received: 2006-09-14 UDC 94:351(450.25)"18" original scientific article MELCHIORRE GIOIA E IL DIRITTO PENALE. PRIME NOTE Gian Paolo MASSETTO Universita degli Studi di Milano, Istituto di storia del diritto medievale e moderno, IT-20122 Milano, Via festa del perdono 7 e-mail: gianpaolo.massetto@unimi.it SINTESI La relazione e intesa a cogliere gli spunti che in materia penale offrono una serie di scritti di non grandi dimensioni pubblicati da Gioia a cavaliere del Sette-Ottocento, nonché di quelli di alcuni suoi interlocutori, con i quali il Piacentino fu in aspra polemica. Si tratta di scritti che, gia presi in considerazione, per la loro natura, dai cultori della statistica, della storia politica ed economica, destano l'interesse e la curiosita anche dello storico del diritto, in particolare dello storico del diritto penale, ricchi come sono di considerazioni, di valutazioni e di osservazioni degne di rilievo per il settore del diritto oggetto della relazione. Parole chiave: storia economica, storia del diritto, amministrazione pubblica, fonti storiche, Lombardia, inizio dell'Ottocento MELCHIORRE GIOIA AND PENAL LAW. FIRST NOTES ABSTRACT The paper aims to present the premises concerning penal law provided by a series of relatively short writings published by Melchiorre Gioia at the end of the 18'th and beginning of the l9h centuries, as well as by some of his interlocutors, with whom the author from Piacenza engaged in harsh debates. Given their nature, these writings have already been a subject of research interest in the fields of statistics, and political and economic history; however, being rich with significant reflections, evaluations, and observations concerning penal law, they also stir the interest and curiosity of legal historians. Key words: history of economics, history of law, public administration, historical sources, Lombardy, beginning of the l9h century 631 Gian Paolo MASSETTO: MELCHIORRE GIOIA E IL DIRITTO PENALE. PRIME NOTE, 631-704 Anche Melchiorre Gioia venne arrestato in occasione delle indagini sulla Carbonería milanese. In uno degli interrogatori, ai quali fu sottoposto nel dicembre del 1820, egli pronuncio queste parole: "La mia incombenza come capo dell'Ufficio Sta-tistico presso il Ministero dell'Interno cesso nel 1808; quindi non rimasi piu impie-gato, continuai poscia come semplice particolare e non come funzionario pubblico l'intrapresa delle statistiche del regno con approvazione del cessato Governo, il quale somministrava a titolo d'incoraggiamento 4.500 fr. per ogni dipartimento, e questa somministrazione e la corrispondente intrapresa privata cessarono nel 1814 per ordi-ne dell'i.r. Reggente" (Del Cerro, 1903, 19).1 Sono parole che inquadrano al vivo l'attivitá pubblicistica svolta giá da tempo da Gioia, oggetto della mia attenzione e della quale intendo oggi, qui, dare testimonianza, davvero molto parziale, come si puo ben capire data la ristrettezza del tempo concesso. Un aspetto della sua personalitá subito s'impone: indipendenza di pensiero, giudi-zio critico nei confronti dei repubblicani francesi. Le sue iniziative giornalistiche vennero soppresse per incompatibilitá con la politica italiana del Direttorio, a dure critiche vennero sottoposti il Quadro politico di Milano, Y Apologia al Quadro politico, il Cose patriotismo. Siamo nel 1798. Cito questi scritti anche perché nel corso della relazione ad essi faro riferimento. Con la recuperata libertá personale si apre una nuova fase della sua vita intellet-tuale, nella quale Gioia sviluppa la vis polemica, che gli era propria, sovrattutto nei confronti dell'occupazione austro-russa, che inizio il 28 aprile 1799, e dei suoi esiti disastrosi sotto i profili piu diversi, giuridici, economici e morali - sotto il profilo penale gli effetti furono devastanti, "rompendo una legalitá giá per se stessa precaria e creando di conseguenza una massa di sbandati, vagabondi, disertori dei due fronti contrapposti, che si univa alla delinquenza comune" (Bressan, 1985, 12) -, il che, comunque, non gli impedi di polemizzare con i francesi, pur nettamente preferiti a Tedeschi e Russi, come chiaramente risulta dallo scritto del 1805 I Francesi, i Tede-schi, i Russi in Lombardia. Si tratta di un atteggiamento di critica e d'indipendenza, caratterizzante, giá si é detto, la personalitá del Piacentino, che influenzo pesantemente, sotto il profilo politico, questa fase della sua vita Pare utile, per meglio comprendere la personalitá di Melchiorre Gioia, offrire in merito qualche ragguaglio. Il Monitore Italiano comincio ad uscire il I piovoso anno VI (20 gennaio 1798) e, come annunciava un Avviso dello stampatore, "I cittadini Pietro Custodi [...], Melchiorre Gioja [...] e Niccolo Ugo Foscolo [...] saranno in av-venire i soli estensori di questo foglio". Due giorni dopo, Custodi, autore di una Memoria, nella quale a dure critiche erano sottoposte le trattative segrete per il patto di alleanza con la Francia, fu arrestato e processato in base alla cosiddetta Legge contro 1 L'interrogatorio si svolse il 19 dicembre 1820, "prima d'essere costituito in stato d'arresto [...] in sua casa", vale a dire "in contrada Cusani ed al secondo piano della casa al n. 2288, in cui é posta l'abita-zione del sig. Melchiorre Gioia [...]" (Del Cerro, 1903, 15). 632 Glan Paolo MASSETTO: MELCHIORRE GIOIA E IL DIRITTO PENALE. PRIME NOTE, 631-704 gli allarmisti (v. infra, 660-663). Ma venne ben presto dlscolpato e llberato, come av-vlsa il Monitore nel numero del 31 marzo. L'impostazione del fogllo continuó comun-que ad essere fieramente avversa alla politica del Direttorio, non cosi declso, come sarebbe stato auspicabile, nel combatiere abusl e corruttele dell'amministrazlone, nel tutelare i diritti e la libertà della Cisalpina nel confronti della Francia, la quale, dal canto suo, non apparlva per nulla incline a soddlsfare le gluste pretese dell'"lnfante Repub-blica, che vorrebbe esser dalla madre lasciata in balia di cercarsi un solido nutrimento per crescere vigorosa ed acquistar dignità".2 La sorte del Monitore era segnata: ll quarantaduesimo numero del 13 aprile 1798 fu l'ultimo. Dl li a poco, il 4 magglo, avrebbe visto la luce il Monitore Cisalpino, la cui vita fu altrettanto breve: venne infatti soppresso nell'agosto dello stesso anno (Gambarin, 1972, XXVII-XXXIX). Da poco conclusa la tumultuosa vlcenda del Monitore Italiano, Gioia tornó al-l'attacco nel denunciare con il Quadro politico di Milano le carenze e gli errori degli organi dl governo cisalpini, la corruzione diffusa, lo sperpero del beni pubblici, l'ln- 2 Come si legge nel n. 1 del Monitore Italiano, cit. da Gambarin, 1972, XXXII. Posso fare riferimento ad un intervento di Gioia. Lo stampatore del giornale, Andrea Mainardi, era stato citato dinnanzi al Tribunale criminale perché palesasse l'autore dei Cenni politici apparsi nel n. 14 del l5 febbraio, ove, con linguaggio virulento erano attaccati la Francia e lo stesso Bonaparte. Costui era Giacomo Bregan- ze, che, di conseguenza, preferi lasciare il giornale, anzi la stessa Milano. (Lo scritto di Breganze si legge in Gambarin, 1972, 60-61. A p. 65 è la lettera al Capitano di giustizia, con la quale Foscolo, "convinto in me stesso delle verità enunziate da Breganze", offriva la sua "persona, che risponderà sempre ai tribunali per l'inquisito Breganze"). Ebbene, Gioia scende in campo per difendere il collabo- ratore del Monitore e, nel contempo, per attaccare il Direttorio, che "non vorrà, per essere conseguen- te, secondo il solito, inquietare un uomo, che ha mostrato maggiore sagacità e maggiore buona fede dell'autore della Basvilliana [V. Monti, 1793]. Noi vediamo senza sorpresa e senza collera gli sforzi degli imbecilli, le cabale dei perfidi, i sospetti degli ignoranti, l'allarme de' pusillanimi, che insieme s'uniscono per chiudere la bocca alla verità, e coprire nello stesso tempo d'infamia un popolo virtuoso che non ha mai inteso di ratificare dei trattati dettati dalla perfidia e scritti dalla spada d'un conquista- tore" (Gambarin, 1972, XXXIII). La conclusione suona cosi: "Noi invitiamo il C. N. a discutere l'informe legge del 16 termidoro anno V di cui potrebbero abusare degli uomini profondamente perfidi, per trafiggere la virtù colla spada della giustizia" (Gambarin, 1972, XXXIV). Intorno alla legge citata da Gioia (Legge contro gli inimici dell'ordine pubblico, in Raccolta, 1797a, 100-102), v. Danusso, 1996, 836-837, 862-864; Dezza, 1996, 916, 948-949. Proprio con riferimento a questa "terribile legge 16 Termidoro anno VI [rectius V]" fece sentire la sua voce il giudice - "[...] In altri Tribunali e nello speciale singolarmente contro i nimici dell'ordine pubblico, che risiedeva in Milano e che estendeva la sua giurisdizione su tutto il Regno, le funzioni di giudice per più anni ancora esercitai" (Man- tegazza, 1814, 79) - e poi avvocato Pietro Mantegazza. La legge risultava "terribile" perché, nella sua applicazione "[...] gli atti più indifferenti o di privata censura appena meritevoli, erano stati quasi delitti di lesa nazione denunciati [...] la procedura doveva essere militare, vale a dire sommarissima". E poi "cominciarono questi giudizi. Io tremo ancora. Quanti ragionevoli sospetti di calunnia e di falsità, o sulla totalità del fatto o sulle sue circostanze, mi venne dato di travedere! Come le cose trasfigurava lo spirito di partito e l'ignoranza de' testimoni!" Fortuna volle che nel Tribunale speciale, insieme con lui, sedessero "uomini di dolcissimo carattere e alla indulgenza più che alla severità proclivi. Se i rei non erano confessi, o le prove di altro genere non ridondavano, qual è il caso in cui non abbiamo pre-ferito piuttosto d'azzardare l'assoluzione di un reo che la condanna di un innocente?". Questo ricordo compensava Mantegazza delle fatiche e delle inquietudini allora vissute (Mantegazza, 1814, 78-79). 633 Gian Paolo MASSETTO: MELCHIORRE GIOIA E IL DIRITTO PENALE. PRIME NOTE, 631-704 fima condizione del popolo, le ruberie, la mancanza di dignità nel difendere la liberta contro la politica francese. Le reazioni non potevano mancare, né mancarono. Lat-tanzi, tra altri, si distinse per la virulenza delle accuse contro un uomo, Gioia, che si proponeva come nemico dichiarato del Direttorio cisalpino e dei Francesi, come in-capace di cogliere gli aspetti positivi del trattato di alleanza e di commercio con la Repubblica francese, contro "l'autore tenebroso di un libello intitolato Quadro Politico di Milano " appena dato alle stampe, che conteneva non già "una giudiziosa ed utile critica, ma una satira indecente e maligna, ove la vaga maldicenza campeggia disordinata e mordace". Un "libello" nel quale Gioia "arma la calunnia, e ora serio, ora ridicolo, sempre peró incosciente e leggiero, tenta di sedurre le anime deboli inspirando loro odio e vendetta": "Il popolo milanese a cento fogge insultato e manu-messo [su ció, infra, 686-687 e nota 91], il Corpo Legislativo oltraggiato, posto in dileggio il Direttorio, avviliti i Ministri, screditate le Leggi,3 che essi [i Comitati Ri-uniti, ai quali furono provvisoriamente affidate le funzioni del Corpo Legislativo], atterrando il vecchio colossale sistema forense, presentarono alla Nazione [...]. Gli Arbitri, i Giudici di Pace, i Tribunali di Famiglia, di Commercio, quelli Dipartimen-tali, di Correzione e di Cassazione, i Giurati, e la classazione dei delitti, cose tutte che rendono inapprezzabile e cara la democrazia, furono opera utilissima dei Comitati Riuniti" (Lattanzi, 1798, 3-4, 7). Le accuse non si arrestano qui, ma basti ora ricorda-re che anche Lattanzi assunse un atteggiamento critico nei confronti del Direttorio e della Polizia, un atteggiamento peró circoscritto dall'obiettivo al quale tendeva. Di-rettorio e Polizia erano infatti colpevoli in quanto, anziché eseguire le leggi, mostra-vano "criminosa indolenza" nel non colpire Gioia, che con il suo scritto attentava alle pubbliche istituzioni ponendo in essere un crimen che, a giusto titolo, sarebbe dovuto cadere sotto i colpi della Legge contro gli allarmisti. Ma Gioia trovó anche sostenitori e soccorritori contro Lattanzi, del quale, definito "galeotto e falsario", si ricordavano i precedenti penali ed era "bollata l'indegnità di far parte del Corpo Legislativo";4 contro il cappuccino Antonio Grandi, per esempio. Ugo Foscolo fu tra costoro. Nel luglio del 1798, dopo che erano apparsi nel modene-se Giornale Repubblicano di Pubblica Istruzione due articoli del Grandi, che accusa- 3 Tra queste, e non infondata appare l'accusa di Gioia, le Leggi organiche giudiziarie, su cui Dezza, 1983, 25-87 (Dezza, 1983, 71-72 per riferimenti a Gioia); Dezza, 1992a, 94-147 (per riferimenti a Gioia, Dezza, 1992a, 141-142); Dezza 1992b, 201-208; Dezza, 1992c, 173, nonché Cavanna, 1973, 711-712 e Liva, 1987, 171. 4 Cito da Gambarin, 1972, XLII. Su Lattanzi v. anche Cantù, 1879, 129-153, ove è riprodotto un Proto-collo di Governo del 1817, in cui, tra l'altro, si legge: "Uomo senza principj, senza morale e senza fe-de, capace di servire a un tempo stesso, e per il medesimo oggetto, il proprio Governo e lo straniero ancora. Tale è l'opinione che accompagna quest'individuo" (Cantù, 1879, 130). Un piccolo cenno è fatto da Cantù sul rapporto Lattanzi-Gioia: "Facendo Analisi e riflessi sullopuscolo Quadro politico di Milano, di Melchior Gioja, lo ripone "fra la razza di quella gente nocevole, che mette a lucro la maldi-cenza, senza avere nemmeno il talento di infamare e di accreditare chicchesia"" (Cantù, 1879, 132). 634 Gian Paolo MASSETTO: MELCHIORRE GIOIA E IL DIRITTO PENALE. PRIME NOTE, 631-704 va Gioia di avere con le sue critiche "seminato zizzania e fermento di discordia fra i cittadini e le loro autorità", il che comportava l'accusa del Piacentino davanti al Corpo Legislativo e la conseguente ineludibile condanna per allarmismo (Gambarin, 1972, XLIII), Foscolo, appunto, prese la penna. "Sacro è quel[l'] uomo coraggioso, che ardi-sce mandar dalla sua solitudine una voce di verità ai rappresentanti d'una Nazione oppressa dalle antiche tirannidi, consunta da' suoi vizi, avvilita dalla superstizione, e de-nudata dalla necessaria ferocità della guerra [...]. Certo che il cittadino Gioia ha provate le sue asserzioni, e nel suo opuscolo, e molto più nell'Apologia fatta alle diatribe di un rappresentante che scellerato com'è, e certo d'aver perduta la fama, vorrebbe che tutti gli altri fossero e scellerati ed infami. Né giova accusare il Quadro politico di Milano come soggetto alla legge contro gli allarmisti. Gioia non minaccia la caduta della Repubblica, ma ne scopre i mali, e rinfaccia i Governanti, che o deboli, o interessati, o ignoranti non sanno reggere il carro della somma delle cose. Sarà punito quel figlio, che avvisa il padre d'una imminente malattia?" (La Risposta allarticolo contro il "Quadro politico" di Ugo Foscolo si legge in Gambarin, 1972, 105-106). Gioia si fece anche soccorritore di se stesso, ed in qual modo dirô più oltre (infra, 657-661, 670 ss.).5 Ma queste diverse difese a poco valsero per le sorti di Gioia uomo pubblico. Nominato istoriografo ufficiale della Repubblica italiana il 3 aprile 1800, il 9 luglio del 1803 Gioia fu raggiunto dalla revoca dell'incarico, cosi come, più avanti nel tempo, nominato il 22 febbraio 1806 direttore dell' Ufficio di Statistica, il 31 dicembre 1808 fu rimosso dalla carica.6 Se la causa della prima 'disavventura' è da rinvenirsi nella pubblicazione della poco rispettosa Teoria civile e penale del di-vorzio, causa immediata della seconda fu il conflitto che vide contrapposto a Mel-chiorre Gioia il di Breme. Non è questa la sede per soffermarsi sulle complesse vi-cende che si svolsero tra il settembre 1806, quando Arborio Gattinara di Breme, mi- 5 Quanto ai tempi, basti qui dire che a Lattanzi risponderá all'istante - il Quadro politico di Milano usci nel maggio 1798 e l'Apologia nel giugno dello stesso anno. Per questo lAnalisi di Lattanzi, per quanto non datata, é stata indicata in bibliografía come edita tra il maggio ed il giugno 1798 - Melchiorre Gioia con la sua Apologia al Quadro politico di Milano. Sulle polemiche intorno all' Apologia; Zaghi, 1986, 202. 6 Poiché "alcuni per inesatta cognizione della storia ci fanno de' rimproveri o degli elogi egualmente ingiusti", Gioia stesso, nelle Riflessioni relative all'opuscolo che ha per titolo La scienza del povero diavolo [...], che pure incorse nei rigori della censura, senti il bisogno di esporre i fatti che lo videro coinvolto (Gioia, 1809, 24-26, nota 1). Su queste vicende, oltre a Romagnosi, 1834, 167, v. Cova, 1979, 131-132; Giusti, 1957, 1378-1383; Bressan, 1985, 23-24 e note 95-98. In un'altra circostanza per nulla fausta, Gioia stesso ricordo, o dovette ricordare, i suoi trascorsi giudiziari. Leggiamo: "Milano, 21 dicembre 1820. Nell'i. r. Direzione Generale di Polizia. [...] Interr. Sui suoi precedenti penali: - Risp. Fui inquisito a Piacenza nel 1796, a Milano nel 1799, e nel repubblicano triennio due o tre volte dalle autoritá francesi e cisalpine e sempre in via politica e per oggetti politici, finalmente lo fui nel 1812 per ordine dell'ora ex-cessato ministro dell'Interno de Breme, il quale proteggendo il ladro cavaliere Freddi impiegato nell'Ufficio Statistico se ne ebbe a male allorché io gli scrissi che l'onore di proteggere un birbante era rimasto a Sua Eccellenza, ed allora mi fu tolto l'impiego" (Del Cerro, 1903, 22). Sul di Breme v. anche infra, 674-675. 635 Gian Paolo MASSETTO: MELCHIORRE GIOIA E IL DIRITTO PENALE. PRIME NOTE, 631-704 nistro dell'Interno, istitui una commissione che valutasse la possibilitá e l'opportunitá di redigere una statistica del Regno, e il dicembre 1808, quando fu sciolto l'Ufficio di Statistica, di cui Gioia era stato nominato, come si giá si e ricordato, direttore. Basti qui dire che il dissenso verteva intorno ai modi di funzionamento dell' Ufficio, alla sua struttura gerarchica e, soprattutto, intorno alle finalitá stesse delle indagini statistiche. Se per il di Breme esse dovevano tendere al soddisfacimento di esigenze proprie del-l'amministrazione, per Gioia, che faceva riferimento alle sue Tavole statistiche, ap-pena date alle stampe, occorreva approntare un piano statistico che si ponesse al ser-vizio di tutti. Scrisse Gioia: "Mi e lecito osservare che la maggior parte delle dimande e posta in modo che diverrá oggetto di istruzione per un gran numero di lettori. Benché la scienza statistica non trovi molti coltivatori in Italia, pure nutro speranza di raccorre in tutti gli angoli del Regno notizie tali da presentare il quadro economico esatto e regolare e forse allora il Pubblico dirá: il Principe Eugenio volle che la statistica nascesse e fiorisse in Italia e la scienza nacque e fiori".7 E' anche la fase che vede la pubblicazione della sua prima opera di economia (Sul commercio dei commestibili e caro prezzo del vitto; Gioia, 1850c) e che lo vide divenire, da polemista e militante, quale era, "compiuta ed esemplare espressione della burocrazia moderna e modernizzatrice che stava nascendo dalla politica napoleonica [...]". L'opera di Gioia venne sottoposta al vaglio critico di Vincenzo Cuoco e quanto acre e pungente sia stato tale vaglio e immediatamente rivelato da queste parole: "Io diro bene a Gioja che la sua opera e trivialissima, che e un plagio continuo di altre opere antecedenti stampate sopra simile soggetto, ed a chi non lo volesse credere son pronto a dimostrarlo [...]". "Io ve lo dimando di nuovo: perché mai nella vostra bocca abbonda tanto il riso? Voi ridete di tutte le leggi, di tutte le cose" (Cuoco, 1989, 52, 60).8 Vaniloquio triviale, plagio, dunque, cui si aggiungono mancanza di senso stori- 7 Cosi Gioia si espresse in una sua lettera al Viceré del 26 maggio 1807. La lettera è in Archivio di Stato di Milano, Studi, p.m., c. 1141 (cito da Cova, 1979, 134). Sul punto Gioia ritornerà ancora due anni più avanti (infra, 640-641). 8 E' certamente vero che Verri e Beccaria sono tra gli ispiratori di Gioia - leggendo le pp. 40-41 di Gioia, 1803a, sembra davvero di leggere Verri, 1804c, 129-130 -, ma è altresi vero che dei due espo-nenti dei Lumi milanesi, le dovute citazioni, anche testuali, davvero non mancano. Qualche esempio. In materia di notificazioni: "Ecco dunque, per usare le espressioni del Conte Verri [...]" e segue il pas-so che si legge in Verri, 1804c, 171. "Spero peraltro qualche speditezza, giacché il marchese Beccaria e il conte Verri, che sono del mio parere, spalleggieranno la mia dimanda". E in nota si legge: "Il conte Verri nel suo Discorso sulle leggi vincolanti, il marchese Beccaria ne' vari discorsi inediti, reci-tati avanti il magistrato camerale di Milano, esistenti nell'archivio nazionale" (Gioia, 1850c, rispetti-vamente, 371 e 374 e nota 5). Ancora, in materia di calmiere: "Allorché Beccaria e Verri dicevano delle grandi verità contrarie ai pregiudizi dominanti, senza acquistarsi la taccia di teste calde e di ri-belli (spesso unica risposta dell'ignoranza potente), i danni della meta furono messi in tale evidenza [...]", che nel 1781 e nel 1785 il sistema su di essa fondato "fu levato". Ma poi "[...] l'ignoranza del popolo fece[ro] risorgere le false inveterate abitudini, e la debolezza cedette ció che aveva guadagnato la filosofia" (Gioia, 1850c, 390-391). Con riferimento al periodo 1779 - 2 maggio 1781, Gioia ricorda come fosse stata sostanzialmente introdotta la libera circolazione dei grani, il che comportó non innal- 636 Glan Paolo MASSETTO: MELCHIORRE GIOIA E IL DIRITTO PENALE. PRIME NOTE, 631-704 co, spregiudicatezza morale, manie pseudoletterarie - "Io non sono letterato: mi parli pure di grano. Addio" -, disorganicità, scarsa riflessione: "Tu non hai osservato al certo molto, e perciô scrivi assai. La prova che non hai meditato il tuo soggetto è che tu ti trattieni molto sopra soggetti o triviali o inutili, e tralasci le parti nuove ed inte-ressanti che il tuo soggetto ti presentava; non vedi bene l'insieme delle cose, ti perdi in digressioni; confondi una cosa coll'altra, e si potrebbe dire di te: quante cose sai e tutte male! " (Cuoco, 1989, 81, 55). Il cuore della polemica era in ogni caso l'impostazione della politica economica. Favorevole alla libertà di scambio in ordine alle leggi del commercio, Cuoco, di fronte ad un Gioia liberista e antivincolista, si mostra favorevole ad una rigida rego-lamentazione in materia di annona, di approvvigionamenti utili a garantire gli essen-ziali bisogni della popolazione. Provvida regolamentazione era quella volta ad inci-dere sul commercio dei grani, provvida anche per prevenire e sventare moti pericolo-si per l'ordine costituito. Cuoco, riferendosi alle critiche mosse da Gioia contro il Commissario governativo per il Dipartimento del Mella, Greppi, scriveva: "Se poi un magistrato per rassicurare il popolo proibisce l'estrazione, se mostra del zelo all'os-servanza di una legge a cui il popolo attacca la sua sussistenza, voi lo trattate da poli-cinella e da arlecchino. Voi vedete che io intendo parlare del Commissario del Mella, un di cui proclama è divenuto per voi un soggetto di riso. Ma ridete sempre voi. Ri-dete di tutto?" (Cuoco, 1989, 72).9 Sembra che Gioia abbia passato sotto silenzio la critica di Cuoco (Nutini, 1983, 54-55), ma non mancó di polemizzare con lui intorno zamento, ma "una graduata diminuzione, - il che prova, soggiunse il márchese Beccaria relatore di questo fatto, che la facilità non interrotta del commercio de ' grani, se non sempre diminuisce, non fa almeno alzare iprezzi [...]" e seguono altre parole della relazione di Beccaria (Gioia, 1850c, 424-425. Gioia aveva dinnanzi a sé la relazione beccariana del 28 aprile 1781, che oggi si legge in Beccaria, 1990, 648, Nuovo piano annonario, 456-483; per le parole trascritte da Gioia, 1850c, 466). Del resto anche Vincenzo Cuoco non aveva esitato ad eleggere Pietro Verri quale propria fonte. V. per esempio, Cuoco, 1802, 30, 34. 9 Nella Lettera si legge inoltre: "Io non terrô con Gioja il linguaggio di questo mio amico. [...] Io non chiamerô Gioja un arlecchino, un pulicinella, titoli che egli dispensa con tanta facilità con quanta gli Eroi di Omero dispensavano quelli simili di cane e di ubbriaco" (Cuoco, 1989, 52). Ancora, Cuoco mette in bocca a Gioia le seguenti parole, in un immaginario dialogo che con questi intrattiene: "G[IOIA]. Tu sei un cervel di pasta, tu sei un poricinella, tu ... IO. Che debbo rispondere a Gioja? Gli dirô: io non so chi tu sei, ma so che sei un impertinente sragionatore" (Cuoco, 1989, 81). Ed ecco le parole gioiane, che avevano sollevato la riprovazione dell'esule napoletano: "Leggete il proclama 4 termidoro anno 9 del commissario straordinario del Mella. Io credo che se arlecchino volesse parlare patrioticamente, userebbe del tono e delle espressioni del nostro commissario, ma questo è niente. Il bello consiste nel vedere riuniti in poche linee i principali pregiudizi de' nostri maggiori sull'annona, ed inculcati quali massime incontrastabili. Il commissario nel suo proclama promette che cesserebbe d'esistere pria di vederle inosservate nella più piccola parte. Ma il governo avendolo giustamente chiamato all'ordine, egli ha dovuto vederle inosservate quasi tutte. Per bene perô degli abitanti del Mella, non ha stimato a proposito di cessar d'esistere. Quindi resta dimostrato che nel nostro secolo filosofico non sono più di moda i ciarlatani" (Gioia, 1850c, 367, nota 15). 637 Gian Paolo MASSETTO: MELCHIORRE GIOIA E IL DIRITTO PENALE. PRIME NOTE, 631-704 alle Osservazíoní sul dípartímento d'Agogna:10 "L'Autore scrivendo con chiarezza e metodo, ha saputo profittare delle idee economiche di varj scrittori, e principalmente di Smith, ed applicarle alle circostanze del suo Dipartimento. Peraltro egli detta spes-so, e forse troppo, mentre dovrebbe raccontare, voglio dire ch'ei ricorda delle teorie già note, invece d'esporci de' fatti che non si conoscono". A questa critica - se viva pare essere la sensibilità per la dottrina, ben esile è quella per le informazioni, per i dati statistici, che soli valgono a rappresentare ed a documentare la natura e le condi-zioni del territorio - si aggiunge quella che pone in chiara evidenza la distanza che intercorre tra i due intorno ad un tema, di cui si è testé fatto cenno (retro, 636-637). Come è stato scritto, "[...] da questo dato fondamentale e comune [la centralita della proprietà privata] si dipartono nei due scrittori diverse opzioni economiche-politiche, e direi quasi due linee: l'una strenuamente liberistica, affidata ai meccanismi autonomi del mercato, priva di dirette interferenze politiche, ed al contempo autoritaria sul piano della politica interna; l'altra, anche se non pregiudizialmente aliena da un moderato liberismo, evolve poi in un modello economico diffuso, a vasto spettro (per l'attivazione di più settori dell''industria nazionale'), dalla fisionomia chiaramente protezionistica, tale da insospettire giustamente Gioia [...]" (Nutini, 1989, 37).11 Si tenga anche presente che nella polemica tra il Piacentino ed il Napoletano non piccolo fu il ruolo giocato dalla volontà e dal desiderio di imporsi all'attenzione, di acquistare, per cosi dire, benemerenza al fine di ottenere un posto di rilievo nell'isti-tuendo Dipartimento di statistica. Cuoco, tra l'altro, sino all'ultimo tenne a sottolinea-re come fosse stato il promotore, il più fermo sostenitore dell'opportunità e dell'utilità di istituire un centralizzato servizio di statistica. "Io sono stato il primo ad occuparmi in questo paese di lavori statitici", come ebbe a scrivere al Viceré il 14 marzo 1806 (Nutini, 1989, 45 e nota 80, 93, 116). Nello stesso anno, in cui si svolge questa polemica, esce il Nuovo Galateo, che di Gioia esprime la tendenza pedagogico-formativa tutta rivolta all'educazione (politesse), ovvero, per usare un termine assai caro a Gian Domenico Romagnosi12 e di poi a 10 Le Osservazíoní, uscite nel luglio 1802 sotto il nome di Luigi Zizzoli, commissario governativo pres-so il dipartimento d'Agogna - nell'ed. da me consultata, non datata, egli, nel momento della cessazione dalle sue funzioni, si rivolgeva, in data 17 giugno 1802, a Francesco Melzi d'Eril nel "rimettere nelle vostre mani quell'operetta che mi fu da voi comandata" - sono sicuramente attribuibili a Vincenzo Cuoco. Cfr. Bressan, 1985, 19; Nutini, 1989, 94-95. 11 II pensiero di Gioia è contenuto in un inedito, custodito in Archivio di Stato di Milano, Autografi, c. 175. Cito da Nutini, 1989, 34, nota 59. 12 "La parola civilisation, per quanto a noi pare, è del tutto moderna in Francia. Consultate per esempio l'Indice minuto e ragionato dello spirito delle leggi di Montesquieu, e voi troverete bensi la parola civilité adoperata per significare l'urbanità e i riti consacrati di lei, come pure quello di politesse per significare i riguardi volontari verso chicchessia, ma non troverete il nome di civilisation né nel senso di successivo progresso ad una colta e soddisfacente vita civile, né in senso di possesso della migliore e più culta convivenza acquisita da un dato Stato. [...] L'idea di incivilimento doveva essere, non solamente annunziata in globo, ma svolta e specificata almeno nei tre rami principali della vita civile, cioè 638 Gian Paolo MASSETTO: MELCHIORRE GIOIA E IL DIRITTO PENALE. PRIME NOTE, 631-704 Carlo Cattaneo,13 all'incivilimento: termine complesso che significa tensione ad andaré oltre e, pertanto, progresso, certo, ma non un progresso costante e rettilineo; un progresso, insomma, fatto anche di pause, financo di regressi, il cui esito finale vede comunque la vittoria che "ottengono i principii della ragione sociale sugli impulsi disordinati della natura: per esempio, la natura irritata ci stimola ad ammazzare il nemico anche quando non puô offenderci; all'opposto la ragione ci dice di non fare al nemico quel male che alla nostra difesa sarebbe inutile". Quanto ai "principii della ragione sociale" che, come giustamente è stato osser-vato, "val sicuramente la pena [...] di non confinarli in nota", essi sono colti da Gioia nei seguenti: "1. Esercitare i propri diritti col minimo dispiacere degli altri; 2. Ri-spettare i loro diritti, ancorché dannosi a noi stessi; 3. Riconoscere il loro merito, benché fossero costoro nemici. 4. Non far loro del male se non per giusto motivo o legittima autorizzazione; 5. Promuovere il loro bene anche con sacrificio del nostro; 6. Rinunziare a risentimenti momentanei che frutterebbero dispiaceri futuri maggiori; 7. Sacrificare le affezioni personali all'interesse pubblico; 8. Conseguire il massimo vantaggio pubblico col minimo danno de' membri della società" (Gioia, 1802, 9).14 Ancora, si tratta di un progresso in cui concorrono tutti i rami del sapere, tutte le scienze, le arti, nel loro utile, indispensabile concatenamento. Tra le varie scienze assume particolare rilievo in Gioia la statistica, a sua volta "scienza di sintesi dei saperi utili all'industrioso" (Meriggi, 1990, 137),15 scienza che si rivela provvido strumento per "dare risposta al problema irrisolto lasciato in eredità nelreconomico, nel morale, e nel politico, perocché essa è normale onde giudicare si di ció che la Francia acquistó in fatto di incivilimento, si di ció che ancor gli manca, si finalmente di ció che si op-pone al suo completamente" (Romagnosi, 1854, 10-12). 13 In argomento, da ultimo, Massetto, 2005 (ivi indicazioni bibliografiche), ma v. anche Botteri, 1990, 175 ss. Mereu, 2001, 43-156 offre un' utile "antología sull'incivilimento negli scritti" di Romagnosi e di Cattaneo. 14 Mi piace riportare l'immagine assai concreta cui Gioia ricorre per indicare che cosa egli intenda per civilizzazione: "Un frutto selvatico nasce talvolta fra le spine, ed amaro riesce ed insipido al palato; l'innesto e la coltura lo spogliano delle spine, e dolce lo rendono e saporito: ecco l'immagine della civilizzazione" (Gioia, 1802, 9). In merito, e per la frase riportata nel testo, Botteri, 1990, 168-169, ove sono indicate le diverse accezioni che il termine "civilizzazione" assume nelle varie edizioni e mani-polazioni dell'opera gioiana (Botteri, 1990, 169 ss.). Per tali edizioni, Botteri, 1990, 157 ss., nonché Barbarisi, 1990, 217-218. Sull'opera che suscitó non poche critiche negative ("[...] e quantunque non sia stato scritto colle più afinate fragranze di stile, s'ebbe pure buon viso da ogni gentile persona", Sacchi, 1829, XIX. "Il Calateo di M. Gioja è scelleratamente scritto quanto a lingua, stile ed idee. Di più è denso di farfalloni e di inesattezze storiche. E' roba cucita insieme senza gusto né logica", Dossi in: Isella, 1964, 581, n. 4685), v. Botteri, 1999, 171-244 e passim. Intorno alla fase del percorso in-tellettuale di Gioia qui presa in considerazione, e che è stato configurata come il "secondo periodo dell'elaborazione politica dello scrittore" da collocarsi tra la "recuperata personale libertà" e la "fine del dominio napoleonico", cfr. Albertoni, 1990, 40 ss. 15 Si tenga presente che la definizione di industrioso "si attaglia tanto allo scienziato, quanto al mercante, quanto al fabbricatore, quanto - infine - all'imprenditore agrario; a quanti, in sintesi, non fanno della nascita, ma dell'abilità e dell'applicazione il proprio carato sociale [...]" (Meriggi, 1990, 135). 639 Gian Paolo MASSETTO: MELCHIORRE GIOIA E IL DIRITTO PENALE. PRIME NOTE, 631-704 dalla Rivoluzione: quello della partecipazione politica e della formazione del cittadi-no. In tal senso la statistica s'inseriva nel tentativo di dar vita ad una nuova prassi politica, che riteneva imprescindibile per la sopravvivenza delle istituzioni il consenso di tutti e di ciascuno" (Sofia, 1990, 250); era la scienza, secondo la definizione che Gioia stesso ci fornisce, che consisteva nella "descrizione degli elementi che costitui-scono una nazione"; la scienza che indicava "la somma delle qualité che caratteriz-zano una cosa nell'istante in cui viene osservata, ossia la somma delle apparenze sotto cui ci si presenta, o finalmente, il che è lo stesso, la somma delle sensazioni che in noi eccita" (Gioia, 1826, 1).16 Era, in buona sostanza, "l'arte di descrivere calcola-re classificare tutti gli oggetti in ragione delle loro qualità costanti e variabili [...J" (Gioia, 1808a, XV). Non solo, per Gioia la statistica è anche "una specie d'anatomia che disseca il corpo sociale, e facendo la sezione delle sue parti, ne mostra la vivezza o il pallore, la forza o la debolezza, la sanità o la malattia, in una parola lo stato in cui si trovano", mentre l'economia, che funge da "medicina" o da "chirurgia", ricerca e fornisce i "ri-medi per guarirlo [lo "stato del corpo sociale"J o i mezzi per migliorarlo", rispetto alla situazione descritta e conosciuta per il tramite, appunto, della statistica. Lo scritto, al quale faccio ora riferimento, è volto a confutare "le false idee che tuttora corrono pel pubblico sull'indole della statistica" - in particolare, quelle che Gioia ritrovava in "un opuscolo comparso al pubblico su questo argomento" (Del fine delle statistiche di Giovanni Tamassia) -, nonché "le obbiezioni che in privato or da questo ora da quello furono proposte contro le mie Tavole Statistiche ". Al Tamassia, il quale negava che l'agricoltura, le manifatture, il commercio di una nazione fossero il soggetto della statistica, Gioia ribatteva che siffatta negazione equi-valeva a "dire che gli occhi, il naso, la bocca, non possono entrare nel ritratto di una persona". E nel ribadire la natura del rapporto intercorrente tra statistica ed economia, or ora delineato, Gioia ancora scriveva che "la statistica si ristringe a caratterizzare una nazione particolare, ne determina la particolare estensione, ne svolge le particolari forme, ne sviluppa i particolari inconvenienti e vantaggi [...J. L'economia al contrario lasciando da banda le cose particolari a ciascuna nazione, s'alza alla considerazione delle cose comuni a tutte, determina le leggi generali con cui nascono e si sviluppano 16 Ove si assuma la parola stato nell'accezione di "unione duomini viventi sotto lo stesso vincolo sociale ", la parola statistica "si limita a significare la descrizione delle qualità che caratterizzano o degli elementi che compongono uno Stato". Ancora, se ció che di una popolazione interessa sono i mezzi che le forniscono sussistenza, i beni di cui gode, i danni che le sono arrecati e che deve sopportare, allora la statistica "si è la descrizione economica delle nazioni in un'epoca determinata: essa addita le fonti delle loro ricchezze, i metodi con cui le distribuiscono, gli usi che ne fanno" (Gioia, 1826, 1). Nell'indicare le sette parti in cui è suddivisa l'opera Tavole statistiche (Topografía, Popolazione, Fonti e mezzi di produzione, Arti e mestieri, Commercio, Pubbliche autorità, Carattere del popolo), Gioia sottolinea come "I sette oggetti fin qui accennati coi loro rami corrispondenti costituiscono a mio credere il corpo della Statistica" (Gioia, 1808b, V-XI). 640 Glan Paolo MASSETTO: MELCHIORRE GIOIA E IL DIRITTO PENALE. PRIME NOTE, 631-704 le ricchezze, i regolamenti generali che le fanno crescere o decrescere presso tutti popoli, i vantaggi generali della libertá, gli inconvenienti generali dei vincoli [...]". In conclusione, "[...] l'agricoltura, le manifatture, il commercio d'una nazione formano il soggetto della descrizione o Statistica d'una nazione; la ricerca e l'analisi dei mezzi con cui promovere la di lei agricoltura, manifatture, commercio apparten-gono all'economia" (Gioia, 1850b, 82, 107).17 Dal momento che, come avrebbe scritto Gioia piu avanti nel tempo, "la statistica comprende dunque quella somma di cognizioni relative ad un paese, che nel corso giornaliero degli affari possono essere utili a ciascuno o alla maggior parte de' suoi membri, od al governo, che ne e l'agente, il procuratore o il rappresentante" (Gioia, 1826, 2), ecco che vengono dal Piacentino indicate, per l'appunto al Governo - forte e comunque in lui la convinzione che la statistica non serva "solamente al Governo, ma anche ai cittadini, non solamente ai nazionali ma anche agli esteri, non solamente ai contemporanei ma anche ai posteri [...]. Dire che lunico scopo chepossa ragione-volmente prefiggersi la Statistica, si e l'istruzione del governo, e dire che l'unico uso cui puo servire il frumento, si e la fabbrica de' maccheroni" (Gioia, 1850b, 97; v. anche retro, 635-636) - le forze attraverso le quali operare ed incidere sull'agri-coltura, sulle arti e sul commercio: "Istruzione, Esempio, Incoraggiamento, Prescri-zioni, Divieti" (Gioia, 1850b, 110). I lavori dedicati alla statistica, che Gioia comincio a redigere a far tempo dal 1803, pongono pertanto in luce come la statistica costituisca lo strumento, "il neces-sario supporto di una politica finalmente economica", il che comunque non comporta la mortificazione delle istanze etiche fortemente avvertite "per il tramite di una stabilita identitá tra ricchezza e virtu, tra miseria e vizio" (Romani, 1990, 311). Gioia scri-ve: "Ora siccome la povertá per lo piu e figlia dell'inerzia, dello stravizzo, della man-canza delle forze;" - in altra sede Gioia aggiungerá a queste cause l'ignoranza, di cui il popolo e portatore, strettamente connessa con la superstizione e che trova la sua antitesi nella cognizione (Gioia, 1817; Gioia, 1815)18 - "siccome la ricchezza per lo 17 In argomento, Giusti, 1957, 1388-1390. Intorno alla polemica tra Gioia e Tamassia, che diede origine ad alcuni scritti (tra questi La scienza delpovero diavolo - "où de Brême, Tamassia, Amoretti, Bossi, Melzi même sont fustigés sous la masque de personne de l'entourage d'un pacha de Bosnie [...]" (Pillepich, 2001, 325) - e Riflessioni relative all'opuscolo che ha per titolo la Scienza del povero diavolo), v. Macchioro, 1990, 278 ss.; Pillepich, 2001, 322-325. 18 Si tratta di una impostazione che conduce Gioia a non essere benevolo, per nulla benevolo, nei con-fronti delle pratiche devote predicate dagli uomini di Chiesa: "[...] l'ignoranza unita allo zelo religioso cambia l'uomo in animale feroce [...]" (Gioia, 1819, 54. Cfr. Meriggi, 1990, 128-129 e infra, 684685, circa l'ignoranza nell'amministrazione della giustizia) e faceva sue le parole di Muratori: "Il dotto e pio Muratori confessa che l'ignoranza del popolo è una miniera inesauribile pe ' ministri del culto; che essi accrescono concorso ai loro santi, vendendo erronee speranze per temporali bisogni e spirituali, ed ingannando il volgo con falsi miracoli e false indulgenze" (Gioia, 1819, 14-15). Si tenga anche presente che l'ignoranza, nel suo rarefarsi ovvero intensificarsi, ha pesanti riflessi sul modo di essere e di operare del potere di governo. "Facciamo scomparire l'ignoranza interamente, e diamo ai 641 Gian Paolo MASSETTO: MELCHIORRE GIOIA E IL DIRITTO PENALE. PRIME NOTE, 631-704 più dalla perspicacia ci è data, dall'attività, e dall'industria, quindi dir si dovrebbe frequentemente ricchezza onorevole, rarissime volte, onorevole povertà. Alla luce di queste idee vedrete quanto siano poco sensati gli elogi che Rousseau e Mably tessono alla povertà in generale, quanto nocive quelle stoiche dottrine che senza distinzioni promettono ai poveri i piaceri dell'altra vita e la ricusano ai ricchi. Si possono dare massime più ineconomiche?" (Gioia, 1803a, 131-132, nota 1). E' Gioia stesso che invita il lettore a tener conto di quanto, nello stesso anno (1803), esprimeva trattando del divorzio: "Altronde si puô asserir francamente che la virtù è la figlia primogenita del piacere, non oso dire d'esso solo esclusivamente. Ma se la tenera propensione verso de' nostri simili non proviene sempre dalla contentezza abituale del nostro animo, almeno egli è certo che chi combatte continuamente contro se stesso, chi si fa un rigoroso dovere dell'austerità, è poco inclinato alla tolleranza ed alla condiscendenza per le umane debolezze".19 Si badi che le "massime" indicate non sono condannabili sotto il profilo etico, ma riprovevoli piuttosto in quanto "ineconomiche". Sono parole di Gioia: "A misura che spariscono i piaceri scemano i travagli, a misura che scemano i travagli spariscono i costumi pubblici" (Gioia, 1803b, 77). Di fondamentale importanza è quindi il lavoro, l'attività produttiva, utili e necessari per incrementare la virtù, per mortificare ed al-lontanare il vizio, fomentato dalla povertà, dalla miseria: "altronde si puô asserire francamente che la virtù è la figlia primogenita del piacere, non oso dire d'esso solo esclusivamente" (Gioia, 1803b, 81). Proprio sotto questo profilo si rivela importante, anzi necessario, l'intervento del Governo - si tenga comunque presente che, se è vero, come diceva Bentham, che è il piacere a comandare l'azione, è anche vero, di conseguenza, che la forza non deve mai essere disgiunta dalla persuasione -, un intervento che sia forte, addirittura "una rivoluzione nel modo di pensare", che possa determinare l'intrapresa di nuove attivi-tà, superando i lacci dell'abitudine, nonché "rendere le fabbriche economiche " - anche lo stato è concepito come una fabbrica - e togliere ogni qualsivoglia intralcio alle attività produttive (Gioia, 1803b, 125, 110; Romani, 1990, 311-312). Nel delineare i compiti spettanti al Governo, Gioia introduce un elemento di fondamentale importanza: l'interesse particolare, che non si risolve perô in gretto egoismo individuale. Il Governo, nel porre regole, deve tenere come massima quella di sentimenti tutta la convergenza sociale, allora scomparisce la necessità d'una forza reprimente, e gli uomini gusteranno tutti i piaceri della società senza il peso del governo. All'opposto facciamo crescere l'elemento dell'ignoranza, conducendo lo stato sociale fino allo stato selvaggio e portiamo la cor-ruzione fino all'ultimo grado; noi avremo due ragioni potentissime d'una massima attività nel governo. Ne' gradi intermedi il potere deve accrescersi e sminuirsi secondo che lo stato sociale all'uno o all'altro estremo s'avvicina" (Gioia, 1799, 27). 19 Gioia, 1803b, 81, ove anche si legge: "Lo stato costante di volontaria sofferenza dispone all'asprezza piuttosto che alla compassione: eo immitior, quia toleraverat" (Gioia, 1803b, 81-82), con riferimento agli Annali di Tacito, lib. I, 20. 642 Gian Paolo MASSETTO: MELCHIORRE GIOIA E IL DIRITTO PENALE. PRIME NOTE, 631-704 far si che tutti, siano essi privati cittadini ovvero pubblici funzionari, coltivino l'interesse particolare, di cui sono portatori, in vista dell'incremento dell'efficacia produtti-va e, pertanto, con il conseguimento del pubblico bene. Scrive Gioia nella Discussione sul Dipartimento dell'Olona: "Il principio unico e generale che serve di base al mio travaglio si è, che fa duopo porre il pubblico bene sotto la vigilanza dell'interesse privato, di modo che le perdite e i guadagni di questi corrispondano alle perdite e ai guadagni di quegli, principio ripetuto a bella posta in tutte le pagine, perché trascurato generalmente" (Gioia, 1803a, 248). Insomma, l'interesse privato è la molla principale che fa agire gli uomini e la politica deve avere come strumento il piacere cercato da ognuno. Sulla base di questi principi, molteplici sono i campi, molteplici le forme d'inter-vento del Governo, guidato utilmente dalle nozioni statistiche, indispensabile strumento per conoscere e comprendere una società in continuo divenire. E' sufficiente scorrere i primi lavori statistici di Gioia dedicati alle terre dell'Olona e del Lario per avvedersi che il Governo puó intervenire, a mo' d'esempio, su questi versanti: tutti i cittadini, operai, braccianti, pubblici funzionari che siano, devono essere retribuiti in misura dell'utilità prodotta; deve essere punita l'inerzia volontaria, quindi sostanzial-mente l'ozio, cosi come debbono essere strettamente sorvegliati o addirittura chiusi i luoghi che ne sono il regno quali le osterie; non si deve largheggiare, se mai impedire la beneficenza20 - si ricordi, in proposito, che Beccaria definiva come "canone antipolitico" quello che suonava: "sia la inerzia mantenuta dalla pubblica beneficenza ed ottenga il premio dovuto alla fatica ed al sudore" (Beccaria, 1971c, 368-369) -; è bene prevedere un generale inasprimento delle pene; occorre rendere le fabbriche "econo-miche", non imponendo dazi di entrata sulle materie prime necessarie alle arti, e di uscita alle manifatture; è bene aumentare il numero dei mercati, bandendo peró i giochi d'azzardo ed allontanando da essi i "ciarlatani", che danneggiano nella borsa e nei co-stumi i contadini. Ancora, s'impone la liberalizzazione "delle case, del pane, della car- 20 In tal modo Gioia si propone come elaboratore di una ideologia "ancorata a una visione statica della realtà e a una sintomatica chiusura di fronte alla questione sociale", cosi Bressan, 1985, 36. Nel distinguere le elemosine, in base al parametro della loro qualità, "se in pane. vino. minestra. denaro", Gioia annota, con riferimento a queste ultime: "Le limosine manuali ai questuanti sono tanto più im-prudenti quanto più facilmente cangiabili in oggetti di stravizzo; quindi le limosine in denaro, che per la massima parte vanno a finire non nel banco del panettiere, ma nella cantina dell'oste, riescono più cattive di tutte" (Gioia, 1808b, 162, nota 1). Sulla questione della beneficenza Gioia ritornerà con insi-stenza nel 1817, ribadendo la sua netta opposizione per le "limosine manuali", per i "gratuiti soccorsi pubblici", che non costituiscono strumenti utili per alleviare la miseria. A tale fine lo strumento decisivo risulta quello "d'accrescere i lavori". Ancora: "Le limosine distribuite dai parrochi, le sommini-strazioni di vitto in luoghi pubblici, le case d'industria [...] sono tanti documenti visibili e palpabili che dicono ai poveri: il pubblico s'occupa de' vostri bisogni. Ora dalle cose dette risulta, che più si rinforza questa persuasione nella mente de' poveri, più decresce l'attività delle loro braccia. E' quindi cosa evidente che fa d'uopo soccorrere i poveri, quasi direi, senza che s'accorgano d'essere soccorsi" (Gioia, 1817, 10, 33-37). 643 Gian Paolo MASSETTO: MELCHIORRE GIOIA E IL DIRITTO PENALE. PRIME NOTE, 631-704 ne"; la diminuzione del numero dei ministri di culto e dire "alle corporazioni ecclesia-stico-secolaresche, sparite"; la riduzione delle responsabilité amministrative, accor-pandole sovra di un solo capo; l'organizzazione degli uffici di giustizia in modo che i relativi onorari crescano o diminuiscano in rapporto inverso all'andamento della criminalité; la proibizione di nuove donazioni in favore degli stabilimenti pubblici, ren-dendoli più utili attraverso un processo di concentrazione. E si potrebbe continuare a lungo.21 E' stato sottolineato, fondamentalmente con ragione,22 che il "pressante richiamo all'intervento governativo nella societé rappresenta [...] un elemento di continuité nel-l'itinerario del sapere gioiano [...]" (Romani, 1990, 313), dal triennio giacobino - "[...] i popoli divengono ció che il governo vuole" (Gioia, 1798c, 35-36) - al periodo napoleonico, quando Gioia con interesse poteva guardare alla Francia, avendo un motivo ben fondato per farlo, quando si pensi che proprio a Parigi, per merito di Chaptal, fre-quentemente citato da Gioia, ministro degli interni del I Console, nasceva un Gabinetto di tecnici e di economo-statistici in cui la statistica riceveva l'attestato di scienza di governo contro tutti i tentennamenti di G. B. Say, nel mentre, con la l. 9 aprile 1801, riceveva decisivo impulso la statistica dipartimentale (Pucci, 1990, 331-335).23 I primi lavori di statistica dipartimentale di Gioia sono dedicati alle terre dell' Olona (1803) e del Lario (1804) e assumono il titolo di Discussione economica. Il perché lo dichiara lo stesso Gioia: "Siccome peró l'idea che s' affigge alla parola statistica s'allarga o si restringe nelle diverse menti di coloro che sogliono giudicarne, donde nasce il rimprovero di superfluité o di mancanza: quindi, per non porre a contesa questi profondissimi censori, e sottrarmi alle loro scomuniche, ho creduto a proposito di lasciare da banda il titolo di statistica e porre sul mio travaglio discussione economica, tanto più che il termine di statistica riesce ancora insignificante e barbaro per la maggior parte de' cittadini il che potrebbe indicarci a quale grado di cognizioni economiche siano giunti i discendenti di Beccaria e di Verri" (Gioia, 1803a, XI-XII). II fine a cui tende la sua fatica, la soluzione del problema cui si è applicato e si applica, vale a dire quello di "trovare i mezzi più efficaci per ridurre i municipali ai loro doveri", consiste nel "porre i municipali a parte degli utili e dei danni che dalla loro amministrazione riporta il pubblico, e nel calcolare questi utili e questi danni sopra alcuni elementi statistici, come si calcolano i gradi di calore sopra le elevazioni termometriche" (Gioia, 1804, X-XI). 21 Si scorrano le pagine di Gioia, 1803a, in particolare, 248-254. Simili inviti e consigli si possono trarre anche da Gioia, 1804. 22 Fondamentalmente, mi pare opportuno avvertire, perché qualche cedimento al riguardo in Gioia non manca. Cfr. infra, 677-678. 23 Sull'introduzione e sullo sviluppo della statistica in Francia, sulla sua natura e sui risultati conseguiti, Sofia, 1985, 586-589. 644 Glan Paolo MASSETTO: MELCHIORRE GIOIA E IL DIRITTO PENALE. PRIME NOTE, 631-704 Ora, tall mezzl plù efflcacl, tall elementl statlstlcl debbono lnvestlre anche l'am-mlnlstrazlone della glustlzla, della glustlzla penale ln partlcolare, lntorno alla quale Gioia cl offre, cosi come offriva al legislatori del tempo, suol interlocutori, prezlosl ragguagll e conslgll. Glola ha una concezlone assal alta della glustlzla. L'ordlnamento gludlzlarlo del Larlo prevedeva 15 preture e 2 trlbunall d'appello, con sede a Como ed a Sondrio. Secondo alcuni, che si basavano solo sul freddl numeri degll abitanti e delle preture, l'appello a Sondrio era superfluo, oltre che inutilmente dlspendloso. Glola sl llmlta ad osservare che la gludlcatura sl deve calcolare e dlstrlbulre non solo in base a tall numeri, dl per sé, per l'appunto, freddi, ma ben pluttosto sulla base dl un calcolo che abbla a fondamento comunlcazlonl, relazlonl commerciali, economiche, nonché il vantagglo del detenuti. Il III dlstretto, soggetto all'appello dl Sondrio, comprendeva i cantoni dl Bormio, Valtelllna e Chiavenna chiusl per tre lati da altissimi montl e per il quarto dalle acque del lago. Qulndl diffi-coltà dl comunicazioni, moltisslme llti per la parcellizzazione della proprletà fondla-rla, per la compllcazlone determlnata dal dlrlttl llvellarl, per la pertlnacla del contadl-ni e le soperchierie del rlcchi. L'appello per il III dlstretto concentrato a Como si sarebbe risolto in favore del ricco ed in danno del povero in rapporto alle spese dl viag-glo, in aumento delle spese per il trasferimento del rel, nella lontananza del testimoni, nell'esecuzlone delle sentenze lontane dal locus commissi delicti. Si dice: "Ma intanto il dlstretto III costa al dipartimento lire annue sessanta mille". Si tratta dl un calcolo che potrà reggere o no, ma che a nulla vale contro la necessaria sussistenza dell'ap-pello in Sondrio, dal momento che "nell'edificio sociale la prima chiave della volta è la giustizia" (Gioia, 1804, 182). Vogllo rlcordare come Glola sl faccla portatore dl un ldeale dl glustlzla, per cosi dlre plù partlcolare, o personale, che lo vede ln contrasto con gll apparentemente non amati philosophes. E' il Gioia della Teoria del divorzio (slamo sempre nel 1803). "Pretendere che sussistano da una parte del doveri quando dall'altra parte sono vlolatl tuttl l dlrlttl, è rovesclare ognl base dl glustlzla, è sconvolgere ognl ldea dl ordlne sociale, è predicare la più illimitata tirannia". Dl più, l'lndole del cuore è tale che "alla puntura del dolore rapidamente rimbalza, dl sdegno dlvampa e dl vendetta contro chi va ad assalirlo ingiustamente". Secondo Glola, sl tratta dl una reazlone del tutto comprensibile, giustificabile, non solo, ma degna dl elogio fin che si arresta nel limiti della difesa. Questo sentlmento dl odio, dl vendetta risulta addirittura utile individualmente e soclalmente: è il motore "che snoda la lingua del testimoni, che anima l'accusatore", impegnandolo al servizio della giustizia, oltre le spese e le inimici-zle alle quali si espone; "è desso che sormonta la pietà pubbllca nel castigo del col-pevoli". "Togliete questa molla e le ruote delle leggi s'arresteranno o almeno i tribunall non otterranno più alcun servigio che a prezzo d'argento". Ed ecco la stoccata ai philosophes, ma non solo. "La ciurmaglia del moralisti" predica il dovere dl perdona- 645 Gian Paolo MASSETTO: MELCHIORRE GIOIA E IL DIRITTO PENALE. PRIME NOTE, 631-704 re le ingiurie: certo, il perdono, l'oblio del torto subito è virtù, ma virtù necessaria solo dopo che la giustizia ha fatto il suo dovere, dopo che ha dato la dovuta soddisfa-zione, si badi, non solo all'offeso, ma alla società tutta. Prima di questo tempo, perdono ed oblio costituiscono un invito a delinquere, e chi se ne fa autore non già è amico, ma nemico della società. "Dunque la vendetta, utile all'individuo, necessaria al pubblico, veste il carattere di dovere, arrestandosi nei limiti predetti" (Gioia, 1803b, 33-38). Perché la giustizia in cui Gioia crede possa avere attuazione, perché essa possa essere correttamente e, non paia gioco di parole, giustamente attuata, debbono con-correre parecchi elementi: che le leggi, elaborate da legislatori attenti ai bisogni della società cui si rivolgono, siano buone e sistematizzate, siano conosciute, siano appli-cate, mediante procedure spedite, ma al contempo rispettose dei diritti delle parti, da giudici onesti e professionalmente preparati. Melchiorre Gioia, intorno a questo tema assai complesso, attira l'attenzione sotto il profilo teorico, non solo, ma anche sotto quello pratico. Che cosa sono le leggi? Che cosa sono i diritti? Le leggi sono "prescrizioni, ordi-ni, voleri di chi presiede alla società, calcolati sugl'interessi fisici, morali, politici di essa, garantiti da un dolore minacciato alle volontà recalcitranti"; i diritti sono "van-taggi, beni, comodi, ossia piaceri o reali, o possibili, di cui la legge assicura il possesso con una pena a chi lo viola" (Gioia, 1803b, IV-V).24 Si tratta di definizioni che esprimono tecniche, o che sono espressione di tecniche repressive, sanzionatorie, che svolgono un ruolo di certo non secondario in vista della conservazione dell'ordine sociale. Ed è anche per la loro determinazione e per la loro conseguente erogazione che si rende necessario un calcolo statistico. Quanto agli atti difformi e che, in quanto contrastanti con l'interesse generale e violatori di norme, debbono essere necessariamente prevenuti ovvero repressi, Gioia individua nel "bisogno" l'elemento, il parametro utile a determinare il contenuto della norma penale. E' quanto risulta dalle Tavole statístíche: soggetti a repressione sono gli atti che offendono e ledono persone e proprietà, quelli che incidono, limitandolo, l'esercizio delle forze. In una tabella intitolata a "Giustizia punitiva: ossia persone 24 Merita riportare le definizioni - le quali già attrassero l'attenzione di Romagnosi, 1834, 169 -, che Gioia offre di obbligo, di contratto, di delitto e di virtù, che, complessivamente considerati, "non sono che addizioni, sottrazioni, moltipliche, divisioni di piaceri e dolori, e la legislazione civile e penale non è che l'aritmetica della sensibilità": "Cosa possono essere gli obblighi o i doveri, se non se ag-gravj, mali, incomodi, cioè o dolori reali, o limitazioni al potere indeterminato d'agire, il che si risolve in un dispiacere, che la legge intima minacciando un dispiacer maggiore a chi li trasgredisce? I con-tratti non saranno dunque che cambj di piccoli piaceri con piaceri più grandi, cioè portanti a ciascuno de' contraenti una somma di felicità maggiore della prima. I delitti si ridurranno in ultima analisi a dolori recati ai nostri simili senza compenso. Le virtù si risolveranno in aggravj sofferti per altrui vantaggio che trovano compenso nella stima pubblica, nell'orgoglio, o in una speranza qual ch'ella sia" (Gioia, 1803b, V-VI). 646 Gian Paolo MASSETTO: MELCHIORRE GIOIA E IL DIRITTO PENALE. PRIME NOTE, 631-704 offese, delinquenti, condannate", configurando la griglia relativa alle persone offese, Gioia distingue tra quelle offese nella vita ovvero nella proprietà. Nell'ambito delle prime, vengono distinti i soggetti uccisi, i soggetti feriti e risanati, i soggetti feriti e rimasti mutilati, vale a dire impediti nell'uso d'uno o più membri (Gioia, 1808b, 186).25 Quanto ai bisogni, Gioia li distingue dai comodi. "Imezzi che cirisparmiano il sentimento di pena nell'esecuzione de' desideri li chiamo comodi [...J. Le essenze odorose, una pittura [...J le carte per giuochi producono piacere senza che si possa dire che ottenuto ci risparmi pena, il che costituisce il comodo, non ottenuto fosse per cagionar-ci dolore, il che qualifica il bisogno [...J" (Gioia, 1808b, VIII; cfr. Sofia, 1990, 259). La proprietà è un bisogno? Nella concezione gioiana, si, in stretta connessione con la sicurezza che deve assisterne il contenuto. Un contenuto, che consente una stoccata a Beccaria: "Dimenticó quindi la sua solita profondità il dottissimo Beccaria, allorché parlando del diritto di proprietà, lo chiamó diritto terribile e forse non ne-cessario" - il riferimento a questa definizione ci fa capire che Gioia aveva sotto gli occhi la "quinta" edizione del Dei delitti e delle pene (cfr. Francioni, 1984, 327 ss.)26 - una stoccata, peraltro, portata senza conoscere, o mostrar di conoscere appieno il pensiero di Beccaria e la sua evoluzione in materia. Si tenga presente che questi, ne-gli Elementi di economia, sosteneva che la proprietà - definita del resto come "sacra" nello stesso Dei delitti e delle pene -, una volta configurata come diritto, deve essere oggetto di tutela da parte del legislatore e di rispetto da parte dei cittadini, i quali "senza espressa convenzione, ma per tacita adesione di comuni circostanze e di co-muni interessi si sono garantite le attuali loro possessioni, ed accostumati a riguar-darle come difese in favore di ciascuno da tutti contro ognuno".27 Gioia al diritto di proprietà riconnette piuttosto "idee di piacere, d'abbondanza, di sicurezza". Solamente intendendolo cosi, si spiega come esso sia riuscito a vincere la naturale ritrosia per la fatica del lavoro, a far si che la vita nomade ed errante dei po-poli si sia fatta stanziale, nonché a formare e consolidare "l'amor della patria e della posterità". In altre, e forse ancor più incisive parole, "lo scopo della proprietà si è di 25 Vi si legge anche: "Il quadro degli eventi funesti debb'essere ridotto a due rami, eventi funesti alla proprietà, eventi funesti alla persona [...]. I danni cagionati alla persona non essendo esattamente cal-colabili, giacché vi sono indefiniti gradi tra la semplice contusione e la morte, basterà specificarli in ragione de' sensi lesi, de' membri rotti, delle morti seguite [...]" (Gioia, 1808b, 170). In argomento, Sofia, 1990, 260. Sulle Tavole statistiche e sul significato assunto nel vivace dibattito della seconda metà del primo decennio dell'Ottocento circa la natura e gli scopi cui doveva tendere la statistica, v. Cova, 1979, 128-138. Cfr. anche retro, 639-641. 26 Infatti, la prima redazione e l'editio princeps recano la lezione "terribile ma forse necessario diritto" (Francioni, 1984, 160, 75 e nota 3). 27 Per i passi del Dei delitti e delle pene, Beccaria, 1984, 75-76, § XXII, Furti, Beccaria, 1984, 110, § XXXIV, Dei debitori; per il passo degli Elementi, Beccaria, 1804, 230, p. II, cap. VI, § 70. In argomento, Francioni, 1984, 75, nota 3. Sul dibattito svoltosi in materia nel periodo storico qui considera-to, v. Bonini, 1994 (74, per un cenno su Beccaria) e, nel periodo successivo, Rodotà, 1990. 647 Gian Paolo MASSETTO: MELCHIORRE GIOIA E IL DIRITTO PENALE. PRIME NOTE, 631-704 stimolare l'inerzia colla speranza de' frutti, a subire il travaglio necessario per otte-nerli". In questo senso la proprietà si colloca, come bene è stato scritto, "al discrimine tra piaceri e bisogni, è insomma un bisogno perché costituisce la norma primaria d'incoraggiamento, ciô che è alla base della convivenza civile" (Sofia, 1990, 260). Se lo scopo della proprietà è quello indicato, si spiega come debba essere reso si-curo "tutto ciô che posseggo attualmente, o che devo possedere [come] dice Bent-ham, che mi serve da guida in questa discussione" : perché il possesso viene configu-rato da chi possiede come suo per sempre, come base delle aspettative future non solo per sé, ma anche per coloro che ne dipendono, come fondamento e sostegno dell'operare. "Cosi la proprietà diventa parte del nostro essere" - non possono non venire alla mente le parole di Portalis: "Mais le principe du droit [de propriété] est en nous; il n'est point le résultat d'une convention humaine ou d'une loi positive; il est dans la constitution même de notre être, et dans nos différentes relations avec les objets qui nous environnent" (Portalis, 1988b, 112)28 - "e non puô più venirci tolto senza che ci sentiamo lacerati nel più vivo dell'animo". E cosi la proprietà viene da Gioia riproposta come bisogno (Gioia, 1815, 262, 264).29 Quanto alla filosofia della pena, in funzione di quella tutela che, si è or ora detto, deve essere perseguita dal legislatore, in Gioia l'aspetto preventivo pare prevalere su quello repressivo. Chiare sono le sue parole: essa serve a "prevenire un male futuro che puô succedere a persone indeterminate".30 E preziosi suggerimenti in tal senso provengono da un cospicuo fondo di carte gioiane inedite custodito presso la Biblioteca Nazionale Braidense (Luzzatto, 1933a; Luzzatto, 1933b; Luzzatto, 1934), da pochissimo tempo, su supporto digitale, a disposizione dell'Istituto cui afferisco: una raccolta di frammenti è posta significativamente, alla maniera di Beccaria e di Ro-magnosi - non dimentichi dell'insegnamento montesquiviano: "Dans ces États [gli 28 Si tengano presenti anche queste parole: "Le droit de propriété est donc essentiellement inhérent à l'existence de chaque individu. Il dérive de la constitution même de l'homme" (Portalis, 1988a, 346). 29 Ove anche si legge: "Se si togliesse a chi possiede per dare a chi non possiede, da una parte si produrrebbe una penalità, dall'altra un guadagno. Ora il dolore della perdita supera in intensità il piacere del guadagno, in parità di circostanze" (Gioia, 1815, 262). Intorno alla "difesa intransigente del diritto di proprietà che Gioia, in polemica con Cuoco, trova modo di propugnare più volte [...J", v. Nutini, 1983, 57. Sulle "diverse opzioni economiche-politiche" che si dipartono dalla concezione della proprietà privata nei due Autori, cfr. retro, 637-638. La ricorrente adesione di Gioia a Bentham sarà oggetto di critica da parte di Romagnosi: "Con questa inclinazione di spirito Gioia fu ammiratore e troppo spesso imitatore di Bentham, il quale senza determinare gli estremi del soggetto con una maturata proposta, senza tracciare le grandi masse con partizioni compiute, senza somministrare le chiavi maestre con definizioni precise, senza esaurire l'argomento con un progresso graduale, tratta i frammenti con molta acutezza e sagacità e presenta osservazioni prima non avvertite. Per la qual cosa si all'uno come all'al-tro, se non fu concesso di salire alla sublime sfera del genio, negar loro non si puó quella del sommo ingegno" (Romagnosi, 1834, 169). 30 Gioia, 1840, 179, mentre "[...J il soddisfacimento ha per scopo il tôrre un male attuale successo a danno di determinata persona" (Gioia, 1840, 179). 648 Gian Paolo MASSETTO: MELCHIORRE GIOIA E IL DIRITTO PENALE. PRIME NOTE, 631-704 stati moderati], un bon législateur s'attacherà moins à punir les crimes qu'à les prévenir [...]"31 -, sotto il titolo Prevenire invece dipunire (BNB, 1).32 Non privo di interesse è anche rilevare come in Gioia la prevenzione sia singolar-mente legata alla proprietà: "Converrebbe che i legislatori si persuadessero che la pro-prietà è il maggior incoraggiamento al travaglio, e che questo fa scomparire quasi tutti i vizi, giacché quasi tutti traggono origine dall'ozio e dalla scioperatezza. Se le vostre mannaie tagliano i tronchi, lasciano sussistere le radici; ora la giustizia non puô appro-vare che si condanni l'uomo al dolore, se pria non sono esauste le sorgenti che lo cor-rompono. Vi sono dei casi per cui meritano più la forca i legislatori che non prevengono i delitti, che i delinquenti che li commettono". Nel caso, l'opera di prevenzione sarebbe dovuta consistere nel garantire l'equa ripartizione dei tributi, nonché nella determina-zione di "un certo limite alla proprietà territoriale e compartire a tante famiglie povere, che inondano la società, quella parte che loro tocca di diritto naturale e che è stata loro rapita da una specie di ladri che si chiamano nobili" (Gioia, 1964, 43 e nota 1). Ora mi allontano un poco dal tempo fin qui considerato33 per completare l'esame del pensiero del Piacentino, condotto in dimensione teorica, rivolgendo l'attenzione ad una delle sue opere più famose, Del merito e delle ricompense edito nel 1817, ove la pena è posta in rapporto con il premio, per l'appunto con la ricompensa. Ricordo preliminarmente ed in modo assai breve il pensiero di Cesare Beccaria. Se la legge deve adempiere una funzione pedagogica - deve guidare piuttosto che 31 Per Montesquieu, 1989, 318, livre VI, chapitre IX; per Beccaria ("E' meglio prevenire i delitti che pu-nirgli. Questo è il fine principale d'ogni buona legislazione, che è l'arte di condurre gli uomini al massimo di felicità o al minimo d'infelicità possibile [...J"), Beccaria, 1984, 121, § XLI Come siprevenga-no i delitti; per Romagnosi, 1857, 576-643, parte quinta Del prevenire le cagioni del delitto, ma v. anche Romagnosi, 1857, 232-234, §§ 421-427, parte terza, libro I, capo III ("E' stato detto e ripetuto, che è meglio prevenire i delitti, che punirli [cfr. Beccaria, appena citato}. Cosi esposta, questa non è che una massima di politica provvidenza. Ma io dico di più che sarebbe crudeltà ed ingiustizia punirli, quando si possono prevenire. Cosi quello che fu dettato come util soltanto, si vede qui essere regola di rigoroso jus", Romagnosi, 1857, 233, § 422,); Romagnosi, 1857, 903-905, capo V, §§ 449-450. Tra gli Autori, ai quali si è fatto e si farà qui riferimento, particolare attenzione alle misure utili per prevenire i delitti è prestata da Carlo Bellani, nelle sue Osservazioni del 1806. In merito, Danusso, 1996, 881, 886, 888, 903-905. Sul Bellani v. anche Dezza, 1983, 181, nonché infra, note 69, 78, 88, 90. 32 Cfr. Sofia, 1990, 260 e nota 43, la quale ricorda anche come in Melchiorre Gioia "giustizia penale e polizia rappresentano due facce della stessa medaglia" (Sofia, 1990, 260 e nota 43). Da parte di chi, credo per primo, ha posto gli occhi su questi ed altri frammenti, è stata posta in rilievo la loro impor-tanza. Si tratta di un complesso cospicuo di testimonianze della dottrina, che poi non vennero com-piutamente rielaborate, ma "costituenti una abbastanza chiara documentazione della sua mente e del suo metodo per una miniera di osservazioni, sparse qua e là, in armonia o in contrasto con gli elementi messi insieme: onde si puô attingere molte volte la notizia precisa del suo pensiero e del suo giudizio, e raccogliere nel tempo stesso considerazioni che anche oggi [...J possono valere [...J a richiamare l'attenzione su problemi trascurati o malamente risoluti, contribuendo a illuminare le menti, a correg-gere errori, forse a sanar piaghe, a tergere lagrime, ad alleviare dolori ingiusti e sofferenze immeritate, a rimediare iniquità non rilevate" (Luzzatto, 1933b, 165. Cfr. anche Luzzatto, 1933a; Luzzatto, 1934). 33 Con l'eccezione di Gioia, 1826. Cfr. retro 640 e nota 16. 649 Glan Paolo MASSETTO: MELCHIORRE GIOIA E IL DIRITTO PENALE. PRIME NOTE, 631-704 prescrivere, correggere piuttosto che impedire, deve innanzitutto e soprattutto educare e spargere lumi per cui la funzione della pena diventa anche preventiva. "Finalmente il più sicuro ma più difficil mezzo di prevenire i delitti si è di perfezionare l'educazione [...]", ovvero, più in generale, "Volete prevenire i delitti? Fate che i lumi accompagnino la liberté"34 - ne consegue che "Un altro mezzo di prevenire i delitti è quello di ricompensare la virtù" (Beccaria, 1984, 126, § XLV Ricompense); "dove il premio puó ottenere il fine voluto dalle leggi, ivi la pena sarebbe dannosa [...]" (Becca-ria, 1804, 282). Perché nell'individuo prevalga la sensibilité per il pubblico interesse rispetto a quello privato, risulta infatti preferibile e vantaggioso che la legge faccia ricorso allo stimolo positivo della speranza del premio piuttosto che allo stimolo negativo del timore della pena. Occorre peró sottolineare che il premio, configurato da Beccaria come ricompensa, non deve risolversi in privilegi esclusivi, il che vale a dire che i privilegi sono realmente utili "quando siano concessi non alle persone diretta-mente, ma alle azioni conformi al pubblico bene, in modo che a chiunque sia aperto l'adito del godimento del privilegio, perché sia in suo potere di fare quell'azione, a cui quello va annesso" (Beccaria, 1804, 212. In argomento, Pisani, 1998, 41-60). Gioia, dal canto suo, ripone grande fiducia nella ricompensa, assai più che non nel-la pena: "Si possono certo reprimere i delitti colle pene, ma più saré forte la ricompensa destinata alla virtù, più scemeré la necessité di reprimere colle pene i delitti". Due sono le ragioni che egli pone a fondamento di questa fiducia nella ricompensa in funzione preventiva: "1. Perché per punire l'omissione d'un servizio fa d'uopo essere sicuri che l'individuo aveva il potere di renderlo, e ragioni legittime non s'univano a dispensarlo; è quindi necessario un processo talvolta difficile, sempre costoso, e per lo più molesto a molti; 2. Se operiamo solo per timore della pena, noi eseguiamo quegli atti solamente che bastano per evitarla ad imitazione degli schiavi. All'opposto gli sforzi eccitati dalla speranza della ricompensa, come negl'operaj liberi, sono molto maggiori, soprattutto allorché è libero il campo ai concorrenti" (Gioia, 1819, 175-176). Quanto ai requisiti che rendono efficace la ricompensa, "è ottima quella combina-zione di cose per cui, crescendo il servigio, cresce il vantaggio di chi lo rende, e decrescendo quello, soggiace questo a proporzionato decremento". Il che risulta essere applicazione di un'idea-forza di Gioia. "l'associazione tra l'interesse e il dovere", che, in particolare, si trova "esaminando lo scopo o il prodotto che si propone, e facendo la ricompensa uguale ad una parte del prodotto o del valore [...]". Tra i molti esempi proposti da Gioia, ne riporto uno solo, in quanto attiene ad un tema che, per quanto di scorcio, è stato per l'addietro toccato. "Qual è lo scopo principale della polizia?" - si ricordi che polizia e prevenzione sono nel suo pensiero, per 34 Beccaria, 1984, rispettivamente 126, 122, § XLV Educazione, § XLII Delle scienze. Significativa é anche questa frase: "[...] non si puó chiamare precisamente giusta (il che vuol dire necessaria) una pena di un delitto, finché la legge non ha adoperato il miglior mezzo possibile nelle date circostanze d'una nazione per prevenirlo" (Beccaria, 1984, 103, XXXI Delitti diprova difficile). 650 Glan Paolo MASSETTO: MELCHIORRE GIOIA E IL DIRITTO PENALE. PRIME NOTE, 631-704 cosi dire, due facce della stessa medaglia35 - "Prevenire i delitti: dunque gli ufficiali della polizia devono essere ricompensati in ragione inversa dei delitti successi: con questo modo di pagamento riceve premio la loro attività nel prevenirli, soggiace a perdita la loro negligenza nel lasclarll nascere e svllupparsl" (Glola, 1819, 285-286). Anche Beccarla aveva appuntato la sua attenzlone sulle funzlonl della pollzla. Con edltto 24 dlcembre 1786 era stato lstltulto ln Mllano l'Ufflclo Generale dl Pollzla36 ed il Milanese, in una consulta del 1790 (Romagnoli, 1971b, 697-704. Cfr. Beccaria, 2005, 3806, 478-481) rilevava con soddisfazione come oggl, assal più che non per l'addletro, il nuovo regolamento provvedesse "al bene pubbllco più da vicino" (Romagnoli, 1971b, 697), mediante un apparato ed una serle dl strumenti che, certamente suscettibili di miglioramento, avevano permesso dl "precludere l'adlto al male, come più volte si ottenne con ottimo successo" (Romagnoli, 1971b, 700). Dl conseguenza poteva ritenersi sostanzlalmente attuato il fine della Polizia "sotto il qual nome si com-prendono tutte le regole che contrlbulscono al buon ordlne ed alla facllltà dl tuttl gll affari economicl di uno stato: nettezza, slcurezza e buon mercato sono i preclpul og-getti dl ogni polizia civile: nettezza per riguardo alla sanità [...], slcurezza nel prevenire l dellttl, nell'estlrpare l'ozlo, nel frenare tutto cló che dlsturba la tranqulllltà pubbllca, onde s'arenano i commercl e languisce l'lndustrla che dalla buona fede e dall'lmpedlre le frodl si anima e si mantiene; la custodia delle pubbllche strade, la vigilanza a' confi-ni, l'llluminazlone delle clttà, l'educazlone pubbllca sono i soggetti che si esaminano dal professore". Cosi scriveva Beccaria, circa vent'anni prima, nel Piano delle lezioni dipubblica economia, nel quale era previsto che una parte del corso, la sesta, fosse per l'appunto dedlcato al tema della "Polizia interna" (Beccaria, 1971b, 355-356). Ho dianzi detto che Glola non ripone fiducia nella pena, in favore della ricompen-sa. Egli ribadisce questa sua idea nel porre la pena in rapporto alla riparazione del 35 Si tenga anche presente quanto Gioia scrive nella Filosofia della statistica: "Le istituzioni volgar-mente note con cui la polizia reprime o previene i delitti e che servono a misurare i gradi della sua attività e perspicacia, hanno tre scopi: 1. Diminuire il potere di delinquere; 2. Diminuire la tentazione a delinquere; 3. Agevolare la scoperta de' delinquenti. Questi tre scopi si ottengono con limitazioni relative alle cose e alle persone, ai luoghi e ai tempi più favorevoli ai delitti" (Gioia, 1826, 448). 36 Alla Police Giuseppina, "i cui poteri di strumento locale dell'autorità sovrana si presentavano davvero ampi, era attribuita tutta una serie di competenze discrezionali nelle quali si ravvisava un illiberale strapotere del governo in campo giudiziario e il pericolo di indiscriminate vessazioni a danno dei pri-vati" (Cavanna, 1975, 47). Si ricordi che la competenza del nuovo Ufflcio si riconnetteva con la ripar-tizione che la Giuseppina introduceva tra delitti criminali e delitti politici (su cui, da ultimo, Rondini, 2006, 61-74 e 179-182. La ripartizione fu abolita da Leopoldo II con dispaccio 20 gennaio 1791. V. anche infra, nota 55) e che nello stesso anno 1786 era stata promulgata la Norma interínale delpro-cesso criminale per la Lombardia austriaca (infra, 653 e note 41, 60). Erano venute pertanto a de-terminarsi incertezze e confusioni nella orditura dei processi, nonché in ordine alle competenze ed alle funzioni della magistratura ordinaria e della polizia, alle quali cercarono di porre rimedio, il 30 aprile 1787, le Instruzioni per li Magistrati Politici sul modo dell'inquisizione, la condanna, ed esecuzione contro i rei di delittopolitico (ASM, 1). In argomento, Cavanna, 1975, 46-49; Garlati, 2006, 93-96. 651 Gian Paolo MASSETTO: MELCHIORRE GIOIA E IL DIRITTO PENALE. PRIME NOTE, 631-704 danno, configurata come "soddisfacimento". È convinto che la sicurezza pubblica sia garantita dalla "certezza della pena" e dalla "riparazione del danno", in quanto la prima impedisce che i delinquenti operino in danno della società, mentre la seconda comporta che l'offeso non abbia a sopportare ingiustamente una perdita, mitigando "il dolore del male" sofferto. Ed è altresi convinto, già si è detto, che se la pena svol-ge una funzione preventiva relativa a mali futuri, che possono colpire persone inde-terminate,37 il soddisfacimento adempie quella di togliere "un male attuale successo a danno di determinata persona". Ma, su questo occorre riflettere, "[...] il pubblico è più sensibile ai mali individuali e presenti, che ai mali comuni e futuri". La mancanza del soddisfacimento innescherebbe la catena delle vendette, moltiplicando i delitti, lascerebbe permanere l'allarme determinato dal delitto, che la pena da sola risulta incapace di distruggere. Questo allarme, questo timore, consistenti in "un'eventualità di mali per sé stesso", è dissolto solo nel caso in cui il delitto sia seguito in modo costante e dal soddisfacimento e dalla pena. "Se egli fosse seguito dalla pena senza soddisfacimento, quanti fossero i colpevoli puniti, altrettante sarebbero le prove che la pena è inefficace, quindi corrispondente allarme ingombrerebbe l'animo del pubblico" (Gioia, 1840, 178-179). Puó dirsi che, in tal modo, si profili in Gioia una concezione privatistica del di-ritto penale, già superata ai suoi tempi? Forse si. E' stata anche avanzata l'idea che nella configurazione gioiana di tale diritto sia possibile cogliere aspetti di una conce-zione proporzionalistica, con un impiego della statistica a questo fine. In tal modo si delineerebbe anche una concezione umanitaristica, non già nel senso di illuministica mitezza ed umanità della pena, ma perché pur sempre volta a tutelare l'uomo piutto-sto che il cittadino, i suoi affetti, i suoi interessi, i suoi bisogni, la cui somma, su que-sto Gioia è saldo, quanto mai saldo, secondo un principio, già l'ho detto, costante-mente ripetuto, è identica all'interesse pubblico (Sofia, 1990, 261-262). Abbandono ora il Gioia teorico, per abbracciare di nuovo, quello, per cosi dire, pratico. Il sistema normativo vigente nei Dipartimenti considerati, nell'ambito dei diversi ordinamenti succedutisi nel tempo,38 era, a dir poco, difettoso, precario, in una parola assai carente. 37 Cfr. retro, nota 30 e testo corrispondente. 38 L'assetto territoriale, che ha nel dipartimento la circoscrizione di maggiori dimensioni, fu realizzato nella Repubblica Cisalpina con legge 13 brumaio anno VI (3 novembre 1797. Il testo si legge in Assemblee Cisalpine (Montalcini, Alberti, 1917a e 1968, 61-62, XXIII Divisione della Cisalpina in XX dipartimenti). Il termine dipartimento fu conservato sia nella Repubblica Italiana (Costituzione della Repubblica Italiana, adottata per acclamazione nei Comizi Nazionali di Lione, 26 gennaio 1802, ti-tolo I, art. 3, in Bollettino, 1802, 1), che nel Regno d'Italia (Decreto sull'Amministrazionepubblica, e sul Comparto territoriale del Regno, 8 giugno 1805, titolo II, art. 5, in Bollettino, 1805a, 140-152, sul punto, 142). In argomento, oltre a Roberti, 1947, 206-247; Dezza, 1992a, 128-130; Danusso, 1996, 777, nota 52. 652 Glan Paolo MASSETTO: MELCHIORRE GIOIA E IL DIRITTO PENALE. PRIME NOTE, 631-704 Le leggl, che debbono essere conosclute, perché "difficilmente vengono osservate se non si conoscono" (Gioia, 1804, 196), che debbono essere chiare, perché, se oscu-re e incerte, sono "di scudo e di risorsa al giudice venale" (Glola, 1804, 183), erano "assai poche". Il che, lo dlceva dl glà Beccaria,39 era senza dubblo alcuno un bene, se esse, soggiunge Glola, "bastassero all'uopo". Invero, le Nuove Costituzioni erano cadute in disuso40 e "quindi spesso la con-suetudine tiene luogo di legge, ed il buon senso stabilisce le pene e la proporzione ai delltti in mancanza di posltlvl regolamentl. Le leggl romane formano ancora lo spi-rlto della nostra legislazione punitiva" - scrive Glola - "e la Norma crlminale dell'ex Lombardia, la migliore che si conosce in Italia, tranne il codice della Toscana, serve di regola al giudici nella costruzione de' processl, norma che ha subito utlll riforme dalla saggezza suggerite e dal tempo". Proprio sulla Norma interinale del processo criminale per la Lombardia austriaca - che dl "interinale" ebbe solo il nome, in quanto la sua vigenza, per quanto incisa dalla legge 25 febbraio 1804 limitatamente al sistema probatorio (Dezza, 1803, 139-141), dal 1786 si protrasse sino al 1807, quando fu promulgato il romagnoslano Codice di procedura penale del Regno Italico -, è condotta la breve, ma significativa, esposizione che Gioia ci offre del processo penale (Glola, 1804, 181-182).41 Da questo farraginoso, non sistematizzato e, soprattutto, manchevole complesso normativo deriva essenzialmente "una pietà mallntesa verso de' rei", dannosissima al pubbllco. Ed è su questa pietà mallntesa che si fonda "la filosofia sublime di Beccaria e degli altri filosofi" - glà ho detto che Glola talora ne prende le distanze, e questa è un'altra occaslone -, la quale "facendo guerra alla fredda barbarle degli antichi crimi-nalisti, passó all'eccesso opposto e indeboli i sentimenti dell'odio e della vendetta, sentimenti lodevolissimi allorché agiscono in senso pubblico. Quindi la moltitudine delle prove che questi filosofi richiesero per condannare, apri una via per cul i rel scappano dalle mani della giustizia". 39 Intorno alla natura ed alla funzione della legge in Cesare Beccaria, Massetto, 1994b, 507-516. 40 Pietro Verri, scrivendo nel 1763, poneva in rilievo come le Nuove Costituzioni insieme con lo straor-dinario complesso di gride, che le si erano unite, avessero determinato conseguenze negative non solo sul buon andamento del commercio, ma anche in ordine alla salvaguardia delle libertà individuali, in-taccate in profondità dal proliferare delle fattispecie criminose. Infatti, "siamo ridotti a tale stato, che pochissimi sono gli abitatori di questa Provincia i quali non sieno rei, e non portino seco il corpo di delitto per esser messi pubblicamente alla tortura tanto abuso si è fatto per l'addietro della facoltà legislatrice fra di noi" (Verri in: Vianello, 1939, 103). 41 In un rapporto datato 5 marzo 1803 del Gran Giudice e Ministro della Giustizia, Giovanni Bonaventura Spannocchi, si legge, con riferimento all'attività di elaborazione di un nuovo testo processuale penale, che esso era stato condotto "dietro le basi della norma interinale criminale attualmente vegliante nell'ex Lombardia [...]" (cito da Dezza, 1983, 128). Su questo corpo normativo Dezza, 1983, 1-87, 118-139; Provin, 1990; Cavanna, 1975, 39-40; Cavanna, 2005, 363-364, nonché, da ultimo, Garlati, 2006, 27, nota 52. 653 Gian Paolo MASSETTO: MELCHIORRE GIOIA E IL DIRITTO PENALE. PRIME NOTE, 631-704 Siffatta impostazione conduce Gioia ad un esito scontato: "Non deve far meravi-glia, se le tabelle criminali indicano aumento piuttosto che diminuzione di delitti. Altronde le vicende politiche, le circostanze della guerra, la contraddizione delle leg-gi, l'arenamento del commercio negli anni scorsi o prestarono ai delitti un'audacia, vorrei dire momentanea, o crearono dei nuovi delinquenti" (Gioia, 1803a, 182-183). Prima di dire come siffatte circostanze abbiano anche per altri versi inciso sulla criminalité del tempo, pare non privo di interesse cercare di cogliere i motivi che fanno apparire a Gioia come "malintesa" la pietà che i philosophes nutrono nei confronti dei rei, come, in altre parole, egli esponga e giustifichi i suoi antiilluministici rilievi. I filo-sofi, in verità, si sono industriati ad approntare a vantaggio dei rei un bagaglio di stru-menti tecnici assolutamente non necessario: indebolimento della teoria delle prove, il che lo conduce a disapprovare la critica forte che già da tempo era avanzata contro il sistema di prova legale in favore del sistema probatorio incentrato sul libero convinci-mento del giudice; eliminazione delle pene più efficaci e tra queste, Gioia non lo dice esplicitamente, ma il suo plauso alla legge del 25 febbraio 1804 lo lascia piuttosto chiaramente intuire, v'è la pena di morte.42 Gioia critica inoltre l'atteggiamento degli esponenti dei Lumi secondo il quale era preferibile lasciare impuniti cento colpevoli piuttosto che condannare un solo innocente. In ció egli si allinea con Gabriele Verri, che, trent'anni prima, nel 1776, si opponeva ai "mitissimi humanitatis patroni", che facevano loro il detto latino "[...] satius esse nocentem dimittere, quam innocentem condemnare" (Verri in: Di Noto, 1977, 126-137; per il passo trascritto, 131).43 Come ragiona il Piacentino? Il fatto che un reo sfugga alla giustizia provoca un male reale, nonché un allarme sociale, "che formano un male maggiore della pena che soffre un innocente". E, in ogni caso, pur con tutte le cautele e le precauzioni immagi-nabili, non è possibile in modo assoluto escludere che un soggetto innocente venga condannato. Non basta: a ben vedere, un giudizio di condanna puó rivelarsi, al pari di quello d'assoluzione, un atto definibile di umanità. Il primo, in effetti, "rassicura tutti i cittadini innocenti contro il male del delitto; il secondo rassicura contro il male della pena i cittadini che potrebbero essere accusati a torto". Nel seguire la pietà malintesa si 42 Si leggano, comunque, queste parole: "Allorché la giustizia manda a morte un cittadino, commette bensi un atto doloroso, ma siccome questi si risolve in soddisfazione per le persone offese, ed assicura a tutti i cittadini il possesso de' piaceri disturbato dai delinquenti, quindi la morte, o qualunque altra pena trova un corrispondente compenso. Fate il paragone dei dolori e dei compensi, e troverete i limiti dell'autorità pubblica, paterna, conjugale, della difesa personale, dei dritti, degli obblighi, dei delitti, delle virtù ..." (Gioia, 1803b, V, nota 1). E nel 1798 Gioia auspicava l'inflizione della pena di morte contro le autorità corrotte, contro "le dilapidazioni de' beni nazionali", rimarcando: "Se avete sancita una legge di sangue contro gli allarmisti, che screditano la repubblica con semplici parole; perché non ne avete sancita una egualmente rigorosa, ma meglio calcolata contro i dilapidatori de' beni nazionali, che la screditano e la rovinano co' fatti? Se la prima puó essere fatale al patriotismo si coraggioso che pusillanime, la seconda non avrebbe colpito che il delitto" (Gioia, 1798b, 22-24). Sulla legge 25 feb-braio 1804, v. infra, 670-671 e nota 69. 43 Circa il passo di Ulpiano, cui Verri si riferisce, v. D. 48.19.5. pr. 654 Gian Paolo MASSETTO: MELCHIORRE GIOIA E IL DIRITTO PENALE. PRIME NOTE, 631-704 evita di spargere lacrime sul sangue che il carnefice versa di un innocente, ma si corre il rischio altamente probabile di spargerne su quello "de' cittadini uccisi dai scellerati che sfuggirono alla pena attesa la vostra umanità fanciullesca e veramente femminile". Ove poi sussista il dubbio circa l'innocenza o la reità dell'accusato, Gioia sostiene, ancora una volta contro i philosophes propensi alla sua liberazione, come preferibile il conservarlo in cattività. Certo, si corre il rischio di privare per qualche tempo della libertà un innocente, ma, in caso contrario, si corre quello di cadere in "un pericolo maggiore, qual' è quello di sciorre un uomo che puó essere uno scellerato". L'ultima critica si rivolge nei confronti di quei pensatori, che non si preoccupano di approntare adeguati mezzi di sussistenza perché il ladro, scontata la pena, non sia costretto a reiterare il delitto, ma che s'industriano piuttosto a rendere più lieve l'at-tuale stato del carcerato, con il risultato "che alcuni rei detenuti si trovano in una po-sizione migliore di quella", che vivono individui della stessa condizione, peró liberi ed innocenti. E questa malintesa pietà - in verità Gioia in questa occasione usa la locuzione "stolta compassione", mentre, pare non inutile ricordarlo, "mala intesa compassione" è quella usata da Cesare Beccaria nell'argomentare la proposta dell'abolizione della pena di morte"44 - "non è ella forse una spinta al delitto?". In conclusione, la massi-ma sulla quale Gioia si attesta è la seguente: "Riteniamo qual canone di giustizia, che ogni soccorso prestato all'accusato ed inutile all'innocente, favorendo l'impunità de' rei, debb 'essere ricusato" (Gioia, 1803b, 242-245, nota 1).45 Ritorno ora alle circostanze che, secondo Gioia, "o prestarono ai delitti un'audacia, vorrei dire momentanea, o crearono dei nuovi delinquenti" (cfr. retro, 652-654). Eb-bene, tali circostanze non avevano per nulla influito su di un reato, lo si puó ben dire, costante nel tempo, addirittura endemico, il furto nei boschi. Il preservare i boschi dai ladri - che, osservava Gioia, hanno "mani più lunghe che le leggi male organizzate" -aveva costituito da sempre una gravissima difficoltà per gli amministratori comunali, i quali, o per scarse cognizioni, o per rispetto umano, o per poca durata della carica, o per impossibilità d'infliggere la pena, sostanzialmente non eseguivano le leggi e "per non trarsi addosso delle odiosità ne trasmettono ai loro successori il dovere". 44 "Non è dunque una mala intesa compassione per i scellerati quella che ci move a sopprimere la pena di morte", con l'eccezione "per l'unico caso del reo, che, quantunque custodito, potesse tuttavia influire nel sovvertimento dello Stato, ciocché per altro dovrebbe riservarsi alla sola sua sovrana decisione sopra consulta del supremo magistrato". I motivi che inducevano la proposta di abolizione di tale pena erano piuttosto, è ben noto, i seguenti: "Primo, perché non è giusta, non essendo necessaria; secondo, perché meno efficace della pena perpetua corredata da una sufficiente e ripetuta pubblicità; terzo perché irreparabile" (Beccaria, 1862, 373, 371; Beccaria, 1971e, 740, 737). In argomento, da ultimo, Cavanna, 2005, 214-215 e 368-371. 45 La nota termina nel modo seguente: "Scrivo quest'opera in un tempo, in cui si commettono a Milano, e nel suo circondario degli orribili delitti; questa circostanza scuserà, cred'io, la lunghezza di questa nota, e della seguente". 655 Gian Paolo MASSETTO: MELCHIORRE GIOIA E IL DIRITTO PENALE. PRIME NOTE, 631-704 Non erano applicate, perché questa era la sorte delle leggi troppo rigorose - sem-bra davvero di leggere Beccaria46 -, vincolanti, insomma, non bene appensate. Ma gravi erano anche gli inconvenienti, che sul piano penale, erano connessi alle leggi inutili. "Allorché si intima un ordine [superfluo], se non si vuol fare la figura di pori-cinella" - termine piuttosto 'caro' a Gioia (v. retro, 637 e nota 9) - "conviene avere delle persone per farlo eseguire. Voi mettete dunque in moto una folla di disperati e d'assassini che corrono per tutte le botteghe, esaminano i pesi e i commestibili, e per eseguir meglio il lor dovere fanno de' continui assaggi; qui trovano delle frodi e le coprono per una libbra di butirro, là non le trovano e le inventano, quindi costringono i venditori a chiuder loro la bocca con un salame; ora spalleggiano la mala fede d'al-cuni, perché sono loro compari, ora tormentano un onest'uomo, perché dodici anni fa era loro nemico [...]. In una parola si ripete quella somma d'angherie", alle quali in-vano cercarono di porre riparo le gride che in materia d'annona si succedettero serrate in ancien régime (Gioia, 1850c, 386). In materia di boschi, Gioia ricorda un decreto del 1784,47 il cui unico effetto concreto risultó essere l'esborso delle spese sostenute per farlo eseguire, un decreto al quale, si badi, lo stesso Beccaria aveva posto mano nella sua intensa attività di funzionario al servizio del governo asburgico. Ed è un'attività che ci rappresenta un uomo non già "indolente e disamorato" come le fonti coeve sono solite configurarlo, quanto piuttosto attivo, alacre, "un economista riformatore che quotidianamente ri-flette e agisce al servizio di uno Stato (che era pur la sua patria) e del progresso civile" (Firpo, 1987, 42, ma v. anche Massetto, 1994b, 497-499). 46 Una "modula di editto" relativa alla disciplina dei boschi era apparsa a Beccaria criticabile, in quanto conteneva "molte e minute prescrizioni", non solo, ma anche perché "Le tante contravvenzioni a cui si assoggettano gli abitanti della campagna ed alle quali non solamente la malizia, ma l'inavvertenza e la negligenza darebbero per lo più luogo, e la non indifferente quantità di liti e processi che suscitereb-bonsi in vista de' multiplici ordini dalla suprema augusta volontà emanati, il pericolo che l'editto pro-posto, invece di essere un sistema osservabile, diventasse un pretesto di vessazione e di lucro a tanti campari che si vorrebbero alla custodia degli ordini commessi, tutte queste cose fanno nascere in me il timore che l'editto o sarebbe osservato, ed infiniti riclami suscitarebbe [...J; o non sarebbe osservato, come è più probabile ad accadere, e questa legge correrebbe la sorte di tante altre che per essere state troppo minute e vincolanti sono andate in disuso ed in obblivione, con grave discapito della pubblica autorità e coll'avere solamente dato luogo a molte querele inutili" (Beccaria, 1987, 380, Regolamento dei boschi (relazione [1775?J, 656-670, sul punto, 657. Per la "modula di editto", vale a dire per la Minuta d'editto per la conservazione e l'accrescimento dei boschi delle comunité, Beccaria, 1987, 660-670. Significative, in materia di boschi, sono anche le pagine di Beccaria, 1804, 224-235. 47 Composto di 29 articoli, lo si legge in minuta, in Beccaria, 1993, 885, Regolamento per i boschi co-munali (minuta di editto, 17 marzo 1784), 21-27. L'art. 5 recita: "Eccettuati gli accennati usi, sarà proibito il taglio della legna in questi boschi, cosi che nissuno potrà tagliarvene per venderla, né per servirsene ad arti di commercio. Chiunque ardirà tagliarvi legna contro gli ordini prescritti sarà con-dannato, oltre alla perdita della legna tagliata, a pagare uno scudo per ogni fascio o carica che vi avrà tagliata, e questa legna rimarrà a profitto della comunità proprietaria del fondo in cui si sarà commessa la contravvenzione" (Beccaria, 1993, 22). La sanzione pecuniaria è quella ricordata da Gioia. 656 Glan Paolo MASSETTO: MELCHIORRE GIOIA E IL DIRITTO PENALE. PRIME NOTE, 631-704 Era un effetto obbligato e prevedibile anche perché la pena comminata (oltre alla penalità consistente nella confisca della legna sottratta, uno scudo per ogni fascio), era rivolta contro persone che non avevano di che pagarle. I cancellieri e gli agenti, pertanto, per compassione, per risparmiare le spese, ovvero per non farsi dei nemici, lasciavano "in riposo la legge". E, d'altra parte, i "denunciatori privati, sicuri di non ricevere parte della multa, vedendo l'indifferenza delle autorità, s'astengono dalle denuncie per non gettarsi in qualche imbarazzo". Sorte non migliore ebbe un successivo decreto del 1786. Il perché è presto spie-gato. Migliore sotto il profilo della normativa sostanziale, prevedeva identica risposta sanzionatoria. Gioia sembra qui dimenticare che non solo al denunciatore privato, "il quale volendo dovà essere tenuto segreto [...]", come disponeva l'art. 18 del decreto 9 maggio 1786 (Beccaria, 1993, 885, 25), ma anche ai "Regi cancellieri delle comuni-tà", al fine di "animar[li] ad invigilare sull'osservanza degli ordini in tal proposito", era attribuita "una metà della multa che l'editto accorda alle comunità posseditrici [...]" (Beccaria, 1993, 1236, 554). La soluzione proposta da Gioia si fonda su quella molla che consiste nell'interesse, predicata a tavolino, come già si è detto (cfr. retro, 642-643). Sarebbe stato bene parcellizzare i boschi comunali, farne cioè tante piccole porzioni quante erano le famiglie e assegnarle in sorte, fatta salva l'opportunità di eventuali gradite permute: in tal modo si attiva l'interesse particolare con maggiore pubblica soddisfazione e "ciascun comunista possedendo una proprietà, presenterebbe maggior superficie alla legge che volesse afferrarlo a difesa dell'altrui proprietà violata; allora la legge potrebbe appoggiarsi sulle pene pecuniarie, mentre adesso lo fa inutilmente. [...] divisi i boschi, i pascoli, le brughiere comunali per famiglie ed a sorte, le pene pecuniarie sono eseguibili, perché il ladro presenta una proprietà, da cui la legge puô trarre compenso ai danni cagionati [...]". Non solo, le autorità e tutti i cittadini sono interessati all'amministrazione della legge, perché secondo l'idea proposta i danni cadono immediatamente sulla cassa comu-nale, salvo regresso nei confronti del reo. Gioia aveva infatti avanzato l'idea che si sa-rebbero risparmiate le spese relative all'istituzione delle guardie campestri - vale a dire i campari, posto ricercato, del resto, solo da coloro che tendevano a ricavare un pro-fitto48 -, qualora la somma dei danni fosse stata rimborsata, salvo, per l'appunto, il regresso, dalla cassa comunale. 4S Il loro compito consisteva nel "girare per essi ["boschi e fondi comunali"J e denunciare ai Deputati dell' estlmo le trasgresslonl degll ordlnl prescrlttl. Questl Camparl potranno come leglttlml accusatorl partecipare del denaro ritratto dalle pene pecuniarie, come sopra fu ordinato" (Beccaria, 1993, SS5, art. 19, 25). Le Nuove Costituzioni milanesi dettano norme intorno ai campari dell'Olona (Constitutio-nes, 1541, 109v-110r, liber quartus, cap. De officio iudicis, et Commissarii fluminis Olonae, et perti-nentibus ad ipsum officium, § Eligantur). 657 Gian Paolo MASSETTO: MELCHIORRE GIOIA E IL DIRITTO PENALE. PRIME NOTE, 631-704 Altri vantaggi ancora avrebbe comportato l'attuazione della proposta: nel caso di delinquente effettivamente insolvibile, "la somma de' danni divisa sopra tanti riesce insensibile per ciascheduno; ciascuno è spinto dalla tema d'una perdita a sorvegliare i delinquenti e denunciarli". Si trattava di un sistema preferibile a quello che assicura-va parte della penale ai denuncianti anche perché: 1. l'uomo è più sensibile alla per-dita che non all'acquisto; 2. perché la sanzione pecuniaria "compartita al denunciatore sparge su di lui tinta d'odiosità". Il che non avviene, se uno deve soffrire parte del danno, in quanto nessuno lo biasima se denuncia chi lo arreca. Gioia conclude i suoi puntuali rilievi in proposito, indicando quale pena debba es-sere comminata al ladro che fosse realmente insolvibile: deve essere "astretto ad una piantagione nel bosco stesso o in altro, piantagione, che superasse d'un terzo il danno prodotto". Questo terzo in più gli appariva proporzionalmente corretto e fondato, in quanto giustificato, imposto sia "dalla facilità del rubamento, che dalla difficoltà delle prove in questa sorte di delitti" (Gioia, 1804, 82-86, 98-99).49 Notazioni dello stesso tenore Gioia svolge intorno ai danni che setifici e lanifici risentivano dai piccoli, ma reiterati furti commessi da quegli operai che, inerti, prefe-rivano l'elemosina e l'osteria al lavoro. Ritorna il motivo della non proporzionalità di pene eccessivamente severe e, pertanto, non applicabili, o, se applicate, sostanzial-mente inesigibili; ritorna il motivo che era sovente preferibile affidarsi all'interesse dei fabbricanti sempre più avveduto della legge e dei delegati; ritorna il motivo della pietà che, eccitata dalle forti e sproporzionate penali, riteneva le accuse. Nuovo è invece il motivo, garantistico e legalistico, per il quale, nel caso in cui il furto in fab-brica, per la sua modesta entità, fosse stato equiparato al furto domestico, la legge avrebbe dovuto determinare il maximum della pena "per dirigere e frenare il giudizio de' giudici" (Gioia, 1804, 141-143). Altro ancora Gioia scrive intorno alla pena, innanzitutto in stretta connessione con la legge. Nello scritto Cos' è patriotismo? (1798), Gioia illustra anche le passioni che ne pervertono l'essenza. Insieme con l'"immoralità", la "presunzione", la "simulazio-ne" ed altre ancora, ricorre la "ferocità", che, memore dell'oppressione, si tramuta in desiderio di opprimere, in odio che fa dimenticare la giustizia nel decidere le liti. I provvedimenti normativi feroci, invece di raffrenare le passioni, rendono gli uomini violenti ed estremi. "Si sostituiscono allora ai sentimenti di benevolenza e d'affezione, quelli d'odio, d'antipatia, e di vendetta. Allora l'impetuosità umana trova soltanto freno nel principio della conservazione di se stesso [...J". Ma si tratta di un principio, secondo Gioia, che permette sovente alla "temerità d'abbandonarsi ai più grandi azzardi, senza consultare i gradi e le regole della probabilité morale". E ricor-da come applicabile al legislatore il detto di Tacito: "[...J et gravior remediis quam 49 In generale, sulla situazione dei boschi, sottoposti anche all'"assalto irrazionale degli affaristi e degli speculatori", v. Zaghi, 1986, 583-585, nonché, in precedenza, Roberti, 1947, 77-79. Sul reato di furto, in generale, sotto la vigenza della legge 25 febbraio 1804, v. Danusso, 1996, 883-888. 658 Glan Paolo MASSETTO: MELCHIORRE GIOIA E IL DIRITTO PENALE. PRIME NOTE, 631-704 delicta erant".50 Allora, la politica criminale perseguita in Francia e abbracciata anche nella Cisalpina per consolidare il corpo sociale si colloca sul versante esattamente op-posto. Quanto detto a proposito della legge, risulta applicabile anche alla pena, nel mentre prende rilievo anche il concetto dl premio. E' solo il placere - Glola ne parla a proposito della legge in generale - "questo incantatore del deboll mortali, che apre il templo dell'unione, dell'amiclzla, della confidenza. Dalle sole sensazioni aggradevoll è splnto l'animo alla bontà". E, "portando ciascuno la sua porzlone nella massa comune del placere, partecipa all'altrul, e partecipandone l'accresce" (Glola, 1798d, 15-18). Alle passioni perverse che corrompono il patrlottlsmo, mi sono or ora soffermato sulla "ferocità", si uniscono false idee, capacl di offuscarlo e Glola sottollnea, in proposito, la difficile congiuntura vissuta dalla massa del repubblicani "sorta dl fresco dalla monarchia che è stata, e sarà sempre nemica delle cognizioni, perché fautrlcl delle vlrtù", afflitta da gravi incertezze su molti e importantl principi dl fondo: se la libertà avesse o no del limiti; se il diritto fosse o no distinto dalla pretesa, se il delitto si limitasse o no alla violazione del diritti altrui, se il merito consistesse o no nel ciarlatanismo e potrel continuare. Si trattava dl incertezze gravi, che potevano condurre anche a confondere i poterl; a dare alle leggl forza retroattiva contro i principi del buon senso e della costituzione; a violare, pur con ottlme intenzioni, le prime idee della giustizia. Mi soffermeró su questl ultimi due punti. Quanto al primo (retroattività delle leggl), Glola rileva come le leggl fisslno i limiti della libertà e sanciscano pene per chi ll oltrepassl. Poste le leggl, il soggetto è posto in grado di conoscere ció che gli è per-messo, ció che gli è vletato. Slamo dl fronte all'affermazlone chiara del principio di legalità. Ora, se le leggl fossero retroattive, "dal seno del futuro si spargerebbe sullo stato attuale un tlmore che intorbidirebbe l'eserclzlo della libertà". Insomma, la cer-tezza, insieme con la sicurezza della propria libertà, svanirebbero nel nulla. Ma Glola avanza l'argomentazlone dl un neanche troppo ipotetico obiettore: è bene che lo scellerato tema un'altra pena, oltre quella comminata dalla legge vigente. E gli ri-sponde: "o la pena minacciata è bastante per contenere la comune del cittadini, e allora un'altra pena sarebbe ingiusta" - a chi non viene in mente, ancora una volta, Beccaria? -, "o non è bastante, e allora conviene rinforzarla attualmente, e non lasciare al desiderio criminoso la speranza dl non essere punito". E se è vero che la socletà fa col dellnquentl una sorta dl convenzione: "se violate tal dritto, se trascurate tal dove-re, vi faró sublre la tal pena", non è forse altrettanto vero che la realtà della giustizia vlolerebbe siffatta convenzione se facesse loro sublre dopo ll delitto una pena mag-giore, ovvero se, "cangiando tribunali e forme, ll esponesse a maggiori pericoli" di quelll prevlstl dalla convenzione? 50 "Tum Cn. Pompeius, tertium consul corrigendis moribus delectus, et gravior remediis quam delicta erant suarumque legum auctor idem ac subversor, quae armis tuebatur armis amisit" (Tacito, Annales, liber III, 28). 659 Gian Paolo MASSETTO: MELCHIORRE GIOIA E IL DIRITTO PENALE. PRIME NOTE, 631-704 Gioia svolge un'ultima, conclusiva considerazione: "Mi si dirà che il cangiamento delle circostanze svolgendo l'energia delle passioni dimanda aumento di pena". E' una domanda che esprime un atteggiamento di politica criminale al quale si puó anche accedere, ad una condizione: che la pena sia fissata dal legislatore e che sia fis-sata "a quel grado in cui superi lo sforzo criminoso. Ma siccome lo scopo della legge non è d'incrudelire contro i delinquenti, ma di prevenire i delitti, perció anche secon-do questo riflesso i delitti anteriori alla legge devono sfuggire la sanzione". In tal modo Gioia esprime altre due idee forza in campo penale: il principio della propor-zionalità della pena e la funzione preventiva, piuttosto che retributiva della pena e della legge penale, come già del resto si è avuto occasione di dire (Gioia, 1798d, 3338 e nota 16). Ricordo solo che la pena, configurata come ostacolo al delinquere, come timore minacciato dal legislatore onde mortificare la spinta al delitto, deve, perché sia giusta, essere non solo efficace, ma proporzionata alla gravità del delitto e indispensabile. "Se l'interesse che spinge al delitto è come 4, tutti i numeri superiori a 4 esprimeranno i diversi gradi di pena, efficaci a ritenere il delinquente. Tra questi gradi, la giustizia, la più rigorosa giustizia richiede, che si scelga il minimo; né il legislatore puó accrescerlo, giacché farebbe soffrire ad un ente sensibile una pena non necessaria alla pubblica sicurezza; né puó sminuirlo, giacché allora la pena non essendo più efficace, non vi sarebbe più argine al delitto" (Gioia, 1798a, 5, 10-11; v. anche infra, 664). Ed ancora: "Si deve serbare una proporzione tra il delitto e la pena, di modo che il debole impulso criminoso sia represso da minor pena, ed il forte da pena maggiore. Il vantaggio che il reo puó trarre dal delitto, e il danno che ne risente la società, sono le misure più sicure della pena." (Gioia, 1819, 86). Anche in questo caso emerge una certa affinità con la concezione di Cesare Beccaria, il quale, già ai suoi tempi, era stato raggiunto da critiche per non avere tenuto conto, nella determi-nazione della gravità del delitto, dell'elemento volitivo. Il secondo punto sul quale mi ero ripromesso di soffermarmi riguarda le negative conseguenze prodotte dalle incertezze che ancora turbavano i neo-repubblicani del 1798. Il Piacentino in particolare si riferisce alla legge 9 ventoso anno VI (27 febbraio 1798), con la quale il Consiglio dei Seniori intendeva adempiere "uno dei primi, e più gelosi doveri del potere legislativo, [quello] di prevenire gli estremi sforzi, che potes-sero fare i nemici del pubblico bene nel momento, che la Nazione va col suo libero Governo a prosperare [...]". Si tratta della legge, assai famosa, che va sotto il nome di Legge contro gli allarmisti. Gioia si fa campione di garantismo: svolge una serrata critica contro l'esasperata drammatizzazione dei pericoli per la patria, nonché contro il conseguente, liberticida inasprimento della risposta sanzionatoria. Gioia sembra svalutare l'aspetto politico come elemento di fondo operante, in modo positivo, ovvero negativo, di opposizione, intendo dire a tutti i livelli. Ció vale, allora, per i patrioti italiani, per i quali, agli oc- 660 Gian Paolo MASSETTO: MELCHIORRE GIOIA E IL DIRITTO PENALE. PRIME NOTE, 631-704 chi di Gioia, l'urgenza della patria in pericolo, il relativo allarme non sembrano co-stituire il motivo primo di stimolo alla mobilitazione e, per converso, il malcontento del clero e della nobiltà trova la sua causa in motivi ambientali e di interesse, cosi come l'inquietudine popolare sembra dettata da insoddisfazione economico-sociale. Pertanto, viene mortificata da Gioia la carica eversiva delle relative proteste e viene, in pari tempo, corrosa la necessità di una rigorosa risposta repressiva. Insomma, l'al-larme è un "mostro di moda che si vede dappertutto", il che non deve essere; viene imposta la forza del terrore, mentre assai più utile sarebbe coltivare e diffondere il sentimento di sociabilità, la "nobile fierezza nel conversare figlia della libertà".51 Una libertà, si badi, che per Gioia, non si misura "dai nomi di repubblica, di demo-crazia, di sovranità [...], ma dal numero delle azioni che mi sono permesse, e dalla vigilanza del governo, che fa d'intorno a me la sentinella acció nessuno mi disturbi". La libertà, pertanto, non è mera questione nominalistica: chi vive in un regime al quale è stato posto il nome "d'aristocrazia, d'oligarchia, di democrazia semplice, rigorosa o mista" non deve subire le conseguenze che possono derivare da una "defini-zione puramente nominale". Insomma: "la libertà politica e civile deve corrispondere all'impero della ragione ed all'intensità dei sentimenti sociali". Il che comporta conseguenze di non poco conto per l'autorità ed il potere di cui puó e deve disporre il governo, autorità e potere che debbono essere informati ad un assai delicato equilibrio. "Io torno dunque all'idea fondamentale di questo paragrafo, e dico che siccome s'ingannerebbe un medico che visti i buoni effetti dei rimedi debilitanti in malattie provenienti da eccitabilità per eccesso, volesse usarli in quelle d'eccitabilità per difetto; cosi s'ingannerebbe chi volesse indebolire il governo quando la moltepli-cità degli ostacoli interni e delle esterne rivoluzioni richiedessero un aumento di pote-re, o volesse rinforzarlo in tempo d'interna uniformità o d'esterna quiete". Ed ecco il "partito chiamato all'ordine", al quale Gioia non intendeva rivolgere in-sulti - "sarebbe viltà" - e del quale non intendeva peraltro divenire apologeta, un partito che "aveva progettato leggi di sangue contro i nemici della patria. La morte doveva pendere sul capo anche di quelli che accusati non fossero stati provati rei. Questa legge non si è realizzata, e non ostante i delitti che si temevano, non sono comparsi. I nemici, contro cui si cercava infierire, non erano dunque che spettri creati da immaginazioni forse troppo accese da un violento ardore di libertà" (Gioia, 1799, 15, 31-33). Inusitate appaiono le argomentazioni con cui Gioia critica l'eccessiva severità delle pene che informa la legge del 9 ventoso. La sua attenzione si appunta in parti-colare sugli articoli 5 e 6 che comminano la pena di morte, rispettivamente, a chi "avrà qualsiasi intelligenza" con nazioni straniere tendente a porre in pericolo la sicu- 51 L'allarme non è solo un mostro di moda, "egli è l'idra a sette teste che si pretende combattere, il grido di guerra contro de' nemici creati dal desiderio e dal piacere di vincere. Lo spirito di partito che non si piccó mai d'equità, qualifica le persone che vuole sacrificare non co' titoli che meritano, ma con quelli che possono loro nuocere" (Gioia, 1798a, 20-23 e nota 6). In argomento, Nutini, 1990, 81-104. 661 Glan Paolo MASSETTO: MELCHIORRE GIOIA E IL DIRITTO PENALE. PRIME NOTE, 631-704 rezza dello Stato ed a chi "macchinerà con altri [...J contro il Governo democratlco", indlpendentemente dal fatto che "l'lntelllgenza abbla avuto effetto, o no", ovvero "ancorché la macchinazlone non sla condotta a termine, e non abbla avuto effetto".52 L'originalità del suo penslero, al riguardo, consiste nella volontà dl equiparare l'lstltuto del tentativo e quello del delltto dl attentato, come si evince dalla sua manifesta intenzione dl applicare la disciplina del primo al secondo E ció sotto due profili, almeno: l'avvertlta esigenza dl graduare la risposta sanzionatoria sulla base della pro-gressione dell'iter criminis e del carattere dell'ldoneltà della condotta criminosa, con la connessa tendenza ad abbandonare il principio del ruolo escluslvo della volontà criminale. Chiare sono le sue parole: "Vi sono mille macchinazioni interne, ed ester-ne corrlspondenze, la cul impossibilità si puó matematlcamente dimostrare; dunque la società puó dormire slcura; non ha in conseguenza alcun dlrltto per infligger loro la minima pena, benché la malizia fosse al grado massimo".53 E' certamente vero, lo 52 E' bene tenere presente che l' "intelligenza" e la "macchinazione" erano di già previste e disciplinate nel codice penale rivoluzionario del 1791 (art. 1, sez. I, tit. I, libro II del c.d. Code Lepelletier) e che saranno tenute presenti e disciplinate dal codice penale napoleonico del 1810 (artt. 76-77). Gioia, nello scritto che sto ora considerando (Gioia, 1798b), non prende in considerazione, invece, un altro articolo della legge del 9 ventoso, l'undicesimo, la cui severità altrettanto, se non in misura maggiore, risulta palese: "Chiunque ardisce di atterrare qualsiasi pubblico emblema di Libertà, sarà punito colla pena di morte, se sarà l'autore del delitto, o il capo dei delinquenti, ed i complici saranno puniti con cinque anni di lavoro pubblico. Chiunque poi facesse insulto da qualsiasi suddetto emblema, sarà pa-rimenti punito colla morte, quando il commetta in tempo di radunanza di Popolo in quel luogo, o quando l'insulto cagionasse tumulto rivoltoso di Popolo, nei quali casi sarà considerato come macchinatore di rivolta. Diversamente sarà punito con cinque anni di lavoro pubblico". Su questo articolo si sofferma nell' Analisi della legge contro gli allarmisti, ove comunque non ne critica l'eccessivo rigore punitivo, quanto piuttosto valuta negativamente la mancata considerazione della varietà delle circo-stanze che possono accompagnare l'abbattimento degli "emblemi di libertà". Questo delitto, se deve essere punito con pena maggiore se commesso "sui confini della repubblica", qualora lo sia "ne' luo-ghi più vicini al centro della repubblica", non puó essere punito con la pena di morte, che "è la massi-ma". Ció perché, nel primo caso, "[...J l'odio de' circostanti tiranni offre facile scampo e protezione al delinquente" (Gioia, 1798a, 26-27). 53 Su questo tema sarebbe bene soffermarsi per svolgere un'analisi compiuta del pensiero di Gioia, che sembra per certi versi singolarmente anticipatore di concezioni moderne e, pertanto, decisamente evolute, il che ora non è possibile fare. Qualche parola comunque conviene spenderla. 'Dialogando' con i suoi oppositori, Luini (su Giacomo Luini, uomo politico, magistrato e legislatore, v. Dezza, 1983, 178-179) e Lattanzi, Gioia sottolinea che lo studio della storia della società propone un inse-gnamento: "[...J nell'estensione della vita le azioni irriflessive e imprudenti ne occupano la maggior parte [...J Ma giunto all'atto i sofismi delle passioni cedono ai riflessi della ragione, le illusioni della fantasia alla realtà. Lo scellerato sente impensatamente raffreddarsi in petto l'entusiasmo del delitto per dar luogo al timor salutare della pena. Sarebbe stolto il legislatore che lo riaccendesse con un lampo di disperazione". Secondo Luini si tratta di una teoria corretta, ma non applicabile al caso in esame, perché in contrasto con la nozione stessa del delitto a consumazione anticipata, in cui, a differenza di Gioia, preminente gli appare la valutazione dell'elemento volitivo. Con riferimento agli articoli 5 e 6 della legge del 9 ventoso, che ormai conosciamo, egli scrive queste parole che trascrivo dal testo di Gioia, che le riporta: "Colui che ardisce di corrispondere colle potenze estere [...J, o che nell'interno trama con altri una macchinazione contro la patria, ha già commesso un delitto, ha già consumata 662 Gian Paolo MASSETTO: MELCHIORRE GIOIA E IL DIRITTO PENALE. PRIME NOTE, 631-704 si puô correttamente rilevare, che esigenze, ispirate a nobile garantismo, a nobile umanitarismo, volte ad assicurare la libertà politica (ad ammansire quel "mostro" che si vede per ogni dove, come egli scrive), portano Gioia - con scelte che anticipano singolarmente posizioni dottrinali che si affermeranno, in Italia, solo nella seconda metà del Novecento54 - a condannare una legge, che prevede identica risposta san-zionatoria per comportamenti eterogenei, di diverso livello di pericolosità sociale, come liberticida, come traditrice e violatrice del principio di proporzionalità della pena: "L'imbecillità [...] suggeri la legge contro gli allarmisti; la buona fede forse traviata da un odio virtuoso la sottoscrisse; la ragione e la giustizia la fanno a pezzi, perché vi vedono lesi i dritti dell'uomo e del cittadino" (Gioia, 1798a, 31). Ma altret-tanto vero è che le argomentazioni svolte dal Piacentino mal si adattano ad una normativa (e, aggiungiamo, ad un contesto politico-istituzionale), che sembra escluderle espressamente e in partenza, e finiscono, inoltre, per risultare talora incongrue (Gioia, 1798c, 76-106; Gioia, 1798a). Si pensi, ad esempio, all'istituto della desistenza. Se sul delitto tentato e non consumato esplica la sua efficacia, non altrettanto avviene per il delitto di attentato, come pur auspica Gioia, in quanto esso è costruito come reato ad effetto anticipato in sé perfetto, del quale Gioia, peraltro, propone una cor-retta configurazione: "L'attentato, secondo che io ne giudico, altro non è che la cospi-razione, il movimento convergente dira cosi di più azioni fisiche ed efficaci a recare un danno ingiusto" (Gioia, 1798c, 81). un'azione degna del maggior grado di pena, perché suppone in lui il maggior grado di malizia, perché dimostra abbastanza il suo cuore liberticida". Di fronte a questa impostazione Gioia ritiene utile porsi due quesiti: se il grado di malizia debba essere assunto come misura della pena e se nel nostro caso es-so sia massimo, tale da renderlo meritevole della pena di morte. Ebbene, secondo Gioia, che in ció segue l'impostazione beccariana - Beccaria, 1984, 44-46, § VII Errori nella misura delle pene, sul punto, Beccaria, 1984, 44-45; Beccaria, 1984, 46-49, § VIII Divisione dei delitti. Si tratta di un'impo-stazione che fu oggetto di forti critiche. Cfr. Cavanna, 1975, 138-141; Zarone, 1991, 96-100; Mas-setto, 1999, 311-325; Cavanna, 2005, 205 -, "quello che unicamente interessa la società delle circo-stanze del delitto si è il danno che a lei ne proviene ", mentre la malizia, di per se stessa, vale a dire qualora non sia manifestata con "atti presentemente nocivi", ovvero non sia tale da alimentare "timor ragionevole di danno futuro ", non determinando nocumento per la società, non puó, né deve essere colpita dalla pena. In tal modo si profila come necessario il requisito del pericolo: qui si leggono le parole che, da ultime, sono trascritte nel testo (Gioia, 1798c, 83-85, 87). 54 Quella trattata da Gioia è una questione a lungo oggetto di discussione tra i penalisti italiani del se-condo dopoguerra, sia sotto il profilo teorico che sotto quello giurisprudenziale. La discussione, coin-volgendo la portata degli artt. 49 c.2 e 56 c.p. vigente, in buona sostanza si è svolta intorno all'appli-cabilità al delitto di attentato della normativa che disciplina il delitto tentato e non consumato, in par-ticolare, intorno ai criteri di valutazione dell'idoneità del comportamento criminoso. Viene in campo la nozione stessa di reato politico, che si caratterizza per l'arretramento della soglia di punibilità e per il carattere della pericolosità della condotta in se ipsa. Intorno al reato politico, v. Colao, 1986; Sbricco-li, 1973; Sbriccoli, 1974. Ringrazio l'amico Roberto Isotton - del quale, proprio mentre sto scrivendo queste righe, è uscito Crimen in itinere (Isotton, 2006) - per i preziosi suggerimenti che ha saputo of-frirmi intorno all'argomento qui considerato. 663 Gian Paolo MASSETTO: MELCHIORRE GIOIA E IL DIRITTO PENALE. PRIME NOTE, 631-704 Gioia fa poi riferimento alla falsa idea di un'altra norma primaria che sembra af-fliggere i Repubblicani, vale a dire la falsa idea di eguaglianza. Per il Piacentino la vera eguaglianza è quella forza che mortifica privilegi e di-stinzioni, che tien conto solo delle effettive facoltà individuali, che determina un'equa distribuzione dei beni tra tutte le classi della società, assicurando la comune sicurezza di conservarli e, nel contempo, la speranza di aumentarli. Insomma, "L'eguaglianza è un'idea madre che influisce sopra tutte le altre, e loro comunica una direzione verso d'un centro comune che è l'affezione degli uomini; mettendo tutti a parte delle sensa-zioni tutte della società, facilita il passaggio alle emozioni più dolci del cuor umano" (Gioia, 1964, 46-47). Nel penale perô questa alta concezione di eguaglianza rivela un qualche cedi-mento. Gioia riconosce che le moderne costituzioni repubblicane stabiliscono per gli stessi delitti identica pena, qualunque sia il delinquente. Siamo di fronte alla moderna configurazione di un unico destinatario della norma penale, privo di caratterizzazioni sociali, religiose, professionali, in sostituzione del pluralistico complesso di situazio-ni soggettive caratterizzanti l'Ancien Régime (Cavanna, 1982, 213-223; Cavanna, 1975, 136-137). Da questa configurazione, che rompe con una complicata ed ingiu-sta tradizione plurisecolare, Gioia prende le distanze: "l'idea malintesa di eguaglianza ha condotto ad una conclusione si erronea". Risulta in ogni caso interessante seguire il Piacentino nello svolgersi del suo ra-gionamento. Se è vero che la pena è un ostacolo per arrestare il delitto, è altresi vero che essa deve essere proporzionale alla forza comune dei delinquenti. Ora, ogni società è divisa in due classi, la prima delle quali "non ha che il potere individuale", mentre la seconda, oltre a questo, "possiede parte del poter nazionale tanto in forza, quanto in opinione". Posta questa distinzione, risulta evidente che il delitto è più facile e più facilmente si puô celare in quest'ultima classe di persone, contro la quale "si deve opporre una pena maggiore per ritenerle". Melchiorre Gioia si chiede: "Se un ispettore di polizia copre coll'egida del poter nazionale il disordine e la corruzione per esserne a parte, lo colpirete voi colla stessa pena con cui colpite un mezzano?". Ancora, "Né la giustizia potrebbe approvare che collo stesso grado di pena si punisse il restante dei cittadini, giacché parte di questa non sarebbe necessaria a comprimerne gli sforzi criminosi: ora ogni pena non necessaria è tirannica". Ed ecco dunque la distinzione fondamentale tra i delitti commessi da sem-plici individui e quelli commessi da persone pubbliche. Con il che Gioia sembrerebbe rientrare in quel condivisibile alveo dogmatico che, fondato sulla pragmatica esclusio-ne della maggior parte possibile di reati riconducibili a distinzioni di status, limita le eccezioni unicamente a quelle compatibili categorie di reati definibili come propri (ad es. reati commessi da e contro pubblici ufficiali). Ma Gioia ribadisce la sua convinta concezione: i funzionari pubblici, occupando un grado elevato della scala sociale, at- 664 Glan Paolo MASSETTO: MELCHIORRE GIOIA E IL DIRITTO PENALE. PRIME NOTE, 631-704 traggono l'attenzlone del corpo della socletà tutta, ll loro comportamento costltulsce esemplo particolarmente significativo ("contaggioso"), in quanto "oltre ad eccltare del seguacl, lndebollsce l'ldea dell'autorltà, e qulndl dell'ubbedlenza nella mente del popolo, che dal dlsprezzo delle persone passa facllmente al dlsprezzo della carica". Due sole cose mi preme dl dire. Chi ha letto Beccaria, non puó non ritrovare in quanto ora esposto alcunl suol accentl. Proprlo su questo tema, ll Mllanese pone ln luce qualche contrasto, se non addlrlttura contraddlzlone, con ll fondamentale principio del diritto a soggetto unico, nel quale pure fortemente credeva, o aveva creduto.55 Secondo punto. Si profila nelle argomentazloni dl Gioia la concezlone della splnta e controsplnta crlmlnale, che da non molto tempo, per non dlre dl Beccaria,56 Romagnosi aveva teorizzata e che sarà pol ripresa, tra altri, da Carlo Cattaneo.57 Rlcordo ancora che nella Discussione economica sul Lario sl rltrova una tabella che rlporta ll numero annuo del detenutl, gradl e qualltà del dellttl, luoghl ln cul era magglore la loro frequenza. Si tratta, scrive Gioia, di una tabella che puó risultare assal utile al leglslatore, in quanto da essa egll potrà trarre "quali passioni facclano 55 Ho scritto "aveva creduto" perché, se intransigente è il Beccaria Dei delitti e delle pene ("Io mi ristrin-geró alle sole pene dovute a questo rango, asserendo che esser debbono le medeslme pel prlmo e per l'ultimo cittadino [...J. A chi dicesse che la medesima pena data al nobile ed al plebeo non è realmente la stessa per la dlversltà dell'educazlone, per l'lnfamla che spandesl su dl un'lllustre famlglla, rlsponde-rel che la senslbllltà del reo non è la mlsura delle pene, ma ll pubbllco danno, tanto magglore quanto è fatto da chi è più favorito [...J", Beccaria, 19S4, 73-75, § XXI Pene deinobili), assai meno lo sarà circa trent'anni più tardi nel redigere le sue Brevi riflessioni intorno al codice penale austríaco del 17S7, incentrato sulla distinzione tra delitti criminali e delitti politici (Cavanna, 1975, 47 ss.; Cavanna, 2005, 300-303, nonché retro, nota 36). Certo, "[...J le persone, a misura che sono più elevate in condizione, parteclpano del magglorl vantaggl della socletà, e commettendo un 'lstesso delltto crlmlnale dl un ple-beo, lo commettono maggiore: perció dandosi l'istessa pena, si viene realmente a darla maggiore, co-m'è glusto, perché nel noblle sl suppone magglore mallzla, e cosi la pena sl proporzlona dl sua natura al delitto", ma nei delitti politici - osserva Beccaria - "che non suppongono malizia, ma danno volon-tarlo recato, e che non tendono dlrettamente a dlstruggere la socletà, né offendono ll dlrltto naturale, che sono mere colpe e non doli [...J si deve avere moltissimo riguardo alla condizione delle persone, perché ll bastone, che puó correggere un facchlno, avvlllsce ed annlenta un noblle, un onesto nego-zlante, e qualunque clvlle persona, e lnvolge tutta la loro famlglla nella plù luttuosa lgnomlnla. La pena non è plù proporzlonata al delltto, ma dl gran lunga magglore, posto che ll danno della pena è ln-comparabile col danno della colpa" (Beccaria, 1971a, 710-711). In argomento, Cavanna, 19S7, 5254; Burgio, 1991, 165-166. 56 Ricordo soltanto questa frase: "Dunque più forti debbono essere gli ostacoli che risospingono gli uomlnl dal dellttl a mlsura che sono contrarl al ben pubbllco, ed a mlsura delle splnte che gll portano ai delitti. Dunque vi deve essere una proporzione fra i delitti e le pene" (Beccaria, 19S4, 40, § VI Pro-porzione fra i delitti e le pene). Alla sua mente è presente il pensiero di Montesquieu, 19S9, VI, XVI, 327-32S. 57 V. Romagnosi, 1S57, 6S6-702, parte sesta, cap. V (Considerazioni sulla spinta criminosa in relazione al legittimo magistero penale); Romagnosi, 1S57, 702-725, cap. VI (Della contro-spinta penale con-seguente); Romagnosi, 1S57, 725-727, cap. VII (Conchiusione). In merito, Nuvolone, 1961, 175-179, ma v. anche Palombi, 2003. Per Cattaneo, Massetto, 2005, 42-43, 59, 76-79. 665 Gian Paolo MASSETTO: MELCHIORRE GIOIA E IL DIRITTO PENALE. PRIME NOTE, 631-704 più sforzo contro i dritti e i doveri e, in conseguenza quali e quante pene sia necessa-rio opporvi". Egli rileva come alcuni pretori, segnatamente quello di Gravedona, allarmati per la frequenza dei ferimenti, reclamassero un inasprimento delle pene in vigore (Gioia, 1804, 177, 180).58 E voci simili si levavano da parte di chi, a vario titolo, partecipava alla vita della legge. La situazione in effetti era preoccupante - ma quando mai ci si è trovati di fronte ad una congiuntura criminale che non fosse difficile? -: delinquenza diffusa nelle campagne e nelle città infestate da balossi, dai va-gabondi - i vagabondi fuggifatica, per dirla con Ludovico Antonio Muratori59 -, dagli oziosi, dai mendicanti veri e dai professionisti della mendicità, una delinquenza che trovava alimento dalle vicende militari, dallo stato dell'economia che di certo prospera non era, dalla tesa situazione politica. Insomma, come scriveva sui primi dell'Ottocento un "ex-giudice di provincia" e avvocato - della sua attività forense restano alcune testimonianze risalenti all'ultimo decennio del Settecento e date alle stampe60 -: una "folla d'infelici si sparge quindi ad inondare tutta la superficie dello stato, infesta le pubbliche strade, desola le nostre campagne, introducesi ne' nostri casolari, penetra le nostre ville, ci affronta nel seno delle città, de' tempi, delle case, e c'insulta persino in braccio dell'amicizia, della natura, della religione. Agitati cosi i buoni da una sorda guerra intestina per parte de' 58 La tabella (Prospetto indicante i luoghi delle Preture, l'annuo numero de ' detenuti, i detenuti attuali, e i delitti più comuni) è alle pagine Gioia, 1804, 178-179. 59 I vagabondi fuggifatica costituiscono, in verità, una particolare categoria di quell'"ordine legittimo della Carità", che Muratori struttura in poveri "cittadini", "distrettuali", "quei della nazione" e "fore-stieri", dei quali ultimi i vagabondi fuggifatica fanno parte (Muratori, 1761, 211-213), come si legge nel Trattato in cui egli dà ammaestramenti perché il "misericordioso cuor de' cristiani" possa utilmente ed efficacemente esercitare la carità. In proposito ricordo soltanto come il grande uomo di Vi-gnola scrivesse: "Le massime son queste: doversi svegliare e mantenere una nobil gara fra' popolo di Cristo, in far limosine, abbondantemente, allegramente, perché questa santa liberalità è troppo cara agli occhi di Dio, e senza paragone più utile a chi dà, che a chi riceve. Ma doversi avere particolare circospezione nella distribuzione d'esse limosine, affinché sieno anteposti i più degni a i men degni, ed elle non servano ad accrescere il popolo de i pigri, de gli oziosi, e di chi sa cosi ben valersi del manto della povertà, che truova alimento anco a i suoi vizi. Dover'anzi tendere la saggia economia delle li-mosine a rendere industriosi e amanti della fatica i poverelli stessi, e a correggere, e migliorare i loro costumi. Ecco, in ristretto ciô, a che principalmente dovrebbe aversi riguardo, allorché si tratta di ampliare, e insieme di ben ordinare il regno della carità cristiana" (Muratori, 1761, 220). In argomento, Continisio, 1999, 295-316. 60 Si tratta di due difese che Antonio Corbetta aveva stese in favore del giureconsulto lodigiano Antonio Carminati accusato di essere autore di uno "scritto sedizioso" (1794) e "incolpato di aver foggiato un falso testamento" (1796); nonché di una terza in favore dell'attuario Antonio Croce "fatto reo di gravi irregolarità commesse nella costruzione di processi criminali". Su quest'ultimo caso, assai interessante anche perché propone non pochi spunti utili per valutare l'impatto che nella viva prassi ebbe la Norma interinale delprocesso criminale per la Lombardia austriaca (retro, 653 e nota 41), v. Garlati, 2006, 105-113; nota 52 sulla normativa penalprocessualistica ora citata. Delle tre allegazioni esistono esem-plari presso l'Istituto di Storia del diritto medievale e moderno, Università degli Studi di Milano, con segnatura, rispettivamente, 67 XI C 58/7, 25 e 67 XI C 51/1. 666 Gian Paolo MASSETTO: MELCHIORRE GIOIA E IL DIRITTO PENALE. PRIME NOTE, 631-704 malvagi, la vita, l'onore, le sostanze, i vincoli di famiglia, gl'impegni di stato, le dol-cezze di convivenza, beni, che allacciano gli uomini tra loro sotto il comun patto di società, tutto soffre i più frequenti assalti, le più gravi ferite" (Corbetta, 1803, 14-15. Cfr. Bressan, 1985, 14 e nota 44). Di fronte a siffatta situazione, sottolineati l'importanza ed il successo dei metodi processuali sommari ed inquisitori applicati dalle Corti straordinarie, s'invocava un generalizzato inasprimento delle pene: pena di morte (della cui abolizione occorreva non lasciar serpeggiare la lusinga), arresti, pene infamanti, quali l'esposizione alla berlina, il far girare il reo per le strade della città con il remo in spalla, ovvero al collo il cartello indicante il titolo commissi delicti, esacerbazioni delle pene, vale a dire nervate, bollo, fustigazione, proprio come avveniva nella Milano degli ultimi decenni dell'età austriaca.61 Gioia stesso ricorda che nella precedente Discussione economica d'Olona si era unito al coro, persuaso del fatto che si trattava di voci levate da chi, osservando, per cosi dire, sul campo la lotta tra il delitto e la legge, aveva constatato spesso "il delitto traboccare, e la legge soccombere". In questa sua adesione, Gioia aveva trovato aspri oppositori: liberale in campo economico, non lo è "egualmente ove trattasi di giuri-sprudenza criminale", scriveva l'esule napoletano Vincenzo Cuoco, il quale, chiara-mente avverso ad un imbarbarimento del sistema penale "nel paese ov'è nato Beccaria", svolge nel suo lavoro statistico intorno al dipartimento d'Agogna considerazioni penalistiche degne di attenzione.62 61 Intorno a queste diverse voci, tra le quali quella più moderata dell'avvocato Pietro Mantegazza, autore di importanti Osservazioni sul Codice penale austriaco del 1803 e sul Codice di procedura penale del 1807 (oltre a Dezza, 1996, Garlati Giugni, 2002, nonché retro, nota 2 e infra, note 78 e 88), v. Bressan, 1985, 11-15 e note 36-48. Sulla prassi penale lombarda, Massetto, 1994a. 62 Sui lavori di statistica di Cuoco, anche su questo versante in disaccordo con Gioia, e sulla polemica che, appunto, vide contrapposti Gioia ("plus brumairien, plus pragmatique") e Cuoco ("plus jacobin, plus théoricien") v., da ultimo, Pillepich, 2001, 322-325, 648-649 (323, per la definizione dei due 'contendenti'), nonché Bressan, 1985, 19-21, 23-26. V. anche, in generale, Gatto, 1991, V-XXII e, in particolare, sul periodo trascorso a Milano da Cuoco (1800-1806), Nutini, 1989. Più affine a Cuoco, delle cui Osservazioni sul Dipartimento dell'Agogna riproduce interi passi, è Maironi da Ponte, pro-fessore di storia naturale nel Liceo di Bergamo, autore anch'egli, negli anni cruciali per l'avvio dei la-vori statistici, di un lavoro che ha per oggetto il Dipartimento del Serio. Di certo non propenso a ri-sposte sanzionatorie severe ("Mi guardi il cielo che io inclini al rigore, o alla crudeltà [...]"), oggetto della sua preoccupazione erano i delitti di minor gravità, in quanto "Né uno addiviene feritore, o ucci-sore, né assalitore alle case o alla strada, né assassino, senza aver prima con reiterati delitti piccioli esternata la sua cattiva indole, e peggiore inclinazione". Occorreva, pertanto, non lasciare ansa al ladro, occorreva, come aveva insegnato Cuoco, separarlo dalla società e assegnarlo alla Casa di corre-zione e da questa liberarlo solo quando avesse dato "migliore speranza di sé". Se recidivo, i lavori pubblici lo avrebbero atteso: oltre al lavoro nelle miniere, secondo il pensiero dell'esule napoletano, il da Ponte riteneva che utile sarebbe stata l'assegnazione al "riattamento delle pubbliche strade, che tanto ne abbisognano [...]". Quanto ai delitti più gravi, il rigore s'imponeva, ma doveva trattarsi di un rigore controllato e limitato nel tempo. "Una pena troppo grave, messa in vigore fuori dei casi straor-dinari rende il Giudice trepidante nell'applicazione, il processo più lungo, le prove più difficili e reite- 667 Glan Paolo MASSETTO: MELCHIORRE GIOIA E IL DIRITTO PENALE. PRIME NOTE, 631-704 Causa principale del delitti è la mancanza dl lavoro, "perché l'ozlo è il padre dl tutti i vizi, tanto in politica quanto in morale". Una criminalité favorita anche dalla natura e dalla conflgurazlone del dipartimento, che offre sicuri luoghi di ricovero ai malvlventi e che, essendo terra dl confine, dà scampo al delinquenti stranieri, che, pertanto, "fa-cllmente vengono ad unirsi ai nostri". Risultate non efficaci le "commissioni militari [...], che han tenuto luogo de' tribunali straordinari francesl", si pensó a "pene più severe, e metodi dl giudicatura più solleciti". Ma l'lnasprlmento del sistema penale, sostan-zlale e processuale, deve essere temporaneo, straordlnarlo cosi come temporanea e straordinaria è l'emergenza che lo ha determinate e che deve essere affrontata. In caso contrario "corromperete le leggl, senza render gli uomini migliori". L'eccesslva severltà della pena "rende il giudice più cauto nell'appllcazlone, ll processo più lungo, più difflclll le prove [...]". Il mancato rlspetto del principio della proporzionalità della pena e, quindi, la previsione della medeslma risposta sanziona-torla per delitti di diversa gravità, si traduce nell'lnvlto a commettere ll delitto mag-glore.63 In verltà, "pene leggere, ma che si possono applicare sul momento; pene leggere, ma che dlfflcllmente si sfuggono, sono più atte al bisogno". Si tratta di parole che rivelano chiara l'adeslone al penslero di Cesare Beccaria.64 Essenziale per Cuoco è la funzione di prevenzione in ordlne a quel delitti, che non nascono da "momentaneo furore" o da "alterazione di cuore", ma a quelll che sono "freddi e cal-colatl" ed ai quall "l'uomo convlen che si avvezzl, come ad un mestiere", quelll che valgono a costituire ed a formare una 'carriera criminale', che progresslvamente si consolida nella sua gravità. Occorre, pertanto, seguire, in funzione preventiva ap-punto, la vita di un ladro che, se colplto "ne' plccoll delitti, di rado avviene che possa commetterne di grandi". Fermi e risoluti occorre essere con i ladri: ogni piccolo furto - diverso è ll regime preventivo e punitivo per i furti di campagna - deve comportare la pena della casa di correzione, dalla quale ll reo potrà usclre solo quando "avrà [...] rate [...]". E cosi, "Quanto ai delitti massimi nella Società, se per un'amara combinazione sembri, come è in vero a detto universale, che il loro numero sia straordinariamente moltiplicato: per un momento sinché non riveggasi il sospirato equilibrio, si usi pur del rigore (esclama il nostro popolo) vo-luto dalla Legge in questi casi straordinari, onde si riottenga quella felice tranquillità che, non ha guari, serviva a raddolcirsi i travaglj, che ci costarono i primordj della nostra libertà". Da Ponte, 1803a, 134-138. In da Ponte, 1803b, non si ritrovano riferimenti al penale. 63 L'esempio che Cuoco propone è quello della condanna alla pena di morte per "colui che ha tolta la vita ad un uomo e [per] colui che gli ha rubato poche lire". E' l'esempio, per cosi dire classico in materia. Già Montesquieu aveva criticato le leggi di Francia, che facevano "subir la même peine à celui qui vole sur un grand chemin, et à celui qui vole et assassine". Egualmente avveniva "en Moscovie, où la peine des vouleurs et celle des assassins sont le mêmes, on assassine toujours. Les morts, y dit-on, ne raccontent rien" (Montesquieu, 1989, 328). V. anche Montesquieu, 1985, 281-282, lettre CII. 64 "[...] non tanto la gravità della pena ma l'inevitabilità di quella, purché sia proporzionata ai delitti, è il mezzo più efficace per reprimerli [...]" sono le parole che si leggono nel voto espresso da Beccaria, in-sieme con Gallarati Scotti e Risi, in seno alla commissione istituita per la redazione di un codice penale lombardo. Beccaria, 1971e, 738; Beccaria, 1862, 371). 668 Gian Paolo MASSETTO: MELCHIORRE GIOIA E IL DIRITTO PENALE. PRIME NOTE, 631-704 date migliori speranze di sé". In caso di recidiva la risposta sanzionatoria consistera nei lavori pubblici a vita, non intesi, come avveniva, in funzione di custodia e che "portano seco loro tutti gl'inconvenienti della detenzione e del carcere [...]. I pubblici lavori debbono essere travagli". E Cuoco pensa al lavoro in miniera.65 Se in tal modo si opera utilmente la separazione del reo dalla società, più utile, anzi necessaria, egli ribadisce, è l'opera di prevenzione, affidata ad una polizia che, efficacemente orga-nizzata, sia in grado "di conoscere tutte le persone di uno stato", con un'azione im-prontata a snellezza, agilità, non già appesantita da eccessive formalità e solennità. Il che non si risolve, comunque, in pericolo per la salvaguardia dei diritti di libertà del cittadino, dal momento che la polizia non deve occuparsi dei fatti - che competono alla giustizia -, ma dei costumi. La polizia deve stare in mezzo al popolo, con un apparato, anche numericamente,66 non pesante, in modo "che il popolo non se ne avvegga: che vuol dire questo? Convien che la polizia non tocchi nessuno". Gli esempi che Cuoco, in questo senso, propone, provengono dall'Olanda, ove, prima della rivoluzione, operava una polizia che "tocca il popolo in tutti i suoi punti, e che è affidata al popolo istesso"; dalla Prussia di Federico II - "uomo superiore alla barbarie de' suoi tempi, e da cui i tempi più colti han sempre che apprendere, o almeno che ammirare" -, e dal Regno di Napoli ove il reggente Medici, nella sua attività rifor-matrice, si rifece all'esperienza olandese, con il risultato che "[...] in una città, dove non si aveva alcuna idea di polizia, in quindici giorni non vi fu più un disordine pubblico" (Cuoco, 1802, 115-124).67 65 Si ricordi che Beccaria pensava che, pur con qualche titubanza - il suo dire si apre con "Sembra che [...]" -, per i vagabondi e gli oziosi utile poteva risultare la "leva militare" (Beccaria, 1804, 85, parte prima, cap. III, Della popolazione, § 41). 66 "Moltiplicate gli agenti di polizia, ed avrete moltiplicate le formole, le solennità, le difficoltà. Gli agenti stessi della polizia, troppo moltiplicati corromperanno i costumi, perché corrompono i costumi tutti coloro, i quali avendo poco da fare, hanno una carica che si puó chiamare carica d'ozio; corrom-pono i costumi coloro, che avendo un piccolo soldo (e moltiplicando gli agenti, non potrete al certo darne molto) sono o presto, o tardi tentati a guadagnar con arti non sempre lecite sul popolo quello che loro nega il governo; corrompono finalmente i costumi coloro i quali avendo pochissimo da fare, per quel naturale desiderio che ogni uomo, e specialmente ogni funzionario pubblico ha di agire sempre, turbano ad ogni momento tutti gli ordini pubblici e privati" (Cuoco, 1803, 122). 67 Sull'opera di Luigi de' Medici, Reggente della Vicaria e capo della polizia cittadina, volta a innovare in profondità il vecchio sistema di polizia giurisdizionale, per assicurare un efficiente ed efficace con-trollo della città e della sua periferia, v. Alessi, 1992, 51-89; Alessi, 1994, 420-425; Del Bagno, 1998, 9-28, nonché, più in generale, sul ruolo svolto nel Regno delle Due Sicilie, Feola, 1977, passim. Cuoco conosceva bene la situazione napoletana: le sue parole risuonano in quelle scritte nel 1814 da Giuseppe Zurlo, protagonista nel primo ventennio dell'Ottocento della vita amministrativa e giudiziaria del Regno e che fu in netto contrasto con Cuoco in ordine al settore della pubblica istruzione (D'Ippo-lito, 2004, 147-170). Il Ministro molisano, infatti, scriveva che la polizia, distinta in amministrativa e giudiziaria - "il prevenire gli attentati, e gli eccessi contro l'ordine pubblico ed alla sicurezza individuale" era compito della prima - "dev'essere occulta" ed esercitata in modo tanto discreto che il popolo manco si accorga di essere vigilato. Di qui la sua critica al progetto di istituire un Ministero della Polizia, che avrebbe vanificato la segretezza sulla quale si fonda l'utilità stessa del controllo poliziesco 669 Gian Paolo MASSETTO: MELCHIORRE GIOIA E IL DIRITTO PENALE. PRIME NOTE, 631-704 Ma ritorniamo a Melchiorre Gioia. Egli ricorda che "I gazzettisti che, [perJ gran compassione a favore de' rei" - ecco, ancora una volta operare la malintesa pietà verso di essi - "m'accusarono di distruggere la libertà civile, quando parlarono di pene atro-cissime, di prove privilegiate, e condussero in scena l'anarchia e poscia il dispotismo, o il dispotismo e poscia l'anarchia".68 Eppure, si difende Gioia, nel lavoro statistico sul Dipartimento d'Olona altro non aveva detto se non che l'intensità della pena doveva essere proporzionata all'intensità del delitto: "se questi montava a 10, era necessario che quella salisse ad 11 per lo meno, e se per cangiamento di circostanze lo sforzo criminoso cresceva sino a 20, la reazione legislativa doveva giungere per lo meno a 21 ed anche andare più in là ne' casi di prova difficile. [...J Ora s'io non m'inganno in aritmetica, pare che la pena come 21 e giusta, non sia la pena come 100 ed atrocissima ". Il plauso di Gioia va alla legge del 25 febbraio 1804,69 di certo non ispirata a mi-tezza, "appoggiata" - egli scrive - "a gradi di pena molto maggiori di quello che era- e determinate) una situazione in cui "ciascuno teme la calunnia, ciascuno perde la sua quiete, allorché vedendo professare un sistema di diffidenza e di inquisizione, dubita di veder spiati tutti suoi segreti" (cito da D'Ippolito, 2004, 55-57). 68 Il "gazzettista" è, nel caso, Vincenzo Cuoco, del quale risulta conveniente riportare il passo che Gioia, ad evidenza, ebbe sotto i propri occhi: "[...J Volesse il cielo che il numero de' delitti si fosse moltipli-cato sol per la filosofica umanità che si è introdotta ne' giudizi di tutta l'Europa colta! Ma quando al-l'autore si parla di leggi vincolanti, di corporazioni, di arti e mestieri, egli risponde, e risponde benis-simo: vedete Milano prima del XV secolo; era industriosa, era commerciante, era ricca [...J: vedetela dopo quell'epoca: essa ha nuove leggi, nuovi ordini, e l'industria e la ricchezza non vi son più. Se que-sto argomento è convincente, non avrebbe torto colui il quale dicesse: vi è stato un secolo in cui la pietà nei giudizi era ignota: pene atrocissime, prove privilegiate, poco o nessun scampo ai rei; vi era stato un secolo in cui il numero de' condannati era sempre maggiore, e per non salvare il reo, è stato condannato più di un innocente; ma in quel secolo né il numero de' delitti era minore, né minore era il numero de' delinquenti che si sottraevano alla pena. Si è detto che l'uomo si avvezza a disprezzar le pene. Non si potrebbe dire che si avvezza egualmente ad eludere le prove non liberali? Nel primo caso li rendete più feroci, nel secondo più feroci e più furbi. Che vi guadagnerà l'innocente? Ed il popolo che vi guadagnerà? Conserviamo quanto si puó la vera libertà civile: essa non si opprime senza pro-durre o l'anarchia e poscia il dispotismo, o il dispotismo e poscia l'anarchia: nell'uno e nell'altro caso miserie e delitti" (V. Cuoco, Il Giornale Italiano, 11 gennaio 1804, 20. Cito da Nutini, 1989, 43). 69 Si tratta della "Legge sugli omicidj, le ferite, e li furti, e sulle prove, e sull'applicazione delle pene tanto ne' delitti suddetti, quanto in tutti gli altri delitti" (pubblicata in Bollettino, 1804, 86-112). Dez-za, 1983, 137-143; Dezza, 1996, 139-140 ne espone e valuta i contenuti anche processuali, ma v. anche Dezza, 1992b, 221-225 e, oltre a Roberti, 1947, 77-79 (ove la legge è definita "piccolo fram-mento di Codice Penale e di Codice Processuale criminale"), Zaghi, 1986, 350, 624; Liva, 1987, 172173; Danusso, 1996, 828 ss., ove sono attentamente valutate le lunghe e particolareggiate Osservazio-ni sui delitti e sulle pene per il Regno d'Italia nell'anno 1SQ6 di Carlo Bellani, che furono l'anno suc-cessivo presentate al Ministro della Giustizia Luosi. Le Osservazioni, in ordine ai diversi crimini con-siderati, sono condotte sulla base della legge qui tenuta in conto, mentre "rientrava [...J probabilmente ancora nella disciplina della legge 16 termidoro anno V, denominata Legge contro gli inimici dell'or-dine pubblico, la prima specie di reati analizzata dal Bellani, la quale sotto la denominazione di "in-surrezioni e tumulti popolari" ricomprendeva "anche alcune violente opposizioni alla forza pubblica"" (Danusso, 1996, 836-837, 862-864). In Bollettino 1804 sono pubblicati lettere circolari e chiarimenti relativi alla legge stessa. Cfr. Dezza, 1983, 139-140, nota 172. 670 Gian Paolo MASSETTO: MELCHIORRE GIOIA E IL DIRITTO PENALE. PRIME NOTE, 631-704 no per l'addietro, e le prove più spedite". Con soddisfazione evidente, rileva che "I nostri legislatori furono persuasi che se la fredda barbarie degli antichi criminalisti era condannevole, l'imbecille e femminil compassione de' filosofi moderni non va esente da egual taccia [...J" (Gioia, 1804, 180, nota 1). Soffermiamoci ancora un poco sulla Discussione dell'Olona ispirata, per l'appun-to, da questo "unico sentimento" (Gioia, 1804, 180, nota 1). Considerando le statistiche relative ai detenuti di Milano, Pavia, Monza e Gallarate e sospettando che il loro numero e qualità fossero connessi alla decadenza di qualche arte, Gioia richiese informazioni in merito. La risposta negativa che ottenne lo indusse alla riflessione che "il delitto è una pianta feracissima che alligna in ogni terreno". L'inchiesta gli permise comunque di rilevare un elevato numero di contrabbandieri, di "scartaccini d'un paese non troppo distante dal nostro", le cui fabbriche in crisi ali-mentarono una schiera di artisti indigenti che si fecero ladri. Con triste, rassegnata ironia, Gioia sottolineava come "non avendo l'occasione o i talenti per entrare nel novero de' ladri onorati, si sono fatti assassini di strada, più dannosi de' primi, ma meno vili". Folto era inoltre il numero dei carrettieri, nonché di "balossi", gli oziosi delle campagne, dei quali Gioia offre una descrizione tanto interessante quanto vivace. Mi limito a ricordare che i "balossi" erano lavoratori nella campagna ed oziosi, secondo i cicli dei lavori agricoli che "s'affollano in alcune epoche dell'anno e scar-seggiano in altre". Ebbene, nel tempo in cui essi sono senza lavoro, questi oziosi "potenti per l'altrui timore devono dunque avere tutti i vizi che emergono dall'ozio, e talora commettono i delitti che nascono dal potere non represso". In genere si limita-no a taglieggiare gli affittuari delle campagne, costringendoli, sotto minaccia d'in-cendiare le loro cascine, a fornire loro latte, pane e riso. Ma talora cresce in essi l'au-dacia e, sedotti da un guadagno rapido benché più azzardoso che i piccoli guadagni giornalieri ora ricordati, dopo essere stati servi degli assassini, montano talora in scanno e lo divengono essi pure. "La nostra troppo benigna legislazione criminale", ove essi cadano nelle mani della giustizia, "è costretta a rilasciarli entro breve spazio di tempo". E, "con tutta l'infezione morale delle carceri, e con la vendetta nell'animo, ritornano nella campagna", attesi dagli affittuari, che si guardano bene dall'accusarli ai tribunali, preferendo, in quanto torna loro più vantaggioso, somministrare "ai balossi del latte e del riso di quello che esporre la vita ai loro pugnali, e le cascine agli incendi".70 70 Ai balossi pare riferibile quanto scrive il Bellani nelle sue Osservazioni del 1806. Egli, riferendosi ad un non meglio specificato "dotto scrittore milanese", indicava nelle particolari condizioni del lavoro agricolo svolto nei terreni adibiti a prato ed a risaia una pericolosa fonte di criminalità. Nel periodo del raccolto vi era forte bisogno di manodopera ed i fittabili erano costretti a servirsi di chiunque si presentasse per offrire il proprio braccio, cosi come erano costretti a licenziare costoro, non appena venuta meno la necessità del servizio. Ed "ecco una categoria di oziosi chiamati momentaneamente ad un travaglio lucroso, e ritornati subito all'ozio di prima. Costoro si familiarizzano coi lavoratori stabili ed essendo senza tetto continuano ad abitare nelle stalle, e su gli immensi fenili de' fittabili. Presto il 671 Glan Paolo MASSETTO: MELCHIORRE GIOIA E IL DIRITTO PENALE. PRIME NOTE, 631-704 La criminalità che si lega alla singolare figura del balossi merita un poco dl atten-zlone anche perché fortemente intrecciata con il fattore economico. Nello studiare le "cagioni dell'lnfestazlone e dell'attruppamento de' vagabondl o cosi dettl balossi nella Lombardia, e masslme in alcune sue provlncle", l'ex-gludlce ed avvocato Antonio Corbetta soffermava la sua attenzlone sulla situazione agrlcola del Basso Milanese e del Pavese e, nel rilevare come le cause della criminalità in aumento dovessero essere colte nel fatto che tall territori erano coltlvatl "da' coloni, o fittabili con interminabili risale e praterie" (in argomento, infra, 672-679), si attestava su questa masslma dl fondo: "Proprietà e lavoro sono i due perni della sussistenza de' clttadlni: la mancanza dl proprietà fa il poverello; la mancanza dl proprietà e dl lavoro fa il mendico" (Corbetta, 1803, 6, 135, 202-213. V. retro, 641-642, 649, 666-667). Che forte sla il vlncolo tra economia e pena risulta in modo assal chiaro nell'opera teorica e pratlca dl Cesare Beccaria, come già in altra sede ho cercato dl porre in evl-denza (Massetto, 1994b). Rivolgiamo la nostra attenzlone, ancora una volta, a Vin-cenzo Cuoco. "Io non fo che ricordarvi l'osservazlone dl Verrl, il quale crede che slasl troppo moltiplicata la coltivazione del riso e de' prati, a spese della coltura del grano e del fromentone" (Cuoco, 1802, 34). Certo, la risicoltura presentava due van-taggl per il proprietario: quello consistente nella spesa minore, determinata dal minore bisogno dl braccla, e quello del maggior raccolto. Ma, accanto al vantaggl, ricorre-vano svantaggl. Per Cuoco, punto dl riferimento, insieme con altri, è ancora Pletro Verrl. "Or se Verri e tanti altri scrittori dl economia politica71 han rlmproverato agll abitanti delle planure dl Lombardia la troppo estesa coltivazione del riso e del prati; se a questa coltivazione si è attribuita la spopolazlone delle terre, la degradazione del suolo, e la corruzione del clima, quel rimprovero, e questl mall forse in nessun altro luogo son tanto giusti, e sono tanto evidenti, quanto nel dipartimento dell'Agogna" (Cuoco, 1802, 30). Cuoco, in tal modo, riproponeva argomentazioni che, già al suol tempi, erano, per cosi dire, classlche e che avevano indotto gli economisti a netta-mente preferire la coltura del grano rispetto a quella risicola (in argomento, Faccini, 1976). Ma coloro che si limitavano a porre in risalto siffatte conseguenze negative, erano considerati da Glola "timidi" (Glola, 1850c, 429). Si trattava dl una timidezza che si incentrava nella mancata sensibilità per un altro grave effetto del prevalere delle risaie e del prati, l'effetto consistente nell'aumento del poveri in città e degll bisogno si fa sentire, esaurito il prezzo dell'opera prestata, si trovano uniti in molti, i luoghi sono op-portuni perché rare sono le abitazioni appunto per il sistema medesimo della coltura" (Bellani, 1806, 29r. Cito da Danusso, 1996, 874). 71 I "tanti altri scrittori di economia politica" sono meglio specificati in Cuoco, 1803, 20-21, nota 1: "[...] prima di me l'avean detto ed il Piemontese Denina, e li Milanesi Verri e Carli, [...] ed il Toscano Tar-gioni, ed il Napoletano Delfico, e voi stesso; si, voi stesso, caro Breme, [...] e l'avete dimostrato, fa-cendo la descrizione di quello stato degli abitanti della Lumellina che chiamate felice. Vi sia permesso di contraddire al senso di tutti, ma rispettate almeno il vostro". Sulla critica di Cuoco al di Breme, v. infra, 674-675. 672 Glan Paolo MASSETTO: MELCHIORRE GIOIA E IL DIRITTO PENALE. PRIME NOTE, 631-704 assassini nelle campagne (Gioia, 1850c, 429): "i balossi nascono come il riso e il formaggio" (Gioia, 1803a, 185). Il che anche Cuoco poneva in evidenza: la coltiva-zione del grano, confinata sui monti, ne determinava, con la minore disponibilité, il rincaro72 e la conseguente difficoltà di sussistenza di gran parte della società: di qui 72 Da Gioia le cause del rincaro dovevano essere essenzialmente rinvenute nelle leggi che ostacolano, che mortificano la libertà di commercio del grano, ulteriore manifestazione, questa, della fondamentale concezione liberistica che lo ispira in materia economica e commerciale. "Quali sarebbero i mezzi per far fiorire l'industria? L'autor combatte l'opinion di coloro che propongon leggi vincolanti. Egli non conosce che due soli mezzi i quali possano esser veramente efflcaci; render gli artefici più abili, render le fabbriche più economiche", come notava Cuoco nelle pagine del Giornale Italiano del 9 gennaio 1S04, con riferimento al lavoro statistico sul dipartimento d'Olona del Piacentino (cito da Nutini, 19S9, 41-41). In effetti Gioia, nell'analizzare la tariffa daziaria prevista dalla legge I nevoso anno IX (22 dicembre 1S00), rilevava come l' "ex Lombardia, spezzata in varíe giurisdizioni, era coperta da mille dogane [...J il commercio giaceva languente e quasi direi moribondo. Quando queste giurisdizioni scomparvero [...J il commercio, quasi tocco da verga magica, a nuova vita risorse". E Gioia guardava anche all'Europa: "Non raccorrerebbe lo stesso vantaggio il commercio europeo, se le nazio-ni rovesciassero tutte le dogane, di cui hanno coperta l'Europa?" (Gioia, 1S03a, 232), il che Gioia ave-va già avuto modo di scrivere nel 1796: "La storia del commercio e dell'industria non è che la storia degli sforzi che hanno fatto le nazioni per rovinarsi. Sopra il mare e sopra il continente esse hanno sollevato delle barriere che impediscono alle ricchezze di spandersi e mettersi a livello. Una legisla-zione artificiosa ha inventato delle proibizioni, fatto nascere dei delitti, imposto delle pene a quelli che vollero arricchire le nazioni" (Gioia, 1964, 67). Quanto al grano, sulla libertà del suo commercio Gioia ripetutamente si sofferma, per dire e ribadire che il miglior mezzo per accrescerne la coltura è la politica che preveda e disponga la sua libera circolazione (Gioia, 1S50c, 363, 369, 390, 424-425), in ció raccogliendo l'insegnamento di Cesare Beccaria e di Pietro Verri. Non posso ora soffermarmi in proposito, ma bastí dire che Beccaria era assolutamente convinto che "generalmente la libertà assoluta, ossia il non sistema è il miglior di tutti i sistemi che in materia d'annona si possano immaginare dal più rafflnato politico" (Beccaria, 1S04, 196-197); che "Il miglior incoraggimento d'una coltura non puó essere che il libero spaccio del prodotto" (Beccaria, 1S04, 179), anche se ammette che in un caso, peraltro assai raro, possano essere utili limitazioni e modificazioni al principio indicato, "modificazio-ni che debbono scostarsi il meno che sia possibile dalla libertà medesima" (Beccaria, 1S04, 179). Solo quando la libertà si riveli incapace di amalgamare gli interessi particolari in vista del bene comune, puó e deve intervenire la legge, anche la legge penale, con norme che, in ogni caso, non debbono essere inutilmente vincolanti, rigorose e complícate, in quanto provvedimenti normativi di tale natura cor-rono il rischio altamente probabile di essere disapplicati (Beccaria, 1971c, 36S s.; Beccaria, 1S04, 202-203. Cfr. Massetto, 1994b, 507 ss.). In ordine al libero commercio del grano, occorre ricordare come Cesare Beccaria prevedesse "alcune circoscrizioni", che fossero "le meno angustianti il commercio de' grani, cioè le più adatte a dimostrare al pubblico che resta in ogni straordinario evento assi-curata la sussistenza, senza vincolare il commercio che puó solo prosperare colla libertà. Fra queste, puó certamente annoverarsi fra le migliori la fissazione di un prezzo normale" (Beccaria, 1990, 64S, 46S), raggiunto il quale si poteva proibire l'estrazione del grano dallo Stato, il che Pietro Leopoldo aveva disposto per la Toscana nel 1767 (Beccaria, 1990, 473). Quanto a Pietro Verri, il suo Sulle leggi vincolanti è un vero inno alla libertà: "Qualunque sia la forma di governo sotto la quale vive una società d'uomini, sarà sempre vero che la giustizia e l'interesse del sovrano esigono di lasciare ai cittadi-ni la maggiore libertà possibile, e togliere loro quella sola porzione di naturale indipendenza che è ne-cessaria a conservare l'attuale forma del governo. Ogni porzione di libertà che ultroneamente si tolga agli uomini sarà sempre un errore in política, e quanto più si moltiplicheranno questi errori tanto più diverrà la nazione corrotta, simulata, inerte e spopolata [...J" (Verri, 1S04c, 13-14, ove Verri a chi, pur 673 Gian Paolo MASSETTO: MELCHIORRE GIOIA E IL DIRITTO PENALE. PRIME NOTE, 631-704 la crescita del "numero dei mendichi, e in conseguenza quello degli scellerati" (Cuoco, 1802, 33). Effetto simile era determinate dalla circostanza che "molte braccia [...] rimangano oziose, o perché l'agricoltura non ne abbia bisogno, o perché non siasi trovato un altro oggetto ove occuparle in mancanza dell'agricoltura, una coltivazione troppo facile vi produrrà una folla di oziosi, di mendichi, ed in conseguenza di scellerati". Cuoco conclude con il rilevare come non sia sufficiente che il suolo dia il prodotto necessario e sufficiente per la sussistenza generale, in quanto "per legge fondamentale della società, questo prodotto si divide in ragione del travaglio di ciascuno: colui che non ha travaglio, non parteciperà mai della pubblica ricchezza, e sarà costretto a mendicarla o a rapirla" (Cuoco, 1802, 32). Una summa delle conseguenze gravemente negative determinate dal prevalere della risicoltura si coglie nelle Annotazioni stese da Cuoco intorno alla Memoria di Arborio di Breme uscita il 30 novembre 1802, nella quale si poneva in evidenza come in Lomellina non fosse possibile riscontrare problema alcuno di sussistenza. Ma il Napoletano criticamente osservava che, cionostante, il popolo di Lomellina non po-tesse ritenersi felice. "Ho esaminata la mendicità, ed ho visto che i suoi abitanti sono per la maggior parte mendici [...]. Ho detto che l'aria era mal sana [...]. Ho detto che l'ozio, la mendicità, le malattie distruggevano la popolazione, e che alle cagioni interne de' mali, altre ed egualmente potenti ne aggiungevano ancora quei tanti misera-bili esteri che una funesta coltivazione rendeva necessari, e che venivan qui tra noi per recarvi nuove malattie e nuovi delitti. Ho detto che la Lumellina era piena di fur-ti, di assassini [...]. Dopo di aver dette tutte queste cose [...] io mi sono astenuto dal conchiudere: il Lumellinese è felice. Ho temuto che l'ultimo degli uomini del dipartimento (e l'ultimo degli uomini ha lo stesso diritto che voi alla felicità) mi potesse rimproverare che o non conoscessi i mali, o li curassi poco, e quasi dicessi: i mali vi favorevole alla libera circolazione interna dei grani, paventava quella in uscita, ricorda che, cosi pensando, dimostrava di non "vede[reJ ben chiaro [...J questo assioma che, come dicono gli scolastici, dalla potenza all'atto non vale la conseguenza; onde libertà di trasportare tutto il grano non significa lo stesso come il dire, si trasporterà tutto il grano", Verri, 1804c, 148; "[...J onde la libertà è la tutrice della pubblica abbondanza, non meno che dell'industria nell'agricoltura", Verri, 1804c, 175; "[...J il sistema che allontana maggiormente il pericolo della carestia è la libertà della contrattazione ed estrazione", Verri, 1804c, 193, ma v. anche Verri, 1804c, 120-121). Ed è altresi un inno alla libertà di commercio del grano, una libertà che, se garantita, procura solo vantaggi, se violata o negata, attraver-so l'imposizione di vincoli, determina conseguenze assolutamente negative (Verri, 1804c, in particola-re, 119 ss., 197 ss.). Si tratta di concezioni che ritroviamo di già in Verri in: Vianello, 1939, 147-157, nonché in Verri, 1804a, 92 ("La libertà adunque nel commercio de' grani non puô giammai in nessun stato, in nessuna circostanza portar nocumento né alla sussistenza, né all'abbondanza della nazione; né possono mai essere di giovamento gli ordini costringenti delle leggi"), 225-226 ("Se i vincoli imposti alla contrattazione de' grani spingessero una nazione a moltiplicare l'irrigazione e la coltura dei casei, si potrebbe togliere questa spinta restituendo al commercio dei grani l'originaria libertà [...J". Verri, 1804a, 325-326, in nota 1 Gian Rinaldo Carli riassume in poche righe i principi fondanti del pensiero di Pietro Verri in materia). Sulle diverse opere verriane ora citate, v. Capra, 2002, passim. 674 Glan Paolo MASSETTO: MELCHIORRE GIOIA E IL DIRITTO PENALE. PRIME NOTE, 631-704 sono, ma io sto bene, stanno bene tutti gli altri simili a me; dunque stanno bene tutti' (Cuoco, 1803, 10-14, nota 1).73 Quanto al danni derlvantl dal prevalere della coltura del riso su quella del grano, il Piacentino e l'esule napoletano sono sostanzialmente d'accordo. Il primo, nel valutare le Osservazioni sulle leggi di finanza del "cittadino Corbani", offre alcune considera-zioni che è bene ricordare. Il Corbani rinveniva, senza dire alcunché dl nuovo, tre con-seguenze negative: a) lo scarso impiego dl manodopera, il che è contrario "ad uno de' primi canoni della scienza economica, quello d'impiegare nell'agrlcoltura il maggior numero dl braccla"; b) la sottrazione al terreno della "sua attività", il che equivaleva a renderlo "infecondo"; c) l'alterazlone dell'atmosfera a danno della popolazlone e delle terre vicine non impiegate nella coltura risicola. Quanto al primo punto, secondo Glola, il fatto che tale coltura ottenga "grandi prodotti con minorl braccla" non è un male effettivo, anzi rldonda a vantaggio delle clttà, "nelle quall va a rifluire il superfluo della popolazlone campestre". E questa popolazlone campestre, anziché ingrossare le fila degli oziosi, "diffondendosi sulle ultime ramificazioni delle arti, costrlnge i citta-dlni a restare sul gradi più elevatl dell'industria", con l'ulterlore conseguenza della dl-minuzione del "prezzo della manodopera glà troppo incarlto". Del resto, ove si colga una raglone contro le risale nel minor impiego dl braccla, converrebbe, coerentemente, "proscrivere [...] in generale tutte le macchine, che con un sol uomo danno quel pro-dotto che dapprima non ottenevasl che da dlecl o ventl, o più". Secondo punto. Vi sono terreni che non possono essere coltivati se non a riso, e non puó essere ritenuto infecondo ll terreno "che porta al proprietario una derrata lucrosa con poca spesa". Quanto al terzo danno, Glola dapprima sembra minimiz-zarlo, paragonandolo a quello derivante dalle "beccarie, confettorie [...]" (Glola, 1803a, 242-243). Più seriamente, egll pensa comunque che rimedio opportuno sarebbe quello di tenere lontane le risale dal centri più popolatl, attraverso un espediente che non comporta necessità dl leggl, dl pene e nemmeno "l'ombra dl coazio-ne". Doveva essere determinato un limite, indicato "con segnall dl pietra sulle vie dipartimentali e comunali", e stablllto che "il riso che verrà coltivato entro il confine proibito, sarà proprietà del primo occupante". Dl certo, nessuno, proprietario o affit-tuario che sla, sarà cosi stolto da gettare in terra un seme "dl cul altri raccorrà il frutto [...]" (Glola, 1803a, 26). Non era, questo, un rimedio dl bel nuovo proposto da Glola, cosi come risalente nel tempo era la questione del danni, e degli strumenti con i quall affrontarli, provocati dalle risale coltlvate nel pressl del centri abitati.74 73 Sul contrasto Cuoco-di Breme e sull'opera di quest'ultimo, Nutini, 1989, 102-105. 74 Un succinto, ma pur significativo quadro delle disposizioni normative in materia, lo offre Beccaria, il quale ricorda che aveva preso in considerazione "li molti editti che sono stati finora fatti su quest'og-getto e che cominciano dal 1583, sotto il governo del Duca di Terranova fino all'editto 8 marzo 1784. L'ultimo editto generale sulla materia è degli 8 marzo 1711. In esso si fissa la distanza per Milano di miglia quattro e per le altre città di miglia tre [...]". Distanze diverse erano fissate a seconda che si trattasse di "strade regali" o "maestre", di "borghi e terre" superiori o inferiori a "fuochi cento". Era 675 Gian Paolo MASSETTO: MELCHIORRE GIOIA E IL DIRITTO PENALE. PRIME NOTE, 631-704 Quanto a tali strumenti ed ai metodi opportuni per conseguire l'obiettivo di diminuire la risicoltura, Corbani propendeva per la proibizione totale dell'esportazione del riso ovvero per la determinazione di un dazio gravoso. Gioia, il liberista Gioia - "[...] l'anima delle arti, delle manifatture, del commercio è la libertà. Senza di essa l'agri-coltura abbandona i suoi strumenti, le arti cadono in paralisia, il commercio s'asside indispettito sopra un mucchio di ricchezze e le lascia perire" (Gioia, 1964, 67)75 -, non è d'accordo. Il primo mezzo sarebbe inutile ed insieme nocivo. Inutile perché il Governo non ha la possibilità di tenere sotto controllo tutte le terre di frontiera, né di impedire la corruzione degli agenti di finanza; nocivo perché determinerebbe l'au-mento del prezzo del riso all'interno e perché le dogane verrebbero private "dei pro-dotti sempre abbondanti d'un dazio moderato". Il secondo mezzo è respinto perché avrebbe, proporzionatamente, gli stessi effetti da ultimo indicati. Lo strumento rite-nuto davvero sicuro e utile si fonda su un principio gioiano, che già ci è noto: quello di porre l'interesse pubblico sotto la vigilanza dell'interesse privato. Nel caso, si trattava di addossare ai proprietari delle risaie le spese annue che gli ospedali dovevano sopportare per guarire i "risaroli". In questo modo "si giunge a porre la salute di que-sti sotto la vigilanza del proprietario interessato, e si scema indirettamente il vantag-gio della coltura del riso" (Gioia, 1803a, 242-244). Più in generale, nell'affrontare la questione ora posta, Cuoco si mostra fiducioso nell'intervento governativo per attuare una politica moderatamente protezionistica, anche se, sotto il profilo teorico, si mostra liberista: "Ma mentre io conosco i mali che produce la coltivazione del riso, veggo bene che sarebbe ingiusta la legge con cui si proibisse. [...] Non urtiamo né la proprietà, né l'interesse privato; non comandiamo, data inoltre alle comunità la facoltà di stabilire distanze diverse da quelle previste, qualora vi fosse "l'espresso consenso di due delle tre parti degli abitanti". La riflessione di Beccaria era questa: "Ora chi non vede l'incertezza di queste disposizioni?" Un'incertezza aggravata dal fatto che concordia non v'era fra gli scienziati sotto il profilo sanitario. Beccaria, 2005, 3672, 290-293 per i passi testé citati. In argomento, sui divieti per la risicoltura in certe località e sulla violazione di tali divieti, v., ampia-mente, Faccini, 1976, 143-174, il quale anche riporta che "i limiti di pietra, infissi nel suolo ad una determinata distanza da Milano per delimitare la zona ove era vietata la coltivazione del riso, doveva-no essere sostituiti di frequente perché ad ogni successiva ispezione venivano trovati spezzati, divelti o addirittura spostati verso la città" (Faccini, 1976, 164). Questa era la sorte dei "segnali di pietra sulle vie dipartimentali e comunali" ai quali pensava Gioia. 75 Il quale cosi ribadiva le sue ragioni: "Non so se queste ragioni persuadessero il mio avversario; so che ogni sforzo per impedire l'esportazione, è inutile e dannoso; che è utile l'uscita del superfluo; che la libera esportazione non ci priva del necessario; che non innalza i prezzi sopra la forza comune; che promove l'interna riproduzione; che vietare l'esportazione è rovinare l'agricoltura e le arti, accrescere più del dovere la coltura de' risi, scemare la popolazione delle campagne, far uscire dallo stato mag-gior quantità di grano, che uscirebbe nel caso di intera libertà; che una libertà temporaria non favori-sce che i monopolisti, e scontenta il popolo. Dunque abbiamo una somma di reali vantaggi a favore della libera esportazione, una somma di più reali danni pei sistemi che le si scostano; non è dunque permessa la negativa o l'indifferenza che a quelle persone, le quali apprezzano le opinioni come il formaggio, la cui bontà risulta dalla sua vecchiezza" (Gioia, 1850c, 431-432). 676 Gian Paolo MASSETTO: MELCHIORRE GIOIA E IL DIRITTO PENALE. PRIME NOTE, 631-704 né proibiamo nulla: si coltivino pure il riso e le praterie, finché nuovi oggetti d'indu-stria abbian chiamata altrove l'attività del popolo" (Cuoco, 1802, 35). La risicoltura, peró, accanto ai danni diretti, ne produce uno indiretto e gravissimo, quale è quello consistente nella "mancanza dell'occupazione per tante braccia, cosi è necessario in-trodurre qualche altro ramo d'industria nazionale. Senza questo, la coltivazione del riso e de' prati distruggerà il dipartimento" (Cuoco, 1802, 35). Ció perché, laddove c'è scarsità di lavoro, "vi sono molti oziosi, ed in conseguenza molti mendichi" (Cuoco, 1802, 74) e, pertanto, secondo il suo pensiero, molti scellerati. Su queste basi, Cuoco enuncia "il principio fondamentale di ogni teoria sulla mendicità [...]: accrescete il travaglio e non avrete più poveri; procuratelo a coloro che lo bramano, costringetevi quei che lo ricusano. Se, senza far questo, voi li soccorrerete, che farete voi? Una legge la quale permetterà a chiunque di esser povero impunemente" (Cuoco, 1802, 77-78). Pertanto, per difendere la proprietà "da orde mosse a rapire da un bisogno più imperioso della legge" (Cuoco, 1802, 33), occorre un intervento incisivo e coerente, volto a promuovere una politica economica innovativa: incremento della coltivazione del grano, sviluppo di nuove industrie - in questo stava "tutto il segreto per rendere la felicità a questo dipartimento" - "onde occuparvi quelle braccia che ora restano oziose" (Cuoco, 1802, 39). Nei primi tempi, per migliorare la condizione del dipartimento, è necessario "che il governo faccia qualche cosa; che ispiri il primo soffio di vita ad una popolazione che langue; il dipiù verrà col tempo" (Cuoco, 1802, 85-86). E questo "qualche cosa" doveva consistere nell'attivare un certo numero di manifatture, nuovi rami di industrie debitamente assistiti da una avveduta politica daziaria - "graviamo di dazi le produzioni estere che estinguono l'industria nostra, e favoriamo colle esenzioni quelle che servono ad alimentarle" (Cuoco, 1802, 48) -, non solo, ma anche con "an-ticipazioni a tutti coloro che o volessero estendere, o migliorare, o introdurre un ramo di agricoltura, di pastorizia, di manifatture" (Cuoco, 1802, 87). Tutto ció sulla base della "totale abolizione di ogni sacca di "ozio", la sua totale riconversione produttiva" (Nutini, 1989, 99). La pubblica beneficenza avrebbe poi dovuto operare solo in favo-re di chi fosse realmente bisognoso: vecchi, infermi, fanciulli. Anche Cuoco rileva come, una volta rianimata l'industria, forse "non vi saranno più vecchi bisognosi", ai quali verrà comunque offerta l'occasione di procurarsi di che vivere "con un travaglio corrispondente alla loro età. Non vi è uomo il quale, ove sia industria, possa dirsi inutile". E per chi non vuole lavorare, ecco, pronta, la casa di correzione, che Cuoco configura non come luogo di detenzione, "ove l'ozio finisca di corrompere coloro che vi giungono già prevenuti. Deve essere una casa di travaglio, e tale che chiunque vi sia chiuso, non abbia altra speranza, non dico di uscire, ma nemmeno di vivere, senza travagliare" (Cuoco, 1802, 84-85). E Gioia? In un inedito rapporto del luglio 1802 al prefetto di Olona, in cui vengo-no valutate le Osservazíoní di Cuoco (Nutini, 1989, 34 e nota 59, dal quale cito i pas- 677 Gian Paolo MASSETTO: MELCHIORRE GIOIA E IL DIRITTO PENALE. PRIME NOTE, 631-704 si gioiani ai quali faró riferimento, ma v. anche Nutini, 1989, 102-103), egli ne prende le distanze sotto profili diversi. Avverso alla risicoltura, Gioia rileva peró come tra il Sesia e l'Agogna, vi siano terre che non possono essere utilizzate se non come ri-saie o praterie (cfr. retro, 675): "in questo caso è inutile e dannoso ogni tentativo per togliere le risaie" e rilevava altresi come l'aumento di siffatte colture in altri terreni provenisse "dalle stolte leggi, che vincolano l'estero commercio de' grani". In altra sede Gioia aveva infatti affermato che "temono alcuni, forse non a torto, che i vincoli posti al grano cangino i campi in risaie" (Gioia, 1850c, 429). La propensione di Cuo-co ad un intervento governativo volto a promuovere l'instaurazione o la promozione di rami diversi dell'industria non trova consenziente il Piacentino: "Sembra che l'Autore sia infetto da quel pregiudizio che consiglia alle nazioni di coltivare tutte le manifatture e tutte le arti, di vendere molto agli esteri, e nulla comprare da loro. In questo luogo e in molti altri dell'opera l'Autore vuole che il Governo animi, protegga, rinvigorisca le arti, e la sua domanda è giusta, se per vigore o protezione s'intende il facilitare i trasporti per terra e per acqua, dentro e fuori dello stato, purgare le strade dagli assassini [...J; ma se intendesi, come vuole l'Autore, che il Governo faccia delle anticipazioni ai Fabbricanti, dico che comunemente parlando la cosa è inutile e dan-nosa" (Nutini, 1989, 35). E neppure del tutto consenziente Gioia si mostra circa la necessità di incrementare il lavoro, o le occasioni di lavoro, cosi come prospettato da Cuoco: "Non basta accrescere il travaglio, conviene chiudere tutte le fonti, in cui l'inerzia trova congruo alimento senza travaglio; conviene che l'uomo sano e robusto si trovi in tale situazione da non sperare la sussistenza che dall'esercizio delle proprie facoltà [...J" (Nutini, 1989, 36, nota 61). Di fronte all'utilità di costringere coattiva-mente l'ozio al lavoro, Gioia, ancora una volta, si oppone a Cuoco in una esasperata difesa, non solo del liberismo economico, come dianzi si è detto, ma anche della li-bertà individuale: "[...J si puó distruggere la mendicità senza violentare la libertà de' mendicanti [...J Per qual motivo un mendicante sano e robusto che viva di limosine volontarie, debb'essere trattato come un delinquente?" (Nutini, 1989, 36, nota 61). Del resto, con riguardo, in particolare, ai balossi, il proposito di eliminarli attraverso la condanna ai lavori pubblici comportava un vantaggio soltanto apparente, in quanto incapace di togliere la fonte del male - rimanendo l'agricoltura quale è, "la stirpe de' balossi si riprodurrebbe di nuovo" -, non solo, ma avrebbe potuto tradursi in danno all'agricoltura, in quanto, venendo meno il loro pur saltuario lavoro, si sarebbe profi-lata la necessità "d'attrarre dei montanari dal Piacentino e dal Genovesato, alcuni de' quali s'appigliano al ladroneggio, finita la messe".76 76 II che anche Cuoco temeva, sotto un profilo comunque parzialmente diverso. "Il peggiore effetto della coltivazione del riso e dei prati è quello, che, restringendosi tutte le operazioni campestri a pochi gior-ni dell'anno, in que' pochi giorni le braccia del paese non bastano, e si è nella necessità di chiamare gli esteri; cosicché in un paese ove tutto il male nasce dal non aver che fare, quel poco che vi è da fare deve farsi dallo straniero" (Cuoco, 1802, 32). 678 Glan Paolo MASSETTO: MELCHIORRE GIOIA E IL DIRITTO PENALE. PRIME NOTE, 631-704 S'lmponevano, pertanto, rimedi diversi. Dal momento che le "origini de' balossi" conslstevano nella saltuarietà del lavoro, nella distanza delle abltazloni e nel timore degll affittuarl, utile sarebbe stato "il progettare che le fabbriche della fllatura e della tessitura delle grosse lane e cotoni slano trasportate ne' borghi pluttosto che introdotte nelle città; rlmedlo ottimo, che è più facile proporre che eseguire. E' parlmenti naturale il suggerire magglor rlgore nelle pene contro i delitti, e maggiore rapidità nelle procedure, il che sarebbe utile e facile" (Glola, 1803a, 188). Quest'ultlma era la proposta dl fondo, che Glola, forse troppo ottimista circa la facilità della sua attuazione, avanzava per frontegglare una situazione crlminale, che non aveva quali unicl protagonisti i balossi7 Ed era una proposta che, come ormai sapplamo, avevano sollevato la reazlone negativa del "gazzettistl".78 Ma Glola non si era llmitato ad avanzare proposte, aveva cercato dl configurare un mezzo sicuro e utile per mandare ad effetto le leggl divenute alfine più rigorose. "Un mezzo tale che ogni atto dl vigilanza in tutti gli agenti della glustizla fosse seguito da un guadagno, ogni atto dl trascuratezza da una perdi-ta". Occorreva organizzare il dlcastero della glustizla in modo che "crescano gli ono-rari a misura che scemano i delitti [...J, e gli onorari dlminulscano, a misura che cre-scono i delitti". In tal modo, ritorna in campo l'ormal noto, fondamentale in Mel-chiorre Glola, motivo dell'lnteresse. "Cosi la pubbllca slcurezza e tranquillità sareb-bero poste sotto la vigilanza dell'lnteresse privato, unico principio sicuro in ogni genere d'amministrazione". Slccome l'eccesslva compasslone moltiplica i delitti, come, ll Sullo stato dell'ordine pubblico, sull'andamento della criminalità e sulla sua tipologia, nel periodo di tempo ricompreso tra il 1l96 ed il 1811, v. Liva, 198l, 167-197, nonché le annotazioni di Zaghi, 1986, 583-585 e di Danusso, 1996, 869 ss. l8 Ma non del legislatore, se è vero che la legge 30 gennaio 1804 (Bollettino, 1804, 58-63, I), attuata con il decreto 1l febbraio 1804 (Bollettino, 1804, 81-84, I. Nel decreto sono nominati, quali membri del Tribunale speciale residente in Milano, sia il Bellani, "ora giudice d'appello in Milano", che il Mante-gazza - v. retro, nota 2 -, "ora Giudice d'appello in Novara"), raccoglieva l'auspicio di Gioia, in quanto tale Tribunale avrebbe dovuto "giudicare e punire i delitti d'omicidio con qualità di latrocinio; di aggressione; ruberia; invasione, o altra rapina e furto violento; di concussione anche con lettere mi-natorie; d'incendio doloso; siccome ancora gli attentati di simili delitti" (Bollettino, 1804, I, 59). In argomento, Danusso, 1996, lll, 869; Dezza, 1996, 915. Mi pare opportuno ricordare come il Bellani non fosse per nulla propenso all'inasprimento delle pene per far fronte alla crescente criminalità. Ció sia teoricamente (Danusso, 1996, 878), che praticamente. L'esperienza aveva infatti dimostrato che, ripristinata nel luglio 1805 (per la sedes, v. sotto) la Commissione militare istituita il 2l termidoro anno V (14 agosto 1l9l; Raccolta, 1l9la, 110), competente a giudicare "in ultima istanza, senza revi-sione, e senz'appello in Cassazione, e nel modo indicato dalla Legge 26 vendemmiale anno VI pei Consiglj di Guerra" - "i condannati saranno puniti colla morte dentro ventiquattro ore conforme alla legge dei 16 Termidoro anno V" - "di tutte le aggressioni sulle strade, degli incendj e dei furti con rottura, e violenza nelle case di campagna" (decreto 12 luglio 1805; Bollettino, 1805b, 393-394, ri-spettivamente, artt. IV, V, III), la situazione non era di certo migliorata. Anzi, le aggressioni si erano moltiplicate: eppure, sono parole di Bellani, "Quarantasette volte piombó la scure fatale, e i mozzi capi tremendo e miserabile spettacolo attestarono l'esercizio della pubblica vendetta" (cito da Danusso, 1996, 8l0-8l3). 679 Gian Paolo MASSETTO: MELCHIORRE GIOIA E IL DIRITTO PENALE. PRIME NOTE, 631-704 del resto, l'eccessivo rigore, il dicastero della giustizia, che sarebbe un vero dicastero di assicurazione, starebbe egualmente lontano dall'uno e dall'altro estremo. Ove non operasse la molla dell'interesse, ove, in particolare, lo stesso onorario fosse assicurato agli agenti di giustizia, "siano essi vigilanti o inerti, giusti o ingiusti, probi o corrotti", di necessità conseguirebbe una somma di ingiustizie e di negligenze dannose tanto al pubblico, quanto ai detenuti. Si trattava peró di proposte, rilevava Gioia, che poteva-no avere rilievo e valore solo se rivolte a paesi stranieri, non già al nostro: "l'accen-nata idea fondamentale è troppo lontana dalle idee comuni e richiederebbe troppi angiamenti". La conclusione è sconsolata: "[...J quindi lascio che altri discutano questi argomenti, e propongano avvedutamente il solito recipe un pugno di calce per un edificio che vacilla" (Gioia, 1803a, 184-189). Sconsolato si, ma non privo di quella vis polemica che costantemente, lo si puó ben dire, contraddistingue Gioia.79 La congruità dell'onorario è principio ripetutamente espresso da Gioia: solo una politica estremamente miope puó pensare di fare economia in questo versante, se mai è auspicabile una riduzione nel numero degli organi, degli enti, una concentrazione del relativo personale. Quando gli agenti amministrativi sono molti, ecco verificarsi le dilazioni, la discordia di pareri, gli errori, la collisione tra istituzioni (tra prefetture e amministrazioni provinciali, per esempio), nel mentre le corruzioni si fanno più nascoste, e quelle dei sottoposti trovano maggiori appoggi.80 Queste, insieme con altre, erano le riflessioni svolte da Gioia intorno alla legge 24 luglio 1802 (Legge sull'organizzazione delle Autorité amministrative), della quale auspicava un miglio-ramento.81 In particolare, maggior durata delle cariche e maggiori onorari potevano 79 La sottolineava, per scusarne anche gli eccessi, Romagnosi, 1834, 176, nonché Francesco Forti (sul quale, Rossi, 1997; Mannori, 2003 e, da ultimo, Colao, 2006, in part. 58-60, 71-75, 143-152, 177180 (ivi indicazioni bibliografiche): "Ben è da dolersi che a tanti pregii e d'animo e di mente il Gioia non unisse un poco di gentilezza di modi allorché si faceva a combattere le dottrine diverse dalle sue. Ma forse le abitudini contratte negli studi della sua prima gioventù, mantennero in lui un fare che sentiva un po' di intolleranza" (Forti, 1865, 368. Nello stesso volume si legge la sua recensione a Gioia, Filosofia della statistica, 567-570). Similmente Sacchi: "Spesse fiate peró, e lo diciamo con rammarico, egli passó nelle sue contestazioni polemiche i limiti della moderazione: ma forse era ció scusabile in un uomo, la cui vita passava fra i pungenti disagi di uno studio assiduissimo, e la cui professione di scrittore era quasi una missione, una specie di ministerio che lo muoveva a non guardare che a quanto alla sua mente pareva il vero, e a bandirlo con quella franchezza che annichila qualsiasi ostacolo" (Sacchi, 1829, XXIII-XXIV). Persino sotto interrogatorio, quello del 23 dicembre 1820 (cfr. Del Cerro, 1903, 31-34), Gioia non abbandonó la sua talora incauta franchezza, non esitando ad elevare una severa denuncia contro i sistemi inquisitori della polizia. 80 Gioia sembra qui discostarsi da Beccaria, secondo il quale "Quanto è maggiore il numero che lo ["il consesso esecutore delle leggi"J compone tanto è meno pericolosa l'usurpazione sulle leggi, perché la venalità è più difficile tra membri che si osservano tra di loro, e sono tanto meno interessati ad accre-scere la propria autorità, quanto minore ne è la porzione che a ciascuno ne toccherebbe, massima-mente paragonata col pericolo dell'intrapresa" (Beccaria, 1984, 125-126, § XLIII Magistrati). 81 Su questa legge (pubblicata in Bollettino, 1802, 185-208) v., ampiamente, Antonielli, 1978; Capra, 1978, 147 ss., che ne riporta (Capra, 1978, 160-162) uno stralcio utile per porre in risalto "l'importan-za delle prefetture come cinghie di trasmissione delle volontà del governo nei dipartimenti e centri di 680 Gian Paolo MASSETTO: MELCHIORRE GIOIA E IL DIRITTO PENALE. PRIME NOTE, 631-704 costituire il più forte ostacolo alla corruzione. All'obiezione "si troveranno uomini onorati e non bisognosi", Gioia ribatteva che maggior durata e maggiori onorari non distruggono la probità. Invero, i governanti che prevedono piccoli onorari per cariche cui è congiunta la possibilité della frode, da un lato, fanno una ben meschina economia e, dall'altro, espongono la nazione a perdite incalcolabili. Gioia non pare avere gran fiducia nella probità assolutamente disinteressata dell'uomo, in una sua probità, per cosi dire, naturale. Ben sappiamo, ormai, quanto egli confidasse invece nell'inte-resse e, difatti, "quando non è possibile unire le cose in modo che l'interesse privato si confonda coll'interesse pubblico" - questa è la situazione ideale, come lo era per Beccaria, secondo il quale, "il più delle volte [èJ preferibile il lasciare la direzione alla libertà che equilibra più d'ogni altra forza gl'interessi degli uomini [...J" (Beccaria, 1804, 166)82 - "conviene accrescere gli onorari, acciô il timore di perderli faccia ostacolo alle tentazioni della frode". Di più e più generalmente, in ogni sorta di amministrazione - Gioia avverte: con esclusione di quelle costituzionali - "la durata della carica e la quantità dell'onorario devono essere in ragione diretta delle possi-bili eventualità frodolente". La storia offre conforto a questa convinzione. Nelle terre dell'Olona, ma non solo in queste e già in età spagnola, operava il capitano del di-vieto, deputato ad evitare gli sfrosi, cioè le estrazioni abusive delle biade. Ebbene, raccolta delle informazioni che dalla periferia affluivano al centro e la vastità delle competenze loro afidate" (Capra, 1978, 160-161); Zaghi, 1986, 318-331. 82 Già si avuto occasione di dire quanto Beccaria confidi nella libertà, capace di amalgamare l'interesse privato - definito come "forza primitiva dell'animo nostro" (Beccaria, 1804, 120), come "quella forza simile alla gravità, che ci spinge al nostro ben essere" (Beccaria, 1984, 41, § VI Proporzione fra i de-litti e le pene) - con quello pubblico, in vista del bene comune (cfr. retro, nota 72), il che egli più volte ribadisce. Ad esempio, laddove indica come "le scienze di pubblica economia debbano suggerire i mezzi di unire l'utilità propria con quella del pubblico" (Beccaria, 1971c, 369), ovvero, laddove afferma che "l'interesse comune non è che il risultato degl'interessi particolari, e questi interessi parti-colari non si oppongono al comune interesse, se non allorché vi siano cattive leggi che li rendono contraddittori tra di loro [...J" (Beccaria, 1804, 120). Verri, dal canto suo, affidava alla legge, a quella legge che, opera di un "saggio architetto", era chiamata ad operare quando la libertà avesse fallito, il compito di convogliare gli interessi personali verso l'utilità comune, dal momento che "il pretendere che gli uomini preferischino il ben pubblico al loro privato, come con molte declamazioni soglion ri-petere i poco sensati legislatori, egli è un voler imputare a delitto che gli uomini sieno uomini, laddove i legislatori saggi ed illuminati pongono ogni cura a far si che i privati trovino il loro massimo bene nel contribuire al ben pubblico [...J" (Verri in: Vianello, 1939, 123). Insomma: "[...J l'arte di scrivere buone leggi si è appunto quella di far coincidere l'interesse privato col pubblico, nel che consiste la somma delle cose" (Verri, 1804c, 16). Sulla concezione della libertà in Pietro Verri come principio volto a suggerire l'opportuna e utile strada per conseguire obiettivi non solo economici, ma anche istituzionali, politici e sociali, v. Porta e Scazzieri, 1999, 833-842. Quanto a Gioia, resta da ricordare come egli affidi alla vigilanza dell'interesse privato - fondamentale ed ineliminabile molla che induce all'azione e che prima o poi fa ineludibilmente sentire la propria voce - la stessa pubblica sicurezza, perché ne sia assicurato il buon funzionamento (un cenno in questo senso anche in Verri, 1804c, 43). Più in generale, come già si è ricordato, è utile ed opportuno che anche il bene pubblico sia posto sotto il controllo di siffatto interesse (cfr. retro, 642-643, 657). 681 Gian Paolo MASSETTO: MELCHIORRE GIOIA E IL DIRITTO PENALE. PRIME NOTE, 631-704 l'onorario attribuitogli, tanto scarso da rendere pressoché impossibile sopportare le spese alle quali era assoggettato, faceva si che si mutasse in giocatore contro la na-zione "con mille eventualità propizie". Insomma, la legge lo costringeva a divenire ladro.83 Occorreva pertanto osservare, mettere sotto stretto controllo "quella serie d'arbitrii, che si prendono" tutti coloro che sono preposti alla sorveglianza della cir-colazione del grano, tra i quali rientravano i capitani del divieto. "Queste onestissime persone [...] questi vigilanti e probi magistrati, che spargendo minaccie d'accuse e sequestri, traggono nelle loro reti l'ignoranza, e la debolezza; che profittando del timore da essi diffuso, parlano alto, e van sulle furie, e gridano al contrabbandiere, al monopolista, al ladro; tanta è in essi la certezza che sono rari i loro simili! Che fini-scono col farvi imprigionare, per dimostrarvi coll'ultima evidenza, che avete torto di chiedere il vostro grano, gli agenti dico dell'annona sanno far conoscere mille occa-sioni, onde procurarsi sempre nuovi guadagni" (Gioia, 1850c, 364). Le stesse consi-derazioni sollevavano gli agenti della polizia annonaria e gli agenti del potere giudi-ziario, i cui ultimi gradi, gli sgherri, erano spesso in lega con gli assassini. La ragione è sempre la stessa: la scarsissima mercede loro attribuita. Ed ecco allora la massima, fondata sulla constatazione che l'uomo, laddove si trovi tra il bisogno e l'eventualità di guadagno, calpesta il dovere: "Scemate dunque il bisogno, cioè accrescete gli ono-rari, e allora i doveri saranno più rispettati". All'obiezione che l'aumento degli onorari avrebbe potuto comportare un aggravio per le casse dello Stato, Gioia controbatteva con il proporre una riduzione degli uffi-ci, massime di quelli inutili, se non dannosi, quale "l'ufficio di notificazione".84 La questione degli onorari investe non soltanto gli ultimi gradi del potere giudi-ziario, gli sgherri, come si è testé detto, ma anche coloro che ne sono assoluti prota- 83 Intorno a questa magistratura, prevista dalle Nuove Costituzioni milanesi (Constitutiones, 1541, 16r-22r, lib. primus, cap. De praefectis annonae, §§ Electio autem ss.), Pietro Verri, nel 1763, scriveva: "I "Capitani del divieto" sono gli ufficiali mantenuti da questo tribunale [il Magistrato Camerale] in diverse parti dello Stato per l'osservanza di queste leggi. Infinite sono le strade per le quali questi Capitani portano la vessazione ed il disordine nella campagna. Qualunque miserabile venditore di riso o legumi non puo introduire nella sua bottega questi generi se non ottiene licenza dal Capitano, la quale si paga soldi 30. [...] I poveri abitatori della campagna restano cosi in preda a questo giudice, che è parte, a cui spetta il fare le visite, ed obbliga a continue redenzioni pecuniarie chi vuole, colla minac-cia d'un processo che ridurrebbe il supposto reo all'ultima mendicità qualunque volta il Capitano vo-glia asserire che il grano che si trova sia oltre le licenze spedite. Cosi desolando le campagne vengono questi Capitani un anno coll'altro ad avere l'entrata di sei in sette mila lire, cavate goccia a goccia dalle vene de' più poveri, più utili, e più industriosi sudditi". Verri in: Vianello, 1939, 149-150. Si legga anche Verri, 1804c, 117-118. Sulle "angherie" commesse dagli esecutori di provvedimenti inutili, v. retro, 656-657. 84 Rifacendosi all' "autorità rispettabile" di Pietro Verri, Gioia rileva come tale Ufficio registrasse una quantità di grano bastevole per solo metà dell'anno, pur essendo ben noto che la produzione superava il consumo: "[...] perché dunque voler ritenere un officio che non solo è inutile per sapere la quantità del raccolto, ma puo co' suoi risultati fallaci giustificare le voci d'un'immaginaria carestia?" (Gioia, 1803a, 170-177, ma v. anche Gioia, 1850c, 370-374. Per il richiamo a Verri, cfr. Verri, 1804c, 171). 682 Glan Paolo MASSETTO: MELCHIORRE GIOIA E IL DIRITTO PENALE. PRIME NOTE, 631-704 gonisti, i giudici. Non si puó davvero dire che Glola nutra eccesslva stima nel loro confronti,85 ed altrettanto è a dlrsl per gli uomini dl legge in genere. La cognizione, elemento primo dell'lnclvlllmento, che trovava nella superstizione la sua antitesi e che trovava nel suo progredire i più forti ostacoli nel clero e nell'arlstocrazla, costl-tuiva per Glola ll cuore, ll fulcro della civiltà del merito. In essa si rlfletteva la sua formazlone intellettuale dominata dall'lnfluenza della fllosofla razlonale e delle ma-tematlche, come aveva dl glà sottolineato Glan Domenico Romagnosi.86 Il dotto, dl cul, come è stato scritto, Glola "indossava volentlerl gli abltl", non è il "giurista nutrito dl una cultura tutta formale e lontana dalla pratica della produzlone", non è il classicista che raccoglle, custodlsce e tramanda quanto il passato ha legato al presente, né tammeno ll teologo, "che alimenta il suo carisma alla fonte malsana della rassegnazione" : il dotto è, invero, colui che si appllca alle scienze esatte ed alle scienze naturall. Il naturalista è la figura emblematica del dotto, per Glola. Gli studl sostenuti, le osservazioni svolte costituiscono il presupposto della sua proposta politico-civile. Dl qui lo sdegno, megllo è forse dire i caustici rilievi del Piacentino nel constatare come, tra i regi professori del Lombardo Veneto, ai professori dl letteratura classlca latina e filologia greca venisse corrlsposto uno stlpendlo superiore a quello del professori delle scienze economiche: "Le scienze economiche necessarie a tutti i pubbllcl am-ministratori e a tutti gli intraprenditori dl qualunque specie, le scienze economiche sparse tuttora dl molte spine e non llevl difficoltà, sembrano meritare la preferenza sulla letteratura greca e latina, la quale puó darci qualche clarllere e non degli ammi-nistratorl. Del resto la preferenza agll studj frlvoll sopra i più solldl e più generalmente utili, è universale [...]" (Glola, 1819, 313; cfr. Meriggi, 1990, 128-134). Le incertezze, le false idee che turbavano i repubblicani - glà ne ho fatto cenno -producevano effetti negativi anche nel settore che sto considerando. Una mallntesa economia conduce, tra l'altro, alla diminuzione dell'onorarlo del gludlcl, con il che legislatori e governanti mostrano dl non rendersl conto che gli uomini professionalmente preparati lasceranno ll posto all'lgnoranza e all'lmmoralltà, "e i particolari pa- 85 Plaudendo ad "uno de' più speciali vantaggi recati dall'Imperatore e Re all'Italia", vale a dire la pubbli-cità dei giudizi, Gioia ne sottolinea le positive conseguenze: "Il giudice che si vede sotto gli sguardi del pubblico, è costretto ad essere giusto talvolta suo malgrado; il timore dell'infamia lo forza a ridurre a silenzio le sue private passioni, a chiudere l'orecchio alle istigazioni altrui. La storia più superficiale de' tribunali ci mostra delitti d'ogni specie suggeriti dalla rabbia dall'animosità de' potenti, eseguiti per l'addietro da giudici impunemente colpevoli. La proprietà la vita la libertà l'onore de' cittadini garantiti dalle leggi riescono nomi vuoti, quando non hanno la garanzia del pubblico" (Gioia, 1809, 4). 86 "Il Gioia, lungamente nutrito ed assiduamente educato nella razionale fllosofla induttiva e nelle ma-tematiche, che aveva preso le mosse dalle cose pratiche, per una specie di naturale istinto, risali in or-dine retrogrado alla possanza secreta che lo animava, e quindi, inteso sempre a rendersi, per quanto potè, popolare, pose in luce le maniere sue di vedere nella logica e nella ideologia" (Romagnosi, 1834, 171). Si veda anche Sacchi, 1829, XXI-XXII. 683 Gian Paolo MASSETTO: MELCHIORRE GIOIA E IL DIRITTO PENALE. PRIME NOTE, 631-704 gheranno quanto ricusa la Nazione". Insomma, quello della Nazione, si rivela essere un falso, supposto risparmio.87 Anche in questo caso ritorna inoltre il ricorrente motivo dell'interesse. Puó essere che in un primo momento di entusiasmo l'uomo si spogli dell'interesse che lo connota, ma "l'entusiasmo fondato nella immaginazione è di sua natura variabile" e ben presto si spegne. Il legislatore non puó, né deve affidarsi a casi variabili e straordina-ri, bensi deve "affidare l'esecuzione delle leggi al corso regolare delle passioni". Quanto all'ignoranza, l'esperienza pone in chiaro come nelle Commissioni, nei Tribunali, nelle amministrazioni, nelle municipalità siano stati introdotti uomini che "non hanno tintura alcuna di diritto civile e criminale". E da siffatta ignoranza conse-guono mali di ogni genere. Qualche esempio concreto non guasta. Tale Dadini sessantenne, infermo, paralitico e cieco fu condannato dalla Commissione di alta polizia a 5 anni di carcere per avere detto che, non avendo il popolo eletto i suoi rappresentanti, non si puó dire che la Cisalpina fosse una vera Repubbli-ca democratica. Gioia si limita ad osservare che nella sessione 7 frimale Guiccioli ebbe a dire: "Noi stessi non sediamo forse incostituzionalmente? Ove abbiamo il mandato del popolo?" E Reina nella sessione 4 nevoso aggiunse: "La legge della nostra elezione è parimenti incostituzionale; e pure fu ritenuta valida [...]" (Montal-cini, Alberti, 1917a e 1968, 148; Montalcini, Alberti, 1917b e 1970, 508). Altro esempio. La Commissione militare di Brescia giudicó secondo la legge 14 frimale anno VI (4 dicembre 1797), legge che prevedeva l'istituzione provvisoria di una Commissione Criminale Militare, "composta di cinque probi, ed illuminati Cittadini, quali militarmente abbiano a giudicare [...] li delitti d'assassini, aggressioni, omicidj, e furti qualificati" in tutti i dipartimenti, "ove lo richiede il bisogno [...]", nonché una moltitudine di delitti anteriori alla legge stessa.88 Da ultimo, tale Fada di Brescia fu accusato da un solo testimone correo. "Due tribunali lasciarono il processo aperto, e la commissione del buon senso lo fece fucilare. Eppure" - rileva e conclude Gioia - "basta avere una tintura di diritto criminale per decidere il contrario [...]" (Gioia, 1798d, 39 e nota 21, 41-42 e nota 24). 87 Siffatta politica, di contenimento degli stipendi della magistratura, nonché di riduzione del suo organico, paventata da Gioia, verrà in effetti attuata tra il 1805 e il 1807, anche come conseguenza delle incisive riforme che investirono l'organizzazione della giustizia. Si leggano le considerazioni di Dezza, 1996, 919 (in nota 23 indicazioni bibliografiche), che esamina anche il pensiero di Pietro Mantegazza del tutto consentaneo con le convinzioni di Gioia. 88 Intorno a questa legge (Raccolta, 1797b, 57) v. Danusso, 1996, 864, nota 305. Sulle diverse commissioni, criminali, straordinarie, militari e di polizia operanti nel periodo 1797-1815 e rientranti in quelle, che sono state definite "strutture giudiziarie speciali", oltre a Roberti, 1947, 266-267, 288290, 308-310, v. Dezza, 1996, 948 ss., con le critiche loro elevate da Pietro Mantegazza (Mantegazza, 1814, 74-87. Cfr. Dezza, 1996, 915-916 per le magistrature che lo videro loro componente). In ordine al Bellani, nelle vesti di magistrato, Danusso, 1996, 777. 684 Glan Paolo MASSETTO: MELCHIORRE GIOIA E IL DIRITTO PENALE. PRIME NOTE, 631-704 Riflettendo sulla composizione della Commissione, Giacinto Schilini, autore dl due llbelll sul caso, stesl per escluslvo amore della verità e dell'umanità - egll stesso si definisce "Filantropo" - rllevava che "tre giudici della Commissione Militare che l'hanno condannato sono probl cittadini, né lo dublteró del loro civismo, della loro illi-batezza". Questa conslderazlone non lo distoglieva peró dal dubitare fortemente intor-no alla loro preparazlone giuridica: "[...J non so peró fino a dove si estendono le loro cognizioni in questa materia per decldere della vita degli uomini del destino della fa-miglia". Al dubblo, in verità, qualche fondamento non mancava, quando si pensi che, ac-canto a Lello e Glrolamo Fenaroli - quest'ultimo glà presidente della prima Commissione, che aveva condannato il Fada a dlecl anni dl carcere -, sedevano in tribunale tre altrl giudici, del quali il primo, Francesco Molinari, era "figlio dl un ricco fabbrl-catore dl carrozze", il secondo, Glrolamo Rovetta, era "mercante dl tele panni etc."; il terzo, Pietro Rondini, era "commerciante in sete".S9 E si pensi anche al fatto che fu-rono questi tre giudici non giuristi che si dichiararono per la pena dl morte, mentre i due Fenaroli dissentirono da siffatta pena, propendendo per l'lrrogazlone dl vent'anni dl carcere (Schilini, i79Sa, 12, ove è riprodotto il testo della sentenza). La riflesslone dello Schilini al riguardo è la seguente: "E non dovremmo inorrldlre alla sentenza dl morte? [...J Due giudici opinarono per la condanna capitale; due per la carcere: il crederete? Contro ogni costume contro l'umana credenza, il quinto dirime la discordia per la morte. Un voto solo, che sempre rivolger si dovrebbe in favore dell'lncol-pato, un voto solo lo danna a morire" (Schilini, i79Sa, 13). Ma, come glà ho detto, le incertezze, le false idee dl cul erano ancora preda i Re-pubblicani facevano si che nel tribunall sedessero soggetti che non avevano cogni-zlone alcuna dl diritto, civile o penale che fosse. Il giudice peró puó essere non soltanto ignorante, ma anche avido.90 E' il frutto dl uno del difetti che puó pervertire il patrlottlsmo: l'lnteresse, o megllo, la falsa idea dl interesse. Questo sentlmento, questa forza che, quante volte ormai l'ho scritto, costi-tuisce per il Piacentino la molla principale che fa agire gll uomini, operava anche sul Repubblicani che, per essere coerentl alle idee dl eguaglianza, non si sottrassero dal pagare tributo all'umanità. Con malcelato sarcasmo, Gioia ricorda che il Gran Consi- 89 Sulla composizione delle tre Commissioni, Schilini, 1798b, 6 e note b-c, 7 e nota a; su alcuni dei personaggi, giuristi e non, indicati, Tedoldi, 1999 ad indicem e, sul caso Fada, Garlati, 2006, 45-59. Esemplari dei due scritti dello Schilini sono in Istituto di Storia del diritto medievale e moderno, Uni-versità degli Studi di Milano, con segnatura 67 III C 51/2-3. 90 Sulle diverse qualità e aspirazioni, sui comportamenti che deve possedere ed attuare un magistrato che, giunto alla fine della carriera, voglia "guardare gli anni passati [non] come colui, che uscendo da un mare agitato guata l'onda pericolosa, ma come colui, che terminato un passeggio si riposa", si leg-gano i tre discorsi pronunciati da Carlo Bellani in occasione dell'apertura dell'anno giudiziario nel triennio 1811-1813. Su di essi, ampiamente, Danusso, 1996, 788, 797-828. 6S5 Gian Paolo MASSETTO: MELCHIORRE GIOIA E IL DIRITTO PENALE. PRIME NOTE, 631-704 glio non diede eccessiva prova di disinteresse, quando decise che, oltre all'onorario, fossero pagati ai suoi membri alloggi e lettere. E Perseguiti juniore "portó la spilorceria a segno da pretendere, che la sciarpa de' legislatori fosse fatta a spese della nazione [...J l'interesse fu ascoltato, e il popolo al cui bene vegliano i legislatori colla loro sciarpa, il popolo pagó". Con finezza psicologica Gioia descrive la critica situazione di questi repubblicani. Recuperata la libertà, desiderosi di espandere le loro forze intellettuali e morali per ogni dove, incerti sulla natura e sulla portata del potere di cui d'improvviso si ritro-vavano titolari, consci che la rivoluzione avrebbe potuto altrettanto improvvisamente ripiombarli in basso, alcuni d'essi - Gioia sottolinea "alcuni d'essi" - vacillano intorno al concetto di proprietà, la vendetta ed il rancore contro il partito opposto preval-gono al punto dal togliere loro ogni scrupolo, anzi addirittura li spingono a sperperare il pubblico patrimonio. La conseguenza, meglio le conseguenze? "Tanti ladri innon-dano la repubblica con le insegne più imponenti [...J; quindi cadono sotto la scure del carnefice si pochi ladri, perché pochi mancano di che contentare l'avidità del giudice, il quale, come è ben naturale, deve ritrovare innocente, chi si affretta ad empirgli d'oro la mano; quindi dei comandanti che si dicono vindici dell'umanità, padri dei popoli [...J fanno imprigionare delle municipalità, perché ricusano colla legge alla mano di sottoscrivere i ladroneggi d'uomini infami [...J". Tutto ció determina un'ulteriore conseguenza di carattere assai negativo: la diffi-denza infinitamente dannosa che pervade la popolazione, la quale, adusa a sentire più che a ragionare - questo altro non è se non un piccolo accenno della valutazione pes-simistica che Gioia ripetutamente esprime nei confronti delle classi popolari; non ne va esente, in particolare quella milanese (Gioia, 1850c; Gioia, 1817)91 - "estende 91 Siffatta valutazione (v. anche Gioia, 1964, 22-23, 95) ripetutamente emerge nel Quadro politico di Milano. Già la frase riportata in epigrafe è significativa al riguardo: "Desio verace Di prisca, intera libertà non entró In questo Popol guasto" (V. Alfieri, La congiura de' Pazzi, atto I, scena III). E poi, "Ció posto: una dabbenaggine eccessiva pare il caratterere specifico del popolo lombardo; una sen-sualità grossolana lo inchina e lo ingolfa nelle sensazioni del gusto e della voluttà. Le vecchie abitudi-ni consolidate dal peso di varj secoli, fiancheggiate dal carattere nazionale un po' inerte, non gli per-mettono di sublimarsi gran fatto" (Gioia, 1798b, 17). "Scendiamo al popolo. Quello di Milano è discolo e superstizioso; pusillanime ed incapace di entusiasmo; ignorante, e poco suscettibile d'idee su-blimi; non soggetto, ma schiavo delle antiche consuetudini; costante per inerzia, buono per indole, e quasi direi per fibra; leale, senza riflessione, ed è forse meglio; incapace d'odio profondo, il che è un difetto, giacché conviene sentirlo contro il delitto; capace di lamento, ma non di sommossa; poco deli-cato della voluttà, e perció insensibile ai sogni dell'amore; ghiottone e bevitore; in generale più domi-nato dal fisico, che dal morale; pare che gli si possa applicare il motto: Fruges consumere natus" (Gioia, 1798b, 40-41. Per il passo di Orazio, Epistulae, I, 2 ad Lollium). Giudizio severo Gioia esprime nei confronti di quegli "esseri multiformi, che hanno esaurito tutto il frasario della virtù per carat-terizzare se stessi, e si sono chiamati repubblicani, democratici, patrioti, cittadini, uomini virtuosi, amici del popolo, nemici della tirannia, difensori delle leggi, sostenitori dell'umanità, apostoli del-l'eguaglianza, martiri della libertà, campioni della virtù, eroi del genere umano, e che so io!" (Gioia, 1798b, 44); nei confronti di quegli "esseri medii tra la monarchia e la repubblica [cheJ partecipano dei 686 Glan Paolo MASSETTO: MELCHIORRE GIOIA E IL DIRITTO PENALE. PRIME NOTE, 631-704 l'orrore del delitto sul principi e le masslme del delinquenti". Lo spirito polemico alimenta ancora una volta la concluslone dl Melchiorre Glola: "Non è dunque l'oro del perfido Pitt che mini sordamente le moderne repub-bllche, ma l'oro delle repubbllche rubato da quelll che lo amministrano. Il patriotismo del C[onsiglio] L[egislativo] non ha ancora organizzata una legge generale, che freni le mani dl questi sedlcentl repubblicani, che dirigono gli affarl secondo gl'lmpulsl della loro insazlablle avidità" (Glola, 1798d, 24-28 e nota 10).92 Soffermiamo ancora un poco l'attenzlone su chi opera nell'amblto del processo. Non solo il giudice, invero, riceve da parte del Piacentino un'aspra critica, anche l'av-vocato ne segue la sorte: "Vi è nella società una classe d'uomini che dovrebbe essere amica della libertà" - scriveva Glola nel 1796 - "perché emanando gl'oracoll della glustizla dovrebbe simpatizzare tutte le idee dl virtù. Ma se l'amore della libertà è naturale agll spiriti giusti ed ai cuori incorrotti, egli debb'essere straniero a degll uo-mini abituati alle cavillazioni ed ai sofismi; che avvezzi a sottomettersi all'autorità di scrittori inintelligibili hanno perso l'uso della riflessione; che costretti dall'interesse a difendere qualunque cliente, devono formarsi una teoria d'equità arbitraria everslva d'ogni giusta idea; che chiamatl dalla vanità a sostenere un sistema erroneo che ha fatto l'occupazione della loro vita ed è il garante della loro passata condotta, devono opporsi all'introduzione d'un altro affatto opposto che fissando con precisione i dritti e i doveri, togllerà dl mezzo l'oscuro, il vago, l'arbltrarlo, sorgente eterna dl dissen-zloni e dl litigi" (Glola, 1964, 92-93). Si tratta, pare dl poter dire, dl una critica integrale, che investe l'avvocato nella sua personalità morale, professionale, intellettuale, un avvocato che, crescluto in un sistema giuridico ove la certezza era un mito, si mo-strava sordo al nuovo che avanzava e che andava imponendosl con le sue istanze difetti dell'una e dell'altra" (Gioia, 1l98b, 46); nei confronti dei "sedicenti repubblicani" (Gioia, 1l98b, 48-50). Lo scritto termina con questa frase: "Nella terra della libertà s'usano le perfide ricerche della tirannia; nella terra della giustizia gl'imbecilli cadono vittima dell'ignoranza e dell'ingiustizia dei legislatori; in tempo d'entusiasmo si vede un popolo oppresso dalle fatiche, che solleva un momento il capo al rumore universale, guarda stupidamente, mormora sotto voce. Va alla messa o al bordello, e ignora ancora se è libero o schiavo" (Gioia, 1798b, 53-54. Il passo ha attratto l'attenzione di Cavanna, 1996, 665; Cavanna, 2001, l23, nota 16, ove esso è inserito, con utilizzazione di vasta bibliografía, nel più ampio contesto di una valutazione della condizione delle masse popolari nelle diverse fasi del-l'Italia napoleonica, ma v. anche, con specifico riguardo al triennio giacobino, le importanti considera-zioni di Nutini, 1990, 8l-89, 100-103). In difesa del popolo si leverà, risoluta, la voce di Giuseppe Lattanzi (Lattanzi, 1l98, 23-30), nonché quella di M. Renieri (Romagnosi, 1834, 1l5-1l6, nota 2). 92 In Gioia, 1l98d, 25, nota 11 si legge: "Io conosco de' repubblicani disinteressati a segno che volentieri si riducono al verde per addolcire l'altrui trista situazione. Il patriotismo di questi attinge forza nel-l'amore dell'umanità, nella compassione pel popolo, in quella divina espansione d'anime, che ci associa all'altrui dolore, che c'inumidisce gli occhi delle altrui lacrime, che ci fa fremere a tutti i gemiti, che ci fa palpitare alla vista di tutti gl'infelici, e porta sul nostro cuore il contraccolpo di tutti i mali sparsi d'intorno a noi, che ci sforza a sollevare quelli che soffrono per liberarci da un dolore che ci stanca e ci tormenta". 687 Gian Paolo MASSETTO: MELCHIORRE GIOIA E IL DIRITTO PENALE. PRIME NOTE, 631-704 codicistiche, che tale certezza avrebbero dovuto assicurare.93 Anche nella concreta vita forense il ruolo dell'avvocato è inutile, di più, dannoso per una retta amministrazione della giustizia. Istruttive sono le pagine che si leggono nella Teoria civile e penale del divorzio, che si basano su un principio di fondo assai chiaro: "Ora a me sembra che questo consiglio d'avvocati inchiuda più inconvenienti che vantaggi, cioè sia inutile all'innocente, e soltanto favorevole al reo". Il coniuge innocente, infatti, ha un unico mezzo per sostenere la sua pretesa, quello di dire sem-pre e in modo franco la verità. Il solo consiglio che l'avvocato possa dargli è d'espor-re sempre il vero, di non allontanarsene mai, ma si tratta di un consiglio che "gli è suggerito dalla propria coscienza, e puô essergli inculcato dal giudice che lo interroga, dal giudice, che nessuna ragione puô far riguardare come l'avversario di chi si presenta al suo tribunale". Ben diverso è il ruolo che l'avvocato gioca in rapporto al reo. Costui, se compare da solo innanzi al giudice, in uno stato di affannosa incertezza circa le prove raccolte in suo sfavore, incalzato dalle domande del giudice, preoccupato di non cadere in contraddizione, "non puô sostenere francamente, e per molti istanti, questi sforzi riu-niti" e cede, aggravando viepiù la sua già precaria posizione. In questo gli avvocati possono essergli di concreto aiuto, facendo si che le risposte si combinino e s'acco-modino tra di loro in modo che ne risulti un complesso coerente e convincente. Sottolinea Gioia: "Altronde gli avvocati componendo con arte le masse parziali della probabilità, che costituiscono la certezza morale" - Beccaria aveva detto che la certezza morale "bene esaminata non è che una somma probabilità e niente di più"94 - "ed opponendole successivamente alle probabilità contrarie, presentate nel punto di vista più favorevole, fiancheggiate dai sentimenti d'umanità che inspira un accusato, giungono a torre alla certezza la sua forza". Ed i giudici, per parte loro, privi di sen-satezza e di sangue freddo, si lasciano involgere dalla nebbia che, prodotta dagli avvocati, offusca la verità, ed abbagliare dalla luce che, prodotta anch'essa dagli avvo-cati, ammanta il delitto di falsa innocenza. 93 Favorevole a siffatte istanze si mostra Gioia - "[...] tutto dimostra la necessità di portare presto alla fine la rivoluzione colla introduzione d'un nuovo codice" -, che pur non si nasconde le connesse diffi-coltà operative. Gioia, 1964, 111-113. Nell'indicare i mali e i difetti caratterizzanti l'ancien régime, che il sistema codicistico in un ordinamento politico guidato da "un solo governo repubblicano" avrebbe dovuto eliminare, Gioia sottolineava, insieme con altri, i seguenti: "[...] la giurisprudenza romana unita alle massime della tirannia; il diritto civile e politico in contraddizione con la religion dominante opposta all'ineguaglianza e all'ambizione; [...] mille leggi d'eccezione per una legge di principio; mille leggi interpretative per una legge fondamentale; i costumi in opposizione con le leggi; le leggi che si combattono tra di loro; l'arbitrio a fianco delle decisioni; i tribunali che decidono senza regola; una folla d'arpie sotto il nome di giuristi, che divorano le sostanze del popolo fissando i limiti della giustizia e turbano la società col pretesto di pacificarla; [...] tutte le frontiere coperte di soldati per ritrovare dei delinquenti [...]" (Gioia, 1964, 77). 94 Beccaria lo aveva detto, con Risi e Gallarati Scotti, in seno alla Giunta Leopoldina applicata al penale negli anni 1791-1792. Beccaria, 1971e, 739; Beccaria, 1862, 372). 688 Gian Paolo MASSETTO: MELCHIORRE GIOIA E IL DIRITTO PENALE. PRIME NOTE, 631-704 Impostata cosi la questione, la conclusione di Gioia appare convincente: l'esclu-sione degli avvocati dalla discussione delle prove è utile e necessaria, in quanto comporta "[...J la massima probabilità di non condannare alcun innocente, e di colpire il massimo numero de' rei; all'opposto ammettendoli a questa discussione, si è sicuro di vedere offuscata l'innocenza, e salvi molti colpevoli" (Gioia, 1803b, 238-242). Terminano qui le mie prime note - sarebbe forse meglio scrivere note minime -su Melchiorre Gioia penalista. Lo studio è stato essenzialmente condotto su quelle opere di non grande dimensione scritte a cavaliere tra Sette e Ottocento e che furono apprezzate anche da Carlo Dossi, di certo non tenero nei confronti del Piacentino, se si ricorda il giudizio severissimo espresso nei confronti del Calateo gioiano (cfr. retro, nota 14).95 In tali scritti Gioia affronta anche questioni penalistiche, questioni particolar-mente vive in un contesto politico assai complesso quale quello in cui egli si trovó a vivere, caratterizzato da sommovimenti, guerre, mutamenti di regime politico, che sono colti come una delle concause determinanti l'aggravamento della situazione criminale affrontata dai diversi governi con una politica penale intonata, in genere, a rigore e severità con riguardo all'ordinamento giudiziario, alle procedure, alla rispo-sta sanzionatoria. Di questo tormentato contesto Gioia è cosciente, immerso come è nella realtà del suo tempo, estremamente attento ai diversi processi e sviluppi di varia natura, che si svolgevano sotto i suoi occhi. E in una serie di opere, quelle sulle quali ho fermato l'attenzione, pur dedicate a temi diversi (economici, statistici e politici), affronta que-stioni penali, svolgendo considerazioni critiche, studiando e proponendo rimedi per fronteggiarle. Alcuni aspetti della sua personalità scientifica e culturale immediatamente emergono distinti: in polemica costante con gran parte dei suoi interlocutori, Gioia si mostra sensibile allo stretto intreccio che lega economia e pena, alle istanze illuministiche della forza dell'educazione, del garantismo, della legalità, proporzio-nalità, irretroattività della pena, nonché delle leggi. Gioia, dunque, campione del liberalismo penale? La risposta potrebbe essere af-fermativa, se non ricorressero alcune contraddizioni, alcuni cedimenti anche vistosi, le une e gli altri resi forse inevitabili dalla sua ansia di tutto indagare, studiare, valutare e spiegare, un'ansia che egli cercava di soddisfare con la stesura, incessante e frenetica, di scritti. Descrive bene il metodo di lavoro di Gioia un suo biografo: "For-s'anche tal pecca [aveva gravato "i leggitori di buona parte della fatica da lui spesa a trovare le utili verità"; aveva affastellato "troppi fatti"; aveva messo a nudo "indefi- 95 Scrive Dossi: "Importantissimi allo studio della Riv. Francese '89, e specialmente a' suoi effetti in Italia e nella rep. Cisalpina, sono gli opuscoli di Melchiorre Gioja - In proposito vale anche la pena di dare un'occhiata all'estratto manoscritto in zibaldone della Cazzetta di Milano dal 1778 al 1780 (BA, 1) e al Cazzettino di Milano 1799 (stessa Biblioteca) - M. Gioja appartiene ai letterati-giornalisti o pamphletistes, feuilletonistes"(Dossi in: Isella, 1964, 2853, 292). 689 Gian Paolo MASSETTO: MELCHIORRE GIOIA E IL DIRITTO PENALE. PRIME NOTE, 631-704 nite particolarità a nocumento delle vedute generali"] potrebbe ascriversi al modo con cui il Gioja tesseva i suoi lavori. Egli usava tracciare la sola ossatura delle opere, indi maestrevolmente tratteggiava le singole parti del suo soggetto, soffermandosi a quelle che gli parevano più rilevanti, e appena compieva qualche foglio, era da lui tosto in-viato alle stampe, per cui con una celerità che spesso passava quella del tipografo egli conduceva a buon termine in pochi mesi produzioni di atlantica fatica. In quella pressa pertanto di lavorio non curavasi alcune fiate di ritornare sul già fatto, e di annodare le sue diffuse investigazioni a sommi capi [...]" (Sacchi, 1829, XXII-XXIII). In una produzione cosi ampia e serrata, caratterizzata, inoltre, da forte vis polemica - se ne è già fatto cenno per l'addietro (cfr. retro, 680 e nota 79), ma illuminanti sono le parole che Gioia stesso scrisse nel 1798 in chiave politica: il pubblicista democratico "non meriterà di esser confuso colla vil turba de ' schiavi, se fiancheggiando la troppo debole ragione, screditerà le abitudini monarchiche colla finezza del dileggio, col sarcasmo la malignità orgogliosa, colle satire amare la tirannia, che si veste delle forme repubblicane" (Gioia, 1832, 209; cfr. Sofia, 2000, 134)96 - si possono cogliere ed anche capire incoerenze, tentennamenti e fraintendimenti,97 quali quelli, per esempio, che Gioia denuncia nel trattare di delitto tentato e non consumato e di delitto di atten-tato (v. retro, 661-663), ovvero nell'affrontare il tema dell'eguaglianza (v. retro, 664665). Mi soffermo su un punto soltanto. Vincenzo Cuoco, nell'esilio milanese, ove compiva il suo tirocinio statistico, rilevava come Gioia, liberale in economia, non altrettanto lo fosse nel penale: un giudizio non del tutto privo di fondamento, anche se forse troppo parziale - si è avuto modo di illustrare quanto forte sia stata la sua polemica con Gioia su fronti diversi -, troppo tranchant. Il Piacentino era convinto che i provvedimenti eccessivamente rigorosi, "feroci" non fossero in grado di conseguire gli obiettivi di una corretta politica criminale, in quanto determinavano l'effetto di indisporre i destinatari, eppure si mostra favorevole all'inasprimento delle pene, financo alla pena di morte - si pensi al suo favore per la legge del 25 febbraio 1804 (cfr. retro, 653-654, 670-671) -; eppure crede nel premio, nel soddisfacimento e, pertanto, nel 'diritto premiale', quale utile strumento di prevenzione. 96 E' sufficiente scorrere il breve articolo per avvedersi di quanto frequenti siano le occasioni perché risulti impossibile che "[al giornalista democratico] non sdruccioli dalla penna qualche tratto satirico, qualche sale pungente [...]". E cosi facendo, nella difesa dei "sacri diritti del popolo, egli non prostitui-sce la sua penna, né la fa vil strumento o delle proprie o delle altrui private passioni. L'odio contro i ti-ranni è il sentimento imperioso che lo anima; egli tingerà dunque la sua penna nel fiele per spargere sulla massa del popolo questo odio santo, che è l'unico da cui tutte le virtù repubblicane rampollano" (Gioia, 1832, 209-211). 97 Scrive ancora Sacchi: "In quella pressa pertanto di lavorio non curavasi alcune fiate di ritornare sul già fatto, e di annodare le sue diffuse investigazioni a sommi capi; a talché chi legge in alcuni de' suoi scritti più assomigliarsi ad uno che scorra per un ignoto paese ove si abbatta ad ogni tratto in incante-voli vedute, e mentre è allettato a quel prestigio, non sa più discernere la via per cui vi è pervenuto" (Sacchi, 1829, XXIII). 690 Glan Paolo MASSETTO: MELCHIORRE GIOIA E IL DIRITTO PENALE. PRIME NOTE, 631-704 Glola prende le distanze da Cesare Beccaria, ascrlvendolo, per la sua mallntesa pietà verso i rel, alla "ciurmaglia de' moralisti" (cfr. retro, 645-646, 654-655), eppure il più delle volte, come si è cercato dl porre in evidenza, egll si dlmostra plenamente aderente alle innovative idee avanzate dal Milanese - non affatto raro è il caso che sembri essere costui a scrivere attraverso le pagine gioiane -, al punto che, a giusto tltolo, lo si puó configurare come banditore dl molte delle istanze dell'lllumi-nismo penale, con escluslone della plena adeslone a quella consistente nell'avvertlta esigenza della umanità della pena, ovvero, in ogni caso, della sua mitigazione. Lo studio più approfondlto delle opere qui considerate, l'lndaglne su quelle redatte da Glola nella sua età matura, lo scavo del fondo documentarlo che contiene un cosplcuo materiale inedito da Glola dedlcato al penale e che ora è consultabile anche presso l'Istltuto cul appartengo (cfr. retro, 648) permetteranno dl elaborare e dl espri-mere valutazioni più consapevoll e fondate su questo, come su altri aspetti del pen-slero del Piacentino e, quindi, dl delineare in modo più compluto e soddlsfacente il suo profilo penalistico. Soprattutto consentiranno dl corroborare quella che glà, fin d'ora, è qualcosa dl più che non una sempllce sensazione: come Glola s'inserisca, nel penale, in una linea dl penslero che da Beccaria e da Pletro Verri perviene a Roma-gnosi ed a Cattaneo. Il che glà è stato colto relativamente ad altri settori, quello economico (Porta, Scazzieri, 1999, 847), quello degli studi morali (Ambrosoll, 1989, XCIX-C e nota 99). Dl recente, si è cercato dl caratterizzare "Beccaria, Verri, Glola, Carll, Romagno-sl, Cattaneo [...] su un paradigma comune pur volendo evitare il rischio dl forzature". E questo perché essl "sono pensatori nel campo della storia, della fllosofla, della politica del diritto, dell'economia e, non certo in subordine, della tecnologia"; essl, ali-mentatl dal "razionale pragmatismo lombardo" sono i progettisti dl un "paradigma lombardo", che rappresenta anche "un importante riferimento per la ricerca oggi dl un "paradigma europeo" con riferimento all'Italla [...]"; essl sono autori dl opere il cul esame cl fa caplre "perché la Lombardia sla dlventata una reglone europea e perché si sla tanto sviluppata" (Quadrio Curzio, 2002, XV-XVI). Sulla base dl queste considerazioni l'approfondlmento della ricerca su Glola penalista mi pare altamente significativo, anche perché le sue opere cl offrono uno straordinario complesso dl informazioni e dl dati storici, un patrimonio "che rappresenta una "fonte storica" dl primo ordlne [...] nel senso che" - come è stato scritto -"l'esemplo portato dall'opera scientifica del Glola ripropone indirettamente il problema del giusto equilibrio tra la documentazione e l'lnterpretazlone dl tipo quantitativo e qualitativo delle componentl dl una data realtà storica" (Giusti, 1957, 1390). Ml place concludere con il riferimento ad uno del "progettisti del paradigma lombardo". La caduta degli Spagnoll aveva aperto ll campo della vita intellettuale e co-minció "quella bella successlone dl splendldl ingegni Beccaria, Parini, Pletro e Ales-sandro Verri" tra altri. Accanto al sommi, ecco altre "meno eccelse menti" Frisi, Pini, 691 Gian Paolo MASSETTO: MELCHIORRE GIOIA E IL DIRITTO PENALE. PRIME NOTE, 631-704 la Maria Agnesi. E poi, ecco "i molti venuti d'ogni parte ad abitare con noi [...], Mu-ratori, Carli [...], Volta, Tamburini, Monti, Foscolo, Rasori, Gioia, Romagnosi. I lumi si diffusero d'ogni parte [...]". Questi lumi si erano ormai fatti fiochi - "la gioventu si cura poco d'esperienze ove non sia nella bigatteria o in cantina" -, insomma: "Le scienze morali dovranno compiangere a lungo la perdita di Romagnosi e dell'inono-rato Gioia". Cosi scriveva Carlo Cattaneo nel 1836 (Cattaneo, 1836, 6-7, 10). Romagnosi non e stato certo dimenticato, ancor oggi fervono gli studi sul suo pensiero giuridico, sulla sua opera di legislatore;98 altrettantro certamente Gioia stati-stico, Gioia politico, Gioia economista non e stato "inonorato".99 Resta da onorare appieno, giustappunto, Gioia penalista. MELCHIORRE GIOIA IN KAZENSKO PRAVO: PRVI ZAPISI Gian Paolo MASSETTO Univerza v Milanu, Inštitut za zgodovino srednjeveškega in novoveškega prava, IT-20122 Milan, Via festa del perdono 7 e-mail: gianpaolo.massetto@unimi.it POVZETEK - cujejo na statistične raziskave in opise, od katerih so bili številni objavljeni v zadnjih - gled v razmere v različnih departmajih, v katere je bila strukturirana ureditev prve polovice 19. stoletja. Kar zadeva Kraljevino Italijo, je ime Melchiorre Gioia povezano z začetkom te raziskave: čeprav za krajši čas, je bil Gioia tudi direktor prvega - membnega gradiva, neobjavljen pa je tudi njegov bogat opus, posvečen kazenskemu pravu, ki ga hrani milanska knjižnica Biblioteca Braidense; gre za gradivo, ki ga je pred kratkim odkupil in na CD-romu znova objavil Inštitut za srednjeveško in moderno zgodovino na Univerzi v Milanu, kjer avtor deluje, ki pa ga za to priložnost na žalost ni mogel uporabiti. Melchiorre Gioia je javnosti junija 1804 predstavil Gospodarsko razpravo o departmaju Lario (Discussione economica sul Dipartimento del Lario odpravilo vsa nesoglasja ...". Če je bila osnovna težava, ki jo je želel razrešiti, da bi bila Razprava 98 Un esempio soltanto assai recente: nei giorni 19 e 20 maggio 2006 si è svolto a Parma il Convegno "Il "Progetto sostituito" di G. D. Romagnosi (1806). Spunti di riflessione sulla codificazione penale". 99 Come risulta, non fosse altro, dai numerosi contributi, alcuni dei quali più volte qui citati, raccolti negli atti del Convegno piacentino del 1990, preceduti dalla bella e significativa Introduzione di Carlo Capra. 692 Gian Paolo MASSETTO: MELCHIORRE GIOIA E IL DIRITTO PENALE. PRIME NOTE, 631-704 usmeril k njihovim dolžnostim", se ne smemo čuditi, če poleg obsežnih in pomenljivih zapisov o fizičnem, kmetijskem, industrijskem ter gospodarskem stanju departmaja najdemo tudi manj obsežne, vendar v enaki meri pomenljive zapise o vplivu, ki so ga javne ustanove imele na departma, med temi pa tiste, ki se nanašajo na upravo kazenskega sodstva. Predstavljeni so statistični podatki o kriminalu na tem ozemlju in ukrepi, kijih je ta večstranski avtor štel za uporabne pri boju proti njemu. Ukrepi, ki so se dotikali strukture in delovanja sodstva; moralnosti in strokovnosti sodnikov; vloge odvetnika v procesu; konfiguracije kriminalnih predpostavk, ki so zelo tesno - tijstva; sankcijskega odgovora, katerega intenzivnost je morala vedno odgovarjati intenzivnosti delikta: "če je ta znašal 10, je moral odgovor biti najmanj 11"; funkcije same kazni. Ti in drugi vidiki zapisov Gioie so predmet pričujočega članka, ki poleg Gospodarske razprave o departmaju Olona (Discussione economica del Dipartimento d'Olona,j vsebuje tudi druga manjša dela, po strukturi podobna navedenemu, vendar uradnega značaja, saj jih je naročila vlada, kot tudi dela političnega značaja iz istega obdobja (konec 18. in začetek 19. stoletja), pri tem pa iz vida ne izpusti tudi vseh del zrelega Gioie. Avtor izpostavi naslednji vidik: kako se že od prvih zapisov dalje kaže podoba Gioie, ki se v kazensko pravo vključi v miselni črti, ki od avtorjev, kot sta Cesare Baccario in Pietro Verri, dospe do Gian Domenica Romagnosija in Carla Cattanea, kot so to ugotovili že drugi raziskovalci na drugih področjih, kot je kazensko pravo. Gre za mislece, ki so bili v zadnjem času na različnih področjih označeni kot projektanti "lombardske paradigme", za katere je značilen "lombardski - stala evropska regija". - vinski viri, Lombardija, začetek 19. stol. 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Bollettino (1804): Bollettino delle leggi della Repubblica Italiana, parte prima dal I gennaio al 30 aprile 1804 anno III, n. 1-11. Milano, Luigi Veladini. Bollettino (1805a): Bollettino delle leggi del Regno d'Italia parte prima dal I gennaio al 30 giugno, n. 1-10 [rectius 73]. Milano, Veladini. Bollettino (1805b): Bollettino delle leggi del Regno d'Italia parte seconda dal I lu-glio al 31 dicembre 1805, n. 74-154. Milano, Veladini. 694 Glan Paolo MASSETTO: MELCHIORRE GIOIA E IL DIRITTO PENALE. PRIME NOTE, 631-704 Burgio, A. (ed.) (1991): Cesare Beccaria. Del delitti e delle pene. Milano, Feltrinelli. Cantù, C. (1862): Beccaria e il diritto penale. Firenze, Barbera. Cantù, C. (1879): Monti e l'età che fu sua. Milano, Fratelll Treves. Cattaneo, C. (1836): Sui milanesi e il loro dialetto in occaslone della traduzlone della Poetica dl Orazlo. In: Mololl, A. (ed.): Scritti sulla Lombardla. La Lombar-dla dl C. Cattaneo. Vol. IV. Milano, Mondadori, 5-10. Cavanna, A. 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