Esce una volta per settimana il Sabbato. — Prezzo anticipato d'abbonamento annui fiorini 5. Semestre in proporzione.— L'abbonamento non va pagato ad Altri che alla Redazione. Placito istriano tenuto nel 901 dal Conte Weribent o Wariento. Il Coleti nelle Aggiunte all' Italia sacra dell' Abbate D. Ferdinando Ughelli registrò carta tratta dall'Archivio Episcopale Parentino, la quale contiene il giudicato del Parlamento istriano nella questione fra il Yescovo Andrea di Parenzo e Berta di Monte .... per Io quartese del vino, pel glandatico dei porci, per l'erbatico degli agnelli. Alla qual voce di Parlamento ricorre tosto alla mente la Rappresentanza della Provincia che si occupa del buon governo della medesima, delle leggi civili e penali della finanza, partecipando al potere del Principe, od almeno al potere del Marchese; ma nulla di sifTatto. Ned il Parlamento era di quelli tenuti periodicamente nei tempi più remoli per udire i reclami dei provinciali, per conoscere dell' amministrazione del Duca o del Marchese, tenuti dinanzi ai Messi Regi od Imperiali, che erano mandati a giudici dei reclami dei provinciali, e dei quali abbiamo bellissima carta dell' 804, tratta dal Codice Trevisani, ripetuta per le stampe da molti ed anche da noi. Il Parlamento, del quale oggi teniamo discorso, non è che una Corte provinciale di giustizia, tenuta non dal Marchese, ma dal Conte coi suoi Giudici, in lite che era di attribuzione dei giudizi provinciali; la quale specie di Corte non fu già escogitala nel medio tempo, ma improntata su instituzioni provinciali consimili del tempo romano, delle quali però noi non intendiamo di annojare i nostri lettori. Questa Corte di giustizia era diversa dal Parlamento dell' 801; in questo intervenivano il Metropolita, i Vescovi, i Giudici delle città, i Primati delle Curie Municipali ed i maggiori eslimati (se così possono dirsi li homines Capitanee); nella Corte di giustizia del 991 prendevano sedia soltanto i Vescovi, i capi delle città (Lociservatores) i Giudici delle città che allora dicevano Scabini; niun altro, così che v'intervenivano soltanto Magistrati, fra i quali crediamo poter collocare i Vescovi per quel pubblico potere civile del quale erano rivestiti fino dal tempo dell'impero bizantino. Il sistema baronale non aveva ancor preso sviluppo, i baroni non avevano ancora per proprio diritto, sede nelle Corti provinciali, come più tardi si vedono figurare, anzi nelle cose di giustizia, esclusivamente. Alla Corte di giustizia del 991 non tutti i Vescovi presero parte, ma solo quelli di Parenzo, di Trieste e di Citlanova; non i locopositi ed i giudici di tutte le città, ma solo i locopositi di Parenzo, di Giustinopoli e degli scavini ne comparvero quattro di Parenzo, tre di Giustinopoli, uno di Trieste, quattro di Ciltanova, due di Pi-rano. Almeno questo è il numero delle persone registrate a nome, e sebbene si dica nella carta che altri molli comparvero, è a dubitarsi che siensi ommessi quelli di Pola, allora precipua città se veramente fossero intervenuti. Nè potressimo facilmente cercare un motivo pel quale il Vescovo di Pola, e quello di Pedena, od i Locopositi di Pola siano mancati, dubitando che allora Pola facesse Contea da sè, come più tardi lo fece; fra i testimoni al giudicato figura l'avvocato della chiesa di S. Tomaso, che a nostro avviso è 1' avvocato della chiesa Polense. Pensiamo piuttosto che per quelle convocazioni non fosse prescritto il numero dei presenti per formare collegio costituito, e che 1' assenza fòsse casuale. Ma ben ci rallegra 1' animo il vedere fra i giudici due Scabini di Pirano, prova che quella nostra patria adottiva fino dal IX secolo prendesse sede fra le città istriane, e questo rango ci è argomento che lo fosse in tempi ben più antichi, e fino da quando fu dato pianta alla provincia, che nè i bizantini, nè i Franchi alterarono, e che si modellò altrimenti soltanto durante il governo dei Patriarchi A-quilejesi. Il Conte d'Istria presedeva la Corte. A quei tempi la Contea era ancora un officio, non era ancora divenuta unappanaggio come successe più tardi, nè una baronia sì alta da ritenersi Principato, che tale divenne appena nel 1112 di diritto e di fatto in quel Conte Engelberto che fu stipite di quegli Certenburg del ramo deali Ep-penstein Carintiani che ebbero l'Istria interna. Il Conte presidente non era giudice; giudici erano i Vescovi, i Locopositi, i giudici della città; questi pronunciavano, quegli proclamava la sentenza. Il dibattimento offre regolarità di forme; gli avvocati, non le parti recitano la causa, e rivolgono la parola al Conte, non ai giudici; alla petizione verbale segue la risposta, non allre deduttive, e chiuso così il dibattimento, il Conte invita i giudici a pronunciare il giudicalo, il quale non è già come altre sentenze di tempi posteriori, è condizionato, o come dicono nel gergo processuale, interlocutorio, tenendosi la Corte nella posizione di giudice del diritto, allonlanalo da sè ogni cura della prova. Abbiamo veduto sentenze posteriori nelle quali il fatto veniva accennato sollanto come quello da cui dipendeva il diritto; nelle quali si registrò tanto il voto della minoranza dei giudici, quanto quello della maggioranza; però quello della maggioranza formava il giudicato; vedemmo pronunciarsi che se la tale parie litiganto potrà provare la tale cosa, sarà in suo diritto, senza neppure indicare in qual modo abbia a darsi la prova, nò da chi abbia a riconoscersi siccome prestala. Siffatte sentenze ammettevano appellazione, non già pel principio moderno di avere in ogni lite tre giudicali, ma perchè non essendo quella Corte, Corte Sovrana, poteva muoversi querela di male giudicato; l'appellazione sarebbe andata al Re. La sentenza della Corte presieduta dal Conte We-ribent pronunciò all'invoco l'obbligo della Berta impelila di giurare, e la Berta prestò il giuramento dinanzi la Corte medesima, la quale pronunciò poi sentenza assoluta, o come dicono definitiva, con che la lite ebbe termine; ed il Conte ordinò che la si redigesse a scrittura da consegnarsi alle parli. La questione si aggirava sul censo che era dovuto al Vescovo di Parenzo da una vigna, sul glandatico per le mandre dei porci, e sull' erbatico per le inandre di pecore, che pure spettava alla Chiesa Parentina le quali prestazioni si pretendevano dalla Berta pel Monte... che dessa possedeva. R Monte.... era un predio situato dinanzi al -Vico di Rosario, certamente entro i confini della diocesi di Parenzo, se da questo terreno il Vescovo aveva diritto di decima di glandatico e di erbatico. Questo Vico di Rosario è a nostro giudizio il sottocomune di Visinada, come era nelle confinazioni di pochi anni or sono, e dinanzi a questo collocandosi questo Monte... pensiamo essere questo il Monte Lino di carta del 1200, e che corrisponda all'odierno Ber-caz, compreso allora nel Vico di Montona. Neil' apografo del diploma come stampato dal Coleti sta scritto Monte uno, parole che secondo il nostro giudizio, nascondono un nome proprio di località ; fra i testimoni figura un Gastaldo de Castro Montaboni; però non è questo il luogo della questione, ma altro a noi del tutto nuovo, seppure non va scritto Castro Monlhone, come è più naturale. Quanto al quartese delle vigne il Vescovo di Parenzo vi aveva diritto in forza di legge che dotò il clero, la quale convertì in obbligo la pratica antica, e questa legge del 543 l'abbiamo pubblicafa. Ma l'origine del glandatico e dell' erbatico a favore delle chiese non è altrettanto chiara. Il Vescovo di Pola godeva fino al 1848 l'erbatico nei Comuni di Pomer, di Sissan, e di Li-signano. Carlomagno nel 792 accordava al Patriarca di Aquileja: "neque de peculio proprie ecclesie, quando partibus Istriensibus in pascuis miserint, ullum debeant solvere herbaticum,,, esenzione che Carlomanno confermava nell'879. Nel placito tenuto nell' 804 dai Messi di Carlomagno in Risano, vedesi che il Patriarca di Grado godeva egualmente esenzione di erbatico per lo suo peculio dominicale che i comuni istriani riconoscevano dovuto. In questo placito vedesi esercitato dai vescovi il glandatico e l'erbatico, del quale esercizio gli istriani movevano querela. Così che dovrebbe dirsi che la chiesa Patriarcale aveva il diritto di pascolare gratuitamente le proprie pecore; avere le chiese vescovili avuto 1'erbatico ed il glandatico, cioè a dire un censo che si pagava alla chiesa pel pascolo dei porci e delle pecore; e che si in- dica di consuetudine, voce quest' ultima che non esclude un'origine in forza di legge. Le condizioni delle chiese della metropolitana cioè, e delle vescovili era diversa-quella era esente da pagamento pel pascolo dei propri animali pecorini; queste percepivano un canone per l'uso del pascolo che si faceva su fondi aperti, su comunele da chiunque, con animali suini e pecorini; era una tassa a profitto della chiesa; introdotta come sembra dopo il 543. Singolare si è che mentre per ammissione degli istriani, il Patriarca di Grado godeva nell' Istria dell' e-senzione dei pascoli, il Patriarca di Aquileja vantava lo stesso diritto e lo si faceva confermare da Carlomagno, prima ancora che i vescovi istriani venissero pggiudicati all'Aquilejese. E noi pensiamo che e l'esenzione e la percezione di glandatico ed erbatico provenissero da liberalità imperiale, credendo di ravvisare in siflatte percezioni 1' antica scrittura, che insieme alla decuma ed al Portorium formavano le rectigalia. 11 por/orium rimase sempre in Istria di ragione del Fisco Regio, venuta poi in mano dei Patriarchi che avevano potere di Principe. La decuma rimase in. poca quantità di ragione del Principe distrutta nella massima parte o per liberalità o per vendite, e terminò colla totale abolizione nel 1848 preceduta dall' abolizione in parte della decima ecclesiastica; la Scriptum data alle Città allorquando fu loro poggialo il governo di altri comuni vicini, era godimento non proprietà delle città e subì varie vicende, or dati, or tolti, or restituiti, e come pare assegnata alle città soltanto per un terzo del reddito. Ed abbiamo sospetto che di questa scrittura gì' imperatori avessero fatto dono ai Vescovi per loro dotazione forse fino dai tempi in cui furono formati i Vescovati istriani nel 524 o poco dopo. Il Vescovo di Parendo ebbe la peggio nella lite da lui mossa contro Berta dalla quale chiedeva la decima del vino, il glandatico e l'erbatico. Berta oppose che dessa possedeva il Montelino, e lo teneva a colonia parziaria a metadia e con pagamento di canone, che dell'erbatico e glandatico non ne godeva che una terza parte, e che queste cose essa godeva a titolo di proprietà e di eredità. In carta del 1200 nella spartizione che per compromesso fece il Patriarca Peregrino dei beni che possedeva Riccarda di Montona a titolo di investitura feudale fattale dal Vescovo di Parenzo, si vede che tutti i territorii posti fra Montona e Torre lungo la costiera del Quieto erano di dominio baronale dei Vescovi di Parenzo, e certamente sono questi i beni dei quali si fa conferma in diploma di Ottone dell'anno 983; l'alto padrone del Montelino era quindi il Vescovo di Parenzo. Però Berta era la proprietaria della vigna in Montelino, ma semplice conduttrice a colonia parziaria ereditaria, con di più annuo canone (quarta) così che altri era il proprietario ed il percipiente del canone, e come pare lo stesso Vescovo, il quale essendo percipiente doveva a sè medesimo pagare la decima ecclesiastica. Il glandatico e 1' erbatico sui terreni nudi del Montelino si percepiva dalla Berta soltanto per una terza parte, due terze parti di questo reddito sembrano essere state percepite dal proprietario del Montelino, cioè dallo stesso Vescovo. Il quale Montelino non sembra essere stato terreno decimale, ma piena proprietà, bene dominicale dei a Vescovi medesimi. E se cosi fossero le cose, il Vescovo di Parenzo avrebbe preteso dalla Berta e la decima ed il glandatico e l'erbatico per titolo di dominio pubblico di patrimonio ecclesiastico, al che la Berta avrebbe opposto il dominio privato che rendeva inefficace il pubblico. Nella carta del 1200 il patriarca fe'divisione dei feudi posseduti da Riccardi di Montona fra un Alberto Conte di Viselberg, ed altri due, l'uno da Mugla (che potrebbe essere da Maggio presso Parenzo), l'altro da Valle; e questi feudi erano Montona, Montelino, Rosario, Nigrignano, Torre, Walta la quale ultima, potrebbe essere Novaco di Montona. È certo che nel 1165 viveva un Reginardo di Montona, il quale tra le altre cose aveva la Curia di Montona, cioè una possessione in valle, per allevare bestiami come pare, da lui donata al monastero di S. Maria fuor le mura di Aquileja, la quale Curia passò poi nel 1174 ad un Cónte, il nome del quale non sappiamo con certezza. Noi non vorressimo supporre che nella Carta del 1200 sia incorso sbaglio di scrittura, cangiando questo Reginardo in Riccarda ; in altra carta abbiamo veduto Riccardo di Montona, Dovrebbe dirsi che questa Riccarda se donna fosse morta poco prima del 1200, e che vi fossero questioni di successione fra gli eredi di lei, terminale con spartizione fatta da Patriarca Pellegrino, per cui Montona e Rosario vennero in dominio del Cónte Alberto di Yisel-berg, seppure è questo il suo predicato? Dei luoghi componenti il feudo che era di Riccarda, Montona è nota, Montelino sarebbe Bercaz, Walta crediamo sia Novaco od in quei contorni, Rosario è Vi-sinada, Nigrignano è Monte Formento quanto a luogo, Castellier quanto a comune. Sospettiamo che siavi errore di scrittura nelle peschiere che si dicono di Leme ; pensiamo che piuttosto debbasi leggere Nonae, che sarebbero nelle aque marine del canale del Quieto, peschiere che erario del Vescovo di Parenzo, ma nelle quali vi erano anche altri azionari e pretendenti ; erano poi peschiere abbondantissime. L' azione o caratto delle peschiere lo dicono nase, voce che sarebbe conservata nelle odierno nasse. Abbiamo veduto altre peschiere istriane dividersi in caratti (intendiamo appunto del secolo XIII, e suddividersi diremo quasi all' infinito. Notiamo dei molini, che il diritto di farne sulle acque correnti non era diritto baronale, sibbene marchesale ; al marchese doveva chiedersene la licenza per costruirne di nuovi, ed'aversene l'investitura. Questioni per le decime di Rovigno nel 1105. L' argomento delle decime diede in Istria occasione a frequenti questioni come a frequenti disposizioni di legge, e per quanto sappiamo, nè queste tolsero ogni dubbiezza, nè quelle questioni che ebbimo occasione di vedere posero la cosa in quella luce che si conviene. Imperciocché di doppia indole si era la decima 1' una ecclesiastica, laica 1' altra, quella dovuta al clero e sifiat- tamente dovuta che da niun' altra persona che dal clero poteva essere percepita; questa dovuta a persone laiche, al Principe in origine, che poi passò in altre mani, ed anche in mano di prelati e di chierici, però a titolo laico soltanto. In antica carta istriana vedemmo chiaramente distinguersi dallo stesso prelato la decima laica che possedeva in luogo determinato, dalla decima ecclesiastica che gli veniva dal luogo medesimo. Le quali decime come erano distinte per origine, erano altresì ben diverse per la percezione e per l'applicazione loro; le laiche erano liberamente percepibili ed applicabili, e formavano patrimonio privato fosse di barone fosse di prelato, le ecclesiastiche erano in origine percepite dal solo vescovo il quale poi doveva fame quattro parti, 1'una per sé, l'altra pel clero, la terza per la chiesa, la quarta pei poveri, così che l'applicazione della decima non dipendeva da privata volontà. In progresso -di tempo,'la decima ecclesiastica che era indivisa pel contribuente fu data in escussione al clero per la parte che a lui veniva assegnata, ma non ad ogni persona clericale, ma soltanto ai plebani, i quali poi la ripartivano fra i cappellani loro o parochi; così che il diritto di escussione della decima ecclesiastica è indicazione del rango plebanale di un chierico che ha il diritto di escuterla. Però la liberalità dei Vescovi che oltre i redditi di chiesa ebbero proprio patrimonio, fe' sì che la loro tangente o agli altri partecipanti venisse attribuita, o che se ne alterassero le proporzioni aumentando la quota degli altri. Però la voce decima ecclesiastica espri-mevasoltanto il gius,non la cifra aliquota deiredditi così che questa cifra variava, ora vigesima, ora quarantesima, ora centesima. Dalle terre che non erano di già soggette alla decima laica, la decima del clero importava veramente la decima parte dei prodotti, però non di tutti, solitamente del vino, del grano, dei legumi, degli agnelli non da per tutto dell' olio non d'altro. Là dove veniva pagata la decima laica, la decima del clero «ra la quarta parte di questa decima, però così che non il producente era decimato ; ma il decimante laico era il decimato, e questi, non il villico pagava il quartese. La quale decima (diritto non numero) era dovuta senza riguardo alla qualità laica o clericale del decimante, così che i Vescovi medesimi, se decimanti laici dovevano corrispondere alla chiesa il quartese; la massima clericus clcricum non decimai, non poteva applicarsi a clerico che possedesse decima laica. Al tempo delle invasioni turche, si introdusse nell' Istria Veneta la Redecima, la quale era imposta laica sulle decime percepite dal clero, la decima parte della decima. La decima laica esprimeva non soltanto il gius, ma ordinariamente anche la quota parte dei prodotti, non però di tutti, solitamente di grano, legumi, vino, agnelli, non da per tutto di olio. La decima laica o che più esattamente dovrebbe dirsi baronale, se in mano di prelati era in escJusivo loro benefizio, e disponibilità e solita mente davasi da questi, o dalle chiese, a laiche persone in feudo, in investita verso annuo censo mite, e verso obbligo di fedeltà, sia per fasto, sia per compenso di offici; o forse anche per debito generale, o pratica di non tenere in sé beni baronali, ma di darne investita a nobili. Abbiamo veduto farsi distinzione dai Prelati delle loro baronie, e dichiarate alcune de mensa, e non darsi di queste investita, ma anzi muovere gravissimi lagni, se usurpate da qualche barone ; quasi queste non fossero disponibili, mentre delle altre era sistema di concederle ad Erimani, od a militi che è lo stesso. Il riconoscere l'indole di queste duo decime, della ecclesiastica cioè e della baronale, non torna difficile se abbiasi presente l'antica ripartizione territoriale di chiesa, lo condizioni politiche ed ecclesiastiche di questi ter-ritorii, e la massima che decime ecclesiastiche non potevano possedersi da laici; e pensiamo cho le pochissime eccezioni sieno piuttosto di apparenza. Sui prodotti colpiti dalla decima naquero spesso dubbiezze e questioni, pel desiderio di taluno, o per la credenza cho fosse debito di introdurre la decima mo-saica generale che abbracciava ogni cosa; ma la chiesa nel riconoscere l'obbligo di pagare la decima, vi aggiungeva secondo l'usanza; le pretese nè furono da per tutto nè con effetto. Queste decime fossero baronali fossero laiche ebbero vario trattamento, secondo le parli d'Istria di nuova o di antica possidenza austriaca, e secondo i tempi. Trieste da lungo s' era affrancata dalla decima ecclesiastica, dandone in compenso il dazio delle legna, della paglia e del carbone, che abolito pur questo, vi fu surrogata corri-sponsione in danaro. Nè altro cangiamento si foce nella penisola fino all'occupazione francese (non calcolato il Casatico Giuseppiano) durante la quale le decime baronali vennero diminuite di un quinto, perchè considerate onere di pubblico diritto ; le ecclesiastiche poi abolite integralmente nelle mani dei Vescovi e dei Capitoli, tenute ferme nelle mani dei parochi. Ripristinato tutto sul piede antico alla finodeI18l3, poco stante la decima baronale veniva del lutto abolita se la percezione era in mano del governo, nel 1825 abolita la decima ecclesiastica nella parte già veneta dell'Istria, tenuta ferma nell'altra. Nel 1848 le decime baronali vennero tolte, ma durano le quote di queste decime che sono applicate al clero curato. Pensiamo non sia per isgradire 1* esposizione di una questione per decime agitatasi nel 1195 fra il Vescovo di Parenzo ed il detentore delle decime, non fosse altro, per vedere come in allora si trattavano le questioni. Si contengono in una carta che raccolse il letterato paren-tino del secolo passato Bartolomeo de Vergottini e che rimase inedita. Le questioni erano per le decime di Rovigno, tenute da certo Ermanno, ed erano decime baronali, non ecclesiastiche. Delle quali decime era stata data investitura a certo Luca, morto questi ad Artuico di Montona, morto questi a certo Scandalo da Rovigno, ma su queste decime aveva pretensioni il Conte Mainardo d'Istria; ed ecco per quale via. Il Conte pretendeva che il Vescovo Uberto gli avesse promesso cinquecento decimatori o piuttosto decimandi, e non ne avesse avuto che duecento. Il quale numero sembra indicare ad una unità di possessione rustica ad un maso, del quale non è bene certa nè generale l'estensione; solitamente era di 12 jugeri romani pari a cinque jugeri ed 844 pertiche austriache, così che sarebbero stati concessi al Conte presso che 2750 jugeri; però vi erano anche mansi minori; forse in Rovi- | gno uri rrianso era formato da 10 giornate d* arare. |J Conte venne a Parenzo con mano armàta, pose il campo a S. Eleuterio e venne a colloquio col Vescovo Uberto Il quale adducendo di ignorare la promessa fatta dal suo predecessore, ricusò i trecento decimatori, qualora il Conte non provi per carta, per vassalli o per idonei testimoni, il che dal Conte non fu fatto. Però il Conte indignato andò a Rovigno ed arrestato Scandalo s'impadronì delle decime calcolandole per 500 decimatori. Nè a questo si limitò il Conte Mainardo, ma fece violenza a] Vescovo Pietro nella chiesa di S. Pietro in Selve come pure intorno il 1175; però ad interposizione del Patriarca Goffredo di Aquileja si compose col Yescovo Pietro e rinunciò alle pretese sulle decime di Rovigno. II Conte nell' impadronirsi delle decime di Rovigno aveva posto le mani su quello Scandalo che ne aveva l'investita dai Vescovi, e Scandalo riconobbe il Conte che poi le diede a Leonardo, al quale subentrò il figlio Ermanno col quale il Vescovo Giovanni contendeva, ed a quale negava ogni legittimo possesso, e legittima investitura. La questione agitavasi dinanzi ai Vassalli della Curia Vescovile, e terminò col riportarsi alla Contessa, la quale avrebbe dovuto dichiarare se la decima era veramente del Vescovo, o se la guarentiva a Leonardo. La Contessa inviò il suo milite Balduino, il quale prestato giuramento di essere nuncio della Contessa, giurò in nome di questa che le decime di Rovigno erano delYe-» scovo, e ]a Contessa lo pose in possesso. Inscrizioni Naronitane. Dall' opera di Sir Gurdner Wilkinson — Dalmatici and Montenegro — London John Murray, Albermarle Street 1848, leviama alcune inscrizioni dell'antica Naro-na, éelebratissimo emporio dei Dalmati alla foce della Narenta, e una delle tre centrali della Dalmazia marittima. THERMS • REI P • HIEMAI POPYLO IN R V I NAMI M • AYR • VALERIVS VL D V S EX P ROTEOTOPE DIVINI DE ERYC AE//// VRI RVMSA AVII ET LAVA NTEM REIP TRADIDIT EPVLV M QYOQVE CIVIBVS SVIS EA DIE PRAEBY/T . MESSALA Ef CRATO COS DEDICANTE MR TIBERIANO YIPRAES PROV DEL" Messala et Grato Consulibus, M. Aurelio liberiano Viro Illustre Praesids Provinciae Delmatiae. Negli ultimi versi leggiamo: Messala . . Tìelma-tiae, e sarebbe dell' anno dell' era comune '286. L' altro personagio del quale si fa menzione M. Aurelio Valerio, uomo illustre EX • PROTECTORE. La leggenda imperfetta concede di sapere della ristaurazione di un bagno caldo, la quale venne inaugurata con banchetto. D • O • M PRO SALVTE IMP • SEVER ET ANTONINI AV G G ET GETAE ET IVL • AVGYSTAE MATR A VjGG ET CAST ORVM C • STATIYS TACITIANYS BF • COS ' LEG • XI • I • G V • S • L • M POMPEIANO • ET • AVITO COS È dell' anno 209 essendo Consoli Civica Pompejano c Lolliano Avito; al nome di Gata manca la dignità NOB* CAES mancata per ingiuria o di tempi o di uomini. TEMPLVM • LIBERI PATRIS • ET -LIBERAE-VETVS TATE • DILABSVM- RESTITYIT COH • I • BLO ■ ADIECTIS ■ POR TICIBVS - CYRAM • AGENTE FL'VICTORE • r-LEG-I-A-D P F • SEYERO - ET • POMPEIANO •IT- COS È dell'anno 173: M. Aurelio Severo II. T. Claudio Pompejano iterum Consulibus. — ed accenna a culto bacchico, cui si rinnovava il tempo. DIANAE NEMORES SACRVM TI • CLAVDIVS • CLAYDI ANVS • PRAEF • COH • I BRACAR AVGVST EX YOTO-SVSCEP DESYO È ara dedicata a Diana boschereccia da un Prefetto della prima Coorte dei Bracarogostani. AYG ■ SACR • C • IVLIVS MACRINI • LIB MARTIALIS • IIIIVIR • M • M OB HONORDEMLYDOSSCAENIC PER • RDD • FI • CANIARC • P - S C/////PISENIVS • SE VERINVS • LIC • VIC TEMPLVM ' LIB • PAT VETVSTATE • CORRVP TVM-PORTICIB-AC-TECT* RESTITYIT L • CALIO FVS O COLLEMIYM FA RO VM L • O • AE T * F • M AGNVS EX VOTO M • LVS TROPHMAS MILIB Inni VIR M • M OB H CA • ORVTONVS C FAI ■ ANN ^ • STAMIT • L BA L • SATINVS • OVA • R • C • LICINIVS TELAMO FV * M • M • A • A L-A-I-A-S-I'A-I-D - S-P-C C • L FORIV AN • H • S • E • XIIX SI PIETAS ' PRODEST QVIQVAM V1X1SSE MODESTE • VOS PRECOR D • MANE MIRT TERRA IEVS LIBERTAS ONIMNFVB PROMISSA ET EI ITIBESVB FATVM VENILCNARBITRIVM YIYITE FELICES OVIBV MVLIAN///// C VICTORIA STRI VMFATORI 7 C VSQUE ORRIS A C BONO REIPYBLI CAE D M AEMIIIO FORf BENEFICIARIO COHOR VIII YOLYN TARIORVM L • AEMIL HERMES Iiiìil ET • AEMIL1A SATYRNINA -PATRONO BENEME • SIBI • ET • S VIS • ET; POS RISOVE EORVM Aquedotio romano di Trieste. Altre volte abbiamo avuto occasione di discorrere in questo giornaletto degli antichi aquedolti che nel tempo di dominio dei romani servivano alla colonia di Trieste; di quelli minori dei quali T un veniva dalla valle di Longera, l'altro dalla valle di Rozzol, e del maggiore che in lunghezza di sette miglia veniva da Bagnoli o Montecavo. Pensiamo che quelli due cessassero, come-chè di poca aqua, al costruirsi del maggiore; di questo poi avevano congetturato che fosse stato fatto ai tempi di Augusto, allorquando venne da lui rifatta la colonia di Trieste, maltrattata nelle guerre civili, e forse di altro partito che non quello di Augusto. Nessuna leggenda giunse a noi che ricordasse la costruzione dell' aquedotto, un brandello di leggenda era stato veduto in San Michele presso le mura della città, nel secolo passato, di cui un apografo era stato inviato al Bertoli ed al Carli, nel quale si accenna ad una piscirtaj ma è sì lacero e maltrattato da non cavafSéne sènso alcuno, //ECIT • PISCINA// . //D1VS • TRÌBYN//,; " /TORYS /L/ /ORVM/ Avevamo giudicato- dell'età dell'Aquedotto dal genere di sua costruzione, e dalle vicende della colonia di Trieste, per quanto sono note ptei monumenti sopravanzati; oggidì altra indicazione abbiamo per accidentale scoperta di medaglia che fecero due vigili (o pompieri) in quest' autunno del 1852. La sorgente che conducevasi altra volta a Trieste è per 312 piedi viennesi più alta del livello del maro „ sgorga in una stretta valle al confine fra la calcare 1' arenaria, valle che è veramente orrida a vedersi per l'alte montagne che la chiudono, per la nudità dei massi, pei dirupamenti. Per condurre l'equa nella valle più larga cho dicono di Zaule, fu necessità aprire il leit0 dell' aquedotto nella parete delle montagne jin terreno di breccia, così che all' occhio rimaneva nascosto ; però sfranata la breccia e con questa il canaio dell'aquedotto si vedono tuttora in costa di monto le testate del canai le, per giungere al quale l'impresa è piuttosto ardita elio difficile. In questo canale entrarono i-due Vigili ed internatisi a curiosità, nel Ietto, sul quale altra volta scor-reano le aque, rinvennero una medaglia di modulo grande, di bronzo, la quale ha indizj di essere stata lungamente sott'aqua, ed è sì ossidata che, conservate" le traccio dei rilievi, delle leggende poco può leggersi. Pure da un lato può ancor vedersi una corona di quercia con in mezzo OB CIVES SERVATOS dall' altro una testa d'imperatore senza corona in capo e traccio di lettere che non azzardiamo di accennare più che dicendo traccie di lettere, all'infuori della prima della leggenda, la quale indubbiamente è un C. La testa sembra a primo aspetto quella di Claudio, non potrebbe essere quella di Augusto. Quella medaglia non fu gettata lì entro dopo rotto l'aquedotto, il quale congetturiamo sia cessato nel secolo VI e propriamente nelP- anno 563 nè gettata a caso che non pensiamo essere ciò facile di medaglie, come sarebbe facile di monete, nè pensiamo sia mero caso il saperla trovata in tanta prossimità al Capofonte, ma non azzardiamo ' fare qualsiasi congettura che sarebbe oziosa fatua. Comunque sia abbiam voluto portare a pubblica conoscenza il rinvenimento della medaglia. Sentenza di Patriarca Bertoldo lile fra Pietro App ottoni o contro il comune di Pirano, del 1238. f Alla Sentenza del Conte d' Istria del 993 opponiamo altra sentenza del Patriarca Bertoldo degli Andechs. pressoché 250 aftni più tardi, dalla quale si vede come nel giro di questo periodo le cose si sono cangiate. Il Patriarca, anzi il Marchese teneva la sua Corte in Pola, perchè allora trovavasi in quella città, non perchè ivi risedesse tribunale stabile, chè anche l'alta giustizia tenevasi excurrendo, La corte non era più formata dai Vescovi e dai Giudici delle Città, ma dalla Curia di nobili milili; il Tribunale provinciale era già formato di nobili, a numero indeterminato, e pensiamo che Io fosse fino dal 1100, quando le instituzioni che dicono feudali, ma che noi preferiamo dire baronali, ebbero stabile' ordinamento per l'eredità delle cariche. , ■ • La curia si radunava ove il Marchese l'ordinava, ma ben crediamo che si fosse già introdotto di ' tenerla-di preferenza in qualche città di maggior conto, anziché tenere parlamento or in un sito or nell'altro, e per lo più in aperta campagna, come lo si praticava nel secolo IX e X quasi temendo che una città qualunque avesse prevalenza sulla campagna. La Curia era preceduta -dal Patriarca medesimo, il quale recitata che fu la causa, chiese il voto ad una persona determinata dei suoi giudici, sul quale s'aggirarono poi i voti degli altri, così che si vede ridotta a regola di esternazione ciò che dicono la proposizione. 1 La lite veniva mossa da private persone contro il Comune, ed appunto perchè la parte convenuta era un Comune spettava la causa alla Corte provinciale, intendiamo cioè Comune, che per rango suo fosse qualificato alla competenza provinciale. Siffatte regole di competenza durarono lungamente, non in Istria nè in Trieste, ma in Provincie vicine, e furono nei tempi nostri riattivate, e recentemente tolte. L'argomento della lite sarebbe alquanto strano pei nostri tempi, che delle cose che spettano al diritto pubblico si hanno altri principii. Il Governo Veneto aveva tolto ad alcuni piranesi 1246 lire per occasione del Comune di Pirano; il processo non dice per quale occasione, e non è facile il riconoscerla, però si può congetturarla. Diressimo che quel danaro fosse dovuto al Principe Veneto dal Comune di Pirano o per qualche contravvenzione ; e siccome il diritto di allora faceva responsabile ogni singolo cittadino insolidariamente pel Comune intero, convien ritenere che il Governo Veneto si fosse pagato del credito verso Pirano, col danaro di questi cittadini; abilitandoli poi di riaversi non solo sul comune di Pirano, ma sugli uomini di Ancona; il che fa supporre che in questa contravvenzione o di navigazione o di bando, prendessero parte anche Anconitani, ed il Doge di Venezia diè espressa autorizzazione di tenersi agli Anconitani. Pietro Appollonio si tenne agli Anconitani, e n' ebbe facoltà dal Comune di Pirano; gli Anconitani furono posti in prigione, ed il Comune fu prosciolto dal debito verso Appollonio; ma poi forse ad instigazione degli Anconitani, o perchè temesse di essere esposto alle rappresaglie di questi fuor di Pirano, e volesse rimborsarli, si fe'a chiamare in giudizio il Comune di Pirano. La Corte diede causa perduta all'Appollonio, qualora venisse provato che questi sia stato integralmente soddisfatto con denari degli Anconitani. Notiamo due cose; l'una che il Patriarca non pronunciò personalmente e che fu piuttosto Presidente che Giudice nella Corte; l'altra che a lui non fece nè ira nè sorpresa che il Principe Veneto trattasse a quel modo il Comune di Pirano, e considerò l'avvenuto come caso meramente civile. Due diplomi del Secolo X. che toccano dei contatti fra Venezia e Capodistria. Due preziosi diplomi veggonsi registrati "dal Conte Gianrinaldo Carli nell' appendice delle sue antichità italiche, tratti dal Codice Trevisani (come crediamo) l'uno dell' anno 933, l'altro del 977, i quali manifestano le relazioni che passavano fra Capodistria e Venezia, Non sa-pressimo dire se queste relazioni fossero identiche a quelle con altre città istriane, dacché i documenti per queste mancano del tutto; ma se non erano identiche non dovevano granfatto variare. Nel primo dunque di questi documenti il Comune di Capodistria, professandosi suddito di Re Ugone, considerando che il Doge Pietro Candiano Imperiale Proprietario aveva sempre protetto il popolo di quella città, che i giustinopolitani avevano navigato in pace e sicurezza pei porti veneti, nè vi avevano patito gravame o violenza, confessano che avrebbero dovuto prima d'allora darsi pensiero del tributo (de honoribus veslris) ma per negligenza trascurarono. Ora poi sebbene .tardi, di spontanea volontà determinarono di soddisfare il tributo con prodotti del suolo, con cento anfore di vino buono al tempo della vendemmia, e non facendolo di corrispondere il doppio. Promettevano poi di tenere salvi e difesi i Veneziani, in modo che non avessero mai a patire forza ; o pregiudizio. A chiusa poi si promette cosa la quale non è a noi intelligibile. Per questo diploma è chiara l' esistenza di un tributo che pagossi sino al cadere del governo veneto, ma non sembra che i Veneziani godessero in Capodistria esenzione da dazi, almeno non se ne parla, nè di esen-» zioni che i giustinopolitani godessero in Venezia. Però sembra a noi che il tributo datasse da più antico, se i giustinopolitani confessavano di averne ommessa per negligenza la corrisponsione, sembra piuttosto che in questo tempo nell'anno 933 si convertisse il tributo invino. Capodistria pagava cento orne di vino al Patriarca di Grado, che si continuarono a dare anche dopo cessata la giurisdizione metropolitica di lui. Anche Trieste pagava cinquanta orne, ed allorquando Massimiliano I volle cessato quel tributo adducevasi dai Veneziani a titolo, l'esenzione da alcuni dazi che godevano i Triestini in Venezia, ma di confronto anche i Veneti avevano grandi facilità in Trieste. L'anno seguente a questa promissione, Wenthero Marchese d'Istria aveva fatto cessare i tributi ai Veneti anzi li aveva colpiti di sovraimposte e trattati ostilmente, ma poi fatta la pace prometteva che le città istriane avrebbero pagato il loro debito annuo (non voleva dire tributo) che le sovraimposte sarebbero tolte, e che i Veneziani avrebbero pagato soltanto in ogni città 1 diritti di porto e le dogane, nuli' altro. Il diploma l'abbiamo pubblicato negli anni precedenti. Nel 977, quarantaquattro anni più tardi il Comune di Capodistria da per solo rinnovava il patto coi Veneti, in termini più espliciti e eome pensiamo con estensione di esenzioni. Quella prima convenzione del 933 era fatta dal Locoposito di Capodistria colli Scabini, quattro di numero, col popolo senza alcun intervento di autorità provinciale ; la pace del 934 erasi fatta dal Marchese medesimo, coi Vescovi, cogli Scabini, e crediamo coi giudici delle città interessate, come fosse un parlamento; nella convenzione del 977 interviene il Conte, non di Capodistria, ma provinciale, il Locoposito, i quattro Scabini e tutto il popolo ; il quale intervento di Conte pensiamo sia a perfezione di legalità, dacché il comune di Capodistria non era indipendente dalla provincia, nè 1' affare di tale indole da lasciarsi validamente alla sola volontà del Comune, dacché si trattava di dogane. Dunque (Per cominciare colla voce di egual valore denique del testo) Sigardo Conte con tutti gli abitanti di Capodistria maggiori (nobili) mediocri (popolo) e minori Cplebe) convenivano col Dogo gloriosissimo Pietro Or-seolo e con tutto il popolo di Venezia, di rinnovare (dacché le carte erano arse) la pace e le convenzioni per tutti i tempi futuri. Con ciò che i fedeli del doge abbiano a venire a ritornare ed a negoziare in tutta sicu-curezza nei luoghi di Capodistria, senza contraddizione di alcun giustinopolitano e senza pagare i diritti di dogana, dacché per grazia dei Yeneti i Giustinopolitani erano stati esonerati dalle dogane di Yenezia. Dal che sembra che ai Yeneti non si concedesse esenzione dai diritti di porto in Capodistria, nò viceversa i Capodistriani in Yenezia. Promettevano poi i Giustinopolitani di pagare il tributo (servitium lo dicono in questa carta, honores in quella del 933, debita in quella del 934) di cento anfore di buon vino in ogni anno. In questa carta comparisce concesso ai Yeneti di tenere in Capodistria hominem cioè a dire un loro agente, o fattore una specie di Console; in carte più tarde comparisce che i Yeneti tenessero in Pola un Console, sotto questo nome, del che i Patriarchi adontavansi, e vietavano che esercitasse giurisdizione alcuna. Convenivano poi che se qualche Yeneto avesse da chiedere sentenze a giudici (ìegem inquirere voluerit) possa chiederle o secondo le consuetudini venete o secondo le consuetudini di Capodistria; che se tutti gli i-striani movessero ai Yeneti molestie e turbazione, i Giustinopolitani avrebbero nonostante pagato il tributo antico, che era diritto dei Veneziani (quod recium est, quemadmodum pristinis temporibus factum fuerif). E convenivano altresì che se tutte le città istriane venissero a risse e contese coi Veneti, i Giustinopolitani manterrebbero la pace e l'amicizia, e se qualche Giustinopolitano fosso ostile ai Veneti, il popolo sarebbe in aiuto dei Veneziani. I Veneziani avevano vietato il commercio degli schiavi, sebbene ammettessero schiavi, ed il passaggio di questi in dominio altrui per altri modi che per compravendita, che non fosse per proprio servigio. Di ciò si erano fatti patti cogli Imperatori, e legge solenne nel-l'anno 960; si comprovano fino allora schiavi in Istria per portarli altrove. Ora i Giustinopolitani promettevano che nessuno dei loro venisse nelle città del Yeneto per ridurre un uomo altrui in loro podestà; nè in modo alcuno intromettersi per comperare qualche uomo, ma do- vranno esattamente eseguirò la legge, come Io facevano i loro predecessori. Permettevano i Giustinopolitani di mantenere i patti senza la sanzione dell'Imperatore. patto si aggiunse la solita penale di alcune libbre d'oro e nonostante rimanga il patto in tutto il suo vigore. ' Dalle quali carte sembra a noi manifesto che l0 relazioni dei Veneti colle città istriane, per cui ebbero questi e tributi ed esenzione, e promesse di fedeltà sono più antiche che non comunemente si crede. Se nel 934 le si dicevano antiche, convien risalire ai tempi di Car-lomagno, ed ai tempi dei bizantini, e riconoscere in questi tributi un' indole diversa da quelle di compenso per esenzione di dazi 0 di gabelle. Noi pensiamo che questi tributi certamente dovuti per pubblico titolo accennino ad antiche relazioni dipendenti da flotta marittima instituita per pubblico comando e mantenuta entro confini determinati; alle quali condizioni conservate, i Veneti secondi aggiunsero le esenzioni di commercio che esigettero e furono date per patto, 0 che di ricambio concedettero alle città istriane. Altra volta daremo i due diplomi, Riempitura. Serie dei RR. Padri Inquisitori per la S. Fede nel-l'Istria. 1523. Fr. Annibale Grisoni da Capodistria. 1546. Fr. Biaggio da Cherso. 1553. Andrea Zonta da Capodistria. 1557. Fr. Valengo Tisano da Pirano. 1557. Fr. Francesco Cosala da Esculo. 1558. Fr. Felice Peretta da Montalto, che fu poi Papa Sisto V. 1559. Fr. Fermo Ulmi da Venezia. 1556. Cristoforo Querenghi arcidiacono di Pola. 1569. Fr. Pietro de Giovanni da Capodistria. 1591. Fr. Antonio Cancelli da Tolentino. 1602. Fr. Frane. Maria Castellani da Torrignano Bolognese. 1608. Fr. Cesare Migliani da Ravenna. 1612. Fr. Domenico Vico da Osimo. 1614. Fr. Gio. Batt. Alabardi da Treviso. 1615. Fr. Gregorio Dionisi da Cagli. 1636. Fr. Frane. Sartorio da Castelfìdardo. 1636. Fr. Remigio Magnavacca da Monte S. Pietro. 1640. Fr. Vincenzo Pineri da Montefalisco. 1642. Fr. Egidio Martelli da S. Marino. 1660. Fr. Francesco Cimignano da Vicordiano. 1671. Fr. Francesco Colli da Bologna. (Gli altri si desiderano.) Anno 991. . ■ , ■ - , . , 1 ' • * , ' * ' l'i « .:.•: . > . . i » :'!.■.'' 5 Ottobre Indiz. JY. Al Traghettò di S. Andrea. Conte Variento d'Istria, coi Fes covi e Scabini pronuncia Sentenza in lite fra Vescovo Andrea di Parenzo^ e Berta di Monte ♦ ♦ ♦ ♦ . per decime, glandatico ed erbatico. (Aggiunte all' Ughelli.) \ In nomine Domini Dei eterni. Regnante D. N. Othone juniore, magnifico atque Serenissimo Rege, anno regni ejus in Dei omnipotentis nomine Vili, die vero V intrante mense Octobris per cursum de indictione IV Cliristo-quo regente omnia. Dum resedisset D. Hueribent Histriensium Comes ad colloquium in loco, ubi vocabulum est ad Trajectum S. Andree juxta mare: ibique aderant D. Andreas S. Parentine Ecclesie Episcopus, atque Petrus S. Tergestine Ecclesie Episcopus, nec non Johannes S. Nove Civitatis Ecclesie Episcopus, om-nes namque seniores ad rectas justitias terminandas, vel deliberandas: in ipso vero colloquio adfuerunt Scavini: Johannes de Pago Locopositus Scavinus, Andreas Scavinus, Oderlicus Scavinus, Leo Scavinus Civitatis Parentine, Germini Locopositus et Scavinus, Benedictus Scavinus, Antonius Scavinus, Petrus Scavinus Civitatis Justinopolis, Yernerius Scavinus Civitatis Tergestine, Wido Scavinus, Justus Scavinus, Wernerius Scavinus Civitatis nove, Joannes Scavinus, Yenerius Scavinus de Castro Pirani, et alii plures, et non modica turba populi; et illorum omnium presentia adveniens D. Andreas venerabilis Pa-rentinus Episcopus insimul cum Alberico Advocato suo. Tunc dixlt ipse Albericus advocatus Ecclesìe S. Mauri. Domine Comes, et vos seniores Episcopi, seu judices, si vobis placet, Iegem volumus habere de-Bertha uxore que fuit beate recordationis Cadolani, insimul cum fdio suo Almerico de Monte uno, qui est ante vicum, qui vocatur Rosarium, ubi certissime vinee esse videntur, unde semper ad predictam Parentinam Ecclesiam S. Mauri, et se-niorum Episcoporum, qui antea per multorum annorum tempora fuerunt usque domno atque seniori nostro Andrea Episcopo, per omnem annum sicut antiquitus fecerunt ita et in antea, similique modo per veram rectitudinem atque legem semper glandaticum porcorum, et herbarias pecorum exinde habere debent. Sed tantummodo ista jam predicta Bertha cum filio suo Almerico ad prefatam ecclesiam suumque rectum nobis contradixerunt et iterum contradicunt. Ad hanc interrogationem tunc veniens ipsa Bertha cum Clio suo Almerico insimul cumBe-nedieto Advocato suo de civitate Justinopoli in presentia ipsorum seniorun^ et dixit ipse Benedictus, quod certe Deo non placuisset, neque voluisset, quod ex parte illorum nullam iniquitatem neque con-trarium ad ipsam sanctam et supradictam Ecclesiam Beati Mauri seu ad suos Episcopos factum habuis-set, quod per legem emendare ipsi debuissent: nisi tantum quod nos recordamur et ista negare non possumus, que vidimus et scimus, quod beate recordationis Olinanus in vita sua et post ipsum Cadolus filius suus dum viveret, et ambo, et nos post illos, qui plus minus triginta annos et amplius tenere vidimus inedietatem unam in ipso monte, qui sopradictus est, tantum et tertiam partem glandatici por-corum, seu tertiam partem herbarie pecorum. Post hec vero jussit ipse Weribent Comes, ut judices judicarent. Et judicaverunt quod ipSa Bertha per se jurare debuisset secundum quod suus Advocalus Benedictus dixerat, quod per XXX annos et amplius inter Olmanum et Cadolum filium suum in vita ipsorum et istorum, atque inter ambos matrem et filium post illos tenere visi fuissent tantum medie-tatem unam de tamdicto monte ubi est vinea; de aliis vero terris nihil, nisi tantum de sola medietate una de ipso monte insimul cam sua quarta que de medietate ipsa exinde per annum exire debet de vino, seu et tertia parte de glandatico porcorum, et tertiam partem de herbaria pecorum, plus vero nihil non de terris, neque de istis terris, neque de istis rebus inter nos aliquam rationem habuimus; nisi tantum quam supradiximus de medietate una de monte insimul cum sua quarta, et tertia parte de glandatico porcorum, simul et tertia parte de herbaria pecorum in suam perpetuai» hereditatem atque possessionem et suorum heredum veram esse defensavit. Et sic inter illos omnes" definite sunt contentiones ut ex illa die de hac ro et deinceps usque in pérpetuum nulla contentio seu inquisitio inter illos et eos, et qui post ipsos venturi sunt, nullo modo fieri debeat per ullum ingenium. f.. ; , . 't , ( ■ C ' . ., iv. : • .'•' Tunc ipse D. Weribent Comes jussit, ut de hoc placito seu definitione dijudicati cartulam fieri debere5 quod ita factum est, quod ipsi qui ibi fuerunt recordentur, et illi qui ibi non fuerunt per annorum curricula rationem detineant. Ambi s vero dijudicati cartulas uno tenore conscripta unam apud vos Bertha et Almericum filium tuum dimissam, aliam vero vobis D, Andrea Episcopo inArchivo S. Mauri Martyris credimus esse retentam. Actum vero ad Trajectum S. Andree anno Dominice Incarnationis DCCCXCI D. vero Otho-nis serenissimi Regis anno Vili Indici ut supra, scripta in Christi nomine feliciter. Amen. Ego Acio de Aquileja interfui. Ego Gualtramus frater D. Andree Episcopi interfui. Ego Joannes Advocatus Ecclesie S. Thome interfui. Ego Bonifacius frater ipsius Joannis interfui. Ego Waltramus de duobus Castellis interfui. Ego Olmannus et Andreas fratres de Civitate Polensi interfuimùs. Ego Alderus. de Castro S. Georgii interfui. Ego Yinderins, de.Civitate Parenlina interfui. « ..«,:'. ;■:■:.; ; . Ego Waltramus filius Helegardi interfui. - : ■<■■.': < : ^ ! ; Ego . Andreas Gastaldo tle Castro Montaboni interfui. ; , .. : Similiter et «lii multi interfuerunt quorum nomina per diem dicere longum est, sed in quantum possumus nomina illorum breviter perstrinximus. : -.i« i. i... ; i,. ..;<» •; <• t< e " < . ,•„.;», f Ego Hyno Diacoflus et notarius Parentine civitatis per jussionem D. Weribenti Comitis, seu Vicedomini Diaconi et tabellioms, in haedijudicati: car tuia omnia sicut superius leguntur, manu vero mea scripsi, compievi atque firmavi. .' • , Anno 1195, i : : ]■) '. i |ji , ;. ■ :, ; ■ QUESTIONI 1 del Vescovo di Parenzo col Conte Mainardo d'Istria Giovanni • • . . , : • . ■; . - ' . Questiones Episcopi contra Hermanum. Dicit Episcopus. Ma- niFestum est quod Dominus Luca • et ilio mortuo Dominus Artuicus de Montona, et ilio mortuo Dominus Scandalus de Rubino habuit illam decimam per epi-scopum parentinum. Hi vero tres unus post alium invertiti fuerunt de illa decima per episcopatum et Comes Mainardus cepit dominum Scandalum per personam eo quod nolebat cognoscere illam decimam per Comitem. Sed interventu Patriarche Peregrini, et quia Scandalus aliter non poterat evadere, Scandalus accepit investituram illius decime per Comilem et serviebat Corniti de illa decima per vini, et serviebat Episcopo ut debebat, et si comes inveslivit Leonardum de illa decima, tamen tenutam nun-quam dedit de illa decima. Item Comes Mainardus nunquam fuit investitus per Parentinum Episcopum neque per alium hominem, ad quem illa decima pertineret, de illa decima de Rubino; sed si unquan habuit illam decimam per vim habuit, et contra voluntatem Episcopi Parentini, quia Comes .... . . . . persona erat et tam potens cui Parentinus Episcopus non poterat conlradicere. Item tempus fuit quod Comes Mainardus venit cum magno exercitu militum ad S. Eleute-riuin et inisit prò domino Uberto Parentino Episcopo et dixit ei Comes: Predecessor vester investivit me de quingentis decimaloribus, sed ego non habeo nisi ducentos decimatores ab episcopo, volo ut supleatis mihi usque ad quingentos. Cui episcopus respondit • Ego nescio quod Predecessor meus unquam investivisset vos de quingentis decimatoribus, nec ego do vobis. Sed si potestis monstrare, aut per cartam aut per vassallo®, aut per alios idoneos testes quod predecessor meus investiverit vos de illis quingentis decimatoribus et vos non habetis, ego suplebo vobis, et sic Comes discessit nec a-liud postea monstravit, nec parentinus Episcopus eos decimatores Corniti suplevit. Hujus rei testes sunt Grimaldus Parentinus Archipresbiter, Adam ejusdem Ecclesie diaco-nus, et plures alii, et Comes Mainardus indignatone ductus quia Episcopus ita respondit ei, ivit ad Rubinum et intromisit decimam de Rubino per violenliam contra voluntatem episcopi dicens ita : Ex quo Episcopus non vult compiere mihi usque ad quingentos decimatores, ego intromittam decimam ei de Rubino et tenebo eam prò quingentis decimatoribus, et hujus rei testes multi sunt. Item dicit Episcopus. Quarnvis Comes intravit possessionem meam per violentium possedit ut homo magne potentie, cui ego non volui contradicere, tamen patrem suum neque . . . potuit investire de re mea, quia male fidei possessor non debet possidere. . Item dicit Episcopus: et quia Comes per violentiam intravit possessionem meam ego sem-per reclamavi contra Comitem, et in tantum reclamavi quia Comes refutavit mihi illam decimam, et recrevit mihi ìllam forciam quam mihi fecerat in Ecclesia S. Petri in Silva, et quingentos decimatores quos petebat recrevit mihi et hujus rei testes sunt: Martinus Àbbas S. Petri, Oldericus de duobus Ca-stellis, et Calulus Magister Scholarum de S. Laurentio, et Jerungus frater ejus, et Martinus de Curte, et Rizardus diaconus, et Comes Engilbcrtus de Goritia, et ejus Nurus Mactelda. Item intuitu Patriarche Gotofredi refutaverunt illam decimam in manu domini Petri Episcopi Parentini, et mediante Patriarclia cesserunt liti decimarum ut patet ex Privilegio Patriarche Gothofredi. Item dicit Episcopus : Cum Leo-nardus Pater Hermani inquietaret de illa decima nos in conspectu Vassallorum fccimus in tali concordia, et fecimus fìrmum pactum, quod ego et Leonardus debeamus ire ad Comitissam, si Comitissa gua-rentaret illam decimam Leonardo, et si Comitissa diceret, ego deberem stare contentus et sine controversia dimittere illam Leonardo ; et si Comitissa diceret quod Leonardus non habebat quidquam in ea decima, et quod ipsa non poterat investire illain decimam Leonardo quia erat Parentini Episcopi, quod Leonardus esset contentus, et dimitteret Episcopum in pace possidere illam decimam, linde factum est quod illa Comitissa precepit Balduino suo Militi ut veniret ad Rubinum, et esset coram Vassallis Episcopi, et juraret super quatuor Evangelia quod esset Nuntius Comitisse, et Comitissa miserat eum ut juraret coram Vassallis prò Comitissa, quod illa decima ita pertinebat episcopo ; ita quod ad nullum hominem, et quod Leonardus non habebat quiddam dicere supra decimam, sed per violentiam tenuerat illam, et ipsi recreverunt eam Episcopo • Unde neque Leonardum neque alium hominem potuerunt investire de decima illa, quia sua non erat, et precepit ut ipsa daret tenutam in illa decima Episcopo, et ille Balduinus juravit coram Vassallis in Rubino prò loquella Comitisse ut supra dictum est, et dedit plenam manum de frumento in manu Episcopi prò tenuta illius decime; et hujus rei testes sunt. Johannes Prepositus de Rubino, et Clerici ejusdem Ecclesie, et Oldericus Polensis, Oldericus de Valle, Joannes Àntonius Papo de Rubinio, Geroldus Enricus de Plebano et alii etc. Anno 1238. 4 Marzo Indiz. XI. Pola. * :• ■ » -Patriarca Bertoldo decide lite fra Pietro Appollonio e soci contro il Comune di Pirano, per danaro Volto ai primi dai Veneti, e del quale si voleva risponsabile il secondo. (Autografo dell'Archivio Municipale di Pirano.) In Nomine Domini dei eterni. Anno ejusdem nativitatis MCCXXXVflI indictione XI. die IV intrante martio» Cum lis verteretur coram domino Berlholdo sancte aquilegensis ecclesie patriarcha inter Petrum Apolonii et Anoe fratrem suum prò se et procuratorio nomine Dominici notarii et Adalgerii filii p. ' drii de Topa ex una parte et Catulum Diaconum et Erricum Goynam procuratores comunis Pi-rani ex altera. Super eo quod predictis Petrus et Anoe dicebant quod homines de Venecia abstulerant eis ocasione cemunis Pirani MCCXXXXYI libras venetiarum de quibus racionem sibi fieri petebat ipso facto domino patriarcha. Procuratores vero comunis Pirani ex adverso dicebant. Domine nos nescimus quod isti de-narii fuissent eis ablati occasione comunis Pirani salvis aliis racionibus nostris. Unde prefacti P. et An. petebant dominum patriarcham ut faceret laudum ex quo ipsi dicebant quod isti denarii fuissent eis accepti occasione comunis Pirani ipsi debent negare vel confiteri. Facta negatione ab eis prefacti P. et An. testes ad probandum induxerunt. Procuratores vero comunis Pirani dixerunt quod recipiebant salvo eo quod vellent oponere contra personas dictorum testium. Testes fuerunt nominati et sunt: Sigremarius de Pola et Leo qui fuit de Ancona abitatores Pole. Sigremarius juratus et interrogatus dixit et desupradicta questione, comune Pirani comdemnari de dictis denariis. Leo juratus et interrogatus dixit idem per omnia ut predictus. S. acccpta probatione procuratores comunis Pirani iterum alias rationes allegaverunt contra P. et An. dicentes quod postquam isti denarii fuerunt accepti Petrus cum sociis suis ipsis vene-runt in Pirano cum Iiteris Domini Ducis in quibus ita continebatur quod ipsi habebant plenam Iicentiam potestatem solvendi se de dictis denariis super omines de Ancona et ita ipsi petebant eandem Iicentiam et potestatem a comune Pirani, et comune Pirani visa licentia Domini Ducis dabat eis similiter Iicentiam et ipsi prò ea ceperunt solvere se supra omines de Ancona et tenuerunt quosdam de Ancona incarceratos et eciam fecerunt finem supradicto comuni Pirani et hoc probare volebant, unde petebant dominum patriarcham ut inveniret laudum in curia sua quid inde deberet esse. Dominus Patriarcha super dietam allegationem quesivit dominum Re. (Richardum) de Civitato ut inveniret scntentiam sive laudum. Dictus vero Re. ita dixit quod si procuratores comunis Pirani possent probaro quod predicti P cum sociis suis venissent in Pirano cum literis ducis et habebant licentiam a Domino Duce Vene-ciarum solvendi se super omines de Ancona, et etiam solutionem recepissent in quantitate ab ominibus do Ancona et tenuissent quosdam incarceratos et etiam de his finem fecissent comuni Pirani, quod de-beant idem gaudere, unde dicium laudum fuit laudatum a majore parte Curie. Testes qui fuerunt nominati ibi ex parte comunis Pirani hii sunt Savius Justinopolitanus, Petrus Quaresema. Odorlico Leruga de Insula. Dominicus gast de Sizole. Simon Not. Bulion. Joannes Baratario de Bugie Tergest. de Miriza Anoe de civitate Yenetiarum. Papo plebanus de eodem loco Vi-vianus de Juliana de eodem loco. Orsinus filius eodem muglisana Dominicus Sina de Veneciis Tergest. de Partor Joh. Pampolin de caprulis. Andreas balbi de Veneciis. Bonifacius do Catulo, Detemarus filius Vener de Topa Jo. Maltalentus. Actum in civitate Pole in coro ecclesie majori episcopatus. Hii fuerunt testes rogati Dominus Papo frater Nascinwerra. Albrigettus de la chaurara. Bortolinus de Parentio, Bernardus de Rubinio. Johannes Mazocho de Pola et al» multi. Ego Rantulfus Piranens et Sa.ta B. Marchionis Notarius ut fui rogatus ut audivi a predictis scripsi compievi et roboravi.