L'ASSOCIAZIONE per un anno anticipati f. 4. Semestre e trimestrein proporzione Si pubblica ogni sabato. II. ANNO. Sabato 13 Novembre 1847. M 71 —72. Alberto II Conte d'Istria della famiglia dei Conti di Gorizia ('). Alberto II nacque dal conte Mainardo III della Casa di Gorizia, e da Adelaide figlia di Alberto III ultimo di sua stirpe nella contea del Tirolo, intorno l'anno 1238 non potendosi con precisione segnarne 1' epoca. Insorta guerra tra Alberto del Tirolo unito a Mai-nardo di Gorizia, e Filippo vescovo di Salisburgo per le possessioni della Carintia, e ragunatasi forte armata per assediare il castello di Greifenberg nella stessa Carintia, le genti del vescovo ebbero la meglio, giacché rimase prigioniero di guerra Alberto insieme al fratello maggiore Mainardo. Ciò avveniva nel 1252: nel successivo Mainardo ebbe la libertà, non però Alberto che dovette rimanere in ostaggio pel padre e pello zio. In sul cadere del 1253 moriva Alberto III del Tirolo, lasciando due figlie, una delle quali sopraccennammo, l'altra fu Elisabetta moglie a Gebardo conte di Hirschberg, e le di lui sostanze andarono divise fra generi nel 1254, toccando a Mainardo di Gorizia quanto possedeva nei vescovati di Trento, di Bressanone e nella Carintia. Nel 1258, il 22 luglio, moriva Mainardo III, e gli stali di lui si devolsero agli unici figli Mainardo ed Alberto, il primo de' quali ne assunse 1' amministrazione anco pel secondo eh' era prigione. Alberto non trovando altro modo migliore per acquistare la libertà onde assumere la reggenza degli stati che gli toccarono del paterno retaggio, corruppe con 700 marche d'argento il suo custode Gebardo di Volven, e nel 1264 se ne fuggì, ricoverandosi in Istria. Ratificò allora da Pinguente quanto il fratello aveva conchiuso col patriarca Gregorio, ed assunse il governo della contea d'Istria, di Mòttling, e della contea di Rechberg nella Svevia che gli rimasero poi qual patrimonio nella solenne divisione fatta nel 1267. Cinque anni più tardi fece col fratello Mainardo altra divisione; questi si contentò del Tirolo, cedé ad Alberto la contea di Gorizia la quale unita all' Istria stabilì il suo appanaggio. Nel 1266 sposò Eufemia, figlia di Corrado duca di Glogau nella Silesia, dalla quale gli nacque il successore Giovanni Enrico. Rimasto vedovo, passò a seconde nozze nel 1275 con Eufemia figlia di Ermanno conte di Ortein-burg, vedova del conte di Hardeck. Il governo de' suoi stati, e le armi molto lo tennero occupato; coi patriarchi di Aquileja ebbe continue differenze per i possessi nel Friuli e nell'Istria, coi Veneziani per quest' ultima, della quale possedeva la massima parte; ripetuti esperimenti, ripetute conciliazioni non portarono frutti durevoli. Le querimonie col patriar-; ca erano piuttosto puntigli di dinasti, ina quelle coi Veneziani di ben altra natura, che minacciavano granili pericoli e al patriarca e al conte, i quali dovettero per ciò rappattumarsi. I Veneziani agognando al possesso delle spiaggie orientali dell'Adriatico, senza le quali non potevano aver il dominio del mare, aveano indotto l'imperatore bizantino a ceder loro nel 1124 i diritti ch'egli vantava sull' Istria (') che da secoli erano semplici pretensioni, diritti che mettevano in campo dedotti da alcune spedizioni militari, da alcune relazioni antiche, e, quello che è peggio, avevano i Veneziani proclamato il principio di accettare la dedizione volontaria delle città, senza farsi carico delle ragioni che vi avea il principe legittimo della provincia. I Parenzani nel 1267 avevano dato il malo esempio; per non essere soggetti a Capodistria, che s'inalzava a capitale della provincia favorita dai patriarchi, s' erano assoggettati ai Venet', i quali non si facevano scrupolo di accogliere qualunque terra o città appartenente al patriarca o al conte d'Istria che dai diritti di questi si volesse sottrarre colla ribellione o col non pagare le decime o per qualsivoglia altro motivo. Ma la forza dell' armi decideva queste dedizioni, e le frequenti rivolle ed il frequente ritornare all' antico signore, mostrano s' erano stale forzose o volontarie. Nel 1275 i tentativi di pace vennero a capo : il patriarca Raimondo s' era accomodato con Capodistria e con Pirano, si pattuì anche col conte Alberto, fattosi allora sposo, ed in quest' anno di comune accordo riconobbero i confini dei loro possessi. Il conte Alberto si trovava allora nel suo castello di Pisino (2), e perso- ') Giacché l'Autore dell'articolo non ci permette che di estrarre le nude notizie storiche, vi aggiungeremo alcune annotazioni non già per togliergli il merito, ma anzi per giovarvi, sia colla verificazione per altra via degli stessi fatti, sia col richiamare l'attenzione su qualcuno che non ci sembra bene certo. La tted. ') Questo imperatore era Giovanni Comneno. Il conte Alberto soggiornava frequentemente nel castello di Pisino, come il suo successore conte Giovanni Enrico. Le carte del vescovo Negri pubblicate in merito del feudo di Sant' Apollinare lo provano, e lo stesso diploma del conte Alberto III da noi pubblicato nell' annata decorsa lo mostrano a sufficienza. Abbiamo letto in qualche carta (non ricordiamo quale) che il nalmente intervenne all' operazione che occupò 21 giorni del mese di maggio. La sua scorta era di cen-quarantaquattro cavalieri sotto dodici capi insigniti di cingolo d' oro, e di cenquarantaquatlro fanti; aveva al suo seguito numerosi vassalli, tutti nobili e proprietari di baronie, da cui prendevano il nome; v' erano i signori di Momiano, di Lupoglau, di Cosliaco, di Vrana, di Raspo, di Pisino, ed altri molti che sarebbe troppo lungo 1' annoverare. V'erano i giudici dei comuni, i capovilla, ed i cappellani della corte che ogni giorno celebravano la messa, che in Alberto v' era quella religione che è propria della Casa d'Absburgo. Facevano corteggio al conte il vescovo di Pedena Demetrio, l'abbate di S.Pietro in Selve ('), monastero che dovette la sua esistenza ed opulenza ai conti d'Istria. E nella spedizione si mostrò principe benigno e liberale : donò al signore di Cosliaco la baronia di Cozur (2), concesse ai signori di Vragna, di Sunberg e di Chersano il diritto di fiera, creò cavalieri, concedette la libertà ad un Pietro Gocinamin di Gallignana che più tardi vediamo figurare in Gorizia, largheggiò verso chiese e verso comuni. Pel patriarca comparve il di lui capitano generale Guglielmo marchese di Pietra Pelosa, ed esso pure aveva il suo codazzo di cavalieri e baroni, e giudici delle città e delle ville. Da questa confinazione si scorge che la contea d'Istria abbracciava tutto il distretto di Pisino, tutto quello di Bellai ; Sovignaco , Verch, Racizze, Draguch; Cozur, Barbana, Castelnovo, Golzana, S. Vincenti (allora abbazia), Visinada (3), Castellier, Torre; Momiano, Sorbar. Non si fa menzione dei possedimenti al Carnero perchè non soggetto di dubbiezze; non di Rovigno e di altri possessi intorno al Leme, perchè o semplici possessi di decime, o già distratti ; S. Lorenzo figura soltanto come luogo in cui il conte aveva diritto di presidio e di decima, non di allo governo. Non vi figurano Parenzo, Cittanova, Umago, perchè in potere dei Veneziani; Ca-podislria, Montona, Pinguente, Pirano, Grisignana, Buje, Castelvenere, S. Lorenzo, Due Castelli, Pola, Memorano, castello di Pisino era circondato da fossa in cui scorreva acqua condotta dalle fontane del Monte Maggiore la quale passava per Bogliuno. Questa sarebbe opera emulatrice di quelle dei tempi romani (delle quali abbiamo ancora tracce che ogni giorno spariscono a passi accelerati) o forse manutenzione di opera romana diretta altrove, e che le città decadute nella sapienza civile neglessero. ') Questi dovrebbe essere l'abbate Semprebono. In S. Pietro de Silva erano le tombe dei conti d'Istria, e ci venne detto che al sopprimere di quel Cenobio nel secolo passato la curiosità pose alla luce i cadaveri. Poco prima era avvenuto di peggio colle tombe dei Patriarchi di Aquileja; lo stesso era avvenuto colle tombe imperiali di Costantinopoli quando fu presa dai Crociati nel principio del secolo XIII; lo stesso avvenne delle tombe imperiali di Spira per opera dei Francesi, e più tardi delle tombe reali dei Francesi. Umane vicende ! s) L'Autore avrebbe fatto bene di indicare a qual villa odierna, o frazione, corrisponda questo Cozur. 3) Non però sotto questo nome, ma di Negriniano e Killum. Nella chiesa della B. V. dei Campi, costrutta nel secolo XV, si vede ancora lo stemma di Casa d'Austria inciso in pietra, ed altro che non conosciamo. Il blasone per l'Istria è ancora da cominciarsi. Visinada e Torre furono le ultime parti staccate dalla Contea d'Istria e tuttora conservano condizioni baronali. Dignano ('), Gorano, Albona, Fianona, appariscono del patriarca. La contea d'Istria non era stato spregevole, misurava 20 leghe quadrate, due quinti della penisola (2), mentre i possessi del patriarca sommavano a 30 leghe, e pochissime quelle dei Veneziani. Ed oltre ciò il Conte aveva buoni diritti in Pola, ove ancor si vede sul pubblico palazzo la figura di un cavaliere che facilmente poteva essere la sua (3), ed aveva alto dominio di altri luoghi. Allorquando il marchese prese congedo per ritornarsene in Capodistria, il conte gli diede la scorta d' o-nore di quattro cavalieri del cingolo d' oro, di quarantotto cavalli, e di quarantotto pedoni; chè se il conte trattavasi da principe, onorava anco prii\cipescamente. Dell' atto fu fatto rogito da un cappellano in tre esemplari edin tre lingue,cioè in latino, in tedesco e in islavo, e si rileva in questo come il conte giunto alla chiesa dell'abbazia di S. Pietro nel tenere di Sumberg, pianse nel vederne le rovine e secolui pianse la comitiva (4). Rilevasi pure da questo documento che i vescovi di Pedena risedevano ordinariamente sul monte di S. Michele presso Verino (5), in terreno che se non fu esente, era della ') Secondo queste notizie Dignano avrebbe fatto comunità da sé prima del 1275'. 2) Non compreso Trieste. ♦3) La figura di cavaliere che vedesi sul palazzo di Pola ha bensì il . leone dei Zeringen o di Absburgo nello scudo sul pennone e \ sulla gualdrappa ; l'attitudine del cavaliere che corre col pennone in mano, l'elmo, l'armatura, concordano colle forme in che K^ si effigiarono i conti di Gorizia. Volentieri soscriveremmo al pensamento dell' Autor dell'articolo, ma a lui che si mostra v" intelligente del linguaggio araldico ricorderemo la sbarra .... * Certo la figura si riconosce per quella di un conte dal vessillo che tiene in mano, essendo stato costume anche di questa provincia Aquilejese di dare investita ai conti col vessillo, ai nobili col-1'anello e colla spada; certo che il vessillo è segno di impero I mero e misto, e di siffatti domini non ve n'erano in Istria che l due, il Marchesato e la Contea ; il leone è quello coronato V della Casa di Absburgo, ma la^barraTj /žA^«^ ' 4) Questo documento non ci è nuovo: due apografi ci pervennero da due regioni diverse, e lo abbiamo posto nel Codice diplomatico Istriano. Il P. Bauzer lo vide, lo vide il Carli, però ambedue lo riferirono all'anno 1325. All'anonimo devesi il merito di averlo portato all' epoca sincera, se desso giungesse a superare 1' ultima difficoltà, quella del numero dell'indizione. Ed è vero che fu steso in tre lingue, una fra le quali la slava, prova questa della frequenza degli Slavi nella campagna aperta della Contea, della lingua dei feudatari. Ai tempi del diploma in Udine era familiare la lingua slava fra il popolo, la tedesca fra i nobili, siccome altrettanto era in Capodistria durante il reggimento patriarcale. Regione di città ebbe nome slavo e lo conserva tuttora (CoModrngn). 5) Pensiamo che i vescovi di Pedena avessero residenza non sempre sul monte di San Michele di Verino, ma appiedi di esso nella vallata , che così avremmo spiegazione di ciò che amico carissimo ci aveva scritto anni sono so- pra una chiesa presso Vermo, e che non era per noi intelligibi- le; le sue precise parole sono ~ Un miglio distante da Vermo in una gola verso Oriente vi è la chiesa della D. V. delle La- sire, costrutta di pietre riquadrate, di dimensione e figura come la chiesa di Vermo. È fama che fosse in antico abbaziale, la si dice tuttodì abbazìa, ed al santese o nonzolo che ne ha il governo si dà tutto giorno il nome di abbate, il quale fruisce di alcuni terreni in compenso della manutenzione della chiesa. L' interno di questa chiesa è dipinto a fresco, vi si distingue una processione di cavalieri e dame diretti verso un'i-magine di Nostra Signora; all'estremità della comitiva v'è un mitrato con barba, montato su cavallo bianco, che prende com- diocesi di Parenzo. II vescovo non usciva se non per andar a funzionare. \—-------~ "."Z"- ~ • Nel 1278 il conte Alberto andò con cencinquanta cavalli al campo di Rodolfo d'Absburg e combattè da valoroso con i suoi fedeli la giornata in cui sconfitto Ottocarre re di Boemia, si consolidò la potenza della Casa d'Absburg (')• Ritornato in Istria, non istette ozioso; accomodò alcune differenze che aveva col patriarca, col quale si collegò per porre argine alle dilatazioni dei Veneziani. Tolse a questi Capodistria della quale fu nominato podestà e capitano, tolse S. Lorenzo; ma nel seguente 1279 fu costretto scendere a patti. Mandò suo ambasciatore a Venezia il conte Alberto di Greifenstein, e fu pattuito — cessassero le ostilità, si restituissero i prigionieri, le castella prese ritornassero ai loro precedenti signori; il conte abbandonasse la lega fatta coi Capodislriani, rinunciasse al carico assunto, nè più P accettasse se anche offerto.— E così fu: Capodistria rimase allora in potere del solo patriarca, i Veneti P assediarono e la presero di bel nuovo. Rottosi per ciò col patriarca, durarono a lungo le differenze; poi le parli deferirono al giudizio del conte Mainardo del Tirolo, e di Gerardo da Camino nel 1281. Al patriarca Raimondo doleva il vedere la capitale del suo marchesato d'Istria (2) in potere dei Veneti, e sperimentando che pacifiche trattative non avevano elfetto, ricorse alle armi collegandosi col conte Alberto, e coi Triestini; Capodistria fu ripresa, e fu concertato un piano di guerra, non frastornato dall' armistizio conchiuso miato dalla comitiva, e si dirige all'abbazia composta di chiesa e tre piccoli edifizi annessi. Neil' interno delia chiesa sulla porta laterale vi ha inscrizione a caratteri gotici, lunga, scritta a colori ma s\ sbiaditi dal tempo che appena si potè rilevarne qualche brano. Dalle rovine si vede che il monastero era di piccole dimensioni. Si hanno diplomi dei patriarchi marchesi d'Istria datati da questa abbazia o monastero. Vermo era stato donalo ai Vescovi di Trieste dai re d'Italia; è possibile che questi ne avessero fatto dono ai prelati di Pedena. Ed è forse da questa residenza di vescovi che Vermo prese il titolo di città; titolo che altrimenti sembrerebbe uno scherzo. — L'autore giudicò appartenere Vermo alla diocesi di Parenzo, perchè la parocchia vi apparteneva ai tempi del Valvassore; ma ciò potrebbe porsi in dubbio per le seguenti ragioni: ~ Szarez, che era della diocesi di Pedena, è a brevissima distanza da Vermo, nò vi è frammezzo altro abitato ~ fra le Abbazie, o parocchie soggette a Parenzo nel XIV secolo, non figura Vermo. ~ Nelle donazioni ai vescovi di Parenzo del X secolo o IX è compresa tutta la diocesi, Pisino e le altre baronie prossime a Vermo, Treviso, Caschierga, Padova; Verino invece fu dato ai Vescovi di Trieste, indizio che non fosse della diocesi parentina. — Sarebbe strano che in tanto numero di abbazie nell'Istria, il solo episcopato Pctenate non ne contasse una, dacché quelle prossime di Bogliuno e di Sumberg erano della diocesi dil'ola; la Beala Vergine al Lago non era abbazia ed è di fondazione più che un secolo più tarda. ') La presenza dei Cavalieri istriani alla battaglia sul Marchfeld non è a porsi in dubbio, però sarebbe stato ben gradito se l'Autore ci avesse fornito i nomi di alcuni dei nostri cavalieri ed egli ne aveva tutta la possibilità se non di rilevarli almeno di rintracciarli. ') Ci rallegriamo di vedere anche da altri riconosciuto che Giustinopoli non fu fatta capo dell'Istria dai Veneti, ma dai Patriarchi d'Aquileja, i marchesi precedenti lasciarono Pola in possesso di questo nome, (non ne sappiamo di più), i patriarchi alzarono Giustinopoli a capitale di diritto e di fatto, e se le carte di quei tempi fossero note potrebbe dirsi più di quello lo dicevano le materiali costruzioni della città. nel 1285, nel quale aderì volentieri Alberto. In questo tempo Andrea duca di Slavonia, che poi fu re d' Ungheria, gli chiedeva la mano dell' unica sua figlia Chiara, matrimonio che poi sembra non abbia avuto effetto ed il fratello Mainardo saliva al trono ducale della Carintia, per lo che molte erano le cose familiari da porsi in assetto, dacché calcolava sul palatinato della Carintia, che anche ottenne. Nel 1289 la guerra coi Veneti scoppiò aperta. Questi stringevano da vicino Trieste, e vi avevano costrutta la fortezza di Romagna per meglio batterla. Ma essa era bene affezionata alla casa di Gorizia, alla quale diede di preferenza la carica di podestà; chè Mainardo fratello di Alberto, quello stesso che era divenuto duca di Carintia, era stato scelto capitano del popolo nel 1262 (carica che aveva tenuta fino al 127Ò:) ed anco podestà : forse lo fu pure il conte Alberto (mancano le memorie di questo tempo) (')• Il patriarca vedeva pericolo per le sue cose nella caduta di Trieste; tutti e tre questi potentati diedero gente all' esercito che fu posto sotto il comando di Alberto Il e nel quale militava il giovane conte d'Istria Giovanni Enrico. Cinquanta mila pedoni, quindici mila cavalli erano radunati in Monfalcone, e mossero alla liberazione di Trieste sempre più stretto. I Veneziani pararono il colpo che li minacciava, trattarono, indussero gli alleati ad abbandonare il patriarca; si vuole che il conte Alberto ricevesse 20000 fiorini d' oro per ritirarsi come anche si ritirò colle sue genti nel dì 6 maggio (2). Il patriarca indebolito e temendo tradimenti abbandonò per allora l'impresa. Il giovane Giovanni Enrico fu indignato dell' abbandono l'atto dal padre; si vuole che essendo stato pagato Alberto con moneta falsa fosse rinvenuto ad altri pensieri; nel giugno l'armata si ricompose. Giovanni Enrico ottenne il comando dei Carintiani, e Trieste fu liberato, rimbarcandosi i Veneti con tale precipizio che lasciarono al vincitore ricchissima preda. Continuò la guerra nel 1290 e nel 1291 si fe' pace. I Veneziani dovettero restituire Muggia e Moccò, pagare annualmente al patriarca 10068 Ducati, lasciando al Papa la decisione delle occupazioni fatte dai Veneti nell'Istria (3). ') L'Autore avrebbe potuto aggiungere chela moglie dell'imperatore Alberto figlio di Rodolfo d'Absburgo era una Elisabetta di Gorizia e che questa Elisabetta fu tenuta al sacro fonte dal comune di Trieste. Non fu che sospetto: un solo autore, per quanto ci è noto, registra il fatto, però come dubbio, e noi, ad onta della fralezza umana che non risparnia alcuno, ci permettiamo di porlo fra le dicerie; egualmente che l'altra averlo i Veneziani pagato con moneta falsa; la venalità non fu frequente nei cavalieri: avevano puntigli, avevano incostanza, calcolavano più il punto d' o-nore che il vantaggio personale, ma la venalità non fu loro vizio. 3) Forse (e l'Autore non s' abbia a male) avrebbero potuto accennarsi altri avvenimenti importanti della provincia, p. e. lo smantellamento delle mura di Trieste nel lato verso il mare fatto dai Veneti e mantenuto per isfregio siccome patto; l'emancipazione del Comune di Trieste del 1295; il primo podestà con pieno dominio che fu il conte Enrico della Torre ; le propensioni di Trieste ai conti d'Istria che prepararono naturalmente la felice dedizione del 1382 al duca d'Austria, perchè conte d'Istria, fatti che si legano ottimamente alla parte che prese il conte Alberto II alla liberazione di Trieste dall' assedio dei Veneti. Ma gli anni progredivano e pensieri più miti e più prudenti occupavano Alberto li, il quale terminò mediante trattati di differenze coli' arcivescovo di Salisburg, fe' lega con Giovanni conte di Veglia e diModrussa, vicino suo dalle parti del Carnero; nel 1297 ammogliò il figlio Enrico con Beatrice da Camino, alla quale assegnò in dote 17000 marche di denari veronesi, e volle che il patriarca Raimondo della Torre facesse di propria mano cavaliere lo sposo. Morto il patriarca nel 1299, Enrico veniva nominato capitano generale del Friuli nella radunanza di Campo Formido. Nel 1301 confermava alla Commenda teutonica di Precinico i privilegi antichi, e nel 1303 pensava alla successione col dividere, coni' era uso dei tempi e della famiglia, i suoi stati tra i figli Enrico ed Alberto; divisione che veniva confermata dall'imperatore Alberto I nel dì 23 gennaro 1304. Pochi mesi dopo, il conte Alberto moriva in Linz di Carintia, e gli avanzi venivano trasportati nell' abbazia di Rosacis in Friuli, fondata dai suoi maggiori. Il 2 di Novembre. Non possiamo resistere al desiderio di dire qualche parola sul giorno 2 novembre. La chiesa universale, la chiesa metropolitica, le chiese circostanli di Capodistria, di Parenzo celebrano in questo giorno la commemorazione dei fedeli defunti, le chiese esistite di Cittanova e di Pedena facevano altrettanto; la chiesa tergestina all'invece trasferendo al dì terzo la commemorazione dei defunti celebra nel dì secondo il martirio di San Giusto, suo principale protettore, ed è festa di precetto in tutto il territorio di Trieste. Da secoli, per quanto arrivino le memorie scritte, costantemente questa festa viene celebrata, siccome di martire, e la chiesa metropolitana antica di Aquileja, le chiese istriane consorelle costantemente e da antico assai, ammisero a culto distinto questo santo, siccome quello che diede testimonianza col proprio sangue della verità della fede, e fu insigne per cristiane virtù. Il consenso di tante chiese viene mirabilmente suffragato dalla tradizione del popolo, e da indubbio monumento, dalla chiesa eretta alla di lui memoria nel VI secolo di nostra salute, da quel Frugifero che fu nostro protoepiscopo; i mosaici che ornano l'abside di questa chiesa ravvisabile per la massima parte nell' odierno duomo in cui è compresa, sono indubbiamente testimonianza del culto che i tergestini retribuivano al loro santo protettore; e la serie continuata dei vescovi da Frugifero fino a Bartolomeo, depositari e trasmissori dall' uno all' altro della fede e del culto, ben si collega coli' edifizio alzato da Frugifero e che giunse fino a noi. Ai monumenti materiali si unisce il racconto della passione di S. Giusto, il quale sofferse nella persecuzione mossa alla chiesa cristiana da Diocleziano e Massimiano, del 303, dieci anni prima che venisse data pace alla chiesa (tempo che anticipa appena di 250 anni 1' epoca di Frugifero), racconto che pervenuto fino a noi serba criteri grandissimi di autenticità, per trovare nelle parole medesime novella conferma di ciò che la tradizione ed il culto han conservato fino ai dì nostri. Nè queste sole, ma assai al- tre prove si hanno, di sincero culto, fra le quali vogliamo citare quello prestato al nostro santo da Albona, municipio romano alle spiaggie del Carnero, sì distante da Trieste, che con Trieste non ebbe comune nè il civile nè l'ecclesiastico governo, d'Albona, che la dignità arcidiaconale goduta, il capitolo di dieci ed altri indizi fanno credere fosse chiesa da sè ed episcopale. Albona venera per suoi protettori S. Giusto nostro, e S. Sergio pur nostro, i due ultimi che fra noi ebbero a meritare la corona del martirio. In Albona si conserva reliquia del santo, e questa certamente non fu data nei tempi recenti, ma fin da quando il corpo di S. Giusto venne trasportato dalla tomba alla spiaggia del mare ove prima fu posto, alla chiesa alzata in suo onore sull' alto del colle. Albona, che al pari di qualche altra città istriana non ebbe propri martiri, preferì il culto di un provinciale fino da tempi remotissimi. L' anniversario del suo passaggio alla gloria celeste, fu festeggiato in quest'anno nell'antichissima Basilica; nella quale il suo corpo riposa da quattordici secoli. Scorsero ben 1544 anni dal suo passaggio e la pia congregazione dei fedeli, che ancora porta il nome di tergestina e mantiene intatto it deposito della fede, con annuo rito ne venera la memoria, ancora veste 1' altare a colore di sangue, e sulla mensa ripete segnata la corona che me-ritossi a prezzo della vita: ancora quelli che vantano d'essere concittadini suoi lo pregano ad intercedere per la patria. La Fraterna del Santissimo faceva distribuire nel dì 2 novembre di quest' anno numerose copie a stampa della narrazione di sua passione e morte, tratta da antico Leggendario ; la quale narrazione anche nel testo originario si mostra adattissima per 1' intelligenza del popolo. Alla messa solenne, che insieme era festa di chiesa e festa patria, intervennero la Magistratura, il Consiglio Municipale, la Milizia territoriale in piena tenuta, il corpo civico dei pompieri. Monsignor Vescovo tenne pontificale con quella solennità imponente di rito, conservato, e che è al pari edificante per quelli che ne conoscono le origini antiche, e per gli altri. Poi Monsignore salì in ambone appositamente preparato e che surrogava quelli marmorei antichissimi tolti da vescovo Ursino de Bertis, ed in assisa pontificale tenne omelia ricordando la passione e le virtù del santo, e diede al suo gregge la benedizione apostolica. Non fu scarsa la chiesa tergestina di tesori spirituali: Papa Pio II che fu vescovo di Trieste l'aveva arricchita, in memoria del legame che 1' aveva unito a questa chiesa e dell' affezione che a lei conservò anche quando salì alla cattedra di S.Pietro; il nostro vescovo, premuroso della salvezza delle anime, otteneva dal Beatissimo Padre due benedizioni, indulgenze plenarie da darsi 1' una nella festività della santa Pasqua, l'altra in giornata che al vescovo di Trieste piacesse e piacque a questi di scegliere la giornata in cui si celebra la festa del santo protettore. Le quali sollecitudini del nostro prelato in ogni incontro appalesano la sua religione: non sono molti giorni che ei medesimo assisteva in questo ospitale dei poveri al battesimo di Emma Lullich j bosniese, allevata negli errori del maomettismo, e gli am- ministrava il santo sacramento della confirmazione, levanti al sacro fonte il consigliere gov. Protomedico Dr. Ottaviano nobile de Vest, e la Signora contessa Annetta Iva-novich - Tripcovich, padrina di cresima la nobile Dama de Fòlsch moglie del Sig. f. f. di Governatore. 1 marmi di Pola LETTERA I. Al Chiarissimo Sig. Dr. V. Jj. VENEZIA. E regola di prudenza lo scegliere fra diversi mezzi, quello che conduce al conseguimento di più fini. Ecco il motivo per cui, mentre adempisco alla dala ; promessa e le invio esatla copia delle inscrizioni lapidarie di Pola, le rendo in pari tempo di pubblica ragione coli' inserzione in questo patrio giornale; seguendo anche in ciò un suo gentile eccitamento. I marmi di cui le faccio parola esistono nella maggior parte per cura di quel non abbastanza encomiato Sig. Giovanni Carrara, raccolti nel tempio di Roma ed Augusto, come Ella stessa ebbe occasione ad accertarsene nella visila che , fra il numero degli scienziati italiani, fece ultimamente a Pola. Le poche altre furono da me vedute nei dintorni dell' agro polense, precipuamente in quella parte che si estende fuori di Porta Aurea sulle tracce dell' antica via sacra, inverso 1' odierno prà grande, che già fu Campo Marzio al tempo de' Romani. La quantità di cippi sepolcrali, in gran parte già dilavati e divenuti inintelligibili per l'intemperie, i spessi frammenti di urne cinerarie, di avelli e di coperchi da sarcofago, che ovunque si presentano in grande abbondanza, non lasciano dubitare punto essere stata in questa regione quella via sacra, presso cui usavano i Gentili dar sepoltura ai loro defunti, regione che ai tempi di Dante era talmente cosparsa di monumenti funebri, da non meravigliarsene, se al divino cantore, che ivi per qualche tempo sul colle sovrastante dell'abbazia di San Michele ebbe stanza, nel mentre volle dare una soddisfacente imagine dell'ingresso della città di Dite, gli si affacciarono alla mente i conosciuti sepolcri di Pola, onde esclamò : E veggio ad ogni man grande campagna Si com' a Pola presso del Quarnaro Ch' Italia chiude, e i suoi termini bagna, Fanno i sepolcri tutto '1 loco varo; Così facevan quivi d' ogni parte. (Dante Canto IX dell' Inferno) Ma io trascorro dal propostomi argomento. Pria di entrare nel Tempio d'Augusto, osservi l'iscrizione dedicatoria collocata sul fregio del medesimo. Sottoposta ad un medaglione che forse portava 1' effigie dell' imperatore, e di cui ancora esistono le tracce nel frontispizio del tempio, essa era composta di lettere di melallo, di cui presentemente non si scorgono che i solchi incavati nella pietra. La leggenda è la seguente : ROM^E • ET • AVGVSTO • DIVI • F • PATRI • PATRLE (A Roma e ad Augusto figlio del Divo (Cesare) Padre della palria). Il nesso dell' A colla E era usitatissimo e non disdiceva punto a un pubblico monumento. La curvatura della D nella parola DIVI è Corrosa talmente da far dubitare se più tosto non fosse un' a-sla diritta e si dovesse leggere INVI, tenendo indi la lezione invit to felici in luogo di Divi ftlio. Nel dubbio inclino per altro a preferire la lezione che le comunico, perchè così pure viene riportata dal Carli il quale un secolo fa ebbe I' agio di vederla men-tr' era forse più risparmiata dal tempo. Se non che la formula invicto felici non converrebbe nemmeno ai tempi d'Augusto, siccome adotlata appena dai suoi successori, mentre all'incontro si sa bene ch'egli compiaceva fregiarsi del titolo di figlio di Cesare, suo padre adottivo, coinè lo si scorge nel maggior numero delle sue medaglie. L' imperatore Augusto, verso il quale spinsero i suoi cittadini la gratitudine o I' adulazione tant' olire da deificarlo vita ancor sua durante, prolestava costantemente che gli si erigessero templi, se non sotto condizione che il tempio fosse in principalità dedicato ad onore di Roma ed a questa soltanto accoppiato il suo nome, modestia che vediamo confermata nella dedica del tempio di Pola. Fosse tale modestia sincera od ostentata gli è certo che l'imperatore Augusto non trascurava occasione per dimostrarsi tale al suo popolo, ed anzi portò la cosa al segno che, come ci narra Svetonio (*), inorridiva a sentirsi chiamare Signore - domini appellatipnem ut mate-dictum et opprobriumsem per exhorruit, e che perciò essendo stato una volta nei pubblici spettacoli acclamato da un istrione colle parole o dorninum aei/uum et bonum ! facendo eco d'approvazione il popolo, lo contenne imponendo silenzio con segni e colla mano, e il dì seguente con un edilto proibì se dorninum appellari. Quanta diversità di pensare dai giorni nostri, ove chiunque, appena dimesso l'umile sajone, crede aver già titoli sufficienti per arrogarsi una attribuzione che Augusto aveva riputato un sacrilegio d'assumere, perchè concessa fino allora soltanto agli Dei. *) In Aug., cap. 53. C. Dr. Gregorulti. Giudizio del Sig. Abb. Fortis sopra la qualità de' marmi che esistono nella chiesa cattedrale di Parendo (1T !) I ). Il marmo predominante nella cattedrale di Parenzo è il greco di Paro, o d'Antiparo, della medesima grana furfuracea lucente che lo statuario degli antichi; ma tratto da quegli strati o filoni che per essere venati di lista-tura cenerognola non erano atti a dar massi destinabili a lavori rappresentanti il nudo. — Le colonne che separano le tre navale di questo tempio, quelle che sostengono la cantoria, quelle della tribuna che sorge sopra l'aitar maggiore e generalmente tutta la tribuna medesima, i gradini della cattedra antica vescovile situata in fondo al coro, due sarcofaghi degli altari laterali e il pavimento non sono d' altra materia. Della medesima qualità sono anche le colonne dell'a-trio di essa cattedrale, e la massima parte dei pezzi di architettura impiegati nella sagrestia e negli altari. — Non si può sospettare che siano state tolte da tempi o altri editici di più rimota antichità, come p. e. lo sono state le colonne nascoste sotto l'intonaco nel duomo di Pola, poiché tutte le suddette colonne e i capitelli loro sono manifestamente lavorati sulle medesime proporzioni, ben lontane dal ricordare quelle de'buoni tempi dell'arte. — Su 1' altare di S. Mauro veggonsi quattro colonne di granito bigio dell'Elba, che in antico appartennero al contiguo, e ora sfasciato battislerio; vari tronchi spezzati della medesima qualità e forma giacciono tuttavia nel cortile dell' episcopio, in una loggia coperta, del quale trovasi un ciborio antico, con iscrizione indicante l'epoca della costruzione, pur del medesimo marmo greco listato. — Il fu Monsignor Negri vescovo di Parenzo lo fece incidere e tal qualmente illustrare. — Il pavimento generale del tempio dovett' essere a mosaico, fatto a compartimenti nel mezzo de' quali stavano lavorati nel modo stesso i nomi de' pii contribuenti alla spesa: di questi nomi uno solo resta attualmente leggibile. Parte del pavimento dello navata di mezzo dove non la ingombrano le sepolture è fatta di pezzi riportati di porfido serpentino, giallo-antico; di bianco e nero affricano, di alabastro rosso e bianco orientale, e d' altri marmi meno riguardevoli; ma l'abbondanza, la mole d'alcune opere di serpentino, e le varietà di esso che nel pavimento della medesima navata si osservano sono tutt' altro che comuni. — Il pavimento e l'impellicciatura'del presbiterio sono ricchi delle medesime pietre, e vi si veggono molte e grandi spere di porfido, che quantunque non sia del rosso avvinato d'Egitto, pur ha un valore; sembra porfido de' monti del Tirolo e somiglia particolarmente alle molte varietà di quello del monte Brenner. — Fra tutte le nobili pietre antiche del pavimento e impellicciatura replico che la maggior copia e le maggiori dimensioni sono di serpentino antico, pietra dura che negli edifici lussuosi dell' alta antichità era con molta parsimonia ado-prata, e che non doveva essere di tanto facile acquisto quanto lo fu dopo la transazione della sede dell' impero a Costantinopoli. — Noi non sappiamo precisamente di dove lo traessero, o almeno io non ho presente alla memoria una certezza di luogo che ci sia assegnato da Biaggio Garofolo, o da altri come nativo, del serpentino.— E vuoisi avvertire che il serpentino de' marmorai e degli antiquari, del quale ora si tratta è tutt' altro che 1' Op/ii-tes di Plinio, il quale era un granito picchiettato di nero ecc. Memorie istofiche antiche e moderne delia terra e territorio di Albona. (Continuazione e fine. — Vedi i numeri 60, 61-62, 63-64, 65-66 e 67-68.) CAPITOLO XI. Del litigio avuto dalla Comunità col Capitolo