Anno xri. Capodistria, Gennaio-Febbraio 1914 N. 1-2 PAGINE ISTRIANE PERIODICO MENSILE ANGELO DALMISTRO e l'Accademia dei Filoglotti (Documenti inediti) L'Abate Angelo Dalmistro, rinomato scrittore di sermoni, nei quali nessuno dopo il Gozzi per la tessitura e spontaneit& valse a pareggiarlo, apparteime dal 1815 al 1839 alla illustre Accademia dei Filoglotti di Castelfranco-Veneto, di cui fu socio autorevole ed operoso. Ed in vero la maggior parte delle sue opere sia in prosa sia in poesia, qual pia qual meno, sempre gradite per evidenza di pensieri, per chiarezza di ordine, per sapore di lingua ve-raraente italiana, furono lette in seno deli'Accademia con non poco diletto di quanti accorrevano alle poetiche solennit&, ral-legrate dai versi splendidi, pieni di natura e di sali deli' arguto e faceto Arciprete. Non čredo percib fare cosa ne disaggradevole al tatto, n& inutile pubblicando alcuni scritti inediti e parecchie inte-ressanti notizie intorno al Dalmistro, da me trovati negli Atti deli1 Accademia, tuttora inediti. In alcune mie recenti pubblicazioni ho gi& avuto occa-sione di parlare deli' Accademia dei Filoglotti e del nobile scopo che essa si propose fin dal suo nascere: scopo che fu pienamente raggiunto per la preziosa cooperazione di valenti letterati e scienziati, i quali ascrissero a loro sommo onore di appartenere alla illustre Societ&'). ') O. Ciardulli — Lettere e Poesie inedite di A. Fnsinato ed Er-ininia Fu^. Castelfranco V.to, Stab. Olivotto, 1913. — Giovanni Prati e 1'Accademia dei Filoglotti — Fanfulla della Domenita, n. 16, Roma, 20 Aprile, 1913. — II Collegio Comunale e la R. Scuola Tecnica «Giorgione» — Castelfranco V.to, Stab. Olivotto, 1913. — Luigi Carrer a Castelfranco Veneto — Ateneo Veneto, anno XXXVI, Vol. I, Fasc. 3, Maggio-Giugno, 1913. Uno dei primi posti senza dubbio occup6 in essa il Dal-mistro, il quale, in tempi in cui la nostra letteratura, zimbello d' infinite vicende, venuta allora nelle mani degli Arcadi ri-bellava dalle classiche discipline, pascevasi di frasche, seduceva la gioventu col bagliore dei facili applausi e traeva fuor di cammino maestri e discepoli, seppe trovare una via migliore, nella quale si mise con nobile ardimento, confortato dal Gozzi, che a lui fanciullo aveva dato incoraggiamenti e consigli. Uomo interamente classico, anzi 1' ultimo dei classici, come ebbe a chiamarlo un suo ammiratore, non potč soffrire la scuola romantica, contro la quale noi di rado faceva il viso delle armi. «Badate, era solito dire ai suoi amici, che i nostri rifor-matori seguono le dottrine di una scuola piu straniera che italiana, piu feconda di ardite immagini che di tranquille e matronali bellezze, piu saporosa che sostanziale, piu guidata dal capriccio che da solide leggi; laddove i classici cammi-narono sulle orme di quei sommi che hanno empiuto 1' Italia di sapienza e dottrina. Romanticismo! esclamava. Bella parola b questo romanticismo, di cui nessuno seppe fin qui indicarmi il pretto significato!» *) E intanto nel sermone sul Fior di Zucca, prendendosela con non so qual romantico, disfogava cosi la sua poetica bile: Non gia un serto, una tuniea talare Col suo cappuccio or io vorria, contesta Di flor di zucca i piu vistosi e gai Da porre indosso a Cueulin. Costui Dappria allo studio de' miglior si volse Classici nostri, e pretto latte attinse Alle poppe deli' Itale Camene. Divento quindi buon poeta, e lode Mercossi universal coi carmi. Avea Tra mani ognor il maggior Tosco, a cui Le piu dolci dobbiam rime d' amore, E il cantor ghibellino de' tre regni, Che aspettan 1' uom fatto farfalla. Appresso Cangio avviso, e si die tutto alle strane Settentrionali fantasie, e agli ameni Antipose verzier greppi e boscaglie. Quel rago stil che qualche onor gli fea, ') G. Renier — Alla Memoria di A. Dalmistro — Discorso t^nuto nell'Ateneo di Venezia ai di 18 maržo 1839. Treviso, Andreala, 1840. Dalla peste romantica insozzato, Perd& ad un tempo 1' italiche sembianze, E un mostro apparve. Gigautesche e ignote Alla Crusca parole, gigautesche Con effimera pompa idee vestieno. Cosl di novitft,, cosl del falso Mirabile la foia ahi! fuor di strada Trasse omai Cuculino, quale a' tempi Vetustissimi avea tratto Lucano, Ed il nostro Marino ai men vetusti. Delle nordiche muse dalle gonfle Mamine di latte invece esce cervogia, Che 1' estro ai vati ed i pensier infosca: Sazievol bevanda ai delicati Abitator del bel paese pošto Ali' Apennino in mezzo e ali' Alpi e al mare. Noi le greche deggiam, noi le latine, Che alfin Romani siamo, amar sorelle Pimplee oltre alle nostre. Un vincol tienle D' afflniti eongiunte, e rispettarlo, Quale piu sacra cosa, a noi si addice. Dappoi che Cuculin la uuova scuola, Al giudizio de' savi detestanda, Segui, s' e fatto piu protervo e sprezza Gli autor vecchioni, onde va Italia altera, D' ogni arte Italia insegnatrice altrui, E per Cigni solenni avventurosa. Se figlio della spada (oh frase d' oro!) Ei chiama un guerrier prode, quind' innanzi Figli del naso chiamera gli occhiali, De' quali tanto abbisogna..... .....A me reca soperchia Nausea quel suo cambiar al nebuloso Pesante aere del norte il seren vago Del puro italo cielo. Ove tessuta La tunica non sia, che lo imbacucchi, Abbiasi il serto. Credimi: a piu degne Tempre intorno non corse il flor di zucca. Dell' assiduo studio dei classici non mai rimesso finche gli durarono salute e vigoria splendidi frutti ritrasse il Dalmistro, che si acquist6 farna sopratutto per i suoi Sermoni, nei quali, imitando il Gozzi, prosegui la tradizione veneta del sermone d' arguto sorriso senza malizia ne collera. «E cio forse avvenne, dice il Renier, perche negli altri generi di poesia informando egli lo stile a modelli conosciuti e per avventura non facile alla inventiva n6 sempre fornito di ali atte a sublimi voli, traeva d'ordinario alla imitazione; laddove nel sermone, genere pacato e festivo, tutto conforme alla sua natura, non avea d' uopo di altro sforzo che di ordinare e vestire i concetti, che pronti e facili gli fluivano dalla mente e dnlla penna maestra»'). * * * Nel 1813, dopo essere stato parecchi anni a Masero, a Martellago, a Montebelluna, il Dalmistro ta nominato Arciprete delle Coste Asolane, dove visse fino al 26 Febbraio 1839. Essendosi il 1 Aprile 1815 costituita in Castelfranco-Veneto I'Accademia dei Filoglotti, egli fu invitato a farne parte, anzi venne per la sua riconosciuta autorit& eletto alla carica di censore. Grandissiraa fu la sua operosit& sia come censore, sia come socio, specialmente nei primi anni, in cui intervenne a quasi tutte le sedute mensili e alle Accademie poetiche annuali. Siccorae il fine che la Societ& si proponeva era quello principalmente di promuovere il decoro sempre maggiore della bellissima lingua toscana, due Censori, i quali venivano trascelti fra i piu colti e sperimentati dei soci, dovevano pri-vatamente rileggere ogni Memoria letta in piena Societi, onde notarvi li mancamenti isfuggiti alla diligenza deli'Autore, se alcuno per avventura ve ne avesse. In fatto di lingua dovevano i Censori rendere segreta-mente avvertito 1' autore di tutte le voci e maniere di dire che non corrispondessero ali' indole della nostra favelia, affin-ch6 ne potesse seguire una sollecita ed opportuna correzione. In fatto di pensiero dovevano disaminare la tessitura, 1' ordine, la condotta ed il modo di ragionare tenuto in tutta 1' orazione, e rendere avvisato 1' autore di qualche mancamento contro il buon raziocinio, che notar si potesse nella sua scrittura. Era inoltre loro dovere di conservare speciale memoria si delle scritture lette, come deli' intrinseco loro merito, e di annunziare nel momento della relazione che veniva fatta dal Segretario pubblicamente, a lode deli' autore, il titolo di quelle che piu degne fossero di essere coronate, se non col premio, almeno coll' applauso accademico. l) G-. Renier. Op. cit. Insieme con altri due Censori straordinari, nominati dal Presidente, esaminavano con diligenza le opere di quelli che nella pubblicazione delle stesse volevano intitolarsi Accademici dei Filoglotti. In fatto di lingua non dovevano dipartirsi giammai dalle decisioni del celebre Vocabolario della Crusca e dali' esempio degli approvati scrittori. Dovevano assoggettare ad una prova letteraria quelli che non conosciuti d' altronde per la celebritž, del loro nome, o pel merito di opere pubblicate, domandavano di essere ascritti all'Accadeniia; e dare una segreta relazione al Presidente sul valore di quelli che fossero per ascriversi, onde potesse il raedesimo conoscere se dovesse o no proporli a tutta la SocietA, di cui richiedevasi 1' unanime consenso per 1' ammissione '). * * * Rilerisco per ordine cronologico le letture sia in prosa sia in poesia che il Dalmistro fece in seno all'Accademia, dando un piu ampio cenno di quelle che per avventura sono ancora inedite. Nella seduta dl 1 giugno 1815 il D. lesse una novella friulana, II Timore, il cui argomento era: II Magnifico Messer Antonio Savorgnano al Pertica suo amorevolone, il quale at-testava con mille sagramenti se non conoscere timore, tal beffa ordisce, che il fa morir di spavento. Q,uesta novella e le poche altre del Dalmistro, che tra i molti novellieri di quei tempi merita una qualche menzione, fan riprova, insieme con le raccolte che se ne facevano per utile delle scuole, che alle novelle allora si richiedeva quasi principalmente quelle che parevano eleganze di dicitura 2). Per 1'Accademia poetica del 14 dicembre dello stesso anno, nella quale fu trattato come argomento <11 secolo di Leone X», il D. compose un sonetto in lode di Baldassare Castiglione, che mando al Rettore Soldati, Presidente deli' Ac-cademia, con la seguente lettera: Leggi deli' Accademia. de' Filoglotti di Castelfrauco. Treviso, Tip. Trento, 1816. 2) G. Mazzoni. L' Ottocento, pag. 135, Edit. Fr. Vallardi, Milano. Signor Rettore, Presidente venerato, Voglio attenere la mia parola, comuiique io il faccia. Eccole un sonetto per 1'Accademia uostra, che fara Ella recitare da qualche suo putto. Ho in pronto 1' Elogio del Gozzi, col quale amerei di dar principio alle sedute di quest' anno. Se in dicembre si ripiglia 1' esercizio nsato, nel primo giovedi di tal mese io costA verro a leggere; e la lettura sarA adatta alla stagione, cioe breve. Attendo i riscontri di Lei. Mi fara il piacere di salutare in mio nome 1'Arciprete Ballico e i bravi maestri Benetelli. Mi čreda qnale con piena stima mi giuro Coste 27 Novembre 1815 di Lei Aff.mo Servo ed Amico Angelo Dalmistro Ecco il sonetto: Baldassar Castiglione Poeta, Soldato e Vescovo. E tu sul Tebro pur d' ogni beli' arte Hai stanza, o Castiglion, nel secol d' oro, Mentre rappella colle trecce sparte L' egra Ippolita indarno il suo tesoro *). Fascino al ciglio la Citta di Marte T' offre nell' opre d' iinmortal lavoro, Fascino al cor, di Dio che tanta parte In se delle virtu chiude tra il cor o. Tu compagno a Leon, che a te disciolto Dal laccio marital novo prepara Serto, vivi in que' dotti ozi sepolto. N6 mal t' avvisi; che, se penna e spada Fur trofei di tua gloria illustre e chiara, A piu nobil trofeo t' apri la strada. Nella sedata del 4 aprile 1816 lesse la Vita del Co. Ga-spare Gozzi, la quale precede le Opere del Gozzi, edite a cura dello stesso Dalmistro. Nella seduta del 9 gennaio 1818 lesse V Elogio a Francesco Algarotti, gik annunziato al Pup-pati colla seguente lettera: A. C. Voi dovet.e avvertire codesto vostro Sig. Presidente e il Sig. Segre-tario che la mattina degli 8 vetituro Gennaio io saro a leggere nella nostra Accademica sessione la Vita del Conte Francesco Algarotti..... Ho avuto ed ho ancora un pertinace raffreddore, che fammi star male e Ippolita Torella fu moglie del Oastiglione Mantovano, che rimasto vedovo venne promosso ad un Vescovato. Vedi 1' Elogio di lui scritto dal Dott. Vincenzo Benini di Cologna. menar giorni tristissimi. Spero pero di avermi a liberar presto da simil molestia, che proprio mi tieue oppresso, e non mi lascia fare il mio dovere. Amatemi e credetemi Coste 23 dicembre 1817 II vostro aff.mo Amico Angelo Dalmistro Nell'Accademia poetica del 23 luglio 1813, il cui argomento furono «1 secoli storici d'Italia*, il Dalmistro lesse alcuni versi sciolti in lode alla Italia. In quella del 5 maggio 1820, ch'ebbe per tema «Le Donne celebri della santa Nazione*, lesse due bellissimi idilli su Ruth, che furono poi pubblicati nella Raccolta del 1823 in occasione della nomina a vescovo di Ceneda del socio accademico Ia-copo Monieo 4). A questa Raccolta, la sola che sia stata pubblicata per cura e a spese della Accademia, prese vivo interesse il D., come rilevasi dalle seguenti lettere inedite, dirette al Puppati. Sig. Lorenzo mio Preg.mo ed Amico, M' immagino ch' Ella a quest' ora sarassi dato a far imprimere la Raccolta dei componiinenti per Mons. Monico. Si ricordi che il tempo si va restringendo, e che non bisogna piu prendersela a beli' agio. E' facile che alla fine di Ottobre ei faccia 1' ingresso. Sono io dunque a pregarla che mi faccia tirare della Ruth un centinaio di copie a parte nella carta medesima della Raccolta e sei copie in carta distinta, ch' io paghero della carta e della tiratura ogni spesa. Alla Minerva io sono conosciuto, e ba-sterft che Ella significhi al Sig. Direttore questa mia premura. II fronti-spizio sia il seguente: Idilli due deli' Ab. Angelo Dalmistro tratil dal sacro Libro di Ruth ln Padova ecc. L' avverto che la prima nota nelle copie a parte va levata via, e lasciata soltanto la seconda, che sta in calce del primo Idillio. Si raccomandi al Sig. Direttore per la buona ed esatta correzione essendo egli valente uomo assai. SarA, bene che anch' Ella dia un'occhiata alle stampe innanzi che vadano in torcolo. Consegneri di grazia 1' acclusa ali' amico Carrer. Mi čreda Coste 20 settembre 1823 II suo aff.mo Ser. ed Amico Angelo Dalmistro ') Alcune Poesie inedite di argomento sacro degli Accademici Fi-loglotti di Castelfranco, Padova, Tip. della Minerva, 1823. E pochi giorni dopo scriveva ancora: Sig. Lorenzo mio stimatissimo, Non c' e piu da temporeggiare su la stainpa della Raccolta per il Vescovo Mouico, come Ella avra compreso dalP altra mia, che pel suo piu pronto e sicuro ricapito ho data commissione a un Amico di recare alla Castrofrancana di lei abitazione, pensando anche che lo si potesse trovare cola. La lettera era gravida di una ali' amico Carrer, a cui šara stata da lei renduta. Sul proposito dei miei dne Idilli Ella avra inteso il mio divisamento, il quale desidero abbia effetto nelle convenienti maniere, cio6 pagando io la carta delle cento copie a parte e delle sei in earta distinta, non meno che la tiratura, e non volendo altre bozze, fuor quella della composizione, la cui spesa 6 inserta nella totale della Raccolta. Cio b giusto. Io la eccito dunijue a darsi fretta, accio la cosa non abbia a farsi a precipizio con poco decoro della nostra Filoglottica Aceademia. Ella si rivolga al degno e bravo Sig. Giuseppe Campi, Direttore della Tipografia della Minerva, e rimarranne bene ed elegantemente ser-vito. Si ricordi di sbandeggiare nelle copie a parte la nota ms. al primo Idillio, lasciandovi solo la seconda, come. le scrissi, e di far si che la correzione sia a d unguem et ad amussim...... Mi conservi il suo amore, e mi čreda pieno di stima Coste 25 Settembre 1823 II suo aff.mo amico Angelo Dalmistro P. S. Nell' altra mia mi ricordo essermi rimasto nella penna il titolo per le copie a parte da porre sul frontespizio, che ho cominciato con Idillii due ecc. Ora debbe dirsi come segue, e come čredo stia scritto di mia mano in fronte ad uno di essi componimenti: La Spigolistra fortunata Idillii due dell'Ab. Angelo Dalmistro tratti dal sacro Libro di Ruth La prego di subito avvertirmi, se mai la Raccolta meditata non avesse effetto, ch' io disporro altramente delle mie zacchere. La Raccolta usci alla luce subito dopo, ma il Dalmistro ne rimase poco contento. Sig. Lorenzo pregiatissimo La ringrazio, benche alquanto tardi, delle copie a parte della mia Spigolistra, ali' importar delle quali ho gia supplito. Avreila veduta vo-lentieri ricomparirmi innanzi senza mende tipograflche, come io sperava, ma non potei avere tale consolazione. Oltre che la nota appartenente al primo Idillio e posta in fine del secondo senza un po' di asterisco, o altra chiamata, v'ha nel primo colla saccci invece di colle sacca; e nel secondo una virgola in luogo di punto ferino. Quest' ultimo errore mi da meno noia deli' altro, che mi richiama alla mente la bisaccia di fra Giunipero. Cio fa ch' io lasci dormire le dette copie, che avevo fatto tirare per farne preselite agli amici. E' vero che gli errori accennati corsero anche nella Raccolta; ma non per questo io debbo mettergli sott' occhi a chi non gli ha veduti e forse non vedralli mai. La Raccolta ha di belle cose, comin-ciando da quelle del bravo Vescovo, ed hanno di quelle che vagliono assai poco, e di quelle che recano disonore aH'Accademia nostra precisamente. Non ci voleva parzialit& per alcuno : si doveva scegliere tra gli Accade-inici di que' scrittori, che vanno per la maggiore. Se si desiderava qualchc componimento in laude del Prelato, perch6 nol si chiese ai Pulieri, ai Fassa, ai Gobbati, ai Renier, che avrebbero poetato meglic di colui dali' Oglio, il quale compose tal Sonettaccio, ch'e un' effettiva indegnita? Colui e un Oglio di ravizzoni, e non delle palladie olive. 11 lettore pero rimane com-pensato dalle Terze Rime di Lei, e dali' Ode del nostro Luigi Carrer, cui Ella 6 pregata di salutare caramente coll' ottimo Fratello e Cognata di lui degnissima. Alle quali salutazioni ne aggiungera una al Sig. Campi, ed altra al protervo Beltrami, che con n io dolore intesi essere stato ammalazzato in Venezia. Se il sonetto del prelodato Dali' Oglio fosse quale io 1' ho ridotto, stando su 1' orme sue, sarebbe, se non bello, almen comportabile '). Ma ribalderia simile chi puo soffrire? E non sono io un pazzo nell' andar dietro a simili cianciafruscole? Ah! 1'onore accademico comedit me. Mi ami e mi čreda Coste d'Asole 19 Gennaio 1824 II suo aff.mo Servo ed Amico Angelo Dalmistro Nella importante seduta del 28 febbraio 1821, in cui si discussero i vari programmi per 1'Accademia annuale, il Dalmistro lesse una novella, intitolata «1 due Medici*, e il Parere sulla Ortensia del Sografi. Non so se questa novella del Dalmistro, che meriterebbe di essere accolta in tutte le Antologie per le Scuole medie, sia mai stata pubblicata, ma io čredo sia pregio deli' opera ripor-tarne qui almeno la interessante introduzione : Ecco la riduzione del sonetto : Al Genio di Castelfranco Geuio divin, se a te giammai fu cara Del sonante Muson la vaga sponda, Che di sublimi ingegni ognor feconda Va d' etade in eta per te piu chiara, Vien: trionfo novel ti si prepara, Or che la fronte a un tuo Figlio circonda Giunta aH' aonia gloriosa fronda Aspra per gemme vescovil tiara. Vieni, e lo scorgi a' Cenetensi colli, E de' cantici sacri infra il concento Al grado eccelso di tua man lo estolli. E il grand' atto tra innumere persone Noteran, ebbre del comun contento, L' Ombre dei tre Riccati e del Giorgione. «Se la virtu, abito deli' animo riobilissimo e d' inestimabil valore, procacciar a pronti contanti si potesse, come fassi degli abiti del corpo, anzichfe colla fatica e col continuo voltar di libri, e fossevi una bottega, dove o al minuto o ali' ingrosso la si vendesse, noi non udremmo la bracata ignoranza degli opulenti cinguettare fino alla nausea per diritto e per rovescio ne' caffe scioperati, e ne' conversevoli crocchi, e spropositi sciorinare a bizzefle. Sarebbono in quella vece tutti i ricchi dottoroni solenni, 116 avrebbono chi loro andasse innanzi, e li superasse nel fatto della virtu. Ma ] oiche questa si acquista col fare e soffrir molto, e si paga a sudori, rado e che le genti altamente nate e doviziose vogliano di proposito darsi a cercarla per renderlasi compagna nel breve giro di una vita quanto penosa, altrettanto fugace, quale si e quella deli' uomo. Cio nasce da quell' avversione, che desse hanno alla fatica, troppo fino dagli anni teneri aeeostumate ali' ozio infingardo e alla mollezza e a' pa-terni e materni accarezzamenti. Quindi addiviene che diventano, parlando sempre e non ragionando mai, oggetto di riso e di cachinni nelle colte, e talvolta eziandio nelle incolte brigate, e che tardi si pentano di non aver studiato e fatto del prezioso tesoro del tempo quel conto, che far si debbe. O voi, bennati giovanetti, che in questo sacrario delle scienze e delle arti foste da' vostri genitori, perchč le appariate, locati, crescete alle loro speranze, ne non vogliate frodarle col non fare buon liso di quel tempo, che fuggito non torna piu, e di que' talenti che Dio vi commise, quando non vi piaccia, abbracciata che avrete quando che sia una pro-fessicne civile, od un' arte ingenua e liberale, far la figura deli' uho de' due Medici, che costituiscono il suggetto della seguente novella, la quale alla vostra istruzione 6 specialmente diretta*. Quale fosse il parere del Dalmistro intorno ali' Ortensia del Sografi possiamo facilmente comprendere dalla seguente lettera, diretta allo stesso Sografi, dotto di latino, il quale, salito in farna fin dal 1794 pel Werther, sceneggiato sul ro-manzo del Goethe, senza il suicidio, dopo quattro anni di la-voro nel 1811 pubblico 1 'Ortensia, commedia storica con la versione latina a fronte: Amico gentilissimo, Non mi poteva cader sott' oechi di questi giorni piu dilettevol libro, ne piu erudito della bellissima vostra Ortensia, che mi ha propriamente ricreato colla varieta de' suoi quadri maravigliosi, tutti ben lavorati e con fin' arte condotti. Sovviemrni ancora deli' alta impressione, che dessa in me fece, quando in Vinegia venne la prima volta rappresentata, e degli applausi non ordinari, che dagli spettatori riscosse, senza che avesse d' uopo di accettarli col surgite e col plaudite degli antichi. Che se la mi piacque recitata, letta piacquemi molto piu. Nella recitazione di un pezzo drammatico non e sempre dato a chi ascolta scoprirne a tutta prima le recondite bellezze, e 1' artificio maestro, ond' 6 architettato, pregi che si riscontrano nella riposata lettura, e nella seria meditazione di esso. Cresce la Commedia vostra in leggendosi, e tanto graudeggia piu, quanto piu vassi innanzi, e crea aH' anima quella grata illusione, che ne trasporta soave-mente e rapisce sui sette colli; del qual rapimento e' risentesi soltanto quando n' e giunto alla fine. Questo effetto della bonta del dramma e il maggiore e il meno equivoco eontrassegno: questo n'e proprio la pietra del paragone a eonoscerne 1' eccellenza. Non e poi impresa manco piena di pericoloso giuoco 1' eleg'antissima e affatto terenziana versione, che stanne a rincontro, nella quale, a mio debol giudicio, non saprebbesi de-siderare di piu, si per la sceltezza delle frasi e maniere di dire in tutto accomodate al genere comico, si per la feliciti e facilitž, di adoperarle ad esprimere con naturalezza e proprieta nella madre i concetti sottostanti alla lingua figlia. Cio non puo farsi se non da chi possiede, come voi, in tutta la sua estensione il maestoso idioma del Lazi o. Se la vostra Ortensia debb' esser cara in ogni tempo agli ainatori delle sceniche rap-presentazioni, come Commedia d' argomento nuovo e grande, giacche sempre non giova ridere alle spalle d' un vecchio burbero e spilorcio, o d' uno scaltrito servo furfante, che ti baratta le carte in mano, o d' un povero marito messo alla disperazione da una moglie bizzarra e indomabile, le discorsive postille, onde va corredata doviziosamente, formar debbono la delizia di tutti coloro, che mostransi vaghi d' istruirsi delle Romane antichita con poca fatica. Sono esse altrettanti storici squarci dinotanti gli usi, i costumi, i riti religiosi e le superstizioni pur anche e i pregiudizi d' una nazione potentissima, che signoreggio 1' universo, finche gli uomini indurati ne' fieri ludi di Marte attesero a difendersi dagli esterni nemici, e ad amplificare piu sempre 1' impero, e le donne alla conocchia e al buon governo delle famiglie, e che in appresso perdette a poco a poco il dominio, quando, intiepidito ne' loro seni il patrio amore, gli uni si abbandonarono alla mollezza e al lusso asiatico, e istigati dali' ambizione presero a farsi la guerra tra loro, e a dividersi in pochi quelle conquiste, le quali costarono il sudore e il sangue di tutti; e le altre passarono dali' util travaglio ad inerte e morbida vita e alla piu sfrenata dissolu-zione, e ad ogni nefandigia. Questa considerevole giunta alla derrata rende il vostro lavoro interessante assai, per dirlo modernarnente, e d& la storia compiuta degli anni ultimi d' una Repubblica celeberrima, la quale stavasi agonizzando appunto allora, che piu fiorente sembrava. E mentre ne toccate leggiermente e senza pedanteria gli avvenimenti politici, ite descrivendo, secondo che cade in acconcio, e templi e teatri e triclini, e terme e circhi e pubblici altri edifici e pri vati, che porgono nelle vostre descrizioni un' idea chiara deli' antica Roma, e tengono immoti a contem-plarli, quasi gli avessero sotto gli occhi, gli amatori delle arti. N6 a ciascun atto della gran Commedia voi apponete le chiose e postille alla guisa stessa, come fassi dai piu, ma ne diversificate il modo, talche 6 un piacere 1' abbattersi nel quarto a quelle eruditissime lettere Romane, dettate in pretto stile ciceroniano le quali a maraviglia il rischiarano, e a que' dialoghi saporiti, onde vann' elleno seminate, i quali sentono tanto della Lucianesca giocondit&. E' poi grazioso quel giretto che fa Ortensia nella lettera ottava per 1' inferno Romano, dove trova, fattoselo duca e cavalier servente, Plutone, che sveste alcun poco per non ispa-ventarla la tremenda sua orribilita e rendesi un Dio alla mano, nepoti di Romolo deli' uno e deli' altro sesso in gran copia e dove instituisce un dialogo con Ottaviano e il re delle ombre, presso al quale, parlatrice bella qual era, prende le difese di questo suo concittadino, e tesse un' ora-zione si calzante, che Plutone, punto sul vivo, si rincagna e riprende le sue terribili sembianze e mette per subitanea collera sossopra gli abissi, mentre la brava donna smuccia via a volo sopra la risplendente nugoletta, ond' era accolta, e si salva, o per dir meglio si toglie prudentemente agli effetti di quello sdegno, che potuto avrebbe tornarle funesto. Ma tutte queste cose danno a leggersi un gusto inenarrabile per la evidenza, con che son dette, e per li caratteri naturali, che vi si veggono espressi, delle persone. Sografi mio, dabbene e valoroso, voi colla vostra Ortensia avete saputo mescere 1' utile al dolce, ch' 6 quel piu che far debbe e puo uno scrittore, e, che a tutti non 6 concesso di fare. Seguite ad esercitare 1' ingegno e la penna, giacehčs avete pel corpo 1' anima di Terenzio e di Plauto, nel prendere dalle storie i suggetti delle vostre urbane Commedie, come prendonsi quelli dei Drammi per Musica, e......... La storia Romana, della quale tenete si profonda cognizione, non man-chera di somministrarvene, massime se gli ripescherete in que' tempi, ne' quali La gola, il sonno e 1' oziose piume Avean da Roma ogni virtu sbandita. I tempi primi e i medii di Roma porgono abbondevol messe di argomenti a Melpomene; gli estremi a Talia. Avrete cosi la gloria di avere riformato il Teatro comico, battendo una strada non battuta da altri e surrogherete alle scurrilita indecenti de' vecchi autor di Commedie, appoggiate ad accidenti immaginari e verisimili la salsa piccante di ri-dicoli fatti reali, che concilieranno a' vostri lavori di tal genere grande estimazione, come a voi sommo onore. A rivederci costa fra alquante settimane, che certo non saran quelle di Daniello. * * * II 29 agosto del 1821 si tenne 1'Accademia poetica, che ebbe per argomento «Le Piante», ed il Dalmistro lesse 1'ele-gante poemetto II Fico o la Coltivazione del fico, come fu intitolato in un'edizione corretta ed accresciuta, con le eleganze solite a quella scuola di classicbeggianti, quivi piu ricche, e insieme affettate, di lingua foggiata sulla tradizioue toscana a mo' dei puristi'). Di questo comjponimento georgico, diviso in due parti, cosi scrisse il Bianchetti2): i) G. Mazzoni. Op. cit., pag. 80. 4) Continuaz. del Giorn. delle P. V. n. V. Bimestre di luglio e agosto 1830. «Mi par vero altresi che il componimento georgico del Dalmistro, se non contiene molta poesia, 6 pero degno in tntto del nome che 1' au-tore suo gode di purissimo scrittore di lingua e di eccellente fabbricatore di versi. Poesia ve ne ha in quel canto di Cecco; e ve ne ha, perchš la materia di quel canto il Dalmistro la tolse netta dalla natura osservan-dola in uno di quegli atti, che se sono rari, sono pure verissimi per quelli che vivono tra i villani e li studiano». Nell'Accademia poetica del 28 agosto 1822 furono cantati i Monti, che per tradizione remota, diceva la circolare, o per meravigliose e recondite operazioni della natura invitano a profonde meditazioni la mente, e ridestano nell' animo remini-scenze soavi o funeste; e il Dalmistro cant6 con un sermone i Colli Acelliani. In quella del 27 agosto del 1823, che ebbe per argomento «Le Arti Liberali», il nostro poeta lesse un sermone in lode di Dante. Nella relazione inserita nel Giornale delle Provincie Venete, ecco cosa ne scrisse il Carrer: «In seguito l'Arciprete Angelo Dalmistro lesse 1' elogio di Dante Alighieri, come di quell' illustre che in sfe mirabilmente accoppio il doppio merito di straordinario poeta e potentissimo oratore. Tale 6 la fama di cui gode 1' Ab. Dalmistro presso quei tutti che non sono stranieri alle lettere, che sarebbe patente superfluita il tesser lungo ragionamento dei molti pregi onde rifulsero gli sciolti letti per esso. L'Ab. Bettinelli n'ebbe un tal ripicco per quelle sue apocrife lettere Virgiliane da sentirsene andare al cuore la stizza anche nell' altro mondo. Che se non si puo egli piu cancellare quelle matte scritture, ben si asterranno dal toccarle come cosa infetta ed ammorbante i giovanetti, tali e si gravi sono gli avvisi che 1' illustre nostro Arciprete diede loro nell' atto che descrisse vestita di tutta la matronale sua pompa la vera poesia». * * * Per due anni il Dalmistro non prese parte nš alle sedute mensili, alle Accademie poetiche del 1824 e del 1825; ma in quella del 14 ottobre 1826 lesse il sermone Aneddoti par-rocchiali, e in quella del 4 ottobre 1827 il sermone Vita celibe e Vita coniugale. Si presentč per 1' ultima volta nel Teatro Accademico di Castelfranco, neH'Accademia poetica del 1 ottobre 1829, come aveva promesso al doit. Trevisan, Presidente, nella seguente lettera del 19 settembre: Sig. Dottor veneratissimo, Ella non dubiti punto della mia venuta costa pel primo Ottobrc, e molto meno deli' adempimento deli' assunto impegno. II Sermoue e gia preparato da qualche settimana. Cosi piaccia a Febo cbe questa mia senile bazzecola risponda alla espettazione graziosa dei nostri Coaccademici, e di Lei singolarmente. Con che desiderando di rivederla in quella buona salute in che sempre la trovo, riverentemente mi protesto Coste li 19 settembre 1829 Di Lei stim.mo Sig. Dottore Der.mo obblig.mo Amico Angelo Dalmistro Essendogli toccato di cantare il Fior di Zucca, lo fece piacevolissimamente in un sermone, di cui ho riferiti innanzi alcuni versi a proposito delle sue idee intorno al romanticismo. Ma oramai cedendo insensibilraente alle leggi della natura, il D. non corapariva tra le genti, sentiva venir meno le forze della vita e le intellettuali potenze. II 26 febbraio 1839 giunse a Caste!franco la triste nuova della sua morte. Nella seduta accademica del 13 giugno dello stesso anno Don Giovanni Renier lesse 1' elogio in onore d?l compianto illustre socio, rievocando con parola commossa ed affascinante le elette qualit& deli' uomo, dello scrittore e del sacerdote. * * * Nel 1822, quando mori Antonio Canova, 1'Arciprete del-1'Asolano San Vito, Iacopo Monico, che pili tardi fu Patriarca di Venezia, pronunzič una splendida orazione in lode del suo amico carissimo, il rinnovatore della scoltura in Italia. II Dalmistro, per indurre il Monico a pubblicare 1' elo-quente discorso, gl' indirizzd il seguente sonetto: A Mons. Iacopo Monico eletto vescovo di Ceneda Sonetto Parenetico di Angelo Dalmistro Iacopo, o tu che con ornati modi Ali' Italico Fidia deplorato Tessesti lungo il suo feretro ombrato D' atri panni immortal serto di lodi; Dimmi, perche del bel lavor noi frodi, A' quai divien quantunque indugio ingrato ? E il duol a crescer cui reconne il fato II comun voto o non curi o non odi? Cosl presto 1' onor della Tiara Ti ricinga le tempie, a' rai del giorno Traggi dal chiuso scrigno opra si cara! L' attende Italia: il vero io non ti celo, Che or pago Anton del novo suo soggiorno Cose non pregia che non sian di cielo. Vale, Praesul amplissime, et me ut facis ctma. Ex meo Costensi recessu IV Id. lan. 1823. E Mons. Iacopo Monico, non indegno figlio delle Muse, cosl di rimando: Ali'Arciprete delle Coste Asolane Angelo Dalmistro Fior di letteratura e cortesia 1'Arcip. delVAsolano San Vito Iacopo Monico Ahi, di catene cento e cento nodi Geme 1' animo mio stretto e gravato; N6 speranza il ricrea di questo stato Quale in seno ai Costensi ozi tu godi! Questo e ben altro ch' uorn la lingua snodi Empiendo di clamor foro o Senato ; Altro che in carta con sermone ornato I vaganti pensier stringa e rannodi. Ecco perch6 flnor con mano avara Chiuso serbai lo scritto disadorno Di rimembranza eternamente amara Ma pur presto il vedrai 1' opposto velo Squarciare; e gli vedrai fors' anco intorno Tanto di voti ardor cangiarsi in gelo '). S. Vito 17 Gennaio 1823 * * * Di parecchie altre lettere inedite riferisco solamente le due dirette al Puppati, perchč in esse si fa menzione di alcuni sermoni del Dalmistro, non compresi nella raccolta del Veludo*). Sig. Lorenzo Amico dolcissimo, Le mando tre miei Sermoni stampati per le Nozze di una mia Fi-glioccia nel mio carnevalesco soggiorno in Venezia, dove furono bene accolti. Spero che non le dispiaceranno. Se me ne restasse altra copia, *) Tanto il sonetto del Dalmistro che quello del Monico si trovano tra gli scritti inediti deli'Accademia. 2) Gio. Veludo. Scelta di Poesie e Prose edite ed inedite. deli' Ab- Angelo Dalmistro. Venezia, Tip. di Alvisopoli, 1851. mandereila volentieri aH' amico Pagello, ma 11011 ho che 1' unica di che fo dono a Lei. Ella po tri slineno farglieli leggere........ Fara grazia di significare al Segretario della nostra languente Accademia che ho ricevuto la lettera di lui, e che saro costa nel giorno assegnato a recitare quanto m' impeg'nai di comporre e che non dubiti punto per conto mio. Ella vogliami bene, e mi čreda Coste, 10 maržo 1890 II suo aff.mo Servo ed Amico Ang. Dalmistro Sig. Lorenzino preg.mo Mi prendo la liberta di offrirle un esemplare di un mio libretto su la lingua. Esso 6 un tessuto di versi e di prose, che puo forse non dispi?.-cerle per la sna varieta. Qualunque sia il pregio intrinseco deli' opera, Ella 6 pregata di aggradirla e di compafcirla. Del qual compatimento parmi esser certo, se a riguardare mi fo la di Lei bontšt. Io sto benissimo e voglio sperare sia lo stesso di Lei e deli' ottima Famiglia tutta .... Senza piu mi raffermo con piena stima Coste, 18 maggio 1822 Di Lei Obblig. aff.mo Amico Angelo Dalmistro * * Dopo lo studio magistrale di A. Serena intorno alla Vita e alle opere deli' arguto Arciprete delle Coste Asolane ') ed il giudizio assai lusinghiero del Mazzoni 2), mi sono indotto a pubblicare questi pochi scritti inediti e le notizie che riguar-dano 1' attivit& del Dalmistro quale socio dell'Accademia dei Filoglotti, col solo scopo di far conoscere ai concittadini di Giorgione gli uomini piu illustri, che nella prima met& del secolo passato contribuirono a dar rinomanza e decoro alla loro Accademia, non ultima certamente tra le tante che flori-rono nel Veneto. Ottone Ciardulli 1) A. Serena. Su la Vita e le Opere di Angelo Dalmistro. Verona, Tipogr. Annichilini, 1892. 2) G. Mazzoni. L' Ottocento, pagg. 80, 82, 91, 135, 148. Edit. Fran-cesco Vallardi, Milano. DIGNANO NEI RICORDI. Feste, usanze, superstizioni *) Natale coi tuoi. E con questa consuetudine il Natale a Dignano fu sempre la festa della famiglia per eccellenza. Non vi h figliuolo che, potendolo, non la celebri nell' intimita della propria časa, nell' ambito del focolare domestico, attorno al desco poveretto, arricchito in quella sera di vigilia dalle an-guille e dal tripudio verecondo, smorzato pur qualche volta dalle bocalete di terrano sguardo e frizzante e dalle fiasche di vino di Kosa dolce e profumato. E comecch6 tutti gli usi vadano a poco a poco perdendosi e tutto concorra a raodificare la fisionomia dei luoghi, pure a Dignano la festa di Natale ha sempre qualche cosa d' intimo e ogni anno che fugge essa segna si un passo calmo verso un rinascimento morale che abbandona le vecchie superstizioni medievali, ma certe usanze, certe abitudini Dignano le vuole a Natale nell' intimita del focolare. Nei giorni che precedevano la festa era un continuo af-faccendarsi in famiglia per mettere in assetto la časa. La cucina veniva imbiancata, gli oggetti di rame puliti e nitidi luccicavano appesi alle pareti della cucina, bene intonati nella tinta col granone giallo dorato pendente dalle travi. E mentre la donna nella vigilia era tutta intenta alla časa, a procurare ed a pre-parare i cibi, 1' uomo in quel giorno e nei precedenti andava alla campagna per le legna, per il ceppo e per i sarmenti che in abbondanza dovevano alimentare la fiamma sul focolare nella mistica sera. Gi& nelle prime ore del pomeriggio si poneva sul basso focolare il suco (ciocco), il ceppo, si attaccava il fuoco ed ali' ora dell'Ave Maria era ben acceso e cosi illuminava 1' am-biente scarsamente rischiarato dai lucignoli delle fiorentine. II ceppo 6 ancor vivo nell' uso. Dalla finestra aperta della cucina si sparava un colpo di pištola o di fucile e quello era il segnale che precedeva *) La ,s sorda viene trascritta con s, la s sonora con /nel garamone, con z nel testino. la preghiera e la cena. Si sparava al cambiarsi delle vivande, e fra 1' allegria si sparava ancora a cena finita. La famiglia intanto era visitata da qualche amico che dopo cena veniva a passare la sera per giocare e per ridere. Fra tanti giuochi npn mancava mai per tenere allegra la societ& il giuoco della bronsa e della pignata. I famigliari e gl' invitati si mettevano in cerchio in mezzo alla cucina, nel punto ove stava un gancio, grapedon, dal quale facevano pen-dere un filo. Prendevano un ago, infilzavano un pezzo di brace ed iufilavano il filo poi nella sua cruna e dopo averlo saldato lo lasciavano libero, e la brace penzolava in bilico. Si cominciava il giuoco della bronsa. Con quanta forza ave-vano in petto i partecipanti al giuoco soffiavano sul carbone acceso ed esso veniva fatto oscillare di qua e di 1& verso le persone che componevano il circolo. Ohi per ridere o per di-strazione non era in tempo a schermirsi col fiato, veniva col-pito dalla bronsa sulla faccia. II colpito era vinto e doveva rassegnarsi a sopportare le risate dei circostanti e a sodisfare le penitenze che riceveva. Ripetevano lo scherzo e lo alter-navano col giuoco della pignata. Si mette in mezzo alla stanza una pentola, anzi per evitare rotture pongono un quartarol di legno, sotto al quale ogni giuocatore deposita la tassa, in denaro, convenuta. Si sceglie poi a sorte uno dei giuocatori che deve bendarsi. Questo si mette dirimpetto alla pentola con un randello in mano. Dopo bendato viene fatto girare su s6 stesso e poi abbandonato. Egli fa qualche passo, batte e sferza: vuol colpire la pignata. Se non riesce dopo tre colpi si ripete il giuoco facendo bendare un altro della comitiva che continuer& a far ridere con le sue sferzate date ali' aria o luori di pošto. Final-mente la fortuna concede ad un bendato di colpire la pignata ed il denaro che sta sotto e guadagnato. Giuocavano ancora, finche giungeva 1' ora della Messa di mezzanotte e tutti anda-vano ad ascoltarla meno uno della famiglia, e per solito il primogenito, che doveva restare a časa per cosa importante, come si \redr& poi. II ceppo intanto continuava lentamente ad ardere, e, siccome veniva scelto possibilmente di taglio fresco, doveva durare tutti tre i giorni di festa del Natale. I pecorari appena entrati in chiesa subito osservavano bene le flarame delle due candele deli' altare maggiore che fiancheggiano la croce. Le fiammelle non oscillavauo, segno che le pecore daranno latte in abbondanza nell' anno. Durante la messa di mezzanotte, mentre la carapana suonava il vangelo, quello ch' era rimasto a časa, con tutta seriet& e raccoglimento staccava dal ceppo tre carboni da conservarsi fino a Pasqua. Ed era il suo perch6. Ali' alba di Pasqua prima che spuntasse il sole egli doveva trovarsi nei pressi del campo con i tre carboni. Li teneva dietro la schiena e doveva varcare la porta del podere rinculando, fermarsi e gettare, sempre in quell' atteggiamento, i tre carboni nei campo — vigneto per solito — senza osservare dove andavano a cadere, II legno carbonizzato del ceppo aveva la virtu di allontanare durante 1' anno la grandine e gl' insetti da quel podere. Ma perchfe i carboni avessero a produrre 1' effetto voluto, il medio — chiamiamolo pur cosi — tanto nell' andare che nei ritornare dal campo, con la missione portentosa, non doveva nei frat-tempo parlare con chicchessia e se incontrava qualcuno per via non doveva nemmeno corrispondere al saluto. Dopo messa ritornavano a časa, ma prima di andare a letto il piu vecchio raccoglieva sul focolare la cenere che si era formata durante il tempo della messa attorno al ceppo. Parte di questa veniva subito adoperata nell' istessa notte a pr6 degli animali bovini. Scendeva nella stalla a cospargere la cenere del ceppo — la sinei/ia del suco — sul dorso dei bovi, perchfe fossero preservati da malattie cutanee e special-mente dalle cosi dette cosche, tumori sanguigni sottocutanei, di forma conica con piccola apertura nei centro, prodotti dalle larve deli' estro bovino. L' altra met& veniva serbata fino al tempo della mietitura — de le sifole — e serviva a corroborare il grano nuovo. Quando giungeva a časa il frumento battuto silil' aia, le donne si affrettavano a sciogliere la sacca per cospargervi entro la cenere, perchd la calandra non lo avesse a forare. Andate le feste, il residuo del ceppo veniva spento. Ma pur cosi questo non perdeva la sua efficacia: su esso si po-sava il primo dei pali che dovranno sostenere le viti in quel-1' anno, per farlo aguzzo, agudo, per appuntarlo: il palo ha pur bisogno di conservazione; con esso venivano segnate tre croci sulla pianta di vite piu vicina alla porta, porter, del vigneto, e finalmente esso veniva seppellito sotto il cavur-nal, vite cosi denominata perchč incomincia il filare della piantada, perch6 nel maggio seguente fugasse gTinsetti dan-nosi alla vite. Nella sera di Ceppo, coloro che non avevano gioito ne giocato erano le fornaie, sempre intente tutto il giorno a cuo-cere il pane e le ciambelle — busolai — di pan bufetto, consa. Esse non avevano avuto tempo nella vigilia di Natale di prov-vedersi, per quanto frugalmente preparata, la cena e perci6 dopo le otto ore di sera cominciavano a girare e visitare i loro clienti per avere gli avanzi del pasto: »Ogni mensa abbia i suoi doni*. Giravano, ed usano girare ancora, di časa in časa con un cesto e con delle pentole per riporvi il dono consistente in un piatto di riso con anguilla, erbe cotte, pešce fritto ed altro, e tutto, mal separato, finiva nelle pentole in modo da diventare un cibreo poco omogeneo. Nel cesto invece venivano riposte le frittelle — le freite — tradizionali ed immancabili. Le povere donne, fatto il giro, ritornavano stanche alle loro čase a dividersi il frutto della curiosa questua, che maneggiata e rimaneggiata assumeva F apparenza di pattume. Ci6 non per-tanto mangiavano e stavano allegre le povere fornaie. 11 lusso nell' abbigliamento delle ragazze non si spiegava nella prima festa di Natale, perche esse erano piu stanche degli altri giorni, per la semiveglia passata, ma bensi nella seconda festa, nel giorno di santo Stefano. I piu belli zendali comparivano in pubblico ed i broccati piu appariscenti spic- cavano sulle figurine slanciate. * * Anche il giorno deli'Epifania era per Dignano una festa particolare ed interessante per certi usi cui il popolo ci teneva e ci tiene ancora a conservare sempre in omaggio a quelle credenze superstiziose che, se eseguite con scrupolo, valgono quale panacea per gli armenti e servono — vanno dicendo — prodigiosamente in generale ad ogni sorta di scongiuro. Difatti alla vigilia della festa dei Re Magi d' Oriente in ispecie le donne accorrono in chiesa ad assistere alla benedi-zione deli' acqua e vanno tutte provviste di pentole e secchie. Finita la cerimonia rituale, tanta 6 la ressa ch' esse fanno per avere 1' acqua benedetta che talvolta dimenticano d' essere in chiesa e gridano, urlano, schiamazzano e pili d' una pentola in quell' incontro lascia le anse in fondo al recipiente e le fiasche ci rimettono il collo. L' acqua in buona quantit& viene conservata in časa e con questa, sempre i primogeniti, scongiurano i temporali. In quella stessa sera 1' acqua benedetta viene adoperata per aspergere i muri delle stalle onde preservare gli animali da malattie infettive o da altri malanni cui specialmente i bovini vanno soggetti. L' acquasanta viene adoperata in campagna il giorno della Conversione di san Paolo, 25 gennaio, per aspergere i luoghi infettati dalle vipere e dalle temute boasere. Riempiono ed alimentano durante 1' anno le pilette appese sovra i letti. La sera della festa deli' Epifania compagnie di uomini o di giovanotti usavano andare a visitare famiglie amiche o quelle dalle quali potevano sperare qualche lucro. Indossavano questi una clamide bianca, si mettevano una corona in testa, sulle spalle un mantello e preceduti da una stella lucente, pallida immagine della stella dei Magi d' Oriente e del chiarore apparso ai pastori, andavano nelle čase a cantare il canto dei »Tre re». hk venivano serviti con vino ed altre offerte e talvolta anche ricotnpensati con denaro. Se per caso in qualche famiglia non erano stati sufficientemente bene accetti, o non ricompensati secondo loro a dovere, si trovava talvolta lo sfacciato che al- 1' uscire di quella časa cantava: «Tanti ciodi ca zi in la porta tanti diavoli ca ve porta. Grazie del poco garbato complimento! Ma ad insultare od a fare lo sgarbo era pronta per lo piti la ragazzaglia e non la comitiva degli attempati e seri. Dalla festa deli' Epifania si entra nel Carnovale, molto conosciuto a Dignano per i numerosi matrimoni che in tale epoca si celebrano. Del resto trascorreva con piu o meno fra-stuono, come in ogni altro luogo a seconda delle annate. Alle domeniche i popolani ballavano nelle čase senza restrizioni poliziesche e nei tre ultimi giorni di carnevale anche nei piaz-zali. Oltracchč col ballo della coda '), che veniva eseguito nella i) Ballo della coda e mal gradito amante. Vedi articoli di Pier-An-tonio Vittori coinparsi nell' «Istria» di Parenzo annata V, 1886, oppure M. Tam aro «Le citta e le castella deli' Istria», V. II, pag. 608. piazza Castello, i giovani, uniti a suonatori di pive — fiai^dle — e čembalo, si divertivano cantando e suonando per le strade; si soffermavano a preferenza agli sbocchi delle crociere o nei campieli e la suonavano e ballavano i balli tradizionali; can-tavano e bevevano. Di sera poi si ritiravano in qualche časa ove si inscenava una festa di ballo piu regolare e le ragazze vi accorrevano alle danze e al canto della villotta. La sera deli' ultimo giorno di carnevale si solevano fare e scambiare le visite, e per far ci6 tanto gli uomini che le donne si truccavano. Le giovani donne si fingevano vecchie ed infilavano al fianco la rocca col pennecchio di canapa; gli uomini, che sono sempre sbarbati, si applicavano delle lunghe barbe per visitare 1' amico od il parente. Non si passava la serata senza mangiare la mula orba, sanguinaccio preparato con droghe, zucchero, uva ecc. ed insaccato nel colon del maiale, cio6 nella parte deli' intestino crasso dal cieco al retto; questo dolce intingolo veniva serbato appositamente per 1' ultima sera di carnevale da mangiarsi prima del suono della campana annunziante la Quaresima. Era il piatto tradizionale, era il dolce di pramma-tica; e se in quella sera per caso non venivano consumati tutti i cibi grassi, essi non si toccavano pili fino a Pasqua. Le carni rimaste venivano salate, affumicate, ed appese sotto le travi, e cosl perfino i crostoli rimasti pendevano in filze dalle travi fino al giorno di Gloria. La chiesa nella domenica delle Palme si convertiva in un vero bosco di olivi. Non rami, ma alberetti venivano sot-tratti agli oliveti e portati in chiesa per la benedizione. Molti agricoltori intrecciavano sui ramoscelli le foglie deli' olivo e formavano con simmetria le palme e le ornavano con colom-bine fatte di midollo di sambuco e con le crofeitule, crocette, confezionate con legno d' olivo benedetto appunto in chiesa durante la messa e specialmente mentre il saceraote legge dal pergamo il Passio, Cosi i giovanotti erano provvisti oltre che deli' olivo anche della britola, coltello a serramanico, e lavoravano d' intaglio e di tassello formando delle graziose cosettine, le crofeitule, di forme svariate fra la croce, il cuore, le lancie, aste seghettate, globi sormontati dalla croce, calvari ed emblemi della speranza: veri esemplari d'arte popolare, di quei bei lavori di pazienza di cui i pastori ci davano dei Domenica delle Palme a Dignano — croscitule. saggi pili complicati nelle rocche di corniolo, nei fusi e negli aspi che intagliavano seduti nel Frostimo, mentre il gregge pasceva, per poi farne dono alla sposa. Alle crofeitule si attribuivano virtu miracolose: servivano da talismano e da amuleto, venivano fermate sui muri delle stalle e sulle porte delle čase e si tenevano nelle tasche per scongiurare il malocchio. I pastori con 1' olivo benedetto usavano toccare le agnelle, che allevavano per razza, quando uscivano dalla stalla il giorno di Pasqua. Riservavano e poi adoperavano piu a lungo che potevano un ramo che chiamavano bateca e con questa fru-stavano leggermente le pecore restie a non lasciarsi mungere cio6 quelle che non facilmente si lasciavano condurre al mulf&r, pošto sul quale ogni sera venivano munte. I pecorari solevano pure infilzare nel terreno del tugurio, cortina, tegur, dei piccoli rami d' olivo benedetto perch6 le pecore avessero a brucare le foglie benedette e segnare cosi la prosperit& nella mandra. I boari seguivano le medesime usanze e mettevano nella mangiatoia, fra il fieno, foglie d' olivo benedetto, perchč i bovi le potessero facilmente mangiare; appendevano poi crofeitule nelle stalle. Per i bovari e per i pecorari non veniva mai «Pasqua d'ovo, Pasqua ovarola». I loro familiari non dovevano pos-sibilmente toccare e meno poi mangiare uova nel giorno di Resurrezione, mentre essi dovevano rifuggire in quel dl dalle uova, anche se tinte in rosso, come il diavolo rifugge dal-1' acquasanta e tutto ci6 per scongiurare il pericolo che negli animali si manifestasse 1' actinomicosi del mascellare, tumore dolente e duro che si sviluppa sotto la mascella inferiore ed 6 prodotta da un fungo microscopico che 1' animale mangia assieme al foraggio. E mentre la gioventu allegra infilzava il soldo nell' uovo, ammaccava la punta deli' uovo colorato, pun-tando denaro o 1' uovo stesso, o accorreva a san Rocco a far le menade'), i poveri pastori dovevano stare lontani da quei chiassi e da quei giuochi nel di di Risurrezione, sempre pronti per6 a mandare al diavolo 1' astinenza nel lunedl seconda festa *) Menade — getto deli' uovo. I giovanotti si ritiravano nella via San Rocco e si ponevano sotto la časa piu alta. La, a pie fermo, lancia-vano ali' aria l' uovo. Chi lo laneiava piu alto vinceva la posta sconiraessa. di Pasqua. E le uova tinte in rosso come gi£ in rosso le tin-gevano i romani nella festa di Castore e Polluce, nati dali' uovo di cigno, le uova che nel si gnili cato pagano possono venir tenute simbolo deli' abbondanza, come fra gli orientali il gallo e la gallina, venivano schivate dai pastori nella tema di un' abbondanza funesta. * * * II giorno di san Marco era pure giorno solenne. «1 santi veci no i se cojona», diceva chi era tenace alle tradizioni senza badare a mutamenti politici. La processione di san Marco era sfarzosa e ragazze e maritate vi andavano. Per la circostanza indossavano il miglior vestito, col quale veniva inaugurato 1' estate. Sul petto e nella brasarola si mettevano un bel mazzo di beclie, papaveri rac-colti nei campi. Le pifii giovani si coprivano il capo con lo zendalo bianco, piu tardi col tovajol verde di stoffa operata. Durante la processione venivano benedette le biade ed e per-ci6 che le beche raccolte erano portate dalle donne e come ornamento e come scongiuro. Per distinguere la solennit& della giornata le ragazze mutavano per ben tre volte il vestito; indossavano quindi le piu ricche brasarole, le manighe piu sfarzose, le migliori tra-vese. Finita la cerimonia le ragazze si affrettavano ad esporre sul balcone i papaveri raccolti e da ci6 il canto: «Mei sto san Marco i la voi meti fora (la beca) su quel barcon duve la gente pasa«. Dopo la messa grande la processione si staccava dal duomo con pompa, sostava nella chiesa della Madonna Tra- versa e faceva ritorno ali' una pomeridiana. * * * Ecco poi una narrazione originale delle Rogazioni fatta da una contadina nel suo dialetto: Al preimo dei de le Rugasion i va a san Michel de Bagnol, poi a santa Fusca e la i deis la misa. Poi per Valmadurso i va a san Martein de Midian. Dispoi misa i va a magna le puveine dei Purcheri; i bivo, i canta e i sta dui ure la. I va vi e i va a san Tumazo cantando litaneie. De san TumA i va a san Zuane — la del spisier — in Gajan, la dei Sor(e)i, poi a la Madona de Guzan e de 1A i va a santa Margareita. A santa Margareita i marenda a turna: chi vuvi, chi lonbo de porco, chi furmajo, chi presouto e cusei douti i magna e i bivo vein bianco e nigro, e i preti douti aligri i sta in bona armoneia dui ure e poi i ven vi dizendo al ruzario. Cusei i ven a san Fransisco a cantando litaneie de i santi e i turna a ciza, al domo. Al preimo dei le fimine le va s'cite, le no se meto tanta roba. Al segondo dei inseina fa marenda i va douti in ciza: i liva la pur-sision e i va consadi in beina a san Giacomo. La zi la misa, poi i va san Martein e feinta che i deis la segonda misa douti i va a bivi al cafl) a caza soja; i se cio la sachita piena de pan, de vein, lonbo e vuvi coti e cusei i turna a san Martein. I se meto in beina e i va a santa Cruzo e da U i va a santa Lusfeia. La i prega e despoi i turna vi e i va a san Chirein. LA, i nu sta puras6: i magna dui bucade a la svelta e poi i va a Guran. A Gur&n zi la misa. Fineida i se meto a zazi, i teira fora de la sachita al cumpanadigo, al pan e al vein: i magna e i se zibeiso oun cun 1' altro al da magnft,. Despoi magnži e bivou, al vein ghe fa sircolo, e i canta, omi e fimene e muredi douti in cunpaneia. I preti i va a vidi sti busoli, i sirca el goto e i reido anche luri. A Guran i sta dui tri ure poi i liva soun le bandiere e douti i se consa in beina a dui a dui: preima i muredi, poi i omi, poi i preti e dreio le fimene. La feila zi longa: i fioi i canta: «Te rug&mo zaudi nos»'), i preti canta litaneie grande e le fimene che le zi a largo le dei al Ruzario sule. E dacusei i reiva al domo. Ancui le zi mejo visteide de jeri, le fimene, parchl le pasa per la Cal nova. Al terso dei sona a la miteina a le seinque, che la zento se liva e vaga in ciza. I sona turnA par levš, le bandiere e i se consa in beina douti. I nu se cio gnente cun luri. Tanti fioi ca zi 1' oultimo d6i parchl i nu va a lonzi! I va a la Madona Traversa, ca zi poco vi da Dignan, i deis la misa lž, e poi i turna a leva le Rugasion e i va a santa Dumeniga; i prega un po e poi i va al Capitel e despoi a sant' Antonio. LA i deis la misa cantada e litaneie grande. Cu zi furnei, a vidi chi zi 1 k! douti partera peici e grandi su quil pri. La tola de i preti in mezo. Doute le fimene le curo a purtarghe la marenda a i soi: chei puveina, chei fritada, chei caf6, chei salamo, ma 1'agnel freito e al vein de Ruza pasa batalgia! Fra tanta zento zi chi vardA 141 Despoi ch' i jo magnž, i fa la cantada. Poi i preti i liva le bandiere e i fioi preimi, feisi, i seiga: «E te pluvento in pluja fidelibu stuvi, consedare digneri, te rogamo zaudi nos» 2). Cusei i va a sa Roco; poi a santa Catareina e poi i ven in di Carmini e 1& i turna a cantži la misa granda. Quando che i ven fora i canta al «Te Deo» e cusei i va al domo. Le fimene le jo al nuvisajo, anai e gurdon; bele scarpite e ben petenade cui tremuli e cui fiuri in man che le fa voja a videle. ') Te rogamus, audi nos. 2) Ut congruentem pluviam fidelibus tuis concedere digneris, Te rogamus, audi nos. Belle usanze si costumavano nei mese di maggio. I giovanotti nelle sere dei sabati di maggio si raccoglie-vano in campagna nei tuguri e 1& si concertavano sul modo migliore di festeggiare la propria sposa. Tutti si aiutavano a vicenda. Tagliavano rami di mandorli ricchi di foglie e frutti, arbusti di uva spina; li ornavano con nastrini, flori e fazzoletti di raso e durante la notte del sabato ponevano questi alberetti sotto le finestre delle sposine: era il dono di maggio, ossia «al majo». Al dono seguiva il canto, un'invocazione d'amore, uno sfogo di sereno lirismo, ed il violino spandeva le sue acute nella tranquillit& della notte. Nelle strofe una voce di tenore ripeteva il nome deli' amoroso donatore. «La serenata chi ve la fa fare ? — Ve la fa far quel zovinito bello; Non ve lo posso dir n& minsonare: Nei vostro cor ve lo podčs pensare, E per no farve star in fantazia Anbrozo bel raccomandA, vi sia». La donzella, la Maruša delle «Nozze istriane», non veduta, tutto vedeva e sentiva nascosta dietro le bifore socchiuse. II maggio pur talvolta era atroce: invece di doni portava lo scherzo, lo scherno o la vendetta se la ragazza aveva dei ripicchi in amore. La serenata allora si mutava in Jootonada»') ossia in frizzi, motteggi pungenti, spesso in rima. II verde ramo di mandorlo era sostituito da un ramo secco e sovra pendeva qualche mascella spolpata di carogna. In maggio le contadinelle si divertivano anche in campagna in sul flnire della giornata dopo aver mondato il grano. Prendevano diversi šteli di frumento ancor verde a seconda del numero dei ragazzi e delle ragazze che partecipavano al giuoco. Disponevano i fusti in croce se giuocavano in quattro o in forma di stella con molti raggi se il numero era maggiore. Chi dirigeva il giuoco poneva i partecipanti in modo che non ') Ecco un esempio di «botonade», frizzi in rima: Va vi de s& frasea, frascheina, Va mfena la to barca a la mareina. Va vi de frasca da poco: Ti jčs ruto al gurgan sura al zenocio; Ti lo ruto e non ti lo s6 consare, Gnanca tei ti no soin da inaridare! potessero vedere la direzione delle estremitii degli šteli. Ad un cenno egli li faceva voltare e piegare, ed ognuno con la bocca doveva prendere 1' estremita dello štelo. Se il raedesimo štelo veniva tenuto da un giovanotto e da una ragazza questa doveva lasciarsi baciare dal suo compagno. Ella pero si rifiu-tava; ed ecco un rincorrersi, un gridare, uno schermirsi in- dustrioso, mentre gli altri ridevano e chiassavano. * * * La sera di san Giovanni, 24 giugno, al suono dell'Ave Maria si accendevano i fuochi per la campagna, sulle vie e per le contrade. Quelle fiamme dovevano bruciare le streghe vaganti che in quella sera erano larghe nel dispensare i loro malefici. Attorno i fuochi si raccoglieva la gioventu allegra a fare delle chiaccherate, a sussurrarsi la parolina d' amore. Le ragazze poi, come altrove, gettavano il piombo fuso nell'acqua e nelle forme bizzarre leggevano il responso d' amore, ravvi-sando in quelle forme strambe gli ordigni del mestiere di colui che aveva loro sussurrata ali' orecchio la parolina dolce e che entro 1' anno doveva condurla ali' altare. Da molte altre cose o combinazioni le ragazze traevano gli auspici per 1' avvenire. I fagiuoli vengono sempre consultati dalle fanciulle. Met-tevano sotto 1' origliere tre fagiuoli involti separatamente in una carta. Uno era senza buccia, al secondo veniva levata mezza buccia, il terzo non veniva toccato. Al mattino seguente, appena svegliate, cacciavano la mano sotto il cuscino e pren-devano uno degli involti. Chi levava il fagiuolo intero in breve tempo doveva sposare un signore, chi il mezzo vestito, un giovane con discreta fortuna, e quella a cui toccava il fagiuolo senza buccia era destinata ad un povero: in compenso per6 era bello. Anche le foglie del fico entravano nei presagi. La ragazza in sull' imbrunire spiccava tre foglie di fico; sopra cadauna scriveva un nome e le deponeva sotto la pianta. Di mattina correva a raccoglierle per leggervi sopra il destino. II nome del giovane che stava scritto sulla foglia piu fresca era quello della persona predestinata dalla fortuna. Tre amiche prendevano tre piatti ed una quarta persona, non interessata nel giuoco, ci nascondeva sotto, senza rivelarne il pošto tre oggetti. Per solito veniva nascosta una chiave, una vera, un pettine. Trepidavano nella scelta; gioiva poi chi levava 1' anello al pensiero che in breve sar& maritata: chi possedeva la chiave era pur certa di maritarsi presto e di diventare pa-drona di časa, di non andare, come dicono, sotto madona. La terza alla quale restava il pettine doveva, meschina, superare molte scabrositk prima di poter pigliare il pešce raro che si chiama marito. Ma non si scoraggiava: subito al primo tocco dell'Ave prendeva un bicchiere d' acqua, lo versava giu dalla finestra e stava tutt' orecchi per udire proferito dai passanti un nome che per lei doveva essere la rivelazione sicura che le infondeva nuovo coraggio a sperare, quel coraggio che aveva perduto nel levare il pettine. II nome proferito a caso dai passanti o dalle donne che chiaccheravano sulla via era il re-sponso infallibile. * * * Non soltanto la gioventu era gaia nei bei tempi passati, ma anche gli uomini e i vecchi portavano ovunque 1'allegria serena e la giocondit&: non lasciavano sfuggire occasione per esternarla nei ritrovi famigliari o nelle feste; anzi da queste traevano 1' occasione per il godimento. A san Martino comitive d' uomini buontemponi andavano in giro di časa in časa per assaggiare il buon vino. Si presen-tavano alla porta deli' amico, di sera, col canto: «Viva dunque san Martino, nostro prode compagnone, che fa allegre le persone, con la tazza e col violino: viva viva san Martino». Entrati in časa venivano serviti con cibi e non manca-vano i jpar'pagnachi, dolci questi preparati con farina, miele, mandorle, droghe e cioccolata, immancabili nel giorno di san Martino. Fra canti e suoni — violino e liron — veniva spillata la botte che conteneva il vino migliore delFannata, e godevano i nostri buoni vecchi. Dignano, gennaio 1914. D. Rismondo II Calendano liano neile rime i nelle asaiuze KI popolo Finita la rassegna dei. mesi, devo aggiungere ancora un po' di materiale calendaristico popolare istriano, ch' 6 frutto d'ulteriori mie ricerche ed 6 frutto della collaborazione d'altri generosi. Al mio appello (cfr. Pagine Istriane, XI, n. 5-6, pag. 122-123) hanno risposto bellamente parecchi eletti ingegni, cui devo rendere grazie sentite. E sentitissime le professo al chiaro sig. Ignazio Mitis, che mi forni un manipolo di ben 43 proverbi usati a Cherso, de' quali 25 affatto a me nuovi. E grazie non meno calorose al sig. Antonio Andrettich, ufficiale giudiziario a Parenzo. Fa d' uopo pertanto, che, pur riservandomi di pubblicare separatamente, a suo tempo, quel materiale che quando che sia mi sark dato di raccogliere, mi rifaccia qui da capo, a mo' d' appendice. E premetto i pronostici d' indole generale: 451. Co lampa in ponente, no lampa par gnente. 452. Coion! vesti el tempo e no la staion ! 453. Se in siroco xe scuro, sta in porto sicuro. 454. La bora sabatina in tre zorni la crepa o la se rafina. 455. Co rosiga le mosche, le zornade se fa fosche. 456. Ogni camin ga el so fumo, ogni vale ga el so vento, ogni omo ga el so temperamente. 457. Maistral de inverno, diavolo de inferno. 458. Garbin, poco bon fin. 459. Co lainpa in tramontana, siroco ciama. 460. Qielo in graspin, o siroco o borin. 461. Garbin garbinasso, quel che trovo lasso. 462. Sol de lastra, sol de morto. 463. Co la fava xe in flor, ogni mato xe in vigor. 464. Co canta el merlo, semo fora de 1' inverno. 465. Co canta el cuco, xe de far par dnto; co 1' a finio de cantar, alora vien de far. 466. Chi dixe ben de 1' inverno, dixe mal del Padreterno; chi dixe mal de 1' ista. dixe mal de la Santissima Triniti. Nel pomeriggio d' ogni sabato e d' ogni vigilia di festa si sonan le campane, sebbene non si tenga funzione. Questo se-gnale 6 detto: 467. El vespero de san Felice che '1 se sona e no '1 se dice. Chi poi ama il lavoro senza badare ai pronostici, suol dire: 468. Chi varda luna e fele, no impenissi le scarsele. Le «fele» sono i momenti d' acqua ferma. 469. Zenaro zapador, febraro potador, maržo morbinoso, april spareser, maio sareser, zugno fruter, luio fogher, agosto persegher, setembre figher, otobre de mosto, novembre de vin, dicjembre de fave e sensa morbin. 4T0. El gran fredo de zenaro, el mal tempo de febraro, 471. 472- el vento de maržo, le piove de april, el fango de maio, de zugno el segar, de luio el buratar, le tre aque de agosto co la bona stagion, val piu che '1 regno de Salomon. Sabo san to, el lume soto el banco. Pasqua, Nadal, Santissimo Carneval e la morte del prinijipal. Ripassiamo quindi i mest: Gennaio. Febbraio. Maržo. 473. De zenaro ogni galina fa el su' vovo a la matina. 474. Zenaro no lassa galina in caponaro. 475. Se 1' erba nassi de zenaro, chi ga gran che lo meti in granaro. 476. Zenaro fa i ponti, febraro li rompi. 477. Tre Re: Cristo in aqua. 478. L' Epifania dute le feste la scova via ; le se sera in t' una casseta, e no le vien fora fino a Pasqueta; po' vien quel mato de Carneval, che duti alegri ne fa star. 479. Sant' Antonio abi(te): cio la zapa e va a zapar. 480. San Fabian, co la viola in man. 481. Febraro suto : pan par duto. 482. La Madona Candelora, de 1' inverno semo fora ; ma quaranta zorni ancora. 483. Per san Valentin, la primavera sta avi(jin. 484. Co maržo se avi i per assimilazione ad i postonica in inbriago». pag. 14 špizier = farmacista potri esser o dal tedesco Spezerei....* pag. 16 «La o di garofolo da cariophgllon si ebbe per assimilazione alla tonica». pag. 16 «E' da notarsi la dittongazione della o finale atona: kapi-tcinio, gercinio, pctlasio e vangelio nella Legg. di S. Caterina». pag. 18 «c dinanzi ad e i passa in ž....: bažo». pag. 18 «9 > z al principio di parola....: zorno*. pag. 19 'bttžiardo dal ted. bosartig secondo il Pianigiani«. pag. 25