UDK 82L13n-97.09Panigarola E:27-475.5"16" IL PREDICATORE DI FRANCESCO PANIGAROLA*: UN NUOVO MODELLO DI ELOQUENZA SACRA PER IL SEICENTO Fabio Giunta Abstract The seventeenth century marks the advent of preaching, in both Italy and Europe, as a literary form. Francesco Panigarola (1548-1594) did certainly play a major role in this process thanks to his treatises on sacred oratory and years of preaching activity in several Italian and European cities - during which he developed important relationships and personally experienced some of the most significant events of the century. Panigarola's Il predicatore is a seventeenth-century example of rhetoric that whilst based on classical oratory complies with the precepts of the Counter-Reformation. This treaty, published posthumously in 1609, is structured as a commentary on the pseudo-Demetrius's work on eloquence. Il predicatore, besides serving as an Italian/Florentine translation of and commentary on Pier Vettori's De elocutione (the Latin version of Peri Ermeneias), passes on and adapts the rhetorical precepts of classical oratory to the renewed exigencies of the language and of Italian preachers. Key words: sermon, homiletic eloquence, panigarola Le retoriche borromiane, a differenza della predicazione dotta e scolastica e di quella popolare e diatribica, mirano a ricollegarsi all'eloquenza dei Padri della Chiesa, il cui ideale raggiungera il suo risultato piu alto solo nel XVII secolo con Bossuet in Francia e Paolo Segneri in Italia. Sara certamente utile ricordare qui quanto sull'oratoria sacra del Seicento scriveva il Pozzi nel suo libro su Emmanuele Orchi: Chiunque osservi il posto che l'eloquenza sacra occupa via via nel corso dei secoli [...] notera [...], che, mentre in ogni altro tempo le prediche tengono delle posizioni periferiche di fronte alle rispettive iniziative letterarie, nel Seicento invece la prosa di predicazione e l'espressione piu genuina e piu violenta del movimento specifico del secolo, il concettismo. [...] Che l'eloquenza del pulpito occupasse nella repubblica delle lettere un posto ufficiale, lo provano i sonetti ed epigrammi encomiastici, dovuti a volte a penne famose, che spesso precedono le stampe delle prediche, e, viceversa, la fortuna incontrata dal Marino in quanto finto oratore.1 1 Pozzi, 1954: 13-14. Tra i protagonisti di questo processo storico e letterario descritto dal Pozzi, un ruolo di importanza primaria spetta certamente a Francesco Panigarola2 e non solo per la fama delle sue rutilanti prediche. In un noto saggio sulla storia della predicazione Roberto Rusconi sostiene che "estremamente importanti e decisivi nel determinare l'orientamento della predicazione post-tridentina in Italia furono quattro trattati di Francesco Panigarola: due guide pratiche, Modo di comporre una predica e Trattato della memoria locale;3 e poi, Il predicatore, overo Parafrase, commento e discorsi intorno al libro dell'elocutione di Demetrio Falereo, che riassume e svolge i principî dell'eloquenza religiosa elaborati dal Panigarola a contatto con l'azione pastorale di Carlo Borromeo; le Questioni intorno alla favella del predicatore italiano, che svol-gono la funzione di introduire la predicazione nel campo della letteratura italiana".4 Se tuttavia nel Modo di comporre una predica il Panigarola si concentra sull'inventio, il Predicatore è dedicato all'elocutio (applicabile, secondo il Panigarola, a tutti i generi della prosa).5 L'opera era già stata progettata intorno al 1579 durante l'insegnamento a Roma in Aracoeli, mentre per la concreta realizzazione del trattato bisogna risalire agli ultimi anni di vita del Panigarola.6 Il predicatore1 si apre con una serie di dieci Questioni secolari e di dieci Questioni ecclesiastiche; seguono la Parte Prima (dalla Particella I alla Particella XXIV) che affronta l'aspetto più strettamente grammaticale-sintagmatico; l'Apparato per la seconda parte - sono le Questioni intorno all favella del predicatore italiano -; la Seconda Parte (dalla Particella XXV alla Particella CLXX) che tratta le quattro "note" dell'espressività della prosa.8 La Parte Prima, trattazione dei membri e dei periodi della prosa, e la Parte Seconda, che descrive e argomenta le quattro forme dell'eloquenza (la "magnifica", la "venusta", la "tenue" e la "grave") si sviluppano attraverso il susseguirsi di capi-toli chiamati particelle. Ciascuna particella è a sua svolta strutturata secondo uno schema che si ripete lungo l'intero trattato secondo la seguente sequenza: 1. testo dello pseudo-Demetrio tradotto in latino da Pier Vettori; 2. Parafrase del Panigarola; 3. Commento dove il Panigarola si avvale degli esempi de'Poeti gentili o vani; 4. Discorso ecclesiastico con il quale si fanno gli esempi di Poeti ecclesiastici e sacri considerati superiori ai primi. Con il Commento il Panigarola intende "giovare alla lingua italiana" nel tentativo di adeguare il sistema retorico greco a quello italiano e suggerendo un'ampia casistica circa le possibilità stilistiche della prosa italiana. La funzione del Discorso ecclesiastico consiste invece nel "giovare ai religiosi" attraverso un processo di rimodulazione consistente nel "rubar le spoglie agli Egitij e donarle al 2 Per il ruolo storico e letterario del Panigarola si segnalano i fondamentali Sevesi, 1946 e Pozzi, 1960; Si vedano inoltre: Lay, 1966; Mouchel, 2001; Bramante, 2007; Giunta, 2007; Laurenti, 2008; Meroi, 2008; Benzi, 2009; Giunta, 2009; Beniscelli, 2010; Henares Díaz, 2011. 3 Panigarola, 1603. 4 Rusconi, 1981: 1004. 5 Si veda in particolare Laurenti, 2008. 6 In una lettera del 5 febbraio 1592 il Panigarola scrive: "Quello intorno a che io sudo adesso, se bene di febraro, è una parafrase, un commento e molti discorsi intorno al libro della elocuzione di Demetrio Falereo, che sarà opera di tre anni di tempo almeno [...]", in Panigarola, A., 1629. 7 Panigarola, 1609. 8 Occorre sottolineare che ciascuna sezione (le Questioni assieme alla Parte Prima, l'Apparato e la Seconda Parte) presentano una paginazione autonoma. Dio d'Israele". La trattazione si dipana quindi lungo due piani: teorico-normativo ed esemplificativo. La Seconda Parte costituisce la trattazione più ampia (Particc. XXV-CLXX) in cui vengono affrontati i quattro stili della prosa: bassa, magnifica, omata e severa.9 Con il Discorso ecclesiastico della Partic. XXV, in cui si cerca di mostrare il sostanziale accordo - in merito alle caratteristiche dei quattro stili -, tra le tesi di pseudo-Demetrio e quelle agostiniane del IV libro del De doctrina christiana, il Panigarola dichiara che non farà "molta fatica a ritrovare ecclesiastici autori i quali in materia d'elocutione habbiano di quel medesimo soggetto e ragionato e dati insegnamenti, del quale in questa particella tratta Demetrio".10 Successivamente individua quattro passi tratti da predicatori italiani quali esempi per le quattro "note": "per la magnifica" Cornelio Musso, "per la venusta" Gabriele Fiamma, "per la tenue" il Passavanti, e per la "nota aspra" la scelta del Panigarola ricade su se stesso. Il primo argomento ad essere trattato è la "magnificienza nel dire" che, secondo l'insegnamento dello pseudo-Demetrio, "in tre cose consiste, cioè nelle cose, nelle parole e nella struttura d'esse parole. Si come non questa nota sola ma tutte l'altre ancora di queste medesime tre cose hanno bisogno, né le virtuose forme solamente ma le vitiose ancora".11 E alla nota magnifica viene destinata la trattazione più ampia perché la più decisiva e importante ai fini della predicazione. Di questa il Panigarola fornisce l'oggetto ("il christiano dicitore sempre dice cose grandi"12), e la forma (quale tipo di parole, di sillabe e vocali, di accenti impiegare). Il principio stilistico che presiede alle scelte del predicatore dovrà essere quello della "mediocritas" che il Panigarola definisce "mediocrità arificiosa" Da cio deriva che oltre alla trattazione delle quattro "note" viene presentata, specularmente, quella dei "vizii" (l'allontanamento cioè dalla "mediocritas"): quante note simplici vitiose si ritrovano, tante virtuose semplici bisogna che si tro-vino; da ciascuna delle quali una delle vitiose pigli origine; ma quattro vitiose note c'insegnarà Demetrio e la sperienza medesima, che sono del freddo, dell'arido, del cacozelo e dell'indecoro, dunque quattro notte [sic] virtuose semplici bisogna dare affine che dalla magnifica nasca la frigida, dalla tenue l'arida, dalla venusta il cacozelo e dalla grave l'indecoro.13 Lo stesso concetto si ritrova nell'autobiografia del Panigarola: "né materia se gli presento mai, o magnifica o tenue o venusta o grave, sopra la quale raggionando, nei medesimi termini e note, non sapesse contener se stesso senza mai commettere una frigidità, mai una aridità, mai un cacozelo o un indecoro".14 Uno degli obiettivi del Panigarola è poi quello, riguardo al discorso relativo al ritmo della prosa, di adattare le regole greche a quelle italiane. Operazione meritevole in quanto molto ampia è la diversità fra le due lingue. E alla trattazione dello pseudo- 9 Panigarola, 1609, Partic. XXV, II: 3. 10 Ivi, Disc. eccl., II: 9. 11 Ivi, Partic. XXVI, Commento, II: 19-20. 12 Ibid. 13 Ivi, Partic. XXV, II: 8. 14 Panigarola, 2008: 213-214. Demetrio vengono aggiunte due digressioni: una relativa alla tonalitá "magnifica" (Di-gressione intorno al numero oratorio della volgar nostra favella15), l'altra relativa alla nota "venusta" (Intorno al numero venusto italiano16). Per ottenere il medesimo effetto ritmico del greco il Panigarola nella Digressione intorno al numero oratorio esamina tutte le differenze che intercorrono fra il sistema fonico quantitativo greco-latino e il sistema tonale italiano ed individua otto aspetti: Ove (I) appresso a' Greci e a' Latini niuna sillaba in quale si voglia parola si trovava o truova che per se stessa non habbia la sua quantitá; [...] nel nostro volgare italiano niuna sillaba per se stessa ha quantitá alcuna; (II) ove fra Greci e Latini l'accento [.] non serviva e non serve a' tempi et a' ritmi ma a' suoni ed alle harmonie [.] fra noi l'accento serve non solo all'armonia ma anche al tempo; [...] (III) in ogni parola nostra volgare ponendosi un accento acuto ne segue di necessitá che ogni parola habbia una sillaba lunga (IV) [.] le parole composte o derivative [.] hanno una certa lunghezza origínale, in quell'altra sillaba che quando era separata haveva l'accento; (V) non é possibile né necessario ridurre le nostre sillabe et i tempi loro in misure de' piedi come fecero i Greci et i Latini; (VI) l'accento nostro posto sull'ultima sillaba [...] leva a tutta quella parola la magnificenza et ogni celeritá, leggerezza e bassezza; ma l'accento posto nell'ultima sillaba come peso soverchio dando il tracollo alla bilancia si tira dietro precipitosamente e fa che proferiamo con molta celeritá tutta la parola che gli aggrava; (VII) tutte le parole di piu sillabe, non avendo l'accento nell'ultima, tanto saranno piu magnifiche e piu gravi quanto l'accento sará piu verso il fine, piu grave quella che l'haverá che nella antepenultima e cosi di mano in mano; (VIII) se bene una parola considerata in se stessa [...] tanto sará piu magnifica, quanto haverá piu sillabe. Il Panigarola stabilisce dunque un parallelo fonico fra la sillaba tonica della lingua italiana e la sillaba lunga del greco-latino. Di conseguenza l'italiano ha una sola sillaba lunga per ciascuna parola. Inoltre, visto che per lo pseudo-Demetrio sono le sillabe lunghe a conferire magnificenza al discorso, "tutte le parola di piu sillabe tanto saranno piu magnifiche e piu gravi quanto l'accento sará piu verso il fine della parola". Ma il Panigarola é comunque consapevole che nella prosa i valori ritmici risaltano soprattutto all'inizio del periodo o in clausola e nella Partic. VIII11 traduce cosi il testo latino del Vettori: Tempo ancora d'adoperare clausule brevi é nella nota grave, cioé quando nel ragionare vogliam parere severi, aspri, austeri e vehementi: perché invero in quanto minor luogo riducono le forze loro, tanto sono le cose, et appaiono a noi piu vigorose. I Lacedemoni per questa cagione, come grandemente affettavano la severitá, cosi brevissimi erano nel ragionare. Et i padroni nel comandare a' servi a pena con una meza [sic] parola, anzi con una sillaba sola vogliono essere intesi.18 Nel Commento Panigarola cita Torquato Tasso "sempre maraviglioso, quando nel primo Libro della Gierusalemme conquistata, fa che Iddio comanda all'Angelo, 15 Panigarola, 1609, Partic. XXVII: 32-43. 16 Ivi, Partic. CI, II: 591-2". 11 Ivi, 95: "Parvorum autem membrorum, et in gravi nota usus est: gravius enim est, quod in pauco multum intus apparet, et vehementius; unde ut Lacones sunt breviloquentes, gravitate ipso impellente, et imperare concisum, et breve: et omnis dominus servo unius syllabe". 18 Ibid. che vada a trovar Goffredo e fargli un'ambasciata, tante picciole clausule caccia ne i versi; come si sente qua: Goffredo hor trova, / e digli in nome mio: perché si cessa? E poco più giù: Chiami i Duci a consiglio, e i tardi mova; /gli sparsi accoglia, il temp, e l'hora appressa, / che s'inchini ilpossente e ceda il veglio / e'l gran Duce ab eterno in Cielo io sceglio". È nel Discorso ecclesiastico che Panigarola cerca di dimostrare la superiorità della veemenza cristiana: Quanto a quello che dicevamo che le vehementi persuasioni denno farsi con membri brevi; e che cosi nelle perorationi fece quasi sempre Cicerone; vorrei potere opporre a tutte le persuasioni vehementi di lui, alcune di quelle de' nostri Dottori, affin che si vedesse che differenza c'è dall'arte lisciata e vana de gli oratori mondani, alla vehe-menza Divina de' dicitori ecclesiastici.19 Qui Panigarola cita solo San Girolamo. Ció che interessa è il riferimento alla veemenza del Musso: Monsignor Cornelio anch'egli nella nostra lingua nel persuadere è vehementissimo; e bene spesso principalmente nel fine delle prediche, quest'arte della brevità delle clausule, mostra molto bene d' essersi raccordata. Come quando nel fine delle prediche delle vittorie fatte nel Concilio di Trento, volendo persuadere a Carlo Quinto la guerra contra gli heretici della Germania, introduce la Chiesa che dice cosi [...].20 Lo stile veemente viene pero affrontato con maggiore precisione nella Seconda Parte. Ecco come il Panigarola parafrasa l'incipit della Partic. XXV11: "Sono le note o forme del ragionare quattro semplici: la bassa, o tenue che vogliamo dire, la magnifica et alta, la ornata e florida e, finalmente, la severa e grave".22 È nel Commento che il Panigarola spiega il significato di nota usato dal Vettori: "Dimandano queste forme di dire i Greci xapaKieipaç che in latino tanto suona quanto notas, in quella maniera che notae ancora si domandano que' segni o quelle marche le quali per distinguere le razze e gli armenti, con infocato ferro sopra le cosce o fianchi de' cavalli e d'altri animali vengono impresse".23 Più avanti, dopo aver accennato all'esistenza delle forme miste e alle tre sole forme del dire di Cicerone, torna a proporre una sorta di schema sinottico tra i termini greci, quelli latini e quelli volgari impiegati per definire i quattro stili: De' quattro caratteri di Demetrio, quello che egli chiama laxyôç, tenue dicendi genus l'hanno dimandato i Latini. Subtile, exile, paruum, summissum, pressum, infimum, siccum; e noi nel nostro volgare italiano possiamo nominarlo: modo di dire basso, picciolo, tenue, comune, ordinario, e simili. Quello che lo pseudo-Demetrio nomina peyaXonpenelç, i Latini magnificum genus, l'hanno detto amplum, grande, grave, summum, copiosum. E noi altri possiamo dire che è la maniera del dire magnifica, ampla, grande, alta, splendida, rilevata e piena di maestà. Il terzo carattere che 19 Ivi: 100. 20 Ibid. 21 Ivi, Partic. XXV, II: 1-2: "Sunt autem quatuor simplices notae: tenuis, magnifica, ornata, gravis". 22 Ivi: 3. Della magnifica si discute dalla Partic. XXVI alla LXXII; della venusta dalla LXXIII alla CV; della tenue dalla CVI alla CXXXIV; della grave dalla CXXXValla fine. 23 Ivi, II: 5. ylaçvpôç fu detto da Demetrio, i Latini lo nominano genus venustum, ornatum, floridum, pictum, flores, concisum, excultum, elegans, lepidum, pingue. E noi lo possiamo dimandare leggiadro, ornato, fiorito, florido, gratioso, dipinto e vago. Finalmente quello che Demetrio nomino Seivôç, latinamente si dice genus grave, asperum, acre, vehemens, ardens breve. Et in lingua nostra vuol dire severo, aspro, vehemente, ardente e simili.24 Dalla Partic. CXXXIV25 comincia la trattazione vera e propria della nota vehemente: "Resta la quarta e ultima nota del dire che grave, severa, vehemente et aspra nominammo. E che anche essa come le altre, in tre cose consiste, nelle cose che si dicono, nelle parole e nella loro struttura"26 Qui Panigarola aggiunge nuovi aggettivi in volgare per definire questa "nota": "atroce", "austera", "impetuosa". Nel Discorso ecclesiastico è San Giovanni Battista il modello della veemenza ecclesiastica. Seguono i Padri greci e latini. E tra gli Italiani che "fanno molto frutto e meritano molta laude" viene citato padre Lupo27 quale uno di quei predicatori (e qui la chiosa appare polemica) che "dal principio al fine de' ragionamenti loro, da questa nota sola vehemente et aspra non esceno quasi mai".28 Di particolare interesse è la Partic. CXXXV: Cose appartenenti a questa ultima nota sono tutte le atroci, viciose, aspre e reprensi-bili; e queste sono tali che chi parlando ne fa mentione, pare che tratti aspramente, se bene per altro lo stile di lui non fosse tale; come occorse in Teopompo il quale ove per notare i costumi effeminati degli Ateniesi disse che altro non si vedevano quivi che dishoneste sonatrici nel Pireo e lupanari e sonatori e musici e saltanti percioché fece questa congerie di cose reprensibili, parve che iratamente et aspramente dicesse anche con istile che in vero era languido e snervato.29 Il Panigarola dunque elenca una serie di esempi dove un certo numero di colpe o di pene "adunate insieme" vengano considerate "appartenenti a nota grave". E prosegue subito con l'esempio di Cornelio Musso quando, durante i giorni di carnevale, il popolo fa "a gara a chi potea far peggio in spese superflue, in habiti dishonesti, in parole spor-chissime, in compagnie scelerate, che io non voglio hora dire per riverenza di questo luogo gli stupri, i rapti, gli incesti et altre scelerità" Le "cose severe" allora "hanno questa forza": fare in modo che "la nota acquisti sempre come dice Demetrio severità et asprezza et c."30 A questo punto non è possibile non ricordare quanto scriveva Giovanni Pozzi nella prefazione alle Dicerie sacre del Marino, a proposito del Panigarola: "modello primo e quasi emblema" delle "unità ammassate", mentre si interroga sulla 24 Ivi, II: 5-6. 25 Ivi, Partic. CXXXIV, II: 776: "Et quae de gravitate quod reliquum est aperta esse possunt ex iis, quae dicta iam sunt, quod et haec existit in tribus, in quibus etiam formae, quae sunt ante ipsam: etenim res quaedam per se ipsas sunt graves, adeo ut qui dicunt ipsas graves videantur, quamvis non graviter dicant". 26 Ibid. 27 Alfonso Lupo (Lopez o Lobo, o Lovo) era originario di Medina Sidonia (Andalusia). In italiano il suo nome fu tradotto con Lupo (Lupus). 28 Panigarola, 1609, Partic. CXXXIV, II: 778. 29 Ivi, II: 782. 30 Ivi, II: 785-786. natura espressiva di certe sue "filatesse", di "tante coorti di vocabili", delr"equivalente lingüístico d'una parata processionale".31 Nella Partie. CLX Panigarola parafrasa il passo dello pseudo-Demetrio sui modi di dire "alla demadea": Acerbi riescono parimente alcuni modi di dire alla demadea, se bene hanno un poco del singulare e dello stravagante. E la acerbità nasce in loro da tre figure unite insieme: da enfasi, perché mettono innanzi a gli occhi un'altra cosa da quello che dicono; da allegoria, perché questo fanno con continuate metafore; e da hiperbole, perché cose dicono che eccedono quello che ordinariamente è credibile che possa essere.32 Diversi sono gli esempi ma, riguardo all'ultimo, il Panigarola vi include un brano tratto dalle "Calviniche nostre"33: "Della Francia dicemmo che quasi frenetica volgeva i denti in se stessa, squarciava le carni, rompeva l'ossa, succiava le medolle a sé medesima".34 Il Predieatore non è in fondo che una minuziosa giustificazione dell'eloquenza isocratica della venustas e della suavitas attraverso la quale il Panigarola si sforza di riprendere e tradurre le obiezioni di Agostino alla deleetatio del linguaggio, cercando cosi di mostrare una sorta di "coïncidence entre la grandeur austère du contenu de la foi et la beauté charmante du discours qui le célèbre. En termes de rhétorique, cela signifie contaminer la grandeur et la suavité".35 Scrive infatti il Panigarola nella Partie. III che gli argomenti ecclesiastici per se stessi comportante necessariamente l'uso di antitesi e quindi, di conseguenza, di ornamenti e artifici retorici. E l'antitesi è indicata da S. Agostino come fondamento della eloquenza cristiana.36 Vi sono dunque nelle materie ecclesiastiche delle opposizioni determinate quali Dio e Diavolo, carne e spirito, senso e ragione, ecc. Con un ampio uso di figure retoriche e la ricerca di effetti musicali erano state riunite le componenti che contribuirono a formare un successo popolare tale che, attravero il Panigarola, l'eloquenza sacra divenne un genere alla moda degno di essere imitato anche da scrittori laici, il più brillante dei quali fu senza dubbio Giambattista Marino. Questo ideale del discorso come polifonia della varietà e bellezza consistente nell ' armonica coesistenza dei contrari ci riporta a Panigarola e attraverso lui, ad Agostino e alla sua concezione musicale della creazione. Anche per questo motivo il modello di magnifica soavità propugnata dal Panigarola trovo un tenace avversario nell'Oratorio Romano di Filippo Neri che invece non credeva all'eloquenza opulenta. Il dibattito sul rapporto fra semplicità ed eloquenza37 vedeva schierati i protestanti contro i cattolici. Tuttavia, anche sul fronte interno,38 dei francescani in particolare, 31 "a quale categoría iscriveria?", in Marino, 1960: 46-48. 32 Panigarola, 1609, Partie. CXXXV, II: 893. 33 Panigarola, 1582. 34 Ivi, II: 897. Il passo integrale si legge in Panigarola, 1582: 170r-v: "Ecco subito Francia che quasi frenetica volge i denti in se stessa, che squarcia le carni, che rompe l'ossa, che succhia le medolle a sé medesima e di quell'arme ch'entravano tremende fin dentro a gli arsenali dell'Asia e che recuperavano il sepolcro di Christo si serve adesso a far piache mortali entro al suo proprio corpo e far entro a i suoi campi fiumi di sangue de' suoi proprij figli". 35 Mouchel, 2001: 438. 36 Mohrmann, 1958. 37 Per quanto riguarda il Panigarola si veda Giunta, 2009. 38 Delcorno, 1995: 296. la questione era aperta. Ad esempio, secondo quanto scriveva Giovanni Pozzi sulle Costituzioni del 1536, offerto dall'ordine dei Cappuccini: uno stretto legame fra le normative del comportamento ascetico e di quello linguistico nella predicazione è fortemente sottolineato dalle prime costituzioni che rifiutano "terse, phallerate e fucate parole" e le vogliono "nude, pure, semplice [sic], umile [sic] e basse". I primi tre termini dell'ultimo segmento si possono applicare anche al rigore dell'ascesi, ma i due ultimi rinviano scopertamente alla tradizionale teoria degli stili.39 L'argomento è stato trattato molto bene da Christian Mouchel il quale scriveva che "il Concilio di Trento aveva strettamente fissato i limiti della delectatio all'interno di un'eloquenza cristiana necessaria e legittima".40 E ancora "il Concilio, in un'abile sintesi di s. Paolo e s. Agostino, si prende cura di fissare come norma del discorso ideale una medietà della quale la semplicità aspra costituisce il difetto, e la voluptas ciceroniana l'eccesso"41 I Cappuccini come Francesco da Milano, Alberto da Bergamo e Felice da Cantalice o l'amico di Filippo Neri, membro dell'Osservanza regolare Evangelista Marcellino Gerbi (uno dei più severi avversari del Panigarola), erano convinti che solo attraverso l'affermazione e il successo di uno stile austero e ruvido fosse possibile ri-spondere al primitivismo protestante, mostrando cosi che la Chiesa cattolica era rimasta sempre fedele all'eloquenza semplice delle sue origini. Ma il Panigarola segue comunque la sua strada cercando di rifondare la legittimità dell'eloquenza asiana. È ancora il Mouchel a offrirci una chiara prospettiva della situa-zione quando scrive che Panigarola sembrava l'uomo della provvidenza. La "bonheur" di Pio V, Gregorio XIII e Sisto V era quella d'aver trovato in Panigarola l'oratore che, dopo Cornelio Musso, avrebbe ricongiunto nella maniera più mirabile "la necessaire affirmation du prestige romain", sia sul piano religioso che su quello politico, "avec les joies d'une fête publique".42 Continua il Mouchel scrivendo che "Panigarola fut l'homme de la situation, pour la plus grande gloire de la monarchie pontificale". Il nuovo soffio che l'eloquenza asianista riceveva da questo oratore francescano doveva riaccendere la querelle dell'optimus stylus cristiano".43 Grazie a queste premesse, scriveva il Pozzi, "possiamo conchiudere che per il predicatore della prima metà del Seicento il Panigarola è, se non sempre il modello di-retto, almeno la premessa letteraria insostituibile della sua eloquenza"; ma soprattutto, "passando dal contentuo alle forme, è facile scoprire come nel Panigarola ci siano già, in modo abbastanza esplicito, le iniziative linguistiche e stilistiche che formeranno la caratteristica della prosa oratoria sacra del Seicento".44 Università di Bologna, Italia 39 Pozzi, 2001: 66. 40 Mouchel, 1989: 497. Ma si veda anche il capitolo Une leçon d'âpreté: les Capucins (1528), in Mouchel, 2001: 173-244. 41 Ivi: 505. 42 Ivi: 417. 43 Ivi: 419. 44 Pozzi, 1960: 315-322. E si ricordi che "gli interventi del Panigarola sull'ordine sintattico, la sua analitica attenzione alla lunghezza dei membri del periodo, agli effetti prodotti dalle loro diverse combinazioni possibili, ne fanno un punto di riferimento per i decenni successivi", in Bolzoni, 1984: 1062. FONTI Panigarola, Alessandro. Lettere di Monsignor Reverendis. Panigarola vescovo d'Asti [...]. Milano: Gio. Battista Bidelli, 1629. Panigarola, Francesco. Lettioni sopra i dogmi fatte [...] alla presenza, e per comandamento del Ser. mo Carlo Emanuelle duca di Savoia, l'anno MDLXXXII in Turino. Nelle quali da lui dette calviniche; come si confonda la maggior parte della dottrina di Gio. Calvino, e con che ordine si faccia, doppo la lettera si dimostrerà. Milano: Paolo Gottardo Donadio, 1582. _. Modo di comporre una predica [...] aggiuntovi di nuovo un Trattato della memoria locale dell'istesso autore. Venezia: Giacomo Vincenti, 1603. _. Il Predicatore [...], ouero parafrase, commento, e discorsi intorno al libro dell'Elocutione di Demetrio Falereo, ove vengono i precetti, e gli esempi del dire, che già furono dati a' Greci, ridotti chiaramente alla pratica del ben parlare in prose italiane. E la vana Elocuzione de gli autori profani accomodata alla Sacra Eloquenza de ' nostri Dicitori, e Scrittori Ecclesiastici. Venezia: Bernardo Giunti, Gio. Battista Ciotti, & Compagni, 1609. _. Vita scritta da lui medesimo. Ed. Fabio Giunta. Bologna: Il Mulino, 2008. STUDI Beniscelli, Alberto. "Il Predicatore e le armi: lo «Specchio di guerra» di Francesco Panigarola". Lettera-tura di guerra. Testi, eventi, protagonisti dell'arte della guerra dall'Umanesimo al Risorgimento. Ed. Gian Mario Anselmi e Gino Ruozzi. Bologna: Archetipo Libri, 2010: 209-150. Benzi, Utzima. "De la transgression à la règle. Itinéraire et conversion de Francesco Panigarola (15481594) ". Italies 11 (2009): 437-459. Bolzoni, Lina. "Oratoria e prediche". 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Barbara Jesenovec POETIČNA AVTOBIOGRAFIJA MEHR MEER ILME RAKUSA Namen prispevka je analizirati knjigo Mehr Meer švicarske avtorice Ilme Rakusa iz perspektive žanrskega poimenovanja. Besedilo vsebuje številne avtobiografske elemente in aluzije, vendar je delo hkrati izrazito literarno oblikovano in se stilsko gledano pravzaprav ne razlikuje od drugh besedil avtorice. Ker je knjiga Mehr Meer napisana na izrazito poetičen način, ki je značilen za avtorico, in ker je oblikovana s pomočjo različnih literarnih strategijh, se zdi, da delo najbolje opisuje izraz literarizirana ali poetična avtobiografija. UDK 821.131.1-97.09Panigarola F.:27-475.5«16« Fabio Giunta FRANCESCO PANIGAROLA: IL PREDICATORE V 17. stoletju je pridiga književna oblika tako v Italiji kakor v Evropi. Francesco Panigarola (1548-1598), s katerim se ukvarja pričujoči prispevek, je v razvoju te literarne zvrsti igral pomembno vlogo. Njegovo delo Il Predicatore (»Pridigar«, 1609), ki je izšlo posmrtno, je lep primer tedanje retorike, ki se sicer sklicuje na klasične vzore, dejansko pa uporablja protireformacijske prijeme. UDK 821.131.1-992.09:908(497.5):908(495)«17« Ricciardo Ricorda POTOPISA ALBERTA FORTISA IN SAVERIA SCROFANIJA V času razsvetljenstva je bilo potopisje še posebej bogato. Pričujoči prispevek se ukvarja z dvema potopisoma: Viaggio in Dalmazia Alberta Fortisa in Viaggio in Grecia Saveria Scrofanija. Oba avtorja opisujeta »lokalno« prebivalstvo in zanju je to način, kako se približati drugemu.