received: 2QQ6-Q6-29 UDC 93Q.85:343.552(45Q.34)"17" original scientific article IL REATO DI BIGAMIA NELLA REPUBBLICA DI VENEZIA DA UN PROCESSO DEL 163Q Claudia ANDREATO Università Ca' Foscari di Venezia, Dipartimento di Studi Storici, IT-3Q124 Venezia, San Marco 2546* e-mail: cld79@libero.it SINTESI Il reato di bigamia rappresentava un crimine di esogamia e di mobilità dalla potenza eversiva per l'ordine sociale costituito. Esso coinvolgeva spesso figure maschili e femminili (che si ritrovano nei documentai processuali in qualità di vittime o impu-tati) che si inserivano a fatica negli schemi sociali più diffusi: le vittime agivano di frequente con l'implicita consapevolezza del rischio di sposarsi con una persona dal passato sconosciuto; gli imputati dimostravano di rifiutare la loro identità per co-struirsene un 'altra; e infine i testimoni sembravano avvolgere nel silenzio scelte "individuali" che nascondevano comportamenti ritenuti comunemente devianti. La retorica che animava la narrazione processuale rifletteva dunque da un lato le molteplici sfaccettature di cui si caratterizzava il reato con i suoi protagonisti, dall'altro il tentativo delle autorité secolari ed ecclesiastiche di preservare l'apparato di valori morali e religiosi della società dellepoca. Parole chiave: bigamia, mobilità, vittima, matrimonio, retorica, società THE CRIME OF BIGAMY IN THE REPUBLIC OF VENICE SEEN IN A 1630 TRIAL ABSTRACT In 17th century Venice bigamy represented a crime of exogamy and mobility with a subversive power against the constituted social order. The offence often involved male and female figures (in trial documents found in the roles of both victims or defendants^ that could hardly be included in one of the most common social schemes: the victims were frequently implicitly aware of the risk of getting married to a person Il presente contributo, a differenza di altri saggi nella pubblicazione, non è stato presentato al con-vegno scientifico internazionale Retoriche della devianza (Capodistria, 6-8 Ottobre 2QQ5), tuttavia è stato incluso perché si inserisce nel filone tematico del convegno. 471 Claudia ANDREATO: IL REATO DI BIGAMIA NELLA REPUBBLICA DI VENEZIA ..., 471-492 with an unknown past; the defendants would deny their identities in order to construct others; and finally, the witnesses seemed to cover with a veil of silence the "individual" choices that concealed behaviour often regarded as deviant. Hence, the rhetoric that animated the trial narrative reflected the multifaceted characteristics attributed to the offence and its protagonists on one hand, and on the other the attempt of the secular and ecclesiastical authorities to preserve the set of moral and religious values in the society of that time. Key words: bigamy, mobility, victim, marriage, rhetoric, society TRA LE CARTE DI UN FASCICOLO PROCESSUALE Molti anni la separavano ormai dalla partenza di quel mercante greco. Anni in cui aveva avuto modo, in più di un'occasione, di ripensare al loro matrimonio, al suo al-lontanamento e pure ai giorni trascorsi in monastero in attesa del suo ritorno. Si era chiesta più di una volta che cosa sarebbe stato della sua vita se quell'uomo non fosse mai partito per il Levante. Ma era inutile ripensarci ancora: la voce che si era sparsa da tempo per le calli della città, secondo cui quell'uomo era stato catturato dai Turchi durante il viaggio e probabilmente non avrebbe più fatto ritorno, l'aveva infine con-vinta ad accettare la proposta di matrimonio di Francesco Bonamino. Negli ultimi mesi pero, dopo quasi sette anni dalla celebrazione del secondo matrimonio, qualcuno aveva sostenuto di aver intravisto per la città quel mercante greco con cui si era sposata molto tempo prima. E mentre si stava diffondendo questa voce, il suo secondo marito, Francesco Bonamino, si era recato in Patriarcato affinchè fosse accertata la validità delle loro nozze. Chiamata dapprima a fornire la sua deposizione alla Curia patriarcale veneziana, ella aveva dichiarato di non essersi realmente sposata con quel mercante greco: "È vero che avanti che togliesse per marito il detto signor Francesco Bonamin, hebbi intentione di maritarmi in un giovane greco mercante, il quale mi diede sim-plicemente annello, mentre io ero in monastero delle donne di San Zorzi qui a Vene-tia. Ma dopo lui parti da Venetia senza che lui havesse alcuna prattica carnale con me et fu preso schiavo. "1 1 La deposizione della donna è stata rilasciata il 7 maggio 1629 ed è contenuta in Archivio di Stato di Venezia (ASV, 1). Della vicenda da cui trae spunto questo saggio si era già accennato in Andreato, 2004, 447-448, cui rinvio. 472 Claudia ANDREATO: IL REATO DI BIGAMIA NELLA REPUBBLICA DI VENEZIA ..471-492 A nulla erano valse le sue parole. Le testimonianze che i giudici ecclesiastici ave-vano raccolto confermavano che per "publica voce et fama" i due erano sposati e che quel mercante greco da qualche settimana sembrava essere tornato in città "vivo et sano".2 Ora, a quasi un anno di distanza dalla deposizione rilasciata in Patriarcato e dopo l'annullamento del secondo matrimonio, ella si trovava nuovamente di fronte ad un tribunale ecclesiastico, quello dell'Inquisizione veneziana, per discolparsi dalla gra-vissima accusa di eresia. Al secondo marito, infatti, non era bastato aver ottenuto l'annullamento del matrimonio da parte della Curia: il 15 gennaio del 1630 si era ri-volto pure all'Inquisizione, addossandole pesantissime accuse. "Io depongo a questo Santo Offitio Tarsia figliola di Toderin di Rodi et di Bella, habita a San Marsilian nella calle dei Trivisani [...], perché essendo ella maritata già 13 anni in un Toderino di Andro, marinaro che ancora vive, fingendosi un altro nome, cioè esser Laura Malipiera, inganno la giustitia con fare essaminare testimoni che ella non fosse maritata. Et già 5 anni in circa, sotto li 26 marzo 1623, contrasse matrimonio meco, il quale credevo che ella fosse libera. Et havendo poi scoperto la malitia che era maritata a quell'altro, ho procurato che sia dichiarato nullo il nostro matrimonio, come de fatto è stato dichiarato nel tribunale di monsignor illustrissimo et reverendissimo patriarcha. Et in fede della verità presento copia autentica del processo fatto in questa materia et anco la sententia promulgata in questa causa U. "3 Laura Malipiero - o meglio Tarsia di Toderino da Rodi - era chiamata a difender-si non soltanto dalla gravissima accusa di bigamia, ma pure dal sospetto di eresia: al termine della sua deposizione infatti Francesco Bonamino aveva dichiarato che la donna lo aveva fatto innamorare ricorrendo ad alcune presunte "strigarie", delle quali era complice pure la madre. In realtà se, come appare dalla deposizione, Tarsia aveva tentato di cambiare la sua identità per poter contrarre un secondo matrimonio ed era ricorsa a testimoni falsi che accertassero la sua presunta libertà, probabilmente lo aveva fatto nella consapevolezza che il suo comportamento fosse contrario a quanto disposto dalla dottrina cristiana. Ma spettava ora al tribunale dell'Inquisizione veneziana verificare se il reato di bigamia celasse in realtà - come sembravano far credere le accuse di stregoneria di cui la macchiava il marito - una errata credenza religiosa. Cosi il 28 febbraio del 1630 Tarsia, dopo essere stata arrestata e trasferita in car-cere, si trovó di fronte ai giudici dell'Inquisizione per fornire la sua versone dei fatti: 2 Cfr. ad esempio le deposizioni rilasciate da Nicolô e Domenico Bono il 24 settembre 1629, in ASV, 1, alla data. 3 Cfr. la deposizione di Francesco Bonamino in ASV, 1, alla data. La versione dei fatti proposta dal Bonanimo venne ribadita nei giorni seguenti da altri testimoni, alcuni dei quali si limitarono a confer-mare quanto avevano precedentemente deposto al Patriarcato veneziano nel processo per l'annullamento del matrimonio cui si accennava prima (ASV, 1, 24-29 gennaio, 5-26 febbraio 1630). 473 Claudia ANDREATO: IL REATO DI BIGAMIA NELLA REPUBBLICA DI VENEZIA ..471-492 "'Io vivo all 'italiana. Mi chiamo Tarsia de Theodorino de Rhodo et Isabella Ma-ripetro, nata Venetiis ex patre cretense. Non so la mia eta. Fui messa da piccola in monastero a San Zorzi de Greci. Francesco Bonamin era mio marito, il quale ha fatto disfar il matrimonio. Habitavo in campiel de Trivisino, appresso la Misericordia. ' Interrogata se sa overo si puó imaginar la causa della sua captura et perché deve esser constituita, respondit: 'Signori no, se non é mio marito sudetto che mi habbi fatto venir qua'. Interrogata che cosa pensa che habbia suo marito Bonamin, come dice, contra di essa spettante a questo Santo Officio, respondit: 'Non altro [...] il desfar il matrimonio '. Interrogata quando si é maritata con detto Francesco Bonamino, sotto qual nome essa constituita sia sposata seco, respondit: 'Ero di carneval stravestita in un festino con una gentildonna da Ca 'Garzoni et mi levó dal ballo inamorato in me et mi con-dusse a casa sua. Et gli dissi che havevo nome Tarsia et che alcuni mi chiamavano Laura de Toderin de Rodi et Malipierai. Interrogata se sa leggere et scrivere, respondit: 'Signori no, né leggere né scrive-re [...]'"(ASV, 1, 28 febbraio 1630). La sua prima deposizione, in realtá, non si focalizzo molto sull'accusa di bigamia e sulle sue convinzioni in materia matrimoniale, quanto piuttosto sull'accusa di stre-goneria. Del resto la sua parola era fortemente veicolata dalle domande dell'inquisi-tore, il cui obiettivo era proprio di accertare l'eventuale presenza di convinzioni ereti-che.4 La deposizione probabilmente non aveva convinto del tutto i giudici dell'Inquisi-zione veneziana5 se, a distanza di qualche settimana, il giorno 14 marzo del 1630 Tarsia venne nuovamente interrogata per verificare la veridicitá delle sue precedenti affermazioni. Ella ribadi nuovamente che quelle accuse su di lei erano soltanto delle dicerie che si erano sparse per la cittá a causa del suo secondo marito. 4 Se lo scopo del giudici dell'Inquisizione era di verificare se, al di là dell'accusa di bigamia, ci fossero altri indizi che potessero far ritenere che la donna fosse eretica, il fine che invece aveva animato i giudici della Curia patriarcale era di accertare le modalità con cui si erano celebrati i due matrimoni e soprattutto gli espedienti che, a seguito della normativa tridentina, erano divenuti corollario indispensabile per poter celebrare un secondo matrimonio. Essendo dunque gli interrogatori condotti dal giudice, la retorica che animava le domande incideva pure sulle risposte e sulle giustificazioni addotte dai protagonisti del processo. A soffermarsi, in maniera più ampia, sul tema delle connessioni tra la forma del processo e gli scopi dell'autorità che lo aveva prodotto sono Damaska, 2000 e per quanto riguarda la Repubblica di Venezia Povolo, 1996 e Povolo, 1997. Sull'argomento comunque si avrà modo di ritornare ancora nel corso del saggio. 5 L'interrogatorio si apriva infatti con l'ammonizione del giudice: "Interrogata se ha pensato di dire la verità intorno alle cose delle quali è stata interrogata nell'altro constituto... et sibi dicto che la giustitia pretende cosa non haver detta la verità compitamente, essendo informata come essa habbia fama di far strigarie" (ASV, 1, alla data). 474 Claudia ANDREATO: IL REATO DI BIGAMIA NELLA REPUBBLICA DI VENEZIA ..471-492 Continuava ancora la donna in mérito all'accusa di bigamia: "'Mi fu dato l'annello nelmonastero de Greci da un Toderino d'Andro, greco mariner, il quale ando poi via et fu fatto schiavo de Turchi et non l'ho più visto. Et la sua patrona, chiamata Bona, mi restituí la dote che io gli havevo dato, che erano 25 ducati et cio fu già 12 anni in circa. Et mi diede l'annello alla presentia di un prete greco, ma non mi sposo né consumo il matrimonio, che ero puta picola. Et lí fu presente un compare dell'annello et tuttavia restai in monastero dopo data la mano '. Interrogata perché essendo già sposata et maritata col detto Toderino d'Andro, se sia remaritata con Francesco Bonamino, respondit: 'Non ero sposata et non sape-vo più altro di detto Toderin. Un tale poi mi levo la virginità et finalmente Francesco sudetto mi disse esser vedovo et volermi per mogier'. Et sibi dicto che appare in processo come essa habbia ingannata la giustitia fa-cendo essaminar testimoni che non fosse maritata et pure veramente essendo maritata col detto Toderino, vivente, contrahesse matrimonio col detto Francesco Bonamino, respondit: 'Io non ho fatto essaminar testimoni, lui li fece essaminare, cioè es-so Francesco et mando suo fratello Lorenzo che fu essaminato '. Et sibi dicto che appare in processo come nel Patriarchato è stato dichiarato nullo il matrimonio fatto con Francesco perché il primo matrimonio era valido, fatto canonicamente, come essa medesima testifica che fu fatto alla presentia del parocho et testimoni et percio non poteva essa in conto alcuno rimaritarsi con altri, vivente il primo marito, respondit: 'Io non sapeva che fosse vivo '. Et sibi dicto che era obligata a cercarlo et far constar della sua morte, respondit: 'Francesco volse far cosí '. [...] Interrogata se ha creduto che sia lecito a contraher novo matrimonio essendo già maritata et vivendo il primo marito, respondit: Io ho creduto quel che mi ha detto Francesco sudetto, che quel che fa li greci, li italiani possono desfar perché loro non rendono obedientia al Papa'" (cfr. ASV, 1, 14 marzo 1630). La sua versione dei fatti, dunque, non soltanto contrastava totalmente con quella offerta da Francesco Bonamino, ma evidenziava pure come questi fosse consapevole del precedente presunto matrimonio della donna e ció nonostante avesse deciso di sposarla. Le due verità offerte dai protagonisti, in fondo, muovevano da accuse del tutto simili, nel tentativo di scaricare l'uno sull'altra la responsabilité del delitto commesso: Francesco Bonamino, da una parte, accusava la moglie di aver cambiato identité e di aver fatto deporre testimoni falsi in Patriarcato per poter contrarre un se-condo matrimonio; Laura Malipiero, dall'altra, rigettava ogni accusa e sosteneva che fosse stato il marito - perfettamente consapevole del suo passato - a convincerla a cambiare identité e a far deporre in Patriarcato testimoni che confermassero la sua liberté. Le deposizioni dei protagonisti offrivano cosi un'interpretazione del tutto personale e contrastante dell'accaduto. Il fatto storico - come ha suggerito di recente Clau- 475 Claudia ANDREATO: IL REATO DI BIGAMIA NELLA REPUBBLICA DI VENEZIA ..., 471-492 dio Povolo6 - veniva dipinto in maniera non univoca e l'immagine che di esso traspa-riva tra le carte processuali celava storie più complesse e intricate.7 Storie più personali, si potrebbe anche aggiungere, dato che la vicenda che il tribunale dell'Inquisi-zione tentava di ricostruire investiva la sfera più intima dell'individuo (Torres Agui-lar, 1997, 181). Non erano soltanto le deposizioni dei due coniugi - che nel processo avevano as-sunto il ruolo di vittima ed imputata - ad offrire narrazioni contrastanti sul delitto commesso: ad avvalorare la loro versione dei fatti erano stati pure i testimoni da loro citati. Dal fascicolo sembravano emergere due verità, che rinviavano al reticolo di parentele e di amicizie che ognugno dei due coniugi - con le loro famiglie - poteva vantare. Due verità avvalorate quindi dalle testimonianze e facilmente rintracciabili all'interno del fascicolo processuale: tra il mese di marzo e i primi di giugno del 1630 numerose furono le persone citate dall'una o dall'altra parte che sfilarono di fronte ai giudici dell'Inquisizione, ma l'annotazione riportata all'inizio delle deposizioni con cui si indicava se il teste era stato "prodotto" dalla vittima piuttosto che dall'imputata sottolineava chiaramente quale versione dei fatti si sarebbe offerta.8 Il processo dunque sembrava connotarsi di due momenti fondamentali non solo dal punto di vista procedurale, ma pure retorico. Nella fase offensiva e difensiva del 6 Evidenziando il rilievo assunto dal processo penale nell'intricato rapporto tra fatti, prove e interpreta-zione/i, sostiene l'autore: "Il fatto storico emerge tra le pieghe del diritto e della legge, racchiuso in un evento (il processo per l'appunto) formalizzato da regole e procedure, volto ad accertare l'esistenza di una verità che si prefigura pure come un fatto storico che necessita di interpretazioni e di prove". Continua ancora Claudio Povolo: "In realtà proprio la distinzione tra eventi e fatti storici, poco sopra ricordata, prospetta come il rapporto tra storia, diritto e letteratura, che nel processo penale incontra uno dei punti di raccordo più densi ed interessanti, costituisca un dato ineliminabile ed irrinunciabile, che evidenzia la netta distinzione esistente tra storia, letteratura e, di conseguenza, la fragilità di taluni presupposti della più recente storiografia postmoderna" (cfr. Povolo, 2003, XIV-XV). Sul tema della storiografia postmoderna cfr. pure Evans, 2001. 7 Rinvio nuovamente alle osservazioni di Claudio Povolo: "La parola che emergeva dal rito processuale costituiva un idioma, un linguaggio altamente elaborato, che esprimeva la struttura gerarchica della società. La mediazione giurisprudenziale approntata dai giuristi sulla scorta dell'ideologia di diritto comune esprimeva sia l'esigenza di filtrare ed attenuare la portata dei conflitti, che di salvaguardare le gerarchie sociali esistenti... La narrazione cosi filtrata costituiva la complessa risultante di una serie di variabili politiche e giuridiche che, più che interferire direttamente sulla conformazione del fatto storico (aspetto, questo, più che plausibile), ancor più ne determinava, per cosi dire, la sua autorefer-enzialità, quei suoi tratti provvisti di un timbro sostanzialmente monocorde, in quanto, sempre e co-munque, tratti culturali di una società organizzata gerarchicamente in base ad un diritto di precedenza (status e onore), il quale, oltre che a sancire il valore stesso della parola (spesso in ordine a chi la pro-nunciava), ne veicolava in maniera rilevante i significati... Se il documento processuale si pone come una fonte storica di tutto rilievo, in grado di gettare squarci di luce su realtà altrimenti difficilmente percettibili dallo storico, appare cosi evidente che le storie che esso veicola sono narrazioni provviste di un proprio linguaggio: un linguaggio che è determinato si dalle norme che deve applicare, ma anche, e soprattutto, dalle regole cui i protagonisti devono conformarsi" (Povolo, 2003, XVII). S Nel fascicolo le testimonianze raccolte in difesa di Tarsia vennero raggruppate in un fascicoletto con-trassegnato nella prima carta da un elenco di testimoni a difesa dell'imputata. 476 Claudia ANDREATO: IL REATO DI BIGAMIA NELLA REPUBBLICA DI VENEZIA ..., 471-492 procedimento si presentavano versioni contrastanti dell'evento, ma lo stile retorico che i protagonisti usavano - al di là che la loro narrazione seguisse la linea offensiva o difensiva - rifletteva innanzitutto una comune matrice, forgiata sui canoni religiosi e morali di una società rigidamente e gerarchicamente organizzata sulla base dello status e dell'onore.9 Le deposizioni di quanti partecipavano al processo - vittime, im-putati e testimoni - erano infatti abilmente condotte dal personale giudiziario - giu-dici e avvocati - per mezzo di 'cliché' che rinviavano ad una comune concezione del matrimonio, che il reato di bigamia sembrava inevitabilmente incrinare e al comples-so apparato di valori sacri e profani che le autorità ecclesiastiche e secolari tentavano in tutti modi di preservare.10 L'aula giudiziaria si presentava cosi come una sorta di teatro di potere (Povolo, 1997, 111-112), in cui il potere della parola assumeva un rilievo fondamentale. Se da una parte le deposizioni dei testimoni - ovviamente guidate dalle domande dei giudici - rinviavano al contesto sociale e culturale da cui essi provenivano, dall'altra rimandavano pure alle parti in causa - vittime e imputati - che ne facevano un uso 'strumentale', abilmente consigliati dai loro avvocati. Nel processo istruito contro Tarsia di Toderino da Rodi non era stata soltanto la voce dei testi ad essere 'strumentalizzata' per comprovare la versione dei fatti delle due parti del processo. Un intero fascicolo processuale, precedentemente istruito dalla Curia patriarcale veneziana, era stato assunto tra gli atti dell'Inquisizione per provare la fondatezza delle accuse rivolte da Francesco Bonamino alla moglie.11 Prodotto per accertare l'esistenza del vincolo matrimoniale tra Francesco e Tarsia, tale fascicolo veniva ora ad assumere un'identità completamente diversa, perché de-stinato ad avvalorare l'accusa di bigamia e di stregoneria che la vittima addossava alla donna. Cosi pure la verità processuale che tale fascicolo veicolava veniva ad assumere un significato diverso una volta nelle mani dei giudici dell'Inquisizione veneziana. Gli stessi testimoni che avevano offerto la loro deposizione in Patriarcato erano chiamati ora a comprovarla nuovamente.12 E una volta letta dal giudice e da essi con- 9 Temi questi ampiamenti trattati da Claudio Povolo in Povolo, 1996; 1997 e 2003. 10 Reati quali la magia, la bestemmia, l'adulterio o la bigamia - soltanto per citare degli esempi - met-tevano infatti in discussione il sostrato ideologico e sociale, imbevuto di valori cristiani, di cui sia le autorità ecclesiastiche che secolari si ergevano a difensore. Per quanto riguarda il reato di bigamia in particolare, esso costituiva da una parte un'offesa al sacramento del matrimonio e una possibile forma di eresia, e dall'altra una minaccia alle proprietà e all'onore di coloro che ne erano direttamente coin-volti (Andreato, 2004, 419-429). Sull'esigenza di controllare la morale sociale nella Repubblica di Venezia cfr. soprattutto Cozzi, 2000, 65-148. 11 II fascicolo del Patriarcato era stato consegnato dal Bonamino il 15 gennaio 1630, giorno della sua spontanea presentazione al tribunale dell'Inquisizione per accusare Tarsia ed é conservato all'interno del più ampio fascicolo istruito dall'Inquisizione veneziana in ASV, 1. 12 Cfr. ad esempio gli interrogatori assunti il 29 gennaio, il 5 e il 14 febbraio in ASV, 1. 477 Claudia ANDREATO: IL REATO DI BIGAMIA NELLA REPUBBLICA DI VENEZIA ..., 471-492 fermata, la loro parola - come quella delle parti, del resto - veniva a costituire un nuovo idioma, il cui significato sarebbe stato inevitabilmente differente rispetto a quello assunto in precedenza. Infatti gli scopi che sottostavano alla conduzione del processo si erano modificati quando il fascicolo era passato dal Patriarcato al tribunale dell'Inquisizione. Se il fine principale della Curia patriarcale era accertare la va-lidità delle unioni matrimoniali ed eventualmente sancirne la nullità, all'Inquisizione spettava un'indagine volta a comprovare l'esistenza di una credenza eretica da parte dell'individuo.13 Cosi gli interrotori dei giudici dell'Inquisizione si focalizzavano so-prattutto sulla necessità di scoprire se realmente l'imputata, oltre al reato di bigamia, avesse commesso delle strigarie tali da far credere che il suo comportamento in materia matrimoniale celasse una errata credenza religiosa. La retorica del giudice sembrava dunque funzionale agli scopi per cui il processo era stato istruito e agli obiettivi che, più in generale, animavano l'autorità che lo ave-va prodotto. Del resto tale retorica influiva pure sull'interrogatorio dei testi e delle parti, forgiando quasi un idioma14 processuale veicolato dai giudici e abilmente ma-nipolato dagli avvocati.15 13 Era stata questa una soluzione di compromesso prospettata dal consultore in iure della Repubblica di Venezia Giovan Maria Bertoli sul finire del Seicento, sulla scorta di quanto era stato sostenuto già alcuni decenni prima dal pratico Lorenzo Priori. Per queste osservazioni e sui conflitti di competenze tra tribunali ecclesiastici e secolari veneziani rinvio a Andreato, 2004, 419-429; una medesima soluzione di compromesso in merito alla punizione del reato di bigamia è stata adottata anche nella Spagna alla fine degli anni Settanta del Settecento (Torres Aguilar, 1997, 188). Verso la fine del XVIII secolo a Venezia furono date alle stampe le Memorie venete antiche, profane ed ecclesiastiche, raccolte da Gianbattista Galliccioli, nelle quali l'autore sottolineava l'opportunità di una stretta col-laborazione tra il potere secolare ed ecclesiastico in materia matrimoniale: "L'ecclesiastica storia c'in-segna che quante le volte i prelati ricorsero ai Principi e cercarono d'unirsi insieme con essi per la retta disciplina, sempre le cose riuscirono felicemente. Ma quando i prelati si mostrano troppo zelanti di quelli che chiamano dritti ecclesiastici, o nulla si ottenne dai loro decreti e sanzoni sinodali o trascura-rono le cose sotto pretesto che non possono ottener cosa alcuna o il sacerdozio e il rego si videro commessi insieme. Per me io credo ottima cosa nelle materie non puramente spirituali e interne che i prelati procedano armonici coll'autorità del Principe e a lui comunichino i bisogni della Chiesa, las-ciando quelle tante loro scrupolisità giurisdizionali. Cosi certamente i rimedi della mala disciplina sarebbero molto più efficaci" (Galliccioli, 1795, 23-24). 14 Per riprendere l'espressione di Claudio Povolo. 15 A sottolineare l'importanza del ruolo del personale giudiziario nel condurre gli interrogatori è stato Paul Gewirtz a proposito del modello processuale statunitense: "All stories must be elicited by a series of questions and answers, and the form of questioning and answering is governed by an elaborated system of rules. In addition, because a witness's knowledge of a case is usually selective, that person's story is rarely a narrative with beginning, middle, and end (rarely, at least, do its beginning, middle, and end correspond to those of the plaintiff's or defendant's narrative). Rather, a witness' story usually furnishes discrete pieces in a mosaic whose overall shape emerges only as the trial progresses" (Ge-wirtz, 1996, 7-8). 478 Claudia ANDREATO: IL REATO DI BIGAMIA NELLA REPUBBLICA DI VENEZIA ., 471-492 IL CONCILIO DI TRENTO Prima dell'elaborazione canonica del Concilio di Trento il matrimonio rappre-sentava un atto privato, che si consumava all'interno delle famiglie e che, pur caratte-rizzato da ritualità stabilite da norme consuetudinarie, non prevedeva alcun rito pub-blico imposto dall'alto necessario per la sua validità (Zarri, 1996, 437). Esso rimane-va quindi un'operazione sociale sancita da ritualità informali, innervate negli assetti consuetudinari e tradizionali della comunità, e garantita dalla Chiesa, nei cui riti fil-trava sia la commistione tra sacro e profano delle pratiche comunitarie, sia l'idea di matrimonio come alleanza tra gruppi parentali.16 In questa situazione di estrema incertezza che avvolgeva l'istituto matrimoniale risultava dunque difficile stabilire l'esistenza di un ligamen tra due persone e, dun-que, provare il reato di bigamia. Un reato dalle potenzialità eversive per la stabilité sociale, ma il cui controllo si rivelava essenziale, dato che esso si insinuava all'inter-no di questa concezione laica e "parentale" del matrimonio, vanificando l'unicità e l'indissolubilità delle unioni, minacciando gli interessi delle parentele che investivano il loro onore e il loro patrimonio nell'unione matrimoniale e, infine, sovvertendo l'or-dine sociale costituito.17 16 Ha scritto John Bossy a proposito del matrimonio: "[...] Nella pratica popolare medievale, il sacramento del matrimonio veniva concepito, nell'ambito di un sistema di relazioni sociali e collettive, come l'approdo di un processo di stipula di alleanza tra due gruppi parentali. Una concezione contrat-tualistico-collettivistica del matrimonio con radici estremamente profonde si contrapponeva alla teoria sacramentale della Chiesa, le cui implicazioni individualistiche furono sottolineate dai canonisti sin dal 1300 circa, con la conseguenza di produrre una miscela piuttosto instabile [...]" (Bossy, 1998, 40, ma anche Bossy, 1990, 24-32). Quindi il matrimonio rappresentava innanzitutto un mezzo attraverso cui stringere relazioni di amicizia e di vicinato, mentre la celebrazione nuziale costituiva il momento conclusivo e cruciale di una serie di accordi economici e simbolici siglati dalle famiglie dei due sposi; cfr. ad esempio le osservazioni di Klapisch-Zuber relative alla Toscana dal XIV al XVI secolo (Klapisch-Zuber, 1985, 183-187). Cfr. anche Goody, 1984. 17 La scienza giurisprudenziale medievale aveva addirittura identificato il reato di bigamia in una parti-colare forma di adulterio, negando dunque alla bigamia - nell'accezione più letterale del termine - di esistere. Cosi pure i consultori in iure della Repubblica - cui le istituzioni marciane, a partire dal-l'inizio del Seicento, ricorsero per ottenere pareri in merito a casi complessi e delicati - avevano con-siderato il crimine di bigamia come una forma di adulterio (Andreato, 2004, 415). Il primo legame matrimoniale era infatti ritenuto legittimo e valido e in virtù di quello, il secondo era considerato nullo e indissolubile. Seguendo il pensiero giuridico medievale che vedeva nella bigamia una forma più grave di adulterio (Marongiu, 1959, 361), pure il pratico Lorenzo Priori riteneva che il prendere più mogli nello stesso tempo fosse un reato che aveva le caratteristiche dell'adulterio (Priori, 2004, 176177; Andreato, 2004, 413-414). Sulla figura del Priori cfr. Chiodi, Povolo, 2004. D'altra parte lo stesso diritto canonico, difendendo il sacramento del matrimonio, che rappresentava l'unione - unica e indissolubile - di Cristo con la sua Chiesa, aveva contribuito a fare del crimine di bigamia una parti-colare figura di adulterio (Casey, 1991, 131; Gaudemet, 1989, 178-199). 479 Claudia ANDREATO: IL REATO DI BIGAMIA NELLA REPUBBLICA DI VENEZIA ..., 471-492 Dal momento che - come ha evidenziato lo studioso americano Lawrence Friedman - la bigamia costituiva soprattutto un crimine di esogamia e di mobilitá,18 che coinvolgeva molto spesso persone che vivevano ai margini della societá, senza fissa dimora o non collocabili precisamente all'interno delle singole comunitá, il controllo di tale reato si rivelava comunque assai arduo per le istituzioni ecclesiastiche o seco-lari. Quando, con l'approvazione del decreto Tametsi, la Chiesa sottopose l'istituto matrimoniale ad una rigida normativa, prevedendo pure dei requisiti di pubblicitá - la pubblicazione di tre sride prima della celebrazione nuziale19 ad esempio - senza i quali l'unione non sarebbe stata considerata valida, probabilmente divenne possibile contrallare in maniera piu precisa i legami matrimoniali e, dunque, preservarne l'uni-citá e l'indissolubilitá. Tuttavia questa normativa colta elaborata dai padri conciliari si doveva poi calare in un tessuto sociale in cui - giá lo si e detto - il matrimonio era stato concepito per secoli come un atto privato, che rispondeva ad un sentire profano e comunitario e che talvolta - soprattutto in contesti sociali caratterizzati da una profonda mobilitá -sfuggiva al controllo delle famiglie. Le disposizioni tridentine quindi non sempre 18 Infatti, colui che si voleva risposare, ridefinendo la propria collocazione sociale e personale, doveva necessariamente allontanarsi dal luogo di origine, dove era conosciuto dal resto della comunità e col-locato precisamente all'interno della gerarchia sociale attraverso relazioni di vicinato e di amicizia. Egli doveva sfuggire al controllo della comunità e di chiunque si potesse sentire "offeso" (economicamente o simbolicamente) dal suo atteggiamento. La mobilità geografica aveva inoltre importanti ri-flessi psicologici sull'individuo. Allontanandosi egli sentiva allentati quei lacci sociali, culturali, re-ligiosi, che lo avevano legato ad una condizione definita all'interno della comunità; si sentiva libero di ridisegnare una nuova identità, un nuovo destino e di sposarsi nuovamente (Friedman, 1993, 193194). Che la mobilità creasse un tessuto sociale favorevole alla bigamia lo avevano percepito, ad esempio, le autorità veneziane già nel 1288, quando avevano emanato una legge contro coloro che provenivano da lontano e che ingannavano le giovani donne mentendo sul loro passato (la legge è riportata in Leggi criminali, 1751). Ma lo avevano percepito pure i padri conciliari riunitisi a Trento, che avevano previsto un preciso regolamento per i contraenti forestieri: essi, infatti, per potersi sposare dovevano esibire una dichiarazione rilasciata dal loro parroco sulla morte del primo coniuge o sul loro libero stato; oppure dovevano far deporre in vescovato due testimoni che attestassero la loro libertà (per queste disposizioni cfr. Istituzione del parroco, ovvero specchio de' parrochi, 1707, Venezia). Si trattava comunque di norme che potevano essere facilmente deviate, ad esempio cambiando identità, contraendo un matrimonio clandestino, presentando false dichiarazioni di morte del primo coniuge. 19 Nelle sue Memorie venete antiche profane ed ecclesiastiche Gianbattista Galliccioli, registrando al-cune pratiche matrimoniali in uso sin dal tardo Medioevo nella città di Venezia, sottolineava come di frequente nel corso del XIV secolo "certe donne cariche di debiti" si sposavano segretamente "per non poter più essere convenute da' creditori; per estirpare questo "disordine", una legge del Maggior Con-siglio datata 16 ottobre 1323 aveva stabilito che per quattro giorni prima della celebrazione nuziale si dovesse pubblicare le stride. Si trattava comunque di disposizioni locali che tentavano di porre rime-dio ad alcuni 'disordini' in materia matrimoniale. Aggiungeva ancora l'autore che sin dalla metà del XIII secolo i patriarchi avevano prescritto l'uso delle pubblicazioni per le celebrazioni nunziali che si svolgevano in città (Galliccioli, 1795, 16-17). 480 Claudia ANDREATO: IL REATO DI BIGAMIA NELLA REPUBBLICA DI VENEZIA ..., 471-492 vennero applicate correttamente, soprattutto negli anni immediatamente successivi al Concilio, rendendo ancora difficoltoso il controllo delle unioni matrimoniali e del reato di bigamia. Ma via via che le norme previste dal Concilio di Trento cominciarono ad essere accolte, anche se a fatica, dal contesto sociale e la celebrazione nuziale venne sotto-posta a rigorose ritualità garantite e controllate dalla Chiesa, il reato di bigamia sembró arricchirsi di nuovi espedienti: false dichiarazioni di morte del primo coniuge, fa-sulle attestazioni sul presunto stato libero del bigamo, cambiamento di identità co-stituivano soltanto alcuni degli stratagemmi cui era costretto a ricorrere chi voleva sposarsi una seconda volta. Il matrimonio clandestino - celebrato cioè senza le tre pubblicazioni che dovevano rendere nota l'unione al resto della comunità - divenne poi un canale privilegiato attraverso cui si espletava il reato di bigamia.20 Cosí se per verificare l'esistenza di un'unione matrimoniale bastava dare uno sguardo ai registri parrocchiali ed ottenere una fede autentica di matrimonio da parte del parroco, rimaneva comunque essenziale per le autorità - ecclesiastiche o secolari - indagare sugli espedienti cui il bigamo era ricorso per poter celebrare un nuovo matrimonio. Tarsia e Francesco Bonamino, ad esempio, erano riusciti a sposarsi sia perché la donna aveva cambiato la sua identità in Laura Malipiero, sia perché due testimoni avevano rilasciato al Patriarcato due dichiarazioni - fasulle - che attestavano il suo stato libero. Cambiamento di identità e deposizioni sullo stato libero della donna fu-rono proprio gli espedienti su cui si focalizzó l'attenzione dei giudici durante il processo in Patriarcato, nel tentativo di contrallare gli stratagemmi che permettevano di aggirare la rigida normativa tridentina e al reato di bigamia di espletarsi. Tarsia e Francesco poi - con la collaborazione dei loro testimoni - avevano cer-cato di riversare l'uno sull'altra la responsabilità non solo dell'unione, ma pure di tutti questi espedienti escogitati per rendere possibile tale unione. Cosí secondo Tarsia era stato Francesco a convincerla a cambiare il proprio nome e soprattutto ad assumere il cognome di una nobile famiglia veneziana - Malipiero - nel tentativo di migliorare, se non altro in apparenza, il proprio status sociale;21 ed era stato Francesco a chiede-re al fratello Lorenzo e ad un altro amico di deporre all'autorità ecclesiastica sulla sua 20 La normativa in materia matrimoniale prodotta dai massimi organi di governo della Repubblica a partire dalla seconda metà del Cinquecento e il parere di alcuni illustri consultori in iure avevano messo in luce come dalla clandestinità nascesse la poligamia (Andreato, 2004, 432-436). 21 Interessante a questo proposito la testimonianza rilasciata dal patrizio veneziano Perazzo Malipiero al tribunale dell'Inquisizione il 5 marzo 1630, che sembrava confermare il desiderio di Francesco Bonamino di ridisegnare il proprio destino grazie al cambiamento di identità di quella che sarebbe di-ventata sua moglie: "Conosco detto Francesco perché questo si faceva mio parente per haver per mo-glier una signora Laura, fiola di una fia natural, per quanto si dice, del quondam clarissimo signor Giovan Paolo Malipiero, fu mio zerman, qual si diede a conoscer a me per questo effetto et mi volse più volte menar a casa sua, né mai ho voluto andar" (ASV, 1, alla data). 481 Claudia ANDREATO: IL REATO DI BIGAMIA NELLA REPUBBLICA DI VENEZIA ..., 471-492 presunta libertà per la morte del primo marito, come prevedeva la recente normativa matrimoniale per i contraenti forestieri o non conosciuti al celebrante. Secondo Francesco invece era stata Tarsia - a sua insaputa - l'artefice della sua nuova identità e delle due fasulle dichiarazioni sul suo presunto stato libero. Insomma la responsabi-lità del reato e di tutti gli espedienti cui era ricorsa per commetterlo era tutta riversata su di lei. Inoltre l'interesse dei giudici ecclesiastici non sembrava soltanto volto a meglio indagare gli stratagemmi di cui i coniugi si erano avvalsi per poter siglare la loro unione. Per accertare la validité del matrimonio,22 rimaneva comunque fondamentale capire se per la comunità la donna fosse stata sposata o meno. Probabilmente lo doveva aver intuito l'avvocato di Francesco Bonamino, che nel mese di settembre del 1629 aveva presentato al Patriarcato nuovi e più dettagliati capitoli d'accusa contro Tarsia: "Qualmente la verità fu et è che già tredici o quattordeci anni in circa madona Tarsia figliuola di Toderin da Rodo et di dona Bella contrasse legitimo matrimonio per parole de presenti con domino Todorin d'Andro, et cio fu nella chiesa de Greci da Venetia con l'assistenza et intervento delprete curato et de testimonii, il che fu et è vero, publico et notorio et di questo è publica voce et fama [...]" (ASV, 1, alla data). Al di là dei dettami di Concilio di Trento e della loro effettiva applicazione, l'au-torità ecclesiastica quindi sembrava non poter ancora prescindere dal contesto sociale e dall'opinione comune nell'accertare l'esistenza di un'unione matrimoniale.23 Il matrimonio rimaneva un'operazione sociale in cui confluivano gli interessi delle parentele degli sposi e le strategie di potere all'interno delle comunità. Le scelte dei singoli, lungi dall'essere considerate come scelte "individuali", si rflettevano inevitabilmente all'esterno e all'esterno erano costrette a ricorrere le autorité nel tentativo di preservare la morale sociale. Cosi pure il messaggio sotteso alla pena comminata per i singoli reati celava una volontà educativa diretta non soltanto agli imputati o ai protagonisti di un determi-nato comportamento delittuoso, ma pure a quanti avevano "coperto" il reato renden-dosene complici e infine alla società nel suo insieme.24 22 Accertamento reso in questo caso più difficile dato che sembrava - stando quantomeno alle deposizi-oni di Tarsia - che il primo matrimonio fosse stato celebrato seguendo il rito greco. Comunque nel fascicolo processuale non si sono ritrovate indicazioni precise a questo proposito e neppure copia delle dichiarazioni rilasciate dai due testimoni sullo stato libero di Tarsia. 23 La testimonianza rilasciata il 22 maggio del 1629 da Giorgio Callogera alla Curia patriarcale veneziana non lascia dubbi a proposito di quello che la gente pensava a proposito di Tarsia e del suo primo marito: "So questo, che la detta madonna Tarsia trattava di maritarsi in un greco, del qual non so il nome, già più de sei anni in circa, poiché ho veduto che il detto greco andava al monasterio dove era detta Tarsia. Non so mó quello trattasse con essa, basta che per la contrada di Sant'Antonin era publica voce et fama che fosse stato contratto il matrimonio tra essi" (ASV, 1, alla data). 24 L'importanza del messaggio che si cela dietro alla pena comminata dai tribunali è stata notata ad esempio dallo studioso Lawrence Friedman nel suo Crime and Punishment in American History: 482 Claudia ANDREATO: IL REATO DI BIGAMIA NELLA REPUBBLICA DI VENEZIA ..., 471-492 Le narrazioni processuali celavano quindi un discorso dialettico che individuava come referente principale la società nel suo complesso, allo scopo di contrallare che il comportamento dei singoli si attenesse, per quanto possibile, ai parametri culturali che informavano la società e di impedire che atteggiamenti devianti minacciassero la concezione parentale, economica, politica e religiosa sottesa al matrimonio. RETORICA DI UN'IDENTITÀ Verso la fine di settembre del l629 alcuni testimoni avevano aggiunto particolari molto interessanti alla vicenda che coinvolgeva Tarsia di Toderino d'Andro. Il caso era ancora nelle mani della Curia patriarcale, che stava appurando se la donna avesse realmente contratto due matrimoni. Da qualche giorno l'avvocato di Francesco Bonamino aveva presentato gli ultimi capitoli d'accusa, con annessi i nomi di alcuni testimoni che i giudici avrebbero dovuto interrogare in merito al primo matrimonio e soprattutto all'esistenza di quel mercante greco - primo marito della donna -, che da qualche giorno sembrava aggirarsi per la città. Tra i testimoni citati, Nicolô Bono espose la sua versione dei fatti lunedi 24 settembre: "Io [...] conosco madona Laura chiamata Malipiera [...] la quale prima, già 14 anni in circa, era nominata Tarsia, figliuola de Toderin da Rodi et vi diro con che occasione l'ho sentita a nominar di questo nome Tarsia. Essendo io già alcuni giorni fa nel luogo della chiesa di San Zorzi de Greci di questa città, ho parlato con messer Toderin d'Andro marito della medesma Tarsia, il qual disse alla presentia de molti sacerdoti greci et altri mercanti greci, che io sentei, che già quattordeci anni egli tolse per moglie questa Tarsia et doppo haverla tolta per moglie, la messe in un monasterio et che se ne ando a far un viaggio fuori et che essendo stato poi lui preso da Turchi et fatto schiavo et liberatosi in questi ultimi giorni et venuto in Venetia, have-va trovato ch 'essa Tarsia si haveva maritata con il nome supposito di Laura nel si-gnor Francesco Bonamin et che havendosene voluto anco assicurar col vederla, s'ha riconosciuta certamente per quella Tarsia che egli già quattordese anni tolse per moglie. Et il medesimo esso Toderin disse et affermo al suo reverendissimo arcive-scovo et a quelli sacerdoti che erano con esso, de ' quali non conosco alcuno. Et detto "Criminal justice 'teaches a lesson' to the people it punishes, and also to the public at large. It is also a kind of banner or flag that announces the values and norms of society... Thus criminal justice tells us where the moral boundaries are; where the line lies between good and bad" (Friedman, 1993, 10). Interessanti pure le osservazioni di Ginger Frost a proposito dell'atteggiamento dei giudici inglesi nel punire i bigami nel corso dell'Ottocento: "Popular opinion was so at variance with the law that many judges applied it with great flexibility [...]. Despite their official disapproval, judges did not believe in harsh penalties for all bigamists, irrespective of situations. Their reactions, much like those of neighbors and kin, depended on the circumstances [...]. Finally [...] consistent resistance to the law by ordinary people may have worn down the judges, converting them to the wider community's standards of acceptable unions" (Frost, 1997, 298-299). 483 Claudia ANDREATO: IL REATO DI BIGAMIA NELLA REPUBBLICA DI VENEZIA ., 471-492 monsignor arcivescovo rispose, che io sentei, che questo era negozio chiaro et che anco si racontava che costei, sotto nome di Tarsia, si era maritata in questo Toderin d'Andro [...] "(ASV, 1, alla data). Qualche istante dopo fu la volta del fratello del teste, Domenico Bono, che con-fermô quanto appena rivelato da Nicolô: "Io so di bocca di questo Toderin d'Andro, nominato nel capitolo a me letto, da sei in otto giorni in qua che ritrovandomi io nel campo della chiesa de San Zorzi de Greci et nella chiesa istessa, lui Toderin disse publicamente, che io sentei, a quei sa-cerdoti greci, vi era anco l arcivescovo de greci, che de altri non mi ricordo, disse, dico, detto Toderin che questa donna Laura già quattordese anni la prese per moglie sotto nome di Tarsia figliuola di Todorin da Rodi qui in Venetia et che si meraviglia-va ch 'ella havesse usato questa temerità de mutarsi il nome de Tarsia in Laura et maritarsi col Bonamin, essendo sua moglie. Et sentei che detto monsignor arcivescovo rispose che ancor lui si meravigliava di questa donna che havesse fatto tal cosa, come una donna che havesse usato questo ardire di prender il secondo marito, viviendo il primo [...] " (ASV, 1, alla data). Sembrava insomma che quel Toderino d'Andro col quale Tarsia si era sposata molto tempo prima e che, pochi giorni dopo il loro matrimonio, era partito per il Levante, avesse fatto ritorno in città. Lo avevano dichiarato i fratelli Bono; ma lo riba-dirono pure altri testimoni che nei giorni seguenti rilasciarono la loro deposizione ai giudici ecclesiastici. Essi non tralasciarono neppure di fornire una descrizione fisica di Toderino. Nicolô Bono aveva, infatti, dichiarato che: "Questo Toderin col quale all'hora parlai è huomo di ordinaria statura, de trentasei anni in circa, che non credo arrivi, per quanto il suo aspetto dimostra, a li quaranta. Ha barba castagna, tonda, alla greca. Haveva un habito di panno pavo-nazzo in dosso [...] "(ASV, 1, alla data). Descrizione confermata dal fratello del teste: "È huomo di mediocre statura, nè grande nè piccolo, ha barza negra, tonda alla greca, puo havere intorno quaranta anni a mio giuditio et mi par che haveva un habito pavonazzo indosso, che non so se fosse panno o altro, ma credo che fosse panno [...]" (ASV, 1, alla data).25 25 I fratelli Bono non furono gli unici a fornire una descrizione física del primo marito di Tarsia: il 26 set-tembre fu la volta di Aloisio Puliti: "So ch'essa Tarsia si marito giá tredese in quattordese anni in questo Toderin d'Andro, qual conosco benissimo, che é mariner et naviga con vasselli in Levante, perché io son stato presente al matrimonio celebrato tra loro nella chiesa di San Zorzi de Greci sudetta, non mi racordo chi fusse il sacerdote che fece le parole de presenti, ma fu uno di quelli sacerdoti il quale adesso non é qua certo [...]. Et all'hora che lui fece il detto matrimonio con detta Tarsia era giovane senza barba, che haveva solamente un pocco de mustacchi, che adesso egli ha la barba grande negra et é huomo formado et é di statura ordinaria" (ASV, 1, alla data). Successivamente pure Antonio di Giovanni da Ce-falonia e Cristoforo Ganassa descrissero l'aspetto fisico di Toderino (ASV, 1, 26 e 27 settembre 1629). 484 Claudia ANDREATO: IL REATO DI BIGAMIA NELLA REPUBBLICA DI VENEZIA ., 471-492 I dettagli fisici e i particolari che tutti i testimoni avevano offerto nel descrivere Toderino sembravano svelare la veridicità delle loro affermazioni, negando ogni pos-sibilità di difesa da parte di Tarsia: l'esistenza del primo marito non poteva essere uno dei tanti tranelli che Francesco Bonamino le aveva teso per ottenere l'annullamento del matrimonio, ma era una realtà che senza dubbio confermava il suo reato. La cura nel descrivere il suo aspetto fisico dimostrava, insomma, che quell'uomo che tutti avevano creduto - o avevano voluto credere - morto, in realtà era vivo ed era tornato. Mentre Toderino d'Andro veniva riconosciuto per la città e recuperava cosi la sua identità, Laura Malipiero perdeva inevitabilmente la sua. Quel nome che le aveva permesso di ridisegnare il suo destino, nel tentativo di migliorare la sua situazione e di rifarsi una nuova vita - al di là della complicità o meno di Francesco Bonamino -ora non avrebbe più avuto senso. Anzi, avrebbe costituito un chiaro indizio della sua colpevolezza. Nello stesso tempo il timore che Toderino si potesse recare all'Inquisizione per denunciare i due coniugi e smascherare cosi la loro complicité, aveva probabilmente convinto Francesco a presentarsi subito al Santo Ufficio per accusare la moglie. Con l'avvio del procedimento ecclesiastico la donna e il suo secondo marito divennero cosi i protagonisti di un confronto giudiziario in cui l'una era identificata come impu-tata e l'altro come vittima. In situazioni di estrema mobilità - come nella città di Venezia - che rendevano assai arduo il controllo del crimine di bigamia26 sia da parte delle istituzioni ecclesia-stiche che secolari,27 la figura della vittima si rivelava strumentale per l'individuazio-ne del reato e per la sua punizione. La parte lesa che ricorreva al tribunale diventava fondamentale per l'istruzione di un procedimento penale ai danni di coloro che molto spesso vivevano ai margini, senza una collocazione spaziale e sociale stabile o alla ricerca di una nuova identità. II ruolo di vittima ed imputata che Francesco e Tarsia venivano ad assumere con l'avvio del processo pareva connotarli quindi di un'identità processuale che poco si addiceva loro. Infatti, la storia che essi raccontarono ai giudici e che via via fu regi-strata tra le carte del fascicolo sembrava dipingerli a chiaroscuri: luci ed ombre del loro passato li rendevano persone difficilmente connotabili sul piano sociale, in grado di rifiutare il rigido complesso di regole morali imposto dalla società dell'epoca, per ridefinire la loro identità e ridisegnare il futuro. 26 Come è stato notato da Lawrence Friedman a proposito della società americana del XIX secolo: "There is no bigamy where parents choose mates for their children; or where marriage only take place inside tight groups, clans, villages, family groups" (Friedman, 1993, 200). 27 Costrette - lo si è già osservato - a ricorrere alla comunità, attraverso l'interrogatorio dei testi, per provare l'esistenza di un doppio matrimonio o per accertare i mezzi attraverso cui il crimine si era espletato. Sui conflitti di competenze in merito al reato di bigamia nella Repubblica di Venezia cfr. Andreato, 2004, 419-429. 4S5 Claudia ANDREATO: IL REATO DI BIGAMIA NELLA REPUBBLICA DI VENEZIA ., 471-492 Cosi pure i numerosi testimoni che sfilarono davanti ai giudici per confermare la versione dei fatti dell'uno o dell'altro coniuge e che arricchirono la storia di interes-santi particolari finirono per assumere un'identita processuale che forse non rispec-chiava fino in fondo il ruolo che essi avevano avuto nella vicenda. Dalle loro de-posizioni sembra infatti che il cambiamento di identitá di Tarsia - corollario indis-pensabile per poter contrarre il secondo matrimonio - fosse da tempo ampiamente accettato dal reticolo di amicizie e parentele che ella poteva vantare nel tessuto sociale. Se la scelta di cambiare nome per diventare Laura Malipiero era di assoluta responsabilitá della donna e/o del suo secondo marito, sicuramente essa fu possibile grazie pure alla complicitá di amici, parenti, vicini e conoscenti che per molti anni non denunciarono il fatto alle autoritá. Cosi la notizia del ritorno del primo marito, la denuncia al tribunale ecclesiastico da parte di Francesco Bonamino e infine l'avvio di un processo contro Tarsia finirono inevitabilmente non solo per smantellare la nuova identitá della donna, ma anche per dar voce ad un silenzio che per lungo tempo aveva accompagnato le scelte "individuali" di Tarsia. L'identita che i protagonisti del processo - vittime, imputati e testimoni - vennero ad assumere dopo l'avvio del procedimento celava in realtá identita piu complesse. Le vittime spesso agivano con l'implicita consapevolezza del rischio di sposarsi con una persona dal passato sconosciuto; gli imputati dimostravano di rifiutare la loro identita personale e sociale per costruirsene un'altra; i testimoni sembravano avvolge-re nel silenzio scelte "individuali" che nascondevano comportamenti ritenuti comu-nemente devianti.28 L'immagine che di essi emerge tra la carte del fascicolo processuale costituisce quasi un ritratto stereotipato, abbozzato dall'autoritá a seconda del complesso apparato di norme politiche, giuridiche e morali. Un ritratto processuale, insomma, che nasconde storie piu personali e intricate. 28 Ha scritto Claudio Povolo a proposito dei crimini che minacciavano direttamente i valori fondamentali di una determinata società (come la stregoneria, l'eresia, la bestemmia o la bigamia): "Si tratta di crimini sentiti come particolarmente pericolosi per la società nel suo complesso, ma che alla base pre-supponevano la difesa di interessi ben precisi di gruppi dominanti, le cui caratteristiche erano d'im-pronta nettamente teocratica (come ad esempio nell'America coloniale), oppure come in Europa, for-temente contrassegnate da un'alleanza tra trono e altare [...]. Questi tipi di crimini erano dotati di forti valori simbolici: poiché essi minacciavano l'ordine pubblico e la stessa stabilità sociale (e indiretta-mente gli assetti di potere), la loro punizione prevedeva generalmente pene assai severe che si svol-gevano secondo ritualità pubbliche tese a connotare in modo infamante l'identità del colpevole. In tutti questi casi il diritto e le concrete procedure giudiziarie applicate nei confronti degli imputati, mira-vano non solo e non tanto a definire i confini tra il bene e il male, tra ció che era lecito e ció che non lo era, quanto piuttosto a tracciare quel limite insuperabile che l'uomo non doveva oltrepassare senza at-tirare l'ira divina su tutta la collettività. È ovvio che la definizione di questi crimini e, soprattutto, la loro concreta repressione riflettevano non solo i valori culturali e religiosi dell'epoca (da cui la stretta correlazione tra crimine e peccato), ma pure rappresentavano una sorta di barriera ideologica, eretta dai ceti dominanti a difesa di un sistema imperniato sulla stretta commistione tra status, onore e ric-chezza" (Povolo, 2004, VI-VII). 486 Claudia ANDREATO: IL REATO DI BIGAMIA NELLA REPUBBLICA DI VENEZIA ., 471-492 Fig. 1: Paris Bordone: Amanti veneziani (olio su tela, 95x80). Pinacoteca di Brera, Milano. Sl. 1: Paris Bordone: Beneška ljubimca (olje na platnu, 95x80). Hrani Pinakoteka Brera, Milan. 487 Claudia ANDREATO: IL REATO DI BIGAMIA NELLA REPUBBLICA DI VENEZIA ..471-492 RETORICA DI UN REATO Martedi 11 giugno del 1630 il tribunale dell'Inquisizione veneziana emanó ineso-rabile la sua sentenza di condanna nei confronti di Tarsia: "Essendo che tu Tarsia figliola de Toderino da Rodi et d'Isabella Malipiera, moglie di Toderino d'Andro greco mariner et con finto nome chiamata Laura Malipiera, pretesa moglie di Francesco Bonamin mercante veneto, dell'età tua d'anni 36 in circa, fosti in questo Santo Officio di Venetia processata et trovata colpevole di bigamia o poligamia et de superstitioni come nel processo et perció carcerata et constituita col permetterti il poter deffenderti. Pertanto havendo noi veduto et considerado il processo informativo et il processo deffensivo con tutte le cose in essi con-tenute et quanto di ragione si doveva vedere et considerare, col conseglio et parere de'nostri consultori siamo venuti contro di te all'infrascritta diffinitiva sentenza. In-vocato dunque il santissimo nome di nostro signor Giesù Cristo, della gloriosissima sua madre sempre vergine Maria et de ' sacrosanti Marco Evangelista et Pietro mar-tire, nostri protettori. Havendo avanti di noi li sacrosanti evangeli, per questa nostra diffinitiva sententia quale [...] proferimo in questi scritti, diciamo, pronuntiamo, sententiamo et dichiariamo che tu Tarsia sudetta, per le cose contenute nel processo contra di te formato, ti sei resa a questo Santo Officio leggiermente sospetta di here-sia et che peró sei obligata ad abiurare ogni et qualunque heresia et errore che con-tradica alla santa madre chiesa cattolica et apostolica romana, come ti commandia-mo che facci nel modo et forma che da noi ti sarà data. Et acciochè li errori da te commessi non restino del tutto impuniti et siipiù cauta nell'avenire et essempio a gli altri che si astengano da simili delitti, ti condanniamo a dover restar carcerata in una preggione [...] per un anno intiero prossimo venturo et per penitenza salutare t'imponemo che per detto tempo reciti una volta al mese la corona della beatissima vergine [...]"(cfr. ASV, 1, alla data). Costretta ad abiurare ogni possibile credenza contraria a quanto disposto dalla fe-de cattolica, Tarsia fu dunque costretta a recitare parola per parola alcune formule disposte dal tribunale dell'Inquisizione: "Io Tarsia figliola de Toderino de Rodi, dell'età mia d'anni 36 in circa, constituita personalmente in giudicio et ingennochiata avanti di questo santo tribunale dell'officio della Santa Inquisitione di Venetia, havendo avanti gli occhi miei li sacrosanti evangeli, quali tocco con le proprie mani, giuro che sempre ho creduto, credo adesso et con l'aiuto di Dio crederó sempre per lavenire tutto quello che tiene, crede, predica et insegna la santa madre chiesa cattolica et apostolica romana. Ma perché da questo Santo Officio processata, trovata colpevole et sententiata di bigamia o poligamia et de superstitioni come nella sententia hora publicatami, sono stata giudicata leggiermente sospetta di heresia, per tanto volendo io levare dalla mente de ' fedeli di Cristo questa leggiera sospittione contro di me con si giuste 488 Claudia ANDREATO: IL REATO DI BIGAMIA NELLA REPUBBLICA DI VENEZIA ., 471-492 ragioni concetta, abiuro, maledico et detesto ogni et qualunque heresia et errore che contradica alla detta santa Chiesa et giuro che per l'avenire non faro né diro mai più cosa per la quale si possa di me haver tal sospittione, nemeno havero prattica o conversatione nelle cose della santa fede con heretici overo che siano sospetti di heresia. Giuro anco et prometto di adempire et osservare intieramente tutte le pene et penitenze che mi sono state o mi saranno da questo Santo Officio imposte et contravenendo [...] ad alcuna di queste mie promesse et giuramenti - che Iddio non voglia - mi sottopongo a tutte le pene et castighi che sono da sacri canoni et altre constitutioni generali et particolari contro simili delinquenti imposte et promulgate. Cosi Iddio m'aiuti et questi suoi sacrosanti evangeli. Io Tarsia sudetta ho abiurato, giurato, promesso et mi sono obligata come di sopra. In fede del vero ho segnato di propria mano col segno della croce, per non saper io scrivere, la presente cedola di mia abiuratione et recitatala di parola in parola in questo Santo Officio di Venetia il presente giorno di martedi XI giugno 16S0, presenti l'infrascritti testimoni, cioè il capitano et il fante del Santo Officio [...]" (ASV, 1, alla data). La sentenza sembrava dunque aver messo fine alla storia processuale che aveva visto Tarsia come protagonista. Ma la richiesta di scarcerazione presentata qualche mese più tardi dal suo avvocato dimostrava che in realtà la controversia che si era consumata nelle aule giudiziarie dell'Inquisizione veneziana tra lei e Francesco Bo-namino era ben lungi dal risolversi completamente. Già in occasione della presenta-zione delle sue difese la donna aveva sostenuto di aver querelato il marito al temutis-simo tribunale del Consiglio dei dieci con l'accusa di violenze e ferite nei suoi con-fronti. Nel mese di agosto poi chiese la sua scarcerazione per poter proseguire la causa che aveva introdotto al Patriarcato per "tagliare" la sentenza di annullamento del matrimonio "con mal'arte et fraude estorta dal marito" (ASV, 1, 20 agosto 1630). Probabilmente col rilascio di Tarsia la storia tra i due coniugi si trasferi presso altri tribunali, per dar vita ad altre storie, identité e narrazioni processuali. Il con-flitto che aveva coinvolto l'Inquisizione veneziana era comunque giunto al termine e aveva inevitabilmente segnato il destino di coloro che ne erano stati i protagonisti. RINGRAZIAMENTO A conclusione di questo lavoro desidero ringraziare sentitamente il prof. Claudio Povolo per l'aiuto e il sostegno offertomi. 489 Claudia ANDREATO: IL REATO DI BIGAMIA NELLA REPUBBLICA DI VENEZIA ..., 471-492 BIGAMIJA KOT KAZNIVO DEJANJE V BENEŠKI REPUBLIKI V PROCESU IZ LETA 1630 Claudia ANDREATO Univerza Ca' Foscari v Benetkah, Oddelek za zgodovinske študije, IT-30124 Venezia, San Marco 2546 e-mail: cld79@libero.it POVZETEK Iz spisov sodne mape, ki jo je leta 1630 pripravila Beneška inkvizicija proti Lauri Malpiero zaradi bigamije in čarovništva, se kaže neenoznačna in precej nejasna predstavitev zgodovinskega dejstva Protagonisti procesa - žrtve, obtoženi in priče -so posredovali naracijo o dogodkih, za katero so se najverjetneje skrivale bolj kompleksne in osebne zgodbe. Zdi se, da sta se sama protagonista kaznivega dejanja bigamije - oba zakonca -le stežka prilagodila vlogam, ki jima jih je določila sprožitev sodnega postopka: po eni strani je neznano preteklostjo - oziroma, kot v obravnavanem primeru, z že poročeno žensko, katere mož je dolgo let pred tem izginil, a se o njegovi smrti ni vedelo nič gotovega; po drugi strani pa je kot v obravnavanem primeru, osebne - da bi si zgradil drugo in tako na novo začrtal usodo. Zdi se, da so tudi - sorodniki, prijatelji ali znanci zakoncev - vsaj od začetka sodnega postopka in njihovega zaslišanja - v molk ovile "osebne" izbire, ki so skrivale obnašanja, običajno razumljena kot odklonska. Procesna naracija je torej zaznamovana z retoričnim slogom, ki po eni strani na dejanja, po drugi strani pa ga močno usmerjajo vprašanja sodnikov in odvetniška obravnava. Zdi se, da se beseda, ki izhaja iz mape, skoraj v celoti prilagaja zahtevam cerkvene in posvetne oblasti, ki pri ugotavljanju obstoja zakonske skupnosti še ni zmogla iti onkraj družbenega konteksta, čeravno je tridentinska norma vzpostavila rigidne formalnosti za poročne obrede, da bi s tem ohranila stabilnost in kompleksni aparat moralnih in verskih vrednot družbe, togo in hierarhično organizirane na osnovi statusa Zdi se, da je oblast, ki je vodila sodni postopek, imela cilj oblikovati stereotipno podobo kaznivega dejanja, ki je potencialno prevratniško za vzpostavljeni red, ter njihovih protagonistov, ki so se le stežka podredili najbolj razširjenim družbenim shemam in vlogam, kot jim jih je določal sodni postopek. Ključne besede: bigamija, mobilnost, žrtev, zakonska zveza, retorika, družba 490 Claudia ANDREATO: IL REATO DI BIGAMIA NELLA REPUBBLICA DI VENEZIA 471-492 FONTI E BIBLIOGRAFIA ASV, 1 - Archivio di Stato di Venezia (ASV), Santo Ufficio, Processi, b. 87, fasc. istruito contro Laura Malipiero. Leggi criminali (1751): Leggi criminali del Serenissimo Dominio Veneto. Venezia. Galliccioli, G. (1795): Delle memorie venete antiche profane ed ecclesiastiche. Ve-nezia. Andreato, C. (2004): Il reato di bigamia nella Repubblica di Venezia (secoli XVI e XVII). In: Chiodi, G., Povolo, C. (eds.): L'amministrazione della giustizia penale nella Repubblica di Venezia (secoli XVI-XVIII). Vol. II. Retoriche, stereotipi, prassi. Verona, Cierre Edizioni, 413-464. Bossy, J. (1990): L'occidente cristiano (14GG-17GG). Torino, Einaudi. Bossy, J. (1998): Dalla comunità all'individuo. Per una storia sociale dei sacramenti nell'Europa moderna. Torino, Einaudi. Casey, J. (1991): La famiglia nella storia. 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