanto a seconda del grado di probabilità. In questo caso - che è tipico per la tradizione cattolica - la fede come atto (fides qua) si riduce al suo contenuto (fides quae), alle tesi della fede. Lutero respinse questo tipo di comprensione, sottolineando il rapporto fiducioso come tratto primario della fede. Potremmo dire che Colui al quale credo è più importante del contenuto della mia credenza. Se torniamo ai Tessalonicesi, la loro fede significa un vissuto rapporto con Dio, del quale hanno accolto la parola. Qui non si tratta soltanto della fiducia in Lui o nella sua parola (fides qua), bensì dell'accoglimento integrale di una nuova comprensione di sé e della vita (fides quae), significa il loro nuovo »essere-diventati« (genésthai), che adesso comporta un nuovo modo di vivere (cristiano). Nell'»essere-diventati« si rivela un »perfetto« (nel senso del passato grammaticale) peculiare, una modalità del passato, che incarna una certa paradossalità. Il mio essere-diventato (cristiano) non è un qualcosa di fatto da me, non è il risultato della mia attività e del mio potere, bensì dell'irruzione dell'assolutamente altro, dell'appello dal di fuori. Quest'alterità trascendente si identifica anche con un'anteriorità al di là del mio proprio passato, e significa quindi un passato che non era mai stato il mio presente. Con le parole di Lévinas potremmo chiamarla »passato assoluto« (passé absolu).15 Ritroviamo una struttura simile anche nella speranza. Soltanto che in questo caso non si tratta di un passato assoluto, ma di un futuro assoluto. La parola di Dio del passato è allo stesso tempo promessa e fondamento del futuro. La speranza è una modalità dell'esistenza cristiana, come vivere ora ed adesso il futuro assoluto. Evidentemente abbiamo a che fare anche qui con una temporalità specifica, dove il futuro non è soltanto la pura potenzialità del non ancora attuato (appunto del »futuro«), bensì ciò che assolutamente trascende ogni potenzialità del presente e sta venendo a me (come »avvento« o »avvenire«, quindi) da parte dell'alterità trascendente. Nella fede e nella fiducia in questa trascendenza la promessa dell'av-venire modifica il mio modo d'essere, che si trasfigura in esse- 15 Cfr. E. Lévinas, La trace de l'autre, in: En découvrant l'existence avec Husserl et Heidegger, Vrin, Paris 1967, 199. Cfr. anche B. Klun, Das Gute vor dem Sein. Levinas versus Heidegger, Lang, Frankfurt/M (et al.) 2000, 222ff. re-verso-l'avvenire-assoluto ovvero essere-nella-speranza. I primi cristiani nella speranza non soltanto aspettano la parusia (come qualcosa, che non è ancora), bensì la »vivono« (come un qualcosa che plasma il presente). In quanto si tratta qui di un vissuto rapporto con l'altro, la pazienza è un tratto fondamentale della speranza. Nella pazienza si manifesta una certa passività, senza la quale non può esserci un rapporto genuino. L'attività è sempre esercizio del proprio potere, è sempre un fare da sé. La passività contrariamente significa accogliere qualcosa da fuori, significa ricevere, significa non essere più il primo, ma il secondo. In questo senso la passività non va capita come semplice rinuncia all'attività, come quietismo o come mancanza d'interesse. La passività include la dedizione nei confronti dell'altro, l'espropriazione di sé nell'apertura all'altro. Poi-che la speranza riguarda l'avvenire, che non è in nostro potere, viene sempre connessa con la pazienza (hypomone, sustinentia, perseveranza, costanza - cfr. 1 Ts 1,3). Come esempio di fede e di speranza Paolo ci mostra Abramo, che perseverò e fu paziente, anche se nel suo presente non c'era nessun indizio di realizzazione delle promesse di Dio: »Egli ebbe fede sperando contro ogni speranza« (Rom 4, 18). Se facciamo della speranza una virtù o se addirittura la formalizziamo come uno specifico atto umano, nel quale il fine della speranza si può modificare (senza per questo modificare l'atto), come è successo nella scolastica,16 allora la reazione di Lutero, con il suo ritorno a Paolo e la sua critica della interpretazione scolastica della speranza, non ci può stupire. Alla »spes homi-num« egli contrappone la »spes Christianorum«17 che segue l'esempio di Abramo e che comporta un'integrale dedizione dell'uomo alla promessa di Dio ovvero al suo avvenire. Nel famoso 13° capitolo della prima lettera ai Corinzi Paolo sottolineò che nella triade della fede, speranza e carità (agàpe) la terza sia quella maggiore. In che modo possiamo connettere la carità (l'amore) con la modalità del presente? Se il cristiano vive il suo essere-diventato ovvero il suo passato come fede nella parola di Dio, se nella speranza vive l'avvenire delle promesse di Dio, allora il suo presente è l'incarnazione del rapporto con l'Altro come la propria espropriazione. Forse la peculiarità del presente vissuto in maniera cristiana diventa sommamente manifesta nella differenza con il primato del presente nel soggetto autonomo. La costituzione della soggettività è la sintesi temporale del presente, che significa l'autopossesso, l'essere ovvero l'avere il »proprio tempo«, l'essere me stesso. Il presente dell'amore cristiano invece significa 16 Tommaso d'Aquino definisce l'atto della speranza nel senso di virtù come ordinamento al fine, che è determinato da quattro caratteri formali: »obiectum spei est (1) bonum (2) futurum (3) arduum (4) possibile haberi« (STh II/II, 17, 1). 17 Cfr. M. Luther, Werke, Kritische Gesamtausgabe (Weimarer Ausgabe) Bd. 56 (Die Vorlesung über den Römerbrief), Böhlau, Köln 1938, 295. che in ogni momento l'altro è al primo posto, che il mio essere si trasfigura in essere-per-l'altro, che letteralmente »d(edic)o il mio tempo all'altro«. Il tempo è mio, ma simultaneamente non è mio, perchè lo d(edic)o all'altro. Nell'atto d'amore si svolge una radicale espropriazione nella disponibilità all'altro, ma allo stesso tempo una genuina autorealizzazione. L'amore è sommo, perchè vive la fede e la speranza nell'immediatezza del momento (kairós), perchè nel suo presente si manifesta il senso trascendente. 4. La speranza come dimensione dell'esistenza umana E degno di nota che la problematica della speranza nella teologia del ventesimo secolo appaia in maniera più decisa soltato come reazione al pensiero filosofico secolare, dove spicca in questo senso soprattutto il nome di Ernst Bloch. Nel suo scritto più famoso dal titolo »Das Prinzip Hoffnung« Bloch si incentra sulla speranza non soltanto sul livello antropologico, ma soprattutto come principio ontologico di tutta la realtà. Facendo questo si appoggia sui momenti »escatologici«, reperibili nel pensiero di Marx. Bloch interpreta il materialismo dialettico nel senso dell'incompiutezza della materia, per la quale è essenziale la potenzialità e la tensione verso il »non-ancora« ovvero verso la (positivamente concepita) utopia. Con il suo ateismo umanistico trasforma l'attesa cristiana del regno di Dio in un fine e un compito dell'uomo, che dovrebbe realizzare un tale regno sulla terra. Per Bloch il teismo è addirittura un ostacolo per tale speranza.18 La speranza religiosa è soltanto una delle forme di manifestazione della speranza come costituente antropologica dell'uomo. La più significativa reazione al pensiero di Bloch da parte cristiana viene coniata da Jürgen Moltmann nella sua »teologia della speranza« dove viene esposta la necessità per il cristianesimo di riscoprire la sua dimensione escatologica, che è il suo tratto fondamentale. »Il cristianesimo è del tutto e non soltanto come aggiunta escatologia. Il cristianesimo è speranza, è un guardare e un orientarsi avanti, e con questo è anche nuovo inizio e trasfigurazione del presente.«19 Il Dio cristiano è il »Dio della speranza« (Rm 15,13) e non un assoluto metafisico, pensato nelle categorie della filosofia greca. Comunque qui non stiamo trattando della questione riguardo rapporto tra teologia contemporanea e il tema della speranza, bensì del fatto, 18 Cfr. E. Bloch, Das Prinzip Hoffnung, Suhrkamp, Frankfurt/M 1959, 1413. 19 Cfr. J. Moltmann, Theologie der Hoffnung. Untersuchungen zur Begründung und zu den Konsequenzen einer christlichen Eschatologie, Chr. Kaiser Verlag, München 1966, 12. Cfr. anche J. Moltmann, Das Experiment Hoffnung. Einführungen, Chr. Kaiser, München 1974. Tra i teologi protestanti che sottolineano la dimensione della speranza va ricordato il nome di Wolfhart Pannenberg, tra quelli cattolici invece i nomi di Edward Schillebeeckx e Johannes B. Metz con la sua teologia politica. che la speranza è un fenomeno universalmente umano, che Bloch definisce »il più umano di tutti i moti dell'animo«.20 Il sigificato della speranza per l'uomo può venir compreso soltanto se vien capito il ruolo costitutivo del futuro per l'esistenza umana. L'uomo è l'unico essere che è capace di un rapporto con il futuro e questo rapporto determina essenzialmente il suo presente. La relazione con il futuro può attuarsi in diversi modi, che variano dalla paura e disperazione, alla speranza e fiducia, fino alla certezza della previsione. Conformemente con i nostri ragionamenti teologici possiamo distinugere anche sul piano puramente umano due possibili comprensioni della speranza, alle quali sono correlate due corrispondenti attitudini esistenziali. La prima vuole forgiare dalla conoscenza dei processi del passato e del presente la logica del futuro. Poiché però il futuro non è mai completamente a disposizione, la sua conoscenza è condannata ad un maggiore o minore grado di probabilità. La speranza in questo senso è il prolungamento della probabilità, è quell'attesa buona, con la quale compensiamo la rimanente incertezza della previsione. Quanto maggiore è la certezza, tanto più fondata è la speranza. Questa attitudine caratterizza il tempo odierno, che tende verso un'assoggettamento del mondo e della vita attraverso la tecnica, il che si manifesta pure attraverso diverse attività che si cimentano sistematicamente con la previsione del futuro e che possono addirittura ricevere il nome di scienza (futurologia). La tradizione giudaico-cristiana offre una concezione della speranza diversa. In essa l'essenziale è il superamento dell'accentrarsi sull proprio potere. La speranza significa prima di tutto l'accoglimento dell'altro (di Dio) e la rinuncia al proprio potere, significa la fiducia nell'altro ed il primato del rapporto.21 Sul piano intersoggettivo ciò significa che l'altro uomo è colui che mi libera dalla chiusura nel proprio presente e mi apre il futuro, che non sarà un puro perpetuarsi del mio passato e del mio presente, bensì la nascita di qualcosa di nuovo, di imprevedibile, di incalcolabile. Gabriel Marcel,22 come pure altri filosofi del dialogo,23 provarono a tematizzare questo carattere interpersonale della speranza, anche se con questo rischiarono un'allontanamento dalla rigorosa razionalità filosofica. Infatti la speranza come fiducia nell'altro per sua natura non è basata su ragioni proprie (sulla ragione), bensì presuppone 20 »Hoffnung [...] ist deshalb die menschlichste aller Gemütsbewegungen« (E. Bloch, op. cit., 83). 21 Nella lingua slovena la parola »fiducia« (zaupanje) secondo la sua etimologia deriva direttamente dalla parola »upanje«, che significa »speranza«. Perciò potremmo dire che vale anche il contrario: ogni fiducia nel prossimo è fondata sullo sperare in lui. 22 G. Marcel, Homo viator. Prolégomenes a une métaphysique de l'espérance, Aubier, Paris 1963 (1944). 23 Tra di loro vanno ricordati F. Rosenzweig, M. Buber, F. Ebner ed E. Rosenstock-Heussy. un'autolimitazione ovvero, secondo Marcel, l'accoglimento del mistero. Così viene reso possibile il primato del rapporto (dell'interpersonalità), che è il luogo originario della speranza. »J'espère en toi pour nous, spero in te per noi« è l'espressione più adeguata per quell'atto che viene comunicato dal verbo sperare. Comunque anche per Marcel l'ultimo fondamento della speranza - di quella speranza, che trascende ogni contenuto concreto e che viene da lui definita come »speranza assoluta« - è il »Tu assoluto« ovvero Dio. La filosofia dialogica scopre nella relazione interpersonale il momento trascendente ed infinito, il che spiega la sua recettività per il pensiero religioso. La capacità di una tale speranza e fiducia presso l'individuo concreto dipende dal fatto, se esso stesso visse un'esperienza di accoglimento e di affermazione da parte dell'altro. Come la speranza cristiana è basata sull'esperienza della rivelazione dell'amore di Dio o, come dice l'apostolo Giovanni, »perché egli ci ha amati per primo« (1 Gv 4,19), così ogni speranza necessita di un'esperienza passata di bontà. L'uomo che ha sperimentato su di sé la bontà e l'attenzione di qualcun altro, ha il coraggio di sperare. La gratuità e l'immeritatezza della bontà passata gli infonde la speranza nel futuro, in un buon futuro. La disperazione e la rassegnazione dell'individuo tradiscono nello sfondo un problema relazionale. Addirittura la fiducia in sé e la speranza fondata su di essa non sono possibili senza la dimensione intersoggettiva, senza una certa affermazione da parte di altri. In una relazione interpersonale genuina l'uomo è fonte di speranza per l'altro. Homo homini spes. Anche Paolo definisce i Tessa-lonicesi, ai quali era stato mandato, come sua »speranza« (cfr. 1 Ts 2,19). Sperare nell'altro non è soltanto un'illusoria consolazione, ma proviene da una profonda esperienza esistenziale. Se il rapporto dell'uomo con il futuro è quell'elemento che formalmente rende possibile la speranza, non possiamo non prendere in considerazione quel confine decisivo del nostro avvenire, che segna nella maniera più profonda l'esistenza umana - la morte. La mia propria morte è l'avvenire per eccellenza, in quanto certamente viene, ma non diviene mai il mio presente. Eppure mi determina in ogni istante della mia vita e »già adesso« appartiene a me. Perciò non è strano che proprio davanti alla questione della morte la questione della speranza si ponga nella maniera più radicale. L'assolutezza della morte rappresenta per la speranza una sfida assoluta. E qui la sorgente della speranza possiamo trovarla soltanto nell'Altro.