L'ASSOCIAZIONE per un anno anticipati f. 4. Semestre e trimestre in proporzione Si pubblica ogni sabato. II. ANNO. Sabato 18 Decembre 1847. M? 9 —SO. Avvertenza. Avvicinandosi il nuovo anno, crediamo di dover invitare i lettori dell' Istria a rinnovare in tempo il loro abbonamento, affinchè non nascano ritardi nella spedizione del foglio. Nel prossimo numero si darà particolareggiata relazione delle ampliazionì e degl' intendimenti del giornale per l'anno 1848. La Redazione. Medaglia in onore del D.r Domenico di Rossetti. R medagliere triestino, il quale comincia colle memorie aella fondazione del Lazzaretto S. Teresa, ha avuto oggidì aumento per la medaglia coniata in onore del defunto Domenico di Rossetti, a cura del Gabinetto di Minerva. È di modulo grande, lavoro del Putinati di Milano ; da un lato presenta la testa a profilo dell' illustre guardante a sinistra, nella quale testa molto mi sembra non vero, cioè il portamento del capo ben diverso da quello che ebbe in costume, il profilo della fisonomia non fedele in quei segni che appunto dànno indizio del suo sentire, specialmente nel comporsi della bocca, che troppo manifestava Io sdegno più volte provato per le bassezze e le contrarietà di questo mondo; sdegno eh' ei non poteva tacere nel suo testamento, allorquando augurava ai posteri tempi migliori di quelli nei quali ebbe a lottare (e furono invero assai travagliati per guerre, per invasioni, per sconvolgimenti di tutta Europa); nè sapremmo riconoscere la sua guardatura, la quale anzi non sollevavasi mai curiosa od ardita, ma esprimeva i sentimenti che manifestava la bocca. Temiamo che quelli i quali nella testa come è figurata vorranno riconoscere le doti dell' animo e della mente, cadranno in grandissimo errore. Si può nei ritratti donare, come si suol dire, ma non possono alterarsi quei tratti che ne formano le caratteristiche. La medaglia è per me di difficilissima intelligenza. Sembrerebbe che sia un omaggio alla memoria del Rossetti, fatto dal Gabinetto di Minerva, e che questa sia la dedicante, 1' altro il dedicatario. Però la leggenda all'ingiro nei due lati non suona così; chè intorno alla testa leggesi CAVALIERE AVVOCATO DOMENICO DE ROSSETTI TRIESTINO — DI VIVER PRIMA CHE DI BEN FAR LASSO — Non a lui si favella, ma di lui, e ciò che si dice non pare che sia nè esatto, nè il meglio che dire se ne poteva. Due unici titoli a lui si dànno, 1' uno di Cavaliere, 1' altro di Avvocato; ma siccome vi hanno due qualità di Cavalieri, quelli per rango di nobiltà ereditaria, e quelli per ordine cavalleresco, 1' uno dall' altro si distinguono con ciò sempre che il titolo del primo si fa precedere, quello del secondo si fa susseguire al nome gentilizio indicando 1' ordine cavalleresco. Nella vita comune ciò non sempre s' osserva, nè occorre ove in famiglia per così dire si parli, ma in monumento destinato ai lontani ed ai posteri, sembra che non avesse dovuto trasandarsi. L'avvocatura poi, secondo le nostre instituzioni sociali, è un munere, non è un rango sociale titolato ; altrove è la cosa altrimenti, e vi sono avvocati senza che mai abbiano esercitato, non così fra noi; il che tanto più sembra sconcordare, quan-tochè si accenna espressamente essere lui triestino. Sembra poi poco felice pensiero il ricorrere ad un verso per riempire 1' altro ingiro, quasi fosse penuria affatto di esprimere la stessa cosa in forma meno bom-bastica e generica, forma che sempre pregiudica alla verità, quando si tratti di dire le pubbliche benemerenze di un cittadino, e non occorre di molcere le orecchie. Imperciocché di un solo suo munere facendosi menzione, munere certamente che dà titolo a benemerenza, non sembra il Gabinetto di Minerva nella posizione di rilevare questi meriti suoi, ed è forse perciò che si tenne alla larga, citando un verso. Possiamo supporre che la medaglia sia destinata a tramandare la memoria del de Rossetti, non presso i dotti che la hanno cara e presente, ma presso il popolo. Ora quel verso colla finale in asso, e coli' accentuazione che ha, potrebbe ricordare altri versi assai frequenti nel popolo, fra i quali non sarebbe fuor del caso quello — Non vai saper chi ha fortuna contro — pensando come non tutte le sue buone intenzioni avessero effetto. Sembra esigere giustizia che dei muneri mol-tiplici e difficilissimi sostenuti con pubblico vantaggio, e degli onori avuti si facesse menzione , abbreviando certi nomi nei quali non potevasi prendere equivoco: nell' antica e nella postica vi aveva spazio di accennare siccome fu Consigliere di Governo, Procuratore Civico, Preside del Consiglio Municipale, letterato, relatore in oggetti di legislazione, Cavaliere della Corona di ferro, giureconsulto, più volte legato della città a Cesare; e ciò nell'ordine cronico delle cariche, scegliendo fra queste.,c combinandole secondo lo spazio — chè cento lettere vi stanno ottimamente anche nella forma e grandezza di quelle adoperate. La postica è per me inesplicabile. La corona o piuttosto i rami di alloro e di quercia sembrano darsi dal Gabinetto;'!'uno sarebbe ramo poetico, l'altro civico, ambedue simboli che sembrano male adatti, dacché se il Rossetti coltivò nella sua gioventù la poesia, lo fe' per ingentilire 1' animo, non per desiderio di essere poeta, ed ebbe tanta modestia di sè di non menarne vanto — le poesie occasionali sono manifestazioni di esultanza, ad ognuno è lecito essere poeta in siffatte occasioni. Non è poi noto che il defunto avesse meritato una corona di quercia, una corona civica, che si dava salvando in battaglia un cittadino, ed ammazzando il nemico che l'opprimeva. Oh quell'uomo non ebbe mai attitudini nè inclinazioni militari! Ma non si può intendere cosa sieno gli altri simboli ; 1' ordine della Corona di ferro, in forma di insegna (che sarebbe nuova rappresentazione), un libro aperto, due penne di oca incrociate, ed una bilancia. Imperciocché se la Minerva attribuisce al Rossetti questi onori, nessuno potrà credere che dessa gli abbia conferito 1' ordine della Corona di ferro, e se occorresse testimonianza, eccomi pronto a deporre che dessa non vi ebbe la minima parte. Non saprei cosa voglia significare quel libro aperto ; se ciò dovesse dire Dottore la sarebbe ridicola, perchè i Dottori di oggidì non sono chiamati a docendo; la bilancia è strumento che da sè solo nulla indica più che una bilancia, la quale può servire al tabacco, come al pepe ed al caffè ; la si pone talvolta nella mano di una donna colla spada nell'altra, e questa donna figura la giustizia, non già la sola bilancia è figura di giustizia. Simile segno poteva porsi al Santorio che per tanti anni ne fe' uso, e per essa venne a grandi scoperte, come tutti sanno. Che seppure la bilancia volesse adottarsi per segno di giustizia, il Rossetti non amministrò mai la giustizia, e se della bilancia una parte va attribuita ad un avvocato, questo avrebbe un solo dei bacini, non tutti e due. Due penne incrociate senza calamaio non sappiamo a che vadano riferire. Perchè non iscegliere piuttosto una corona d' olivo, che è pacifica, e che si sarebbe potuto supporre tratta da quell' albero sacro a Pallade che il Gabinetto coltiva, e che anzi deve supporsi molto rigoglioso se ogni anno costantemente si annuncia al pubblico che sono state fatte le solite paterne, per avere pace, concordia, fraternità e frequentazione delle radunanze, paterne che giova sperare portino in ogni anno sempre migliori effetti? Questa corona e gli altri segni, dovrebbero rappresentare il ricambio di dono che la Minerva destina al Rossetti; ma in verità che ponendosi sul capo la corona come è incisa, 1' aquila austriaca verrebbe proprio a collocarsi sulla fronte che ebbe amplissima e veneranda; luogo di collocazione che a dir vero non a-vrebbe esempio finora. Quegli attributi poi darebbero facilità a brutta celia, a carico di quel Rossetti che non le meritò, ed a cui in vita dispiacquero sempre, almeno nell' età matura. Il volgo, che ha pur diritto di attendersi che la simbolica sia intelligibile, direbbe che quelle bilancie sono per il tabacco, il libro per trarne fogli da mescolarlo (destino dei libri quasi unicamente noto al popolo), le penne per pulire la scrivania od il tavolo dalla polvere del tabacco. Lo scherzo non sarebbe poi verosimile, perchè il defunto quando ne usava, faceva mistura in brano di carta pecora ad occhio, e puliva la scrivania con zampino di lepre. Delle quali celie non parlo a caso. Su quell' edifizio che Marco Trevisani veneto alzava in Capodistria fra porta Zubenaga ed il porto, e che destinava ad ospitale secondo sua mente, ospitale che poi si disse di S. Marco, che nel 1410 circa passava in amministrazione del vescovo e del consiglio dei nobili di Capodistria, edilizio che a' tempi del vescovo Naldini parte era ospitale parte era Opera pia Fin per zitelle, e che verso la fine del secolo scorso in parte era divenuto proprietà di Ser Olimpo Gavardo dottor e cavaliere, parte restò ancor più tardi ospitale sebbene depauperato fino dal tempo della sua instituzione — su questa casa, dico, fino dal 1400 si vede apposta inscrizione in marmo greco venato su cui si spiegava la sua volontà. Amice Hospes Quicumque viam ad Olympum affectus Pulsa hoc, hoc aude ingredi Paucorum Gradinati etc. poi un libro chiuso, un' azza da guerra ed una spada che si incrocicchiano. Un bello spirito che non ne sapeva punto di latino, interpretò Olympum Graduum per Olimpo Gavardo che visse 350 anni dopo senza aver nulla di comune col Trevisani, e quei segni li disse di dottorato e cavalierato senza poi saper spiegare il resto. E vengo assicurato che lo scherzo impose anche a qualcuno òhe ne sapeva di latino, e generalmente si crede che Ser Olimpo Gavardo facesse una celia al pubblico con quella inscrizione, senza por mente che la lapida si mostra per 350 anni più antica, anche a chi da pochi giorni comincia a studiare Paleografia. Così Abeste hinc ecc. sulle prigioni di Firenze, furono interpretate e tenute per secoli dal volgo — Alle Stinche che divenne nome legittimo e proprio. Non esprimendosi nel dettato della leggenda che questi segni d'onore sieno dati AL ROSSETTI e circondando invece il nome della Minerva, sarebbero simboli di lei, ma impropri del tutto, chè nè a lei competono i segni della Corona di ferro nè gli altri. La leggenda inchiusa entro la corona poetica e civica è tutta per la Minerva. Yi si legge : LA SOCIETÀ DI MINERVA RICONOSCENTE A ♦ MDCCCXLVII Essa si intitola Società, ma nello Scematismo che pubblica l'Imp. Reg. Governo ogni anno n' è intitolata Gabinetto ; e sebbene da qualche tempo nella vita ordinaria si usi il nome di Società, non sembra che il si abbia a fare in un pubblico monumento. Si indica una qualità dell' animo di questo Gabinetto, quale è quella di essere riconoscente, ma questo è sentimento generale, inverso tutti e per titoli larghissimi; se la riconoscenza verso il D.r di Rossetti mosse il Gabinetto a coniare medaglia, era necessario di indicare i motivi di riconoscenza, per esempio per essere stato fondatore, per avere sostenuto la Minerva del proprio in tempi avari, per avere con eroica pazienza sopportato le avversità, per avere colla perseveranza alzata la Minerva alla condizione e dignità di corpo dotto, per averne propagati per tutto l'orbe il nome e la gloria della Minerva, per le liberalità, od altri molivi che non mancheranno. La riconoscenza alla fine è... — datogli fa mandatogli — e quando un uomo vi chiede anche un' ingiustizia, non manca di dirvi: Le sarò riconoscente. — Potrebbe essere che in luogo di riconoscenza, sia la medaglia un segno di grato animo ; il D.r di Rossetti se ha dato qualcosa alla Miner- va, avrebbe sdegnato in vita un ricambio. Il titolo di gratitudine era poi tanto necessario ad esprimersi, quantochè le medaglie sono monumenti destinali a trasmettere la memoria di un avvenimento; e si coniano per il canto di una donna, o di un tenore, per l'apertura di una strada o di un porto, per una vittoria, per una sventura. Nella medaglia resta sempre a sapersi quale sia questo avvenimento per cui fu coniata, e perciò non potendola collocare fra i monumenti storici rimarrà una medaglia nella quale il diritto è il ROSSETTI, il rovescio il Gabinetto di Minerva; una medaglia la cui simbolica appartiene al secolo XV. Sembra poi che il nome del dedicante dovesse porsi fuori della corona, al di sotto in lettere minori, insieme colle note croniche, fra le quali note non avrebbero fatto cattiva figura qualche epoca della Minerva medesima. Due medaglie uscirono in altri tempi in nome della Minerva, perchè quelli che le fecero coniare vollero attribuire al Consorzio ciò che veramente era di loro; pure la modestia non permise che il nome della Minerva vi fosse in fronte, e quella buona gente preferirono che se ne attribuisse 1' onore alla generalità, tanto più, quantochè non potendosi sopportare la spesa da un solo, nè potendola portare tutla il Gabinetto, era il concorso dei cittadini anche non Minerviani che ne forniva il danaro, e con ciò si dava la possibilità di farla, come è il caso anche della medaglia in onore del Rossetti; giacché essa fu fatta per soscrizione, ovvero sia, come volgarmente si dice, per colletta. L'AERE CONLATO sarebbe stato nella leggenda una verità, che non avrebbe tolto il merito a chi se ne faceva promotore, perchè un maestro di cappella ci vuole per ogni coro ed orchestra; ma non è il maestro che possa dire io ho cantato od io ho suonato. Ed ancora una parola. I punii nelle leggende sui marmi e sui bronzi antichi non sono già posti per indicare le abrevialure; ma per ragione ottica, perchè il lettore abbia facilità di leggere; i greci non li usavano, e quelle inscrizioni sono penosissime a leggersi anche da chi vi ha gran pratica. In tempi recenti si volle scostarsi da quest' uso, e si volle far prevalere le ragioni della lingua scrilta in carta, dimenticando che i segni di punti e virgole e gli a-capo sono per 1' occhio, pel corporeo che guida quello della mente. La spaziatura è sufficiente per non esigere li punii; e sta bene che non vi sieno punti di chiusa, perchè quando non v' è allro scritto, non v' è altro a leggere. Però un punto vedesi nell' ultima linea della leggenda entro la corona A • MDCCCXLVII, e non altro dove pare che ne stessero bene degli altri. E fa sorpresa come tutta la leggenda essendo in italiano, la nota cronica si ponga in latino, e si dica: Anno (perchè no Domini come nel medio evo). Millesimo septigentesimo quadragesimo septimo. Non è italiano perchè gli ablativi assoluti non sono di lingua. Anche i Tedeschi nella lingua volgare dicono Anno taufeitb »ter* tjunbert :c. ma si guardano bene dallo scriverlo, e dicono 3ra Sabre... .nemmeno il volgo italiano dicemmo 1700... ma neir anno. Che poi 1' epoca sia in latino lo provano le note numerali che sono latine. I secoli addietro nei quali il senno umano s' era fissato passando per trafila di errori, di bizzarrie, e di esperimenti, s' erano accorti che 1' adoperare le lettere dell' alfabeto per esprimere numeri, avrebbe portato confusione od almeno difficoltà, ed usarono distinguere le lettere dell'alfabeto dai numeri con tratto traversale superiore. E se i numeri erano tali da difficoltare il calcolo, li dividevano per migliaia, centinaia, decine, unità. Avrebbero scritto 1847 cosi. M ■ (mille) DCCC • (otto centoj XL • (quaranta) • VII (sette), oppure anche XLVIÌ che non è difficile a fare il computo di questa cifra. Anche il medio evo, il tempo che dicono barbaro, scriveva così M • III • XX. Se le linee non garbano, almeno i punti. Non si sa vedere perchè non si faccia uso del bel modo degli Arabi e delle loro cifre 1847; non sono forme belle, ma sono adottate e divennero nostre. Il sito poi per le note croniche non sembra il meglio adatto, posto come è sopra il libro, le penne d' oca e la bilancia, simboli che seppure potevano volersi applicati al Rossetti, dovevano porsi dall' altra parte, ed un po' meglio scelti, lasciando, seppure c' è, qualche autorità di tempi oscuri, per attenersi alla ragione ed al buon senso. Paziente delle altrui opinioni, pel desiderio di apprendere qualcosa, plaudente ad un' opera qualsiasi purché vantaggio e lustro ne venga anche in grado lontanissimo, affezionato alle cose che sono patrie, ed alle instituzioni che sono dirette a promuoverne il vantaggio, mi sarei taciuto come in più incontri preferii di fare, perchè il questionare impedisce 1' agire, e le forme del questionare allontanano dal quesito; ma per lunghi anni testimonio dell' operare di quell' illustre, e contro merito fatto partecipe de'suoi pensamenti; non per riconoscerlo, ma per la venerazione di lui, e per grato animo, do ora una voce, e mi appronto a scioglierfa. Tolga il cielo che io voglia detrarre minimamente alle intenzioni di quel Corpo che rispetto secondo giustizia, e pubblica opinione, e so bene che si può essere ottimi galantuomi e nonostante sbagliare la rima ; tolga il cielo che io presuma di scorgere altro migliore monumento, e più gradito al Rossetti stesso che avrebbesi potuto fare con miglior pubblico vantaggio — che queste sarebbero presunzioni superbe e facile maldicenza. Se mostrai troppa vivacità nel dire il mio pensamento, questo è l'effetto come sentirsi in mezzo a stanchezza e prostrazione richiamare carissime memorie, o suoni graditissimi, e dolore di non averne che reminiscenza. A me sembra che l'intenzione del Gabinetto non sia stata eseguita in modo come egli lodevolmente si propose; non do colpa a nessuno, non fo rimbrotti a nessuno, so come procedono le cose in corpi numerosi; è accidente come di ehi commettesse quadro a valente pittore, e ne avesse cosa scadente. Le mie parole saranno forse troppo severe, forse si risentono "dell' esaltazione dell' animo mio, ritenendo che nò il Rossetti, nò la patria sieno stati onorati come si volle, perchè l'uno e 1" altra non furono novizi in siffatti studi; posso errare, che ciò non sarebbe nulla di nuovo nè per me nè per i miei simili; io sottopongo il mio giudizio agli onorati mani di Bonomo e di Fontana; ine ne appello a quei molti che, fatta raccolta di medaglie in Trieste, accoppiano l'amore all' erudizione; me ne appello a quegli che per dovizia di raccolte greche e romane, e per erudizione gode il primato fra noi; me ne appello all' esempio di quante medaglie sieno state coniate per Trieste; me ne appello a quelli nostri tutti che maneggiarono qualche medaglia. P. Kandler. Delle mura di Pola. Nella relazione che il dottissimo Cesare Cantù gentilmente offriva in segno di aggradimento dell' o-spitalità con cui venivano accolti in Pola molti dotti del IX Congresso italiano degli scienziati (Osservatore Triestino N. 122 Appendice^ egli ha consigliato di non negligere una torra pentagona nelle mura, forse attribuita ai tempi di Teodosio IL II giudizio portato da quel dotto sulle cose di Pola confermò vari pensamenti nostri su quelle antichità che in più incontri ed in questo foglio ebbimo occasione di manifestare; le dubbiezze che esso cavaliere vorrebbe chiarite, ci impongono debito di dire quel poco che ne sappiamo, ad incentivo di giungere per vie migliori a conoscenza della verità. Pola non sì tosto fatta colonia romana ebbe mura, per quella legge che ordinava di murare gli stabilimenti filiali di Roma destinati a presidiare le provincie. Fu grave errore il nostro quello di segnare 1' anno 178 avanti Gesù Cristo, siccome quello della fondazione della colonia che supponemmo coetanea al primo soggiogamento dell' Istria; ci facciamo colpa di non avere pria d'ora meglio valutate le memorie di quei tempi, e ne faremo a momento propizio dimostrazione; oggidì dobbiamo limitarci a segnare quest' epoca nell' anno 130 siccome assai probabile Nel 42 avanti Gesù Cristo va collocata con assai verosimiglianza l'epoca dello smantellamento della colonia, e la rinnovazione di questa per opera di Ottaviano nelle guerre civili che desolarono l'impero. È ignoto se nello smantellamento, venissero diroccate le mura; certamente vi si fecero grandi guasti : ma non è ragionevole il pensare che tutte fossero sterrate, siccome appena potrebbe supporsi che la cinta fosse collocata su altra linea, perchè la configurazione naturale del colle appena lo permetterebbe a distanza di pochi passi. Abbiamo veduto frammenti di antiche porte che dobbiamo ritenere dell' epoca della repubblica perchè adoperate come materiale da fabbrica in opere dei tempi Àu-gustei; abbiamo veduto frammenti di eguale qualità siccome materiale da muratura di epoche non lontane, tolte dal disfacimento di opere che non erano dei tempi imperiali, ma che sembrano di risalire ad epoca più addietro. E potemmo riconoscere in questi materiali, massi di dimensioni maggiori che non le usate a tempi augustei; qualità di pietra, inferiore assai in perfezione per consistenza a quella adoperata più tardi; piano di contatto fra pietre sovrapposte, diligentemente tagliate, per modo che il cemento diveniva inutile per mancanza di interstizi ove fermarsi; facciate esterne delle pietre a bugna grossola-nissima di grandissima protuberanza; nessuna membratura archilettonica ci venne mai falto di vedere in simili massi; e le traccie di testa virilo barbuta veduta sulla chiave di un arco, erano rozzissime ed appena sboz- zate. Siamo indotti a ritenere questi indizi siccome criteri per riconoscere le opere della repubblica, prima che Augusto diffondesse per 1' orbe romano il genio di accoppiare la solidità alla venustà ed alla decorazione. Potemmo vedere qualche brano di antiche mura romane di Pola; la mura era larga precisamente un passo romano, 1' opera regolarissima però a pietre minori bene squadrate, e bene cementate; non abbiamo veduto siffatti brani nè su tutta la linea, nè a grandi tratti, per cui non azzardiamo di giudicare se fossero dei tempi della repubblica o dei tempi augustei. Nessuna torre ci venne fatto di scorgere, però mancava 1' occasione, o 1' accidente. Il Yergottini nelle memorie su Pola asserisce esservisi trovata leggenda del seguente tenore: IMP • CAESAR • COS • DESIG • TERT I1IVIR • R ■ P ■ C • ITER MVRVM • TVRRESQVE • FECIT Questa leggenda cadrebbe nell'anno 722 cioè 32 anni avanti Gesù Cristo, ed accennerebbe come 11 anni dopo rinnovellata la colonia per opera di Ottaviano si ristau-rassero le mura. Sennonché è lecito dubitare che il Vergottini non abbia preso equivoco con altra del tutto simile che esisteva in Trieste, rinnovata in tempi vicini sull' antica leggenda, ora nell' insigne Marciana di Venezia, e di cui nel museo triestino esiste brano originale di altro esemplare che stava sopra porla principale di città diversa da quella su cui stava l'inscrizione or divenuta veneziana. Egli è vero che delle inscrizioni polensi si fece grande sperpero, ma ai tempi del Vergottini viveva il celebratissimo Carli, e questi non ne ebbe notizia, sebbene colligesse diligentemente ed avesse corrispondenti in provincia. Nessun altro registrò notizia, e la lapida sarebbe stata di troppa importanza locale e storica. 11 Vergottini prese altri di siffatti equivoci nell' indicare la patria di leggende. Però lo sperpero di inscrizioni fu grande, nè di tutte quelle scoperte a' tempi del Carli medesimo giunse a lui notizia; e non può che muoversi sospetto, non altro. Però d' altro canto le beneficenze usate da Ottaviano a Trieste, le colonie nov elle che moltiplicò in Istria rendono verosimile che si mostrasse benefico anche verso i Polensi che di lui conservarono tanto grata memoria fino ad alzargli tempio. L' acquedotto di Pola sembra a lui dovuto, e vi ha ragione che si mostrasse liberale a quei coloni che militando gli procurarono l'impero. Per quanto è lecito dedurre da indizi certi le mura augustee o repubblicane correvano nel modo seguente. Dall' angolo di S. Teodoro in linea retta fino all' imboccatura della calle che sta dietro il duomo; di nuovo in linea retta da questo punto fino alla porta di Stovagnaga, poi in linea retta fino alla porta di piazza; tra questa e porta Abbazia formavano angolo risaliente, poi rette fino a porta S. Giuliana di nuovo rette fino presso porta Aurata, novellamente rette fino a S. Stefano, pressoché in linea retta da S. Stefano a S. Teodoro. Due tratti di mura si prolungavano isolati nel mare ali' angolo di S. Teodoro, ed all' angolo di S. Giuliana, quasi dovessero impedire il giro continuato intorno le mura, e separare le marine dalle terrestri. Le mura abbracciavano un po- ligono di forma cicloide acuminata in un punto. Il giro delle mura misurava 740 passi romani, il diametro maggiore della superficie abbracciata 250,1' altro era di poco minore. Ai due lati ove le mura cominciavano a toccare il mare, due canali s'internavano lungo le mura di terra per trenta passi, forse qualcosa più nel lato verso il teatro. Quattordici erano le parti (come i rioni) tra maggiori e minori, che duravano ancora nel medio tempo otto di mare, sei di terra. Erano di mare (le diciamo coi nomi del medio evo) 8. Giovanni (dirimpetto al monastero S. Teodoro), Duomo (dietro il Duomo), Monastera (pensiamo fosse nell' orto del vescovato), Stovagnaga, Piazza, Rarbaria, Abbazia, S. Giuliana. Erano di terra Porta Fontana (ingresso da Rovigno), Gemina, Ercole, S. Stefano, Aurata, Teatro. Due sole erano aperte da quattro secoli a questa parte, Fontana ed Aurata, le altre erano mascherate, ed il nome che indichiamo o fu attribuito quando vennero a giorno, o viene da noi dato seguendo verosimiglianza. Se desunsero nomi da Santi, Fontana poteva dirsi S. Maria alta, Gemina S. Caterina, Teatro, Misericordia. L'Erculia era la più alta di tutte, poiché la solea sta sopra il livello del mare 33 piedi romani, poi viene la Gemina che è di 31 piedi, l'Aurata ne è di 7 e mezzo. La Gemina sta a perfetta mezzeria della fronte retta delle mura che guarda l'interno della provincia, dal lato dove veniva la strada d' Aquileja, è la prossima al Campidoglio il quale direttamente le sta sopra. Abbiamo attribuito a questa il nome di Giovia dopo le scoperte del 1846 per gli attributi ripetuti di Giove ivi rinvenuti, rappresentato nella forma solita nell' Istria, cioè colle corna; e per la pratica di consacrare a qualche divinità le mura. Era la porta Giovia la più nobile della colonia per cui entrava la strada Aquilejense, per la quale sortiva la Liburnica. Altre due porte maggiori stavano ai lati della Giovia nelle mura di terra, P una l'Aurata che metteva al porto polense sul mare flanatico (a Pomer o Medolino) passando il Campo Marzo, divenuta celebre per 1' arco dei Sergi addossatovi internamente, detta Aurata dai cancelli di bronzo dorato che la chiudevano. Noi abbiamo veduto sulla chiave dell' arco della porta mentre esisteva la figura di Minerva, e non esitiamo a dirla Minervia. Ed il posto alla diritta di Giove ben le si addice secondo 1' etichetta della corte capitolina. L'altra porta maggiore poteva essere stata dall'altro lato fra la Giovia ed il mare, per la comodità maggiore d' accesso alla parte inferiore e più popolata della città, per cui mentre la Giovia era la più nobile, e per poco la collocata più in alto; questa poteva essere la più frequentata. E ragione vorrebbe che questa porta fosse intitolata Giunonia. D'una sola delle porte di mare sappiamo qualcosa; su quella della piazza o del porto v' era immagine sculta che il Carli giudicò di Esculapio. Le altre tredici porte dobbiamo lasciarle ai pratici della mitologia, adattandole secondo l'importanza loro al rango delle divinità seguen-o etichetta. Desidereremmo soltanto che Nettuno avesse quella dell'Abbazia per certi calcoli che a noi sembrano giusti, come è ben naturale che lo sembrino. Nella lunga pace interna dell' impero, e negli accrescimenti di Pola per 1' operosità marittima, le mura di terra piuttosto che munimenti di guerra, divennero segni di giurisdizione e di distinzione del comunè interno, nobile, dominante, sul comune esterno, plebeo, industriante; e può bene congetturarsi che le mura non crollassero, 0 si distruggessero, perchè il primo non era facile per la solidità del terreno tutto masso calcare, e per la bella opera della muratura; il secondo non valeva la pena per 1' abbondanza di pietre che offre la regione, e per la prosperità che regnava; esterni nemici non corsero la via dell' Istria che andò esente da scorrerie di Uni e d' altri; il regno dei Goti fu più saggio e mite che non quello dei degenerati romani che li precedettero; e seppure fu la provincia occupata dai Longobardi, era ciò nei tempi di Desiderio e di Adelchi. Su d' una porta romana di città che più non esiste leggemmo inciso in sito di ornamento quadratario, ma non preparato a leggenda l'inscrizione ECCLE POL che ci parve di caratteri del VI secolo, e questa stessa leggenda vedemmo su altra pietra posta in opera di muro di città ricostrutto tumultuariamente nel sito di altro diroccato; indizio che le mura romane duravano ancora nel VI secolo, se o delle mura o della giurisdizione che segnavano si faceva concessione parziale all' episcopato. Pola avrebbe potuto patire nel medio evo incursioni da parte di mare; ma quei Narentani che distrussero nel IX secolo Rovigno e Sipar, non toccarono le città maggiori, e Pola ne andò immune. Non così evitò altre depredazioni da popoli colti. Nel 1150 il Doge Morini assediò Pola dal lato di mare, e la prese abbandonandola al saccheggio. Quarata-tre anni più tardi i Pisani la riprendono ai Veneti i quali ne diroccarono le mura. Amarono li storici veneti di ostentare la volontaria dedizione delle città d'Istria e di Dalmazia, e furono sollecite le città in tempi posteriori di parlarne con servile adulazione; sennonché prendendo 1 Veneti argomento di loro diritto da questa volonte-rosità, mentre altro titolo mancava, torna quella sospetta, e le ribellioni ripetute, frequentissime, represse con modi assai severi, è prova che non tutte le dedizioni fossero volontarie, e che 1' obbedienza tranquilla fu il frutto di misure repressive e di lunga pazienza, allorquando non patti, ma diretta azione di governo e di forza contenne i popoli. Le dedizioni volontarie erano frequentemente semplici formole di atti pubblici. Pola fu tra le città che male comportavano la soggezione a Venezia, fosse di patto, fosse di governo. Le storie venete registrano altra defezione del 1243, e sarebbe questa la terza. Stando alle notizie che in Pola si conservarono accennanti ad un diroccamento di mura, sarebbe questo diroccamento il modo adoperato e con Capodistria e con Trieste; le mura venivano sterrate dalla parte del mare, e si esigeva promessa di non alzarle, ma di lasciare aperta la città; patto poi al quale le città mancavano non sì tosto era loro possibile. Sembra che presso ad un terzo delle mura di Pola venissero sterrate, e se non ci illudiamo, fu questo il tratto da porta Stovagnaga fino a porta Minervia; il che deduciamo da due circostanze, l'una che appunto in questo tratto venne a formarsi ripa larga di mare colle macerie delle mura sterrate, 1' altra che le mura rifatte sono ad opera tumultuaria, adoperatevi ogni sorta di pietre scritte e sculte, perfino di rochi di colonne romane; comunque 1' opera si mostri dappertutto cattiva. Imperciocché il tratto da porta S. Giuliana verso la Minervia è opera che, mostra la estrema fretta in cui venne eseguita, perchè nulla o raro il cemento, posti in opera massi maggiori tolti dal prossimo teatro, senza squadrare le pietre, senza disporle a piani, senza distribuzione di pianta che sveli una mente direttrice. Mentre pel rifacimento dell' altro' tratto maggiore vedesi non avere mancato il tempo, per questo tratto mancò nè potrebbesi dire se questo tratto abbia subito un secondo diroccamento in soggiogamento posteriore. Però non saremmo lontani dal ritenere che tutto il tratto di mura da presso porta S. Giovanni fino a presso porta Aurata venisse atterrato dai Veneti, rifatto con agio dai Polensi il tratto da S. Giovanni a Stovagnaga, e non sottoposto a secondo diroccamento. La sovranità (die non va confusa col dominio secondo i principi del diritto pubblico d' allora) sull' Istria non venne nella Repubblica che dopo Io spodestamento del patriarca Lodovico de Tech per fatti di guerra del 1420 operati da Filippo Arcelli, già signorotto di Piacenza e per la cessione fattane dal patriarca Mezzarola nel 1445. La legittimità di questa cessione venne più tardi riconosciuta da chi vi aveva diritto. Il patriarca era sovrano, aveva in vero sopra di sè altro principe, 1' alto sovrano (souzerain), ma era principe, e la Repubblica che a lui subentrava diveniva principe. Fu allora che pensò a fortificare le città istriane e le murò, o piuttosto fece murare. Prima ancora di questa epoca durante malintelligenze e nimistà coi patriarchi, Capodistria, che non aveva mura (anch' essa solfri il solito castigo dei Veneti), nel 1403 fu autorizzata a murarsi, il comune dovette dare le- pietre, la sabbia, il legname, e le manualità, e la Repubblica gli accordava di esigere il dazio della muda per la fabbrica delle mura, e per acconcio delle strade, dei ponti, del porto, delle fontane, e di quello che occorreva al Castel Leone e per altre occorrenze del Comune. (11 reddito della muda era di 2000 Lire annue.) E con queste dovevano anche fabbricare un castello a Musella. II compimento non fu sì sollecito, perchè i mezzi erano scarsi, il pericolo non sì prossimo che i Turchi (1463) non erano sì avanzati da far temere delle spiaggie dell'Adriatico e dell'Italia. In questo secolo XV si murarono il più delle città. Pirano dal 1470 fino al 1498; Buje nel 1450; Umago, Parenzo in questo torno; di Cittanova, di Rovigno, di S. Lorenzo ignoriamo ; Pola nel 1430. Bellissime e solidissime furono le mura di Parenzo alzate, o piuttosto compiute le mura di terra essendo podestà certo N. Lippomano, ed è ben peccato che siensi non diremo aperte in qualche luogo, chè le migliori comodità forse l'esigevano, ma in gran parte scalzate della rivestitura di pietra squadrata a grandissima diligenza. Sia che la prosperità di Parenzo fosse in allora tale da poterne sostenere la spesa (ed i commerci erano tali da far alzare una lanterna la di cui torre sussiste ancora) o che alla Repubblica premesse molto questo che era primo porto di direzione delle navi che uscivano da Venezia, e di stazione per profittare di circostanze propizie per fare la traversata del golfo. Nel rifare le mura di Parenzo no» si distrussero le mura che eransi alzate nel 1223 essendo podestà Guaraeri di Gillaco, ma dinanzi a queste a breve distanza si alzò la mura novella, servendo la vecchia e la nuova a maggiore munizione. Fu scavato ad arte un fossato appiè delle mura. In Pola si seguì lo stesso procedimento, la nuova mura di terra fra porta Giunonia e porta Minervia, fu alzata a breve distanza dalle mura romane, non dappertutto intatte come lo mostrò un tasto praticatosi, e lo spazio fra le mura vecchie e nuove fu riempiuto di macerie e di terra, per modo che la nuova muraglia complessiva risultatane riuscì larga quanto una strada. Tutte le porte di città dalla parte di terra vennero mascherate e chiuse dalla nuova muraglia, eccetto che porta Aurata e porta Fontana, la prima delle quali rimase quale era a tempi romani, mascherata soltanto da tórre una porticina .laterale; della Giunonia forse fu altrettanto, ma fu distrutta sul principio di questo secolo insieme ad altre di mare, delle quali 1' imposte si annunciano per opera romana. Si fece ciò nell' intenzione di rinsanicare la città. Questo tratto di mura verso terra non è nè opera eguale, nè tutta di un tempo ; vi ha qualche torre (ed appunto pentagona) scarpata nella parte inferiore, lavorata con grande diligenza a massi grandi che però a più segni si riconoscono tolti da antichi edifizi, e 1' opera è sì bella che a primo aspetto illude, ma è opera veneta d«l 1500. In altre parti 1'opera è reticolata incerta, nelle più è opera tumultuaria a sacco di pietre vecchie minute; nella parte più prossima all'anfiteatro ed al mare si veggono più che altrove i gradini dell' arena adoperati per materiali da muro senza nemmeno squadrarli. Noi medesimi vidimo per fondamenta di muro che sosteneva il fossato, poste in serie statue romane, senza testa, per materiale da muro. La mura è munita in vero di torri, ma tra le undici, tre sono acuminate, le altre quadrate, poste senza simmetria a variate distanze, e non alternate. Altre due torri pentagone veggonsi nel tratto fra porta Minervia e porta S. Giuliana. Nessuna di queste torri può dirsi romana nè dei tempi della Repubblica, nè di quelli dell' impero, nè dei tempi di decadenza ; forse ve ne esistono di romane, ma sono mascherate. La porta Minervia non era nella linea delle mura moderne, ma più addentro, e ciò a motivo che nella costruzione delle nuove mura più esterne delle antiche si volle risparmiare la spesa di costruire nuove porte. Le memorie nostre segnano immediatamente ai lati della porta Minervia due torri antiche, però quadrate. Soltanto due torri stavano poggiate alle mura marine prossime tutte e due e quadrate ; 1' una è moderna, 1' altra non esiste da 50 anni. Abbiamo avuto occasione di vedere opere di muratura militare romana; p. e. del Campidoglio di Trieste. La mura era grossissima eccedente i cinque piedi (era stata spogliata di rivestitura), di pietre minori con molto ed ottimo cemento; la rivestitura, dove si è conservata la vedemmo di pietre minori bene squadrate, a strati regolari; variante da quella di Pola, soltanto in ciò che la pietra polesana adoperata è a strati più sottili, e più facilmente si riduce a tavolette che paiono grossi mattoni. Vedemmo due torri, ed erano pentagone, allre quadrate, però le pentagone stavano poste ad angolo del poligono, e l'angolo protuberante era sì mite da appena mostrare che formava linea fratta; questa forma era necessità dedotta dalla pianta del poligono, i lati del quale venivano secondati dalla linea di fronte della torre. La torre pentagona sospettata dei tempi di Onorio II non può riferirsi che a tempi della sovranità veneta, e propriamente al secolo XVI. E pensiamo che prova di grande valore si ha dal genere dell' opera, ma anche dagli stemmi veneti apposti sulle mura, e dalle leggende a lettere, e dalle note croniche incise; ma della raccolta di queste difettiamo, perchè le generazioni presenti non fanno sempre calcolo che la spesa e l'intenzione dei nostri maggiori meritano almeno la pena di leggere ciò che hanno scritto per noi. Come la città di Capodistria divenisse fedelissima alla Repubblica Veneta. Il governo dei patriarchi di Aquileja fu assai benefico verso Capodistria, da lui innalzata a metropoli dell'Istria, in surrogazione a Pola, che lo fu per tanti secoli. Abbiamo indizi che i marchesi d'Istria avessero alto dominio anche su Trieste, ma siccome in questa città il mero e misto imperio apparteneva ai vescovi, il potere dei patriarchi riducevasi soltanto alle appellazioni e queste forse limitate; Trieste sebbene nel marchesato d'Istria faceva cosa separata, siccome avveniva altrettanto di qualche città nel Friuli, che nemmeno prendeva sede in parlamento. Capodistria era la prima città che si scontrasse da chi veniva dal Friuli, e questa scelsero a capitale nel nuovo loro stato, il quale fu tenuto separato del tutto dal Friuli. Non abbiamo notizia di parlamenti istriani, nè delle curie di pari tenute dal patriarca, sappiamo che si tennero in Capodistria, ma nuli'altro. I patriarchi tennero palazzo in Capodistria e vi risiedevano alcun tempo dell' anno, e nel loro castello estivo di Pietra Pelosa; in Capodistria tennero vicario, o governatore che ebbe anche titolo di marchese; tennero giudice provinciale o ricario per le liti e delitti dei nobili ; tennero altre cariche provinciali, p. e. questore, siccome portavano le forme di pubbliche amministrazioni provinciali di allora. I patriarchi vollero porre Capodistria in condizione tale da essere dominante in provincia, secondo le idee di allora. Quindi concessero al comune che potesse eleggersi potestà, carica che prima veniva conferita dal marchese, e sembrando a quelli di Capodistria troppo ristretta la scelta fra nobili istriani, e friulani, fu estesa a qualunque fosse di loro aggradimento; condiscendenza del principe che fu poi di pericolo e di danno agli interessi suoi e della città medesima. I patriarchi estesero il distretto giurisdizionale della comune di Capodistria a pressoché quaranta baronie; per modo che, divenuto il distretto più ampio che vi fosse nell' Istria, accrebbero la finanza del comune, il potere materiale e 1' estimazione dinanzi agli altri comuni. I patriarchi diedero al comune di Capodistria diritti provinciali ; ebbe cioè facoltà di mandare i suoi nobili podestà aPinguente, a Buje, ed in mol- ti altri luoghi, per cui ne veniva doppio vincolo di reggimento, per delegazione di supremo magistrato comunale, per naturale sindacato ed appellazione delle operazioni di questo. La curia e gli uffici provinciali davano facile occasione alla gioventù di ammaestrarsi nella scienza del governo, e nobili giustinopolitani venivano scelti da altri comuni a podestà, e l'abitudine poteva facilmente convertirsi in legge. Pola, la capitale scaduta, non dava pensiero; nobile milite conteneva i moti del popolo, e poteva avvenire che il reggimento cangiasse forma, che divenisse cioè feudale. I Giustinopolitani forzarono, come si suol dire, le carte, vollero colla forza essere centro del governo provinciale, ma non riuscirono contro Pirano; e quando mossero contro Parenzo, videro il Leone alato ventolare su quelle mura che un podestà giustinopolitano aveva alzate. Nelle gelosie fraterne i Parenzani preferirono di divenire veneti al rimanere istriani, e calcolarono più la soddisfazione del momento, alle conseguenze dei secoli. E certamente non piansero sulle conseguenze di loro dedizione a potentato che aveva interessi diversi, cui bastavano'le acquerei porto, cui non importavano gli abitanti della città; perchè allorquando la città fu ridotta per malgoverno a 30 persone, v' era ben altro che piangere. Capodistria aveva veduto su quelle mura il corruscare degli occhi del Leone che guardava tra i merli, era giunto a lei il ruggito, e sebbene sollecitamente fossesi allontanata, il Leone 1' aveva riconosciuta, e come il fatto mostrò non l'ebbe dimenticata. Montona seguiva l'esempio di Parenzo, poi Cittanova, poi Umago luoghi tutti che non è noto avessero incentivi eguali a Parenzo. Capodistria era tenuta in considerazione dai conti d' I-stria di lei alleati, e premeva al patriarca ; ma il Leone era sempre alla guardia querens quem devoret e non dimentiva lo scherzo di Parenzo del 1267. Non mancarono modi, che cinquanta anni fa sa-rebbersi detti di politica, e che allora non sappiamo come si chiamassero. Capodistria era difesa dal patriarca, era collegata col conte d'Istria, col comune di Trieste; i soci mancarono, il patriarca non poteva difenderla e si diè ai Veneziani nel 1278. L' atto fu detto di dedizione volontaria, e potevasi dirlo come si voleva, perchè il nodaro rogante era il Leone. Il fatto mostrò quanto volontaria fosse. Imperciocché si ribellarono tosto, eleggendo a podestà il conte d' Istria; e ricaduti in potere del Leone che atterrò tutte le mura verso mezzodì da porta S. Martino a porta Bussedroz nel 1283 novellamente si sottrassero e furono ridotti. V' era un castello nella città, come ognuna ne aveva, ma era in mezzo a caseggiati; i Veneti ne costrussero uno sotto il nome di Castel Leone in mezzo alle acque, separato del tutto dalla città, atto a tenere questa in freno e ad impedire ogni comunicazione colla terra, che ognun sa come Capodistria era allora in isola. Ciò non bastò; nel 1353, mentre un'obbedienza di tanti anni pareva dover essere abitudinaria, Capodistria (diciamolo col linguaggio adoperato dai Veneti) si ribellò e cacciò i Veneti anche dal Castel Leone. Ripresa, fu fatta giustizia, poi i pericolosi furono trasportati a Venezia, col divieto di allontanarsene, sotto perdita della testa. Ed erano nobili questi, e di cospicue famiglie. Poco più tardi (nel 1380) presentatasi la flotta ge- novese. nuova ribellione, nuova presa del Castel Leone. I Veneti la ripresero ben tosto e la condannarono al saccheggio; nè questo bastò, perchè presentatisi novellamente i Genovesi, novellamente la città li accolse; il Castel Leone resistette. E queste cose avvenivano mentre la Repubblica era stretta da esterni nemici, circostanza nella quale anche i meno devoti si mostrano propensi. II Leone ricuperò Capodistria; non sappiamo precisamente in quale delle frequenti ribellioni abbia adottato altre misure che le sopradette; però è certo che al cadere del secolo XIII, Capodistria non aveva mura, e ciò era come il tagliar la coda ad un gentiluomo nel secolo passato; non aveva consiglio, e per ciò non aveva notili; non aveva proprie leggi, nè propri magistrati, era invece governata dal podestà che eleggeva a suo piacimento gli officiali e solo agiva e pronunciava, e che dopo il 1383 riuniva per migliore sollecitudine i poteri civili e mili-ri. I beni che erano del comune divennero beni del fisco di S. Marco; così le terre, così i dazi. Non più missione di podestà in altri luoghi, non più officiali propri, che a dir vero occupavano gli ingegni e fruttavano; non più rappresentanze nè del comune, nè della contadinanza; Capodistria era ridotta a condizione per quei tempi infima. E queste cose succedevano per opera di potentato che non era sovrano di Capodistria, dacché il sovrano n' era il patriarca di Aquileja al quale la Repubblica dava ricognizione in danaro; succedevano in base ad una dedizione che non importava più che il diritto di governo e questo pure limitatissimo; e succedevano perchè la città che non potè legittimamente sottrarsi al suo principe, nè il volle, tentava di ritornare al legittimo sovrano; il quale poi giudicava tanto volontaria la dedizione che non procedette a castighi siccome i Veneti. Frattanto le cose dei patriarchi peggioravano a segno di disperare che avrebbero ricuperato il loro stato; la contea d'Istria era passata alla Casa d'Austria, Casa che era impegnata in affari di maggiore momento che non quelli della contea d'Istria ; fu necessità di adattarsi. Pregarono che il doge accordasse loro di essere governati colle proprie leggi (nel 1394), e l'accordò con quelle modificazioni che credette, e sempre ben inteso che il solo podestà abbia a creare gli officiali, e che nell' agire sia affatto indipendente dal voto di questi. Nel 1403 riebbero consiglio, nel 1413 il permesso di murare la città. Ma quando chiesero che i fuorusciti, siccome appartenenti al consiglio, rientrassero in patria a ristorarne i guasti, il principe rispose, sieno del consiglio, ma restino ove sono. E quando chiesero di riavere i diritto di concedere la nobiltà, mediante 1' aggregazione al consiglio, il Doge rispose che così fosse; ma che egli voleva creare a piacimento nobili di Capodistria, senza obbligo di residenza nella città, ed il consiglio fosse tenuto a registrarli nel libro d'oro. Ed iljpodestà rimase sempre in potere di pronunciare da sè solo; le magistrature urbane davano|nella giustizia civile ed in altre pubbliche urgenze suggerimento, nulla più. Delle antiche giurisdizioni fu ricuperata quella di podestà dei Due Castelli, e il Capitanialo degli Schiavi. Ed eccone il modo. Il comune chiedeva al suo Principe, autore di ogni giustizia, la grazia, ed offeriva nel caso che ne conseguisse V effetto e non altrimenti, tante migliaia di moggia di sale (e questo per straordinaria ricompensa), ed ogni anno tante libbre di olio e tante paia di beccaccie o tanto di danaro (ciò che altra volta in tutta secretezza si avrebbe detto un pot de vin). Il principe non si adontava nè delle parole, nè della cosa ; accettava il... l'offerta volontaria, e prima che la grazia potesse aver effetto, voleva che si versasse il tantundem.... le sapevano tutte! Evviva la Repubblica. La concessione poi veniva fatta per diritto feudale; cioè a dire, il principe non si spogliava del diritto, ma conferiva 1' esercizio, il quale a piacimento poteva essere richiamato; delle moggia di sale non si sarebbe parlato più. E chi dubitasse di ciò l'invitiamo a leggere le suppliche e le ducali stampate Apud Franciscum Salerai, et Joannem Cagnolini, Venetiis MDCLXVIII Superiorum Permissu. Dopo di ciò, Capodistria fu sempre fedelissima; successe a lei come a certa giovane dama, la fedeltà venne col tempo; ma fu poi sincera, devota, che le mutue adulazioni tanto del principe che dei sudditi, erano bensì viziature, ma i tempi le comportavano; erano come i complimenti di oggidì, parole non altro, nè può ragionevolmente trarsene argomento di pensare l'opposto di ciò che si dice, come è degli adulatori. Compiuta nel 1420 la conquista dell'Istria per opera di quel Filippo Arcelli, principe di Piacenza che, inorridito alla vista del fratello e del figlio appiccati dinanzi alle mura per ordine di Filippo Maria Visconti a fine di costringerlo alla resa, ricoverò di soppiatto nelle terre venete, e fu generale (morto poi nello stesso 1420 e sepolto in S. Francesco di Capodistria), scaduti i patriarchi dal governo temporale, non vi fu nemmeno possibilità a desiderare cose nuove; ed i nobili e popolani di Capodistria servirono con lealtà e valore in terra ed in mare; e ciò che è singolare aiutarono la Repubblica a trattare Padova in modo crudele per tentata defezione. Di riavere i beni comunali, non fu più parola, nè di partecipare all' amministrazione della giustizia civile e penale, non fu più parola; appena riebbero certa magistratura sul distretto, che non sapremmo ben indicare quale fosse; di prerogative provinciali non fu che parola, accordando a Capodistria la rappresentanza in occasione di elezione di nuovo Doge; di proporre leggi civili non fu che scarsa parola, delle criminali dovevano valere le venete ; niun armamento municipale, che anzi il castello nell'interno della città (oltre il Leone)era in mano del principe; niuna partecipazione alla legione provinciale dei scelti, la quale stanziava nella provincia invece chiamata servigio di mare ed a quello dell' artiglieria, servigi mobili ed in tutto potere del governo. E noteremo cosa assai memorabile: Capodistria dopo 125 anni come si dice di botte che annientarono la sua condizione civile ed economica, dimenticò ogni rancore contro i Veneti, e fu loro sinceramente affezionata; ma ai Piranesi, ai Parenzanì che resistettero all'ampliazione del suo dominio, che operarono coi Veneti per ricondurla all' obbedienza di S. Marco, non perdonò mai, una muta avversione durò a lungo, e forse dura tuttora in parte in qualche uomo volgare, senza poter rendere ragione di ciò. Inesplicabili contraddizioni dell'uomo che piega per la forza, e si converte, ed odia chi operò per la conversione.