\ L' ASSOCIAZIONE per un anno anticipati f. 4. Semestre e trimestre!» proporzione Si pubblica ogni sabato. II. ANNO. Sabato 9 Gennaio 1847. M 3—4, Della pianta materiale di Capodistria. Come la distribuzione delle grandi strade in una ! provincia fisica è testimonio della prudenza governativa della sapienza di chi regola la prosperità pubblica, così la distribuzione di una città è testimonio della sapienza e della prudenza urbana che dispose di una città come di una casa assegnando le parti che sono destinate ad uso più nobile, od a più comune, ponendole tutte in facile comunicazione, in salubre condizione, e distribuen- ; dole per modo che se ne abbia anche sicurezza. Come le slrade attraverso una provincia sono monumenti assai parlanti di storia, così la distribuzione di una città parla alla mente e svela le antiche vicende meglio talvolta che le carte scritte. Facile è il pensare che il collocamento, la distribuzione delle città sia opera del caso, sia un assembramento accidentale di abitati; ma così non è. Perchè quand'anche la distribuzione sia lasciata all'arbitrio dei j singoli, e nessuna pubblica previdenza regoli la cosa, pure quegli ordinamenti che sono di società, presto si trasportano nel materiale a dare simbolo della città stes- j sa; gli uomini quasi naturalmente si pongono al sito che loro conviene secondo le condizioni della vita; e ciò che non fu misura regolativa, diviene misura di ri- ! parazione; la sapienza è eterna, e l'uomo o tosto o tardi deve scoprirne le leggi che regolano il morale come il materiale della città. E tanta è fra questi due l'armonia, che gli Italiani e i Tedeschi usano la stessa voce tanto per indicare quella persona morale che si compose ! a comune urbano, quanto anche per indicare l'aggregato di abitazioni di questo comune. Ove gli uomini vivono sciolti da vincolo di comune, ove sieno enti isolati e quindi egoisti, o dove la loro condizione non ammetta o non comporti la formazione di comune, le città non sono che case isolate, nemmeno raccostate le une alle altre se non per avarizia, e per timore di pericoli di nemici e pubblici e privati; ma come il vincolo comune di città le annoda, e quanto maggiormente li stringe, le città dispongonsi quasi fossero casa di una stessa famiglia, e nel comune trovano la sicurezza e la difesa, come gli agi e le comodità. La terra baronale si aggruppa intorno al temuto castello, per lo più lungo le strade, quasi inermi pulcini intorno a chioccia; e seppure ne hanno difesa, è scarsa ed incerta, che l'uno è d'imbarazzo all' altro. Guardate la pianta di moderna città, e se vedete su d'un alto colle sorgere le turrite mura di un castello, e sul piano sottoposto e presso un fiuine stendersi la città per vie lunghe formando filari di case continuate, conchiudete pure che quella era in origine borgata feudale; se ha mura che la cinga dite pure, senza tema di prendere equivoco, che furono opera del tempo quando, affrancata la borgata, si formò a comune ; se anche ha acquedotto conchiudete pure che questo fu opera tarda: l'attingere l'acqua al fiume era il massimo che sapeva fare una borgata feudale. Se vedete una città od una terra disporsi in corpo unito, regolare, cinto tutto di* mura, con porte numerose, in plaga adatta ad operazioni di commercio o d'industria; se vedete la forma quadrangolare, oppur rotonda in colle; se vedete le vie correre parallele e tagliarsi ad angoli retti; oppure dipartirsi su collina da centro quasi raggi, ed altre quasi zone fasciare il colle; se vedete nella parte più alta collocarsi la chiesa principale ed il pubblico palazzo, fosse anche all'estremità delle mura; se vedete aprirsi piazza regolare ove sieno i pubblici palazzi, e luoghi di frequente convegno e per affari civili e per diporto, conchiudete pure che quella città fu un comune libero; e se fuor delle mura vedete stendersi borgate, o nelle borgate o presso alle mura aprirsi mercati, conchiudete pure che fu comune industre; e se le borgate, stesse sono cinte da seconde mura, conchiudete che la classe di quelli che si dànno alle industrie ed ai traffici fu d' importanza a segno di stendere ad essi la difesa del comune. E vedrete le case dei maggiorenti, i pubblici palazzi, le chiese maggiori collocate entro la cinta interna; i mercati, i chiostri di mendicanti perfino fuor della cinta esterna, vedrete spesso fra quelli che stanno entro la cinta interna e quelli di fuori durare gelosie, avanzo di contrastata parificazione di condizioni civili. Non intendiamo parlare dell'odierna società la quale è basata su principi del tutto diversi, intendiamo di quella del mezzo tempo, e dei tempi più antichi. Il rinovellarsi degli edifizi nelle città non cangia la primitiva loro disposizione, perchè ognuno ricostruisce sul proprio terreno; il sopprimersi, l'incorporarsi di qualche via in novello edifìzio non scompagina l'insieme talmente da non riconoscerne la completa distribuzione; lo sterramento di parte della città, 1' abbandono di parte fuor delle mura novelle, in caso di sovversioni di guerra, non tolgono le traccie, perchè le vie urbane, le vie intorno le mura, le mura medesime restano assai frequentemente visibili, rimangono spesso le chiese, quand'an- che l'area delle case si converta in verzieri; anche un repentino totale sovvertimento non cangia gran fatto la distribuzione, se lo stesso popolo si pone a rifare tosto la città, perchè ognuno riprende il suo, ed il comune tiene tutti i luoghi pubblici; la città distrutta non si rinovella su altra pianta se non quando, passato assai tempo dopo la sua distruzione, gente del tutto novella vi prende stanza. La pianta delle città è argomento di nobile soddisfazione, perchè attesta la non vile condizione antica, e la sapienza dei maggiori che le disposero. La pianta di Capodistria è nella bocca dei propri e dei provinciali oggetto di lode; però la lode s'estende assai più in là, che la generalità pensa; imperciocché nella sua pianta sta scritta sua storia, comunque in caratteri dilavati, per i cangiamenti fatti. La sua pianta risale all' epoca romana, chè più in là non è lecito di giungere; e mentre la distribuzione antica serve a spiegazione di condizioni successive non bene chiarite, queste servono di conferma a quelle. Mgida fu il suo primo nome a noi noto, e che i Romani non cangiarono. Il nome impostole dai Traci istriani non è nuovo nei paesi greci, ed allude a capra, quasi fosse dato il nome di isola della capra prima che fosse città, che altrimenti 'sarebbesi detta Egeste. E forse Tergeste non altro significava che Città del Montone; ma questa è congettura bisognevole di migliore sussidio. Egida dovrebbe essere stata già formata a città quando i Romani la presero. Ebbimo occasione di leggere in recente opuscolo che Capodistria fosse già colonia romana; ma data questa indicazione'non di proposito, ogni indizio venne taciuto. Noi la riteniamo colonia, ed eccone gli argomenti. Plinio nella sua geografia, parlando delle citta istriane, dice di Egida e di Parenzo che fossero oppi-di (noi intendiamo minori città, non già castelli) di cittadini romani-, la quale ultima frase, a noi indica un comune di cittadini che avevano la pienezza dei diritti politici. Di Parenzo è provato per la tavola teodosiana, pel monumento alzato a Lucio Canzio, per le tradizioni che fu colonia, e propriamente condotta, come a noi pare, da Augusto dopo la battaglia di Azzio. Plinio visse posteriormente a questi tempi, nè poteva, esso che fu diligentissimo, ignorare la condizione di Parenzo, e se la equipara a Capodistria conviene conchiudere che ambedue fossero colonie. La tavola teodosiana non menziona Capodistria, e da questa non può trarsi sussidio. Nelle lapidi di Capodistria, scarse di troppo, non avviene menzione di lei, nè in altre della provincia o di Aquileja; in una di Trieste si allude verosimilmente a Capodistria, ma non si usa altra voce che quella di CIYITATES, insieme ad altre città prossime a Trieste, che è quanto dire comuni. In brandello di lapida nel già seminario leggemmo di un tale che fu delegato dall'ordine dei censori, siccome altrettanto si legge in lapida Aquilejese, e comunque ci indichi un ordinamento di colonia, non azzarderemmo dire che sia di colonia soltanto. Grandi indizi dànno in verità la mancanza di nomi barbari nelle leggende, la costanza di bei nomi di gente; i nomi delle contrade esterne tratti in grandissi- ma parte da famiglie romane, il campo marzo, i forta-lizì all'intorno a presidio dell'agro colonico, la niuna decima per pubblico titolo nell' agro, e più che la dignità episcopale (che in Istria vediamo comune a luogo che non fu, come pare, colonia) gli ordinamenti antichi del clero; la dignità sostenuta nel mezzo tempo, gli ordinamenti civili di questo tempo; pure queste argomentazioni da sè sole non guidano a certezza, bensì insieme all' autorità di Plinio ed alla pianta della città, per cui non esitiamo a ritenerla colonia romana. Allorquando conducevasi colonia, una parte di città e dell' agro veniva tolta agli antichi possessori, e con questi componevasi il novello comune, superiore in rango all' antico, se l'antico non veniva tolto del tutto. L'agro colonico di Capodistria misurava 36'/,2 miglia romane quadrate, o diffalcando le sterilità, 36 miglia quadrate, le quali corrispondono a 31,691 jugeri romani, in termine rotondo 30,000. Secondo le attestazioni di Livio 188,100 jugeri vennero destinati in Aquileja all'agro colonico, pari a 220 romani. Se le proporzioni unitarie di assegnazione di jugeri a ciaschedun soldato d'Aquileja fossero quelle d'Istria, dovrebbesi dedurre dalla misura dell'agro che 500 soldati venissero condotti in colonia, e 50 cavalli; ma il numero dei jugeri assegnato a cadaun soldato variò assai dai 50 ai 15, ai 8, fino ai 2 jugeri. Entro l'isola, sulla quale è l'odierna città di Capodistria, due cinte di mura erano a' giorni nostri visibili, l'una più esterna alla spiaggia del mare, opera del secolo XV, a' tempi della repubblica veneta, non ad altro diretta che ad impedire uno sbarco da parte di mare; opera fatta a più riprese, nè basata a piano che fosse veramente di fortificazione. Altra cinta eravi preesistente, della quale abbiamo reminiscenza di avere vedute ancor in piedi le porte; ma la mente nostra non comprendeva ancora siffatte cose, e non sapremmo dire dell' epoca più che erano antiche. Queste mura correvano dall'angolo più a ponente del già convento dei domenicani, nella parte più alta del colle, e dirette alla chiesa di S. Anna; in distanza di 30 pertiche da questa giravano verso la chiesa di S. Tomaso, d' Ognissanti ed al ponte piegavano verso la chiesa dei Servi, e per la via dietro a questa, andavano ad unirsi all' angolo di S. Domenico. Queste due non erano però le sole cinte. Sembra a noi di scorgere linee di altra cinta, la quale coincide colla seconda e terza nel lato che guarda il porto, e per una metà nel lato che guarda Oltra; poi dinanzi alla chiesa di S. Biaggio, a 10 o 20 klafter di distanza correva verso la piazza d'armi, poi rientrando sulla linea delle case che la costeggiano a ponente, scende lungo il lato del collegio degli Scolopi a raggiungere la cinta media. Entro questo recinto sembra a noi di riconoscere l'antica colonia, del giro di 800 passLiomani, della superficie di passa 40,000, disposta come a colonia si conviene. Imperciocché nella parte più alta del colle all'estremo delle mura prime verso le seconde si dispone area adatta a campidoglio o qual altro nome si voglia dare a siffatta parte essenziale di ogni colonia, della superficie di passi romani 7500, entro il quale recinto 4 \ »Tv.-1 - A" i -f yw ! vri ^ I • i » I nella parte appunto che sta a mano diritta, e che sareb- ' be stata dedicata alle false divinità, sorgeva fino da'primi tempi della libertà della chiesa quel duomo del vero Dio che dalle descrizioni apprendiamo essere stato in j forma di basilica, ricco di marmi e nello stile del duomo di Parenzo, e d'altri insigni; l'altra parte a sinistra nell' angolo verso il mare sarebbe stato luogo adatto a presidio militare. Immediatamente sotto il campidoglio da un lato e dinanzi al duomo si era il foro nobile, che tuttora è piazza; dall'altro lato v'era altra piazza per il rimanente della città, e considerandosi la colonia come parte migliore, come gli ottimati, il resto era popolo basso, soggetto, e per questo assegnavasi la piazza che poi si disse Brolo. Dal foro della colonia la via maggiore metteva verso la porta che deve essere stata la principale verso S. Pietro di Barban; ed altra al porto, ove sten-devasi la principale borgata. La distribuzione interna di questa parte di città mantiene tuttora una simmetria di linee, di vie, esistenti o facilmente ravvisabili che si manifesta per romana e che non si collega colla distribuzione del rimanente. La via precipua di questa città or detta Calegaria, ebbe già nome di Via maggiore, se il nome della porta che era a capo non inganna, e questo nome è quello appunto dato alla grande vena nelle antiche città, ed adita che mettesse a iuogo precipuo di ingresso, diremo da terra, ingresso che durò anche nel mezzo tempo. L'altra via mette al porto, altro ingresso precipuo in città di mare. E questa parte di città sembra che venisse tolta agli antichi abitatori per formare la colonia, lasciata l'altra se non agli indigeni traci, a quelli che prima della deduzione di colonia formavano comune urbano. Che la colonia fosse murata tutta non sarebbe cosa strana nò rara in provincia; potemmo verificare in que-9t' anno che Pirano era spartito in due, in modo che il palazzo della suprema magistratura stava collocato fra le due parti di città ad ambedue imperando. La città fra la cinta interna e la media misurava altri 40,000 passi romani, da cui potrebbe dedursi che la metà del terreno urbano venne tolta dai novelli coloni agli antichi abitanti. In qual tempo venisse condotta la colonia, se al tempo della conquista, se al tempo di Augusto, mancano monumenti a dirlo; noi propenderemmo a crederla dei tempi-di Augusto, il quale condusse molte colonie, anche in Istria. Questa divisione di una stessa città materiale in due comuni politiche l'uno soggetto all'altro, è cosa frequente e se fossero sopravanzate leggende, avremmo sciolto il dubbio, se alla colonia presiedessero duumviri, un prefetto al rimanente, oppure un pretore che tenesse stanza nella città medesima sulla piazza. Questa città ha distribuzione non solo diversa da quella della colonia, ma le vie non si rannodano con quelle della colonia da formarne un insieme, ma nemmeno sono solitamente a rettangoli; nemmeno retta la via principale che metteva alla porta detta poi di S. Pietro. La colonia non ebbe nome proprio diverso dalla città. jEgida la dissero grecizzando, ina forse il pòpolo la disse Capris in latino. Nel principiare del sesto secolo la colonia ebbe nobilitazione col titolo del principe, che fu Giustino, an- tecessore di Giustiniano, per benemerenza che non ci è nota, ma che potrebbe riferirsi a quei maneggi che vennero attivati regnando Teodorico, per fondare i vescovati istriani; e gli Egidani avevano mezzi, essi che non erano stranieri alla navigazione anche lontana. Noi pensiamo che Giustinipno le desse il nome di Giustinopoli in onore del suo parente ed antecessore, e che il nome venisse dato propriamente alla colonia, non partecipandovi il rimanente della città. Dell'inscrizione che ricorderebbe questo fatto, e che vedesi stampata in fronte allo statuto di Capodistria, non faremo parola; essa è una frode patente e ridicola, però, come avviene di simili cose, ordita su tradizioni di fatti per darvi maggiore credibilità; di che ci è accaduto di vedere altri e-sempi in provincia, non di inscrizioni, ma di carte e memorie. L'autore di un articolo su Montona avverte che del mezzo tempo assai documenti sono apocrifi e contradittori; non voremmo dire il contrario per la poca conoscenza di quegli atti e della frequenza di falsi. Però, a lode del vero, quest'Istria media non offre assai esempi di siffatta sporcissima merce nelle carte del mezzo tempo, e vi aggiungiamo che non ci vuole molto a distinguere un documento vero dal falso, anche per le sole pecche interne. Attendibili documenti del mezzo tempo (anche il più remoto) danno a Capodistria il nome di Capris, p vediamo carte sincere dare contemporaneamente il titolo di Giustinopoli e di C^pri (del secolo X), ed in più di una carta. In una del 976, parlando della spettanza di certa terra, si dice: tarn infra Ciritatem Justinopolis quam extra, quae vocutur Capras (o piuttosto Capris). In altra dell 152 si donano la chiesa ed il convento della Nunciata situm in partibus Caprensis Civitalis; in altra del 1264 non i giudici o li scavini o i duumviri, sib-bene il Ricario del patriarca faceva in Giustinopoli permuta col convento dei frati minori d'una piazza situata in Caprillo, che piuttosto carebbe in Capriite. Dal che si ha conferma che due parti diverse di città stavano entro le mura, Giustinopoli cioè, e Capri, distinte fra foro, sulla seconda delle quali non le cariche municipali, sibbene un giudice dato esercitava la giurisdizione. Le due città si lusero poi in una sola, non sapremmo dire in quale epoca precisa. Certamente si mantennero anche più tardi certe distinzioni, che per non conoscere la storia di quello statuto municipale non sapremmo indicare: però osserviamo che il nome di popolani, dato a piccoli possidenti, è lutto proprio di Capodistria; il nome di Capri si mantenne nella bocca degli Slavi, e si mantiene nella bocca degli Italiani quasi nome spregevole di certa classe di popolo minuto; e questi popolani prendevano qualche parte nel pubblico governo. Anche in Egida, come altrove, il cristianesimo penetrò prima nella città del popolo, di quello che nella colonia romana; anche in Egidia troviamo memoria di chiesa in onore di S. Stefano che accenna culto antichissimo, e questa fuori della colonia nel rione di S. Pietro, e ci parve avere udito che la chiesa di pubblico culto più antico fosse sulla piazza del popolo, passata poi nella parte più cospicua della colonia, nel campidoglio. Ci pare avere udito che appunto per la porta di S. Pietro un santo municipale fecesse il suo ingresso. Nes- suna città istriana è forse più ricca di tradizioni di quello che Capodistria......ma non è di ciò che vogliamo arrogarci di parlare. Sappiamo di certa scienza che anteriore al Castel-leone, costrutto in mare dai Veneti, v' era in Capodistria castello a tutela della città; non potemmo rilevare ove fosse situato, mase è lecito congetturare dovrebbe avere esistito fra il duomo e la marina nella parte ove è il palazzo Conti Grisoni. Abbiamo veduto lì presso una torraccia che era già dei Vergerii, illustre famiglia, ma non azzardiamo trarne maggiore conseguenza. Diremo invece che, avvicinate le condizioni politiche delle due parti di città, la divisione materiale che le teneva distinte, fu tolta per sempre; le due città si fusero in una sola, entro quel recinto che noi diciamo medio, e che contava dodici rioni. Non sappiamo se per l'antico governo municipale i dodici Capi di rione prendevano posto nel consiglio municipale, e se il potere loro fosse tribunesco; ma se tutti dodici prendevano posto, potrebbesi dedurre che si fosse raddoppiato il numero dei seviri, metà per la colonia, metà per la città, ed il popolo di quest'ultima non chiamato agli onori de-curionali, fosse ammesso ai benefizi di cariche minori. La pianta del governo municipale antichissimo darebbe bella luce in tanta tenebrosità. A togliere la quale gioverebbe rilevare le pratiche di chiesa, non intendiamo gli eventuali innovamenti fatti in tempi recenti, ma quelle consuetudini che a lungo durarono. Ci sovviene (e lo ricordiamo con piacere) che la processione del Santo protettore attraversava Capris pel meditulio, girava intorno le mura medie, e per la strada più nobile di Giustinopoli rientrava nel duomo; la quale reminiscenza di gioventù ci viene confermata per vera da pio sacerdote, pratico di quei siti municipali. Così il santo protettore, cui era cara Giustinopoli non meno che Capri, dopo lungo volgere di secoli passa ancora per la via precipua nel mezzo di Capri, fino a quella porta che fu la principale (e per la quale entrò il santo mentre era fra gli uomini per quanto suona la fama), e per la porta maggiore per la strada precipua in mezzo alla colonia rientra nel duomo, in quel luogo che era il presidio terreno di ambedue le città. Forse usi urbani, e consuetudini da noi ignorate vengono in migliore comprovazione; forse ancora oggidì le varie classi del popolo abitano vari quartieri, senza esserne consci del motivo; forse la nobiltà ed i cittadini preferiscono una parte, i popolani un' altra, formando quasi ripartizione; forse lo scompartimento delle dodici contrade mantiene le traccie di divisione antichissima. La colonia apparisce distribuita assai simmetricamente, per quanto il colle lo concede, ripartita ad isole quadrilatere; molle vie tolte serbano ancora traccia; gli avanzi di colonne, di capitelli, od altre anticaglie che potemmo vedere, ci sono arra della condizione fiorita. Ebbe certamente teatro come 1' ebbero Trieste, Pa-renzo, Pola, e sembra a noi di travedere alcune linee sospette fra la porta interna del ponte (or distrutta) e la casa Carli presso l'interna porta maggiore, eguale per dimensioni a quello di Parenzo, minore di quello di Trieste. Non abbiamo mai veduto indizio di conduttura d'acqua mediante opera murata; l'altezza del suolo alla piazza di 43 piedi sopra il livello del mare esigerebbe un livello di almeno 50 piedi, e la sorgente poi di alquanto più alta in proporzione della distanza, per cui dovrebbe dirsi che 1' attuai conduttura non sia imitazione dell' antica, se l'acqua arrivava fuori delle mura della città, come arriva oggidì. Non ci è noto che nell'interno della città si rinvenissero tubi antichi di piombo destinali a condutture. La colonia poteva contare da 5000 abitanti, altre-tanti la città; propizie circostanze tennero l'isola intera immune da flagelli che desolarono la provincia nel primo mezzo tempo, e fatta maggiore a'tempi del governo patriarchino, per le ampliate giurisdizioni, giunse probabilmente ai 15,000 con le ampie borgate che stavano fra le mura ed il mare. Entro il recinto dell' antica colonia presero sede i domenicani; però vi furono chiamati, e non vissero di elemosine; vi fu l'ospitale e come di diritto nella regione del duomo. Entro il recinto della città presero stanza i frati minori, e le Clarisse, le Agostiniane, ed altri monasteri dei quali perfin la memoria è perduta; nei borghi i Servi di Maria, i Zoccolanti, i Gregoriti. Al cadere del governo patriarchino la città, perduta, come sembra, ogni distinzione fra Giustinopoli ed Egida, comprendevasi entro le mura medie, le borgate stavano fra le mura ed il mare. Questi nostri pensamenti non sono che tributo a , città, per la quale conserviamo gratitudine per doppio titolo ; desideriamo ed attendiamo che altri meglio istrutti delle particolarità li compia, li rettifichi; e se anche li avesse a contradire, saremo contenti di vedere altre migliori cose in decoro di città che a nostro giudizio merita di essere meglio conosciuta. SCISMA ISTRIANO. Mi lusingo che non sarà per riuscire discaro ai lettori di cotesto giornaletto il fermare la loro attenzione sur un fatto che alla storia dell' Istria appartiene, e spiega le condizioni della provincia ne'secoli YI e VII. Questo memorando avvenimento è' lo scisma istriano, eli' ebbe origine, nome e fine nel modo seguente. Teodoro Assida, vescovo di Cesarea in Cappadoccia, orige-nista e fautore degli Eutichiani, volpe cortigiana di grande influenza, dolente d'aver dovuto sottoscrivere 1' editto con cui Giustiniano imperatore condannava gli errori di Origene, e volendo non solo vendicarsi di Pelagio, apocrisario della sede romana a Costantinopoli, eh' era stato la causa motrice di quella condanna, ma eziandio divertire l'animo del monarca, volò a Costantinopoli, ed avendo trovato lo imperatore che meditava e scriveva per richiamare all'unità della fede cattolica gli acefali eutichiani, con astuzia gli diede a divedere che dessi rigettavano 1' autorità del concilio generale di Calcedo-nia, perchè in esso non erano stati condannati i famosi tre capitoli, e che se di sua autorità li condannasse, certamente il bramato scopo otterrebbe. Col nome di tre capitoli furono dagli storici battezzali: 1.° gli scritti di Teodoro, vescovo di Mopsueste; 2.° gli scritti di Teo-doreto, vescovo di Ciro contro i dodici anatematismi di s. Cirillo Alessandrino; 3.° la lettera d'Iba, vescovo di Edessa a Maris Persiano. Giova sapere che il concilio calcedonese non si occupò dei tre capitoli, parte perchè Teodoro Mopsuesteno era già morto, e patte perchè Teodoreto ed Iba, che assistevano al concilio, dai padri specialmente provocati, anatematizzarono Nestorio ed Eutiche, e per conseguenza implicitamente anche gli errori sparsi nei loro scritti in favore di questi due eretici. (Ruttenstok Inst. H. E. N. T. t. 2, p. 466; Bergier Dict. de Theol. et d'Hist. Eccl. t. 2, p. 131.) Giustiniano, che avea la vanità di teologizzare, non accorgendosi dell' artificio di Teodoro, festoso adottò il consiglio di lui, e 1' anno 545 a suo nome mandò fuori un decreto, con cui condannava i tre capitoli in questi termini: "Se qualcuno difende Teodoro Mopsuesteno, e non anatematizza lui, i suoi scritti ed i suoi settatori, sia anatema. Se qualcuno difende gli scritti di Teodoreto composti in favore di Nestorio contro i dodici articoli di s. Cirillo, se taluno lo loda e non lo anatematizza, sia a-natema. Se qualcuno difende P empia lettera che scritta si dice da Iba a Maris Persiano e non la anatematizza, sia anatema,. (Hard. Conc. t. 3, p. 287; Evagr. I. 4. H. E. c. 28; Annal. Bar. ad an. 546. p. 317, 318; Fleury H. E. t. 7, 1. 33, p. 397.) Dopo qualche resistenza, l'imperiale fu sottoscritto da Menna Presule costantinopolitano, da Zoilo patriarca alessandrino, da Efremo patriarca antiocheno, da Pietro patriarca gerosolimitano, e da molti altri prelati orientali: ma Stefano, legato pontificio alla corte di Giustiniano e successore di Pelagio, ricusò di sottoscrivere, rimproverò a Mena la sua incostanza, e si separò dalla sua comunione. (Baron, ad an. 546 p. 321.) La resistenza dell' apocrisario e di alcuni prelati non impedì il monarca di mandare il suo teologico decreto anche in occidente. I vescovi della chiesa latina, aventi alla testa il papa Vigilio, non conoscendo, sì per la distanza de'luoghi che per l'imperizia della lingua greca, gli errori sparsi nei tre capitoli, bonariamente credeano che nel Sinodo calcedonese fossero stati approvali; perciò non vollero accettare l'imperiale decreto, persuasi che'illesa non polea rimanere l'autorità del quarto concilio generale colla condanna dei tre capitoli. Inoltre asserivano non solo che la condanna dei tre capitoli era un' insidia tesa dagli eulichiani per iscemare P autorità del Sinodo calcedonese, ma eziandio che non conveniva fare il processo ai defunti, ed infamare la memoria di tre prelati morti nella comunione della chiesa. (Bergier Dict. de Theol. et d'Hist. Ecc. p. 130.) Vedendo 1' ambizioso imperatore tante contradizioni, per piegare il supremo Gerarca, e coli' esempio di lui anche i vescovi ripugnanti alla sottoscrizione del suo e-ditto, invitò cortesemente Virgilio di venir a giocondare di sua presenza 1' antica Bisanzio, promettendogli di celebrare ivi un concilio a togliere le note discordie. Giunto Vigilio l'anno 546 a Costantinopoli, e ricevuto da Giustiniano con tutti gli onori alla sublime sua dignità dovuti, da principio non solamente resistette all'imperatore e a Menna, i quali lo sollecitavano a condannare i tre capitoli, ma eziandio scomunicò Menna, perchè avea sottoscritto all' imperiale decreto. (Theoph. Chron.) Si frappose l'imperatrice Teodora, famosa fautrice degli e-retici, ed alle melate preci di lei il sommo pontefice con Menna si riconciliò. Fatta la pace Giustiniano ritornò a violentare Vigilio, affinchè condannasse i tre capitoli in guisa tale, che il Papa non temette di dirgli: Se tenete me prigione, ricordatevi che non tenete s. Pietro. — In questo stato di violenza, ad istanza del monarca, Vigilio congregò in Costantinopoli un concilio di 70 vescovi o-rientali, da pochi africani in fuori difensori de' tre capitoli. Dopo lunghi dibattimenti, non potendo convenire, Vigilio sciolse il Sinodo e pregò gli antistiti a dargli in iscritto i loro sulTragi. In questa occasione Facondo, presule africano, porse al Papa il sunto dell' opera, cui poscia fece di pubblica ragione a difesa dei tre capitoli. Finalmente il sommo Pontefice, rattristato dalla discrepanza delle opinioni, imbarazzato, molestato, l'anno 548 mise a Menna, vescovo costantinopolitano, il suo celebre Giudicato, con cui condannò i tre capitoli, aggiuntavi cotesta clausula: "Salvo in tutto l'autorità del concilio calcedonese,,. (Baron, ad an. 546, p. 323; Fleury H. E. t. 33, p. 403, 404; Ruttenstok Inst. H. E. N. T. t. 2, p. 348.) Discordie cagionate dal Giudicato Vigiliano. Con questo temperamento Vigilio arbitrava di aver soddisfatto ai greci ed ai latini; ai greci condannando i tre capitoli, ai latini dichiarando di lasciar intatta 1' autorità del sacro Sinodo; ma l'evento fu alla sua aspettazione contrario. Imperciocché appena comparve il Giudicato, tutto 1' occidente inorridito fremette, tumultuò, ed il clero latino non dubitò di predicare, che Vigilio avea depressa 1' autorità del quarto concilio ecumenico e tradita la fede. Anzi Rustico e Sebastiano, diaconi dottissimi e confidenti del sommo Pontefice, l'anno 549 si dichiararono contro il Giudicato e scrissero ai vescovi, segnatamente ad Aurelio vescovo di Arles, che Vigilio avea messo in non cale il concilio di Calcedonia. (Fleury H. E. 1. 33, p. 404; Amat de Gravason t. 2, colloq. 2 in H. E. VI. saec.) Vigilio osservando con cordoglio da un canto le discordie cagionate dal suo Giudicato e l'attaccamento del clero occidentale alla difesa de' tre capitoli, dall' altro trovandosi sollecitato dagli orientali a condannarli assolutamente, senza fare veruna menzione del Sinodo calcedonese, in presenza di Menna, di Dacio vescovo di Milano, di vari prelati ed altri illustri personaggi, convenne coli'imperatore d'invitare gli antistiti occidentali ad un concilio generale, onde levare le dis-senzioni e gli scandali. Allora fu veduto un'altra fiata il capo della cattolica chiesa lottare col capo dello stato; poiché Vigilio volea che il concilio si celebrasse in occidente, e Giustiniano a Costantinopoli. Trionfò la volontà dell'imperatore, perchè il Papa era nella capitale dell' impero. — Il monarca scrisse ai vescovi occidentali, invitandoli di venire a Costantinopoli per accordarsi; ma eccetto qualche africano, nessuno annuì all' imperiale invito. Frattanto il sommo Pontefice, in una pubblica adunanza, rivocò il suo Giudicato, e i vescovi orientali celebrarono a Mopsueste un Sinodo particolare, per dimostrare che Teodoro mopsuesteno non era mai stato in- serito nel registro di quella chiesa. (Fleury H. E. 1. 33, p. 423.) Vigilio, vedendo la mancanza de' prelati occidentali, co' quali si dovea trattare, dichiarò inutile la celebrazione del concilio. Nulladimeno Giustiniano stimolava Vigilio a celebrare il concilio coi vescovi greci, ed a condannare i tre capitoli; ina non potendo vincere la di lui resistenza, immemore che Iddio non gli avea dato verun potere nelle cose sacre, amando di farla da dottore, da vescovo, e da papa, l'anno 551 emise in luce un altro editto, con cui condannava i tre capitoli e scomunicava i contravvenienti. (Mansi t. 9, p. 589; Fleury H. E. 1. 33, p. 423, 424.) Ciò udito Vigilio non tanto sottomise all'interdetto la chiesa, alle cui porte era stato affisso l'editto, ma anche minacciò di separare dalla sua comunione quelli che volessero osservarlo. (Grave-son 1. c.) Per la qual cosa Giustiniano fu talmente indignato, che Vigilio, per sottrarsi al furore di lui, si rifuggì nella chiesa di s. Pietro. Il monarca, per dare sfogo alla sua escandescenza, mise un pretore con dei soldati armati, affinchè con violenza dalla chiesa lo estraessero: ma accorsa la plebe tumultuante per liberare dagli insulti il successore di s. Pietro, dovette rinunziare all'impresa e fuggire co'suoi. (Theoph. Chron. p. 191.) Dopo essere stato dall'imperatore con giuramento assicurato, che non gli farebbe più violenza, Vigilio ritornò al palazzo placidiano, dove era albergato; ma accorgendosi che anche questo era continuamente da ascolte attorniato, di notte tempo con molta fatica e pericolo calò da una muraglia che si costruiva, sortì secreta-mente di Costantinopoli, i suoi passi verso Calcedonia diresse, ed ivi si occultò nel tempio di s. Eufemia con Dacio, vescovo di Milano, Venuta a Costantinopoli la notizia che '1 papa infermava, Giustiniano, reso più mite, l'anno 552 mise una nobilissima legazione a Vigilio, affinchè con giuramento gli promettesse sicurezza, ed il pregasse di ritornare a Costantinopoli, per celebrare il concilio generale, e restituire alla santa chiesa la pace. L'imperatore ritirò il suo decreto, e chiese venia al papa delle fattegli ingiurie. Vigilio, dopo aver scritta una lettera a tutto '1 popolo di Dio, in cui narrava le sofferte vessazioni e facea una confessione di fede per giustificare la sua condotta, poggiato alla promessa del monarca, ritornò a Costantinopoli. (Fleury H. E. 1. 33, p. 423, 428; Graveson 1. c.) Concilio costantinopolitano II, ecumenico V. Per far fine alle dissensioni, che laceravano la veste inconsutile della chiesa di Gesù Cristo, 1' anno 553 Giustiniano adunò a Costantinopoli un concilio generale, a cui intervennero oltre Eutichio Presule costantinopolitano, Apollinare patriarca alessandrino, Donino patriarca antiocheno, e i vicari del patriarca di Gerusalemme, 165 vescovi quasi tutti orientali. (Evagr. 1. 4. H. E.; Fleury H. E. 1. 33, p. 435, 436.) Presedette Eutichio, successore di Menna, e furono tenute otto sessioni. Vigilio, benché da due illustrissime legazioni invitato, ricusò di comparire, allegando la sua infermità ed il difetto dei prelati occidentali : nondimeno promise di mandare entro breve spazio di tempo la sua sentenza al monarca. Di fatti inviò un decreto chiamato Constitutum, per distin- guerlo dal Giudicato, col quale condannò gli scritti d' Teodoro Mopsuesteno, dichiarandoli infetti di errori, e perdonando all'autore già morto. (Fleury H. E. 1. 33, p. 443; Ruttenstok Inst. H. E. N. T. t. 2, p. 349.) Ma i padri del concilio andarono più oltre. Dopo di aver da tutti i lati discussa la questione dei tre capitoli, e conchiuso che anche i morti possono esser scomunicati, nella sezione ottava ed ultima pronunziarono la sentenza definitiva, con cui condannarono i tre capitoli con Teodoro Mopsuesteno, lasciando intatte le persone di Teodoreto e d'Iba, perchè nel Sinodo ecumenico IV a-veano detto anatema a Nestorio e ad Eutiche, ed erano stati nelle loro sedi rimessi. (Ruttenstok H. E. N. T. t. 2, p. 467, 468; Fleury H. E. 1. 33, p. 457.) Il concilio chiese al sommo pontefice Vigilio il suo consenso, e questi dopo sei mesi, in una lettera indirizzata ad Eutichio C. P., dichiarò: "abbiamo più accuratamente esaminato i tre capitoli, ed avendoli trovati condannabili, facciamo sapere a tutta la chiesa, che Noi danniamo ed anatematizziamo, assieme cogli altri eretici, Teodoro Mopsuesteno e gli empi suoi scritti, gli scritti di Teodoreto contro s. Cirillo ed il concilio Efesino, e la lettera d'Iba a Maris Persiano. Anatematizziamo pure chiunque osasse difendere e sostenere i tre capitoli. Riconosciamo per nostri fratelli tutti quelli che li dannano, e danniamo tutto ciò che fu fatto per la loro difesa,,. (Fleury H. E. 1. 33, p. 461 ; Muratori Ann. d'It. a. 556, p. 962.) Nell'anno seguente 554 Vigilio pubblicò un'altra costituzione, in cui più diffusamente esamina i tre capitoli, e li danna con tutti i loro difensori. L' assenso del Papa al concilio costantinopolitano lì, non lasciava più dubitare della sua ecumenicità. Ciò fatto, Vigilio partì da Costantinopoli, e morì in viaggio del mal del calcolo a Siracusa l'anno 555. Il suo corpo fu trasportato a Roma, e sepolto a s. Marcello. (Fleury H. E. 1. 33, p. 462, 463; Berti Brev. H. E. saec. VI. c. 1, p. 154.) L'imperatore Giustiniano pubblicò gli atti del concilio in oT riente ed in occidente. Dagli orientali furono accettati : ma gli occidentali si rifiutarono, asserendo che la condanna dei tre capitoli rovesciava l'autorità del Sinodo calcedonese. Finalmente questa diversità di sentimenti, riguardanti il quarto concilio generale, partorì uno scisma scandaloso, che durò fino alla fine del secolo VII. I principi ecclesiastici della chiesa latina, preoccupati dei loro pregiudizi, non solamente alla sentenza del concilio costantinopolitano II si opposero, ma eziandio ebbero il coraggio di scornacchiare il papa Vigilio come dispregiatore del Sinodo calcedonese e traditore della fede; perciò molti furono privati delle loro sedi ed esiliati. Il Diacono Rustino, perchè scrisse in difesa dei tre capitoli e contro la sentenza del quinto concilio, e-sule fu mandato nella Tebaide, ove compose il dialogo contro gli acefali. (Annal. Baron, ad an. 553, p. 400; Fleury H. E. 1. 33, p. 466, 467.) Un funesto scisma scoppiò nell'Illirico, in Africa, nelle Spagne, nelle Gallie e nell'Italia. L'apostolica sollecitudine di Pelagio I, alle cui mani dopo la morte di Vigilio furono affidate le redini dell' ecclesiastico governo, tante chiese o nell' unità ritenne, o separate all'unità ridusse: soli i vescovi dell'Istria e della Venezia il nefando scisma fomentarono, di cui fu capo il metropolita di Aquileja. (De Rubais Mon. Eccl. Aq. c. 21, p. 197.) Ma se Aquileja fu centro e focolare dello scisma, s'ebbero parte anche i vescovi della Venezia, perchè fu detto istriano? Eccone la ragione. Perchè il Presule aquilejese da principio esercitava la sua giurisdizione principalmente nelle chiese istriane: anche ne' tempi posteriori la voce Istria, in i senso ecclesiastico, abbracciava non tanto l'istriana pro-! vincia, ma anche 1' aquilejese; perciò lo scisma aquilejese, scisma istriano fu dagli scrittori comunemente I nominato. Che la voce Istria abbia abbracciato anche la . provincia aquilejese, si rende manifesto dalle lettere dei sommi pontefici Gregorio Magno e Pelagio II, i quali scrivendo ai vescovi scismatici, li chiamano sempre vescovi nelle parti dell'Istria costituiti, compresi quelli della provincia aquilejese. S. Gregorio, scrivendo a Ma-riniano, metropolita di Ravenna, di due vescovi della Venezia, cioè di Nova e di Caorle, li nomina vescovi d' I-stria: Gregorius Mariniano Episcopo Ravennae. De E-piscopis Histriae, scilicet Novae et Caprulensi. (Lib. 7, ep. 10, Ind. 2, Ediz. di Rasilea del 1550.) Nelle lettere indirizzate a Romano difensore della chiesa in Sicilia, j agli Esarchi ed al vescovo di Ravenna, parlando di quelli eh' erano all' unità ritornati, li chiama tutti istriani: De Histrianis ad Ecctesiae unitatem reversis. (Lib. 7, ep. 96, ep. 97, ep. 98, Ind. 2.) Pelagio II mise tre let-! tere agli scismatici intitolate: 1.° Dilectis Fratribus, aliisque Episcopis universis Filiis in Ecclesiae Istriae partibus constitutis. 2.° Dilectissimis Fratribus E line, vel Episcopis Istriae. 3.° Dilectissimis Fratribus F.liae, vel universis Episcopis in Istriae partibus constitutis. Li nomina fratelli e figli, per adescare e guadagnare i loro cuori col mele della carità. (De Rubeis Mon. ! Eccl. Aq. c.*20, p. 184, 185, 186, 187; Annal. Raron. j ad an. 586, p. 570 n. 29, p. 572 n. 37, p. 575 n. 44.) Lo scisma istriano ebbe principio sotto il governo del metropolita aquilejese Macedonio, il quale sedette anni sedici. Tolto 1' anno 556 a questa luce Macedonio, j l'anno seguente fu eletto Paolo, o Paolino (discrepanza | di nome, non di persona), ordinato probabilmente da . Vitalp e di cui fanno menzione e Dandolo nella cronaca, e IPaolo Diacono nella sua storia De gest. Long. 1. 2, c. 25. (De Rubeis M. E. A. c. 23 p. 203, c. 24 p. 214.) Il sommo pontefice Pelagio I, in una lettera indirizzata a Narsete Esarca, chiama Faolino esecrato usurpatore ! della sede, parte perchè fu nello scisma consecrato, e j parte perchè nell' elezione ed ordinazione fu ommessa 1' antica consuetudine, cioè il consenso del successore di I s. Pietro. (Ex fragm. Holst. I in De Rubeis M. E. A. c. 22, p. 206, 207; De Rubeis M. E. A. c. 24, p. 216.) Paolino, primario fautore e promotore dello seismo, l'anno 557 congregò in Aquileja un Sinodo per giudicare il concilio generale V. In questo conciliabolo co'suoi suffraganei aderenti allo scisma decise, che la condanna dei tre capitoli l'autorità del concilio calcedonese rovesciava: perciò doversi ripudiare il Sinodo ecumenico V, in cui i tre capitoli erano stati anatematizzati. (Fragm. Holst. 3; De Rubeis M. E. A. c. 24, p. 218; Epist. Pe-lag. I in Fragm. Lab. et Holst. ; Muratori Annali d'Ita-' lia a. 556, p. 962.) Il Padre Martino Rauzer, gesuita, ed il cardinale Raronio narrano, che i Vescovi scismatici hanno conferito a Paolino il titolo di patriarca, perchè 10 considerarono come loro legittimo capo e supremo antistite; quel titolo poscia rimase anche ai Presuli a-quilejesi che succedettero, e furono alla chiesa romana uniti. (P. M. Rauzer Ilist. MS. Rer. Nor. et Foro Jul. 1. 3, n. 8 et 9; Annal. Baron, ad an. 570, p. 493.) Il papa Pelagio I, tostochè venne in cognizione di ciò eli' era avvenuto in Aquileja, ebbe cura di richiamare i dissidenti all' unità della cattolica chiesa. A questo fine ricorse all'autorità di Narsete, il quale invece dell'imperatore governava l'Italia, e gli scrisse in questi termini: Non vi lasciate sedurre dai vani discorsi di coloro che dicono muover la chiesa persecuzione quando reprime i delitti, e cerca la salute delle anime. Non si perseguita allorché si pone freno al mal fare: altramente fa d'uopo abolire tutte le leggi divine ed umane, che comandano di punire i delitti. E che lo scisma sia un male, e che debba reprimersi anche dal potere secolare, insegnano le sante scritture e i canoni. Chiunque è separato dalla sede apostolica, indubitatamente è scismatico. Fate dunque ciò che iterate volte vi abbiamo chiesto , e mandate all' imperatore gli scismatici. Imperocché voi dovete ben ricordarvi di ciò che Iddio fece per voi, quando il tiranno Potila possedea l'Istria e la Venezia, e i Franchi tutto vastavano. Ad onta di queste ostilità, voi non tolleraste che venisse ordinato il Vescovo di Milano, pria di scrivere all' imperatore e di aver da lui ricevuto gli ordini all' uopo necessari : e dal mezzo dei nemici faceste levare e tradurre a Ravenna non tanto il Vescovo eletto, ma anche colui che doveva ordinarlo. Che dirò io dei Vescovi della Liguria, della Venezia, e dell' I-stria cui potete reprimere, e dalla cui rustichezza vi lasciate glorificare ? Se avessero qualche difficoltà intorno le definizioni del Concilio ecumenico tenuto a Costantinopoli, eglino dovrebbero inviare alla Sede apostolica dei deputati capaci di rendere le loro ragioni e di udire le nostre, e non cogli occhi chiusi lacerare il Corpo di Gesù Cristo, eh' è la Santa Chiesa. Non temete dunque nulla : havvi mille esempli e mille costituzioni, che dimostrano dover i pubblici poteri punire gli scismatici, non solo coli' esilio, ma eziandio colla confiscazione de' beni e colla carcere. (Baron, ad an. 556, p. 417; Fleury H. E. 1. 33, p. 468.) Da questa lettera si vede, che nel predetto conciliabolo lo scisma fu confermato, che i Presuli congregati osarono giudicare il Sinodo V, sprezzare 1' autorità della Sede apostolica, rompere l'unità, e lacerare 11 Corpo di Gesù Cristo, cioè la santa Chiesa. Apparisce pure, esser intervenuti i Vescovi della Liguria, della Venezia e dell' Istria, e verosimilmente anche il Metropolita milanese scismatico ordinatore, perchè Pelagio ai Vescovi veneziani ed istriani unisce i Liguri, e chiede che coli' usurpatore della Sede aquilejese venga all' imperatore spedito anche 1' ordinatore milanese. (De Rubeis M. E. A. c. 24, p. 219 et 220. ) Narsete, mosso dalle fervide esortazioni del sommo Gerarca, fu sollecito di reprimere 1' audacia dei Presuli scismatici e di richiamarli all' obbedienza della sede apostolica ; ma che s'ebbe in ricambio?... la scomunica. (Muratori 1. c.) Ciò u-dito il vicario di G. C. scrisse a Narsete un' altra lettera, in cui si congratulava che la divina Providenza avea ciò permesso, affine di preservarlo dallo scisma, e nello stesso tempo lo eccitava a punire il nefando attentato, facendo arrestare e condurre a Costantinopoli i colpevoli, particolarmente Paolino Metropolita, usurpatore della sede d'Aquileja ed il di lui ordinatore. Nella medesima lettera parla d'Eufrasio, vescovo parentino, colpevole di omicidio e di adulterio incestuoso. In un' altra parimenti a Narsete indirizzata, si lamenta di Tracio e di Massimiliano, prelati scismatici, accusati di non aver messo a j entrata i beni della chiesa. Inoltre asserisce, non essere mai stato permesso di adunare un Sinodo particolare, per giudicare un concilio ecumenico. Tutti gli sforzi del papa tornarono inutili. Le zelanti esortazioni e le mi-naccie non poterono estrarre dalla voragine dello scisma i pertinaci. (Baron, ad an. 556, p. 418; Fleury H. E. 1. 33, p. 468, 471; De Rubeis M. E. A. c. 23, p. 212.) Allorché i Longobardi, invitati da Narsete calarono dalle montagne in Italia, Paolino, Metropolita Aqui-lejese e superbo dispregiatore dell' apostolica sollecitudine, temendo il furore di que' barbari, abbandonò Aqui-leja, e coi tesori della Chiesa trasferì la sua sede a Grado, ove depose la mortale sua spoglia, e andò a render conto a Dio della sua ostinazione 1' anno 569 dell' e-ra cristiana. In luogo di lui fu sostituito Probino scismatico', e morto dopo un solo anno di governo Probino, fu eletto Elia, il quale edificò in Grado la Chiesa di s. Eufemia e 1' episcopio. (Paul. Diac. Hist. de gest. Long. 1. 2, c. 10, c. 25; 1. 3, c. 14) Giovanni III e Benedetto I, successori di Pelagio I, e difensori gelosissimi del Concilio generale V, non valsero a sradicare lo scisma. (Berli Brev. Hist. Eccl. saec. YI. e. 1, p. 154.) Dopo la morte di Benedetto I, l'anno 578 fu preposto al governo della repubblica cristiana Pelagio II, il quale, a cagione delle ostilità fra i Greci e i Longobardi, stette lunga pezza senza scrivere ai vescovi scismatici, e si j contentò di esortare Smaragdo Esarca, che era succedu- j to a Longhino, a reprimere la loro baldanza. Smaragdo, ossequioso alle esortazioni del Vicario di G. C., impiegò il suo potere per addurre alla *di lui obbedienza Elia metropolita e gli altri vescovi soggetti all' imperatore : ma gli scismatici, con alla testa Elia, per eludere le mi-naccie di Smaragdo, misero all' imperatore Maurizio una supplica, e lo pregarono di contenere entro i giusti limiti 1' Esarca, promettendogli di celebrare un Sinodo, e di spedirgli gli atti, acciocché potesse egli stesso giudi- ' care. Il Monarca prestò benevolo 1' orecchio alle preghiere degli scismatici, e vietò a Smaragdo di molestarli. (De Rubeis M. E. A. c. 26, p. 229.) Smaragdo conchiuse la pace coi Longobardi, ed allora Pelagio II indirizzò agli scismatici una lettera, in cui così loro parlava : "S. Pietro ricevetle il precetto di confermare i suoi fratelli, e gli fu promesso che la sua fede non sarebbe giammai per mancare : ma per togliere le cattive impressioni , cui avreste potuto ricevere della nostra, sappiate che la è quella del concilio Niceno, del Concilio Costantinopolitano I, del Concilio Efesino e del Concilio cal-cedonese ; e che Noi riceviamo intieramente la lettera di s. Leone scritta a Flaviano„. I vescovi scismatici risposero audacemente, che la questione era decisa. Il Papa scrisse loro una seconda lettera, in cui si lagna di que- sto modo di procedere, e dice : "Se non siete ancora persuasi, inviateci delle persone istrutte, alle quali possiamo : far intendere le nostre ragioni, come abbiamo chiesto all' Esarca Smaragdo. Ovvero se, a cagione della distanza de' luoghi e delle circostanze del tempo, temete inviarci ! dei deputati, radunatevi a Ravenna, e noi colà spediremo i nostri legati, che vi daranno intiera soddisfazione,,. A questa seconda lettera gli scismatici fecero molte ob- ! biezioni. Vedendo il vigilante Pastore che le pecorelle smarrite ricusavano di rientrare nell' ovile, che i tralci erano dalla vite recisi, che gli operai sudavano fuori della vigna, per nulla omettere di ciò che la carità potea j desiderare, scrisse una terza lettera molto più estesa, nella quale risponde a tutte le loro obbiezioni, e tratta a fondo la questione dei tre Capitoli. Una delle più forti obbiezioni era questa : Noi, diceano gli scismatici, abbiamo imparato dalla Chiesa romana di non accettare ciò che fu deciso da Giustiniano : imperocché da principio il papa Vigilio e i vescovi delle provincie latine formalmente ripugnarono alla condanna dei tre capitoli. — I latini, rispondea Pelagio, non intendendo la lingua greca, conobbero più tardi gli errori in questione; ma quanto più eglino furono forti a resistere, finché giunsero a conoscere la verità, tanto più dovete voi esser pieghevoli a prestar loro fede, quando si sono arresi. Voi a-vreste ragione di dispregiare il loro assenso, se dato lo avessero precipitosamente, innanzi di essere illuminati: ma essendosi arresi dopo aver tanto solferto, voi dovete j ben credere che non avrebbero in un attimo ceduto , se j non fossero stati della verità persuasi. Non è biasimevole cangiare d' avviso, ma il farlo per incostanza: quando costantemente si cerca la verità, tostochè si cessa d'ignorarla, si dee cangiar linguaggio. Inoltre il Papa prova, che anche i morti possono essere condannati ; che gli scritti di Teodoro Mopsuesteno, di Teodoreto e la lettera d' lba sono pieni zeppi di errori, e che la loro condanna lascia illesa 1' autorità del Concilio calce-donese. Finalmente con lagrime e gemiti li esorta a ritornare nel grembo di santa Chiesa. (Annal. Baron, ad an. 586; Fleury H. E. 1. 34, p. 596, 599; Pau^/Skc. Hist. de gest. Long. 1. 3, c. 20.) Tutte e tre le lettere del vigilantissimo pastore furono inefficaci, e gli scismatici ebbero 1' ardire di mandar à Roma un' apologia dei tre Capitoli. {sarà continuato) Popolazione del Litorale nel 1843. Nell'anno 1843 la popolazione nel Litorale ascendeva a 486,435 dei quali 244,274 uomini, 242,161 donne, ripartiti in 112,275 famiglie, ricoverali in 66,261 case. Fra questi numeravansi 7264 appartenenti allo stato militare. Venivano in media per ogni miglio quadrato 3497 abitanti. Secondo la religione erano ripartiti nelle proporzioni seguenti: Cattolici 472,168, greci uniti 6, greci orientali 2056, luterani 547, calvini 803, israeliti 3566; d'altre religioni 30.