received: 2005-24-01 UDC 930.22:34(09)(497.4/.5 Istra)"8) original scientific paper "SINOBISSUCCURRITDOMNUS CAROLUSIMPERATOR". LEGGE ED ESERCIZIO DELLA GIUSTIZIA NELL'ETÁ DI CARLO MAGNO: ALCUNI CASI A CONFRONTO A PARTIRE DAL PLACITO DI RISANO Giuseppe ALBERTONI Universita degli Studi di Trento, Facolta di Lettere e Filosofia, Dipartimento Scienze Filologiche e Storiche, IT-38100 Trento, Via S. Croce 65 e-mail: Giuseppe.Albertoni@lett.unitn.it SINTESI A partiré dall'analisi del caso del Plácito di Risano, il saggio e dedicato al ruolo della giustizia regia nella risoluzione dei conñitti giudiziari documentati per un arco temporale che si estende dall'ultimo quindicennio del secolo VIII alla morte di Carlo Magno. Attraverso l'analisi di alcuni casi esemplari il saggio cerca di delineare come gli ideali di equita che stavano alla base del modello di giustizia proposto da Carlo Magno si dovessero confrontare con una realta spesso brutale, in particolare nelle regioni di recente conquista, dove i funzionari franchi dovevano agire come una forza di occupazione e frequentemente approfittarono del loro ruolo e potere per consolidare la propria posizione e quella della loro famiglia. In questo contesto i placiti, in particolare quelli affidati ai missi regi, ci offrono un quadro estremamente interessante del rapporto tra un modello ideale di giustizia e la complessita di una realta sociale regolata da consuetudini e da rapporti informali, spesso non contem-plati dalla legge, se non addirittura da essa osteggiati. Ció emerge in particolare nei territori franchi di recente conquista, dove frequentemente l'occupazione franca comportó l'avvento di una nuova forma di potere, che metteva in discussione le tradizionali posizioni di preminenza sociale e che, non raramente, era caratterizzata dall'uso spregiudicato della violenza e della coercizione. Parole chiave: Placito di Risano, storia del sistema giuridico, fonti giuridiche, Carlo Magno, medio evo 21 Giuseppe ALBERTONI: 'SI NOBIS SUCCURRIT DOMNUS CAROLUS IMPERATOR"..., 21-44 "SI NOBIS SUCCURRIT DOMNUS CAROLUS IMPERATOR". LAWS AND THEIR IMPLEMENTATION IN THE ERA OF CHARLEMAGNE: COMPARISON OF SOME CASES, STARTING FROM THE PLACITUM OF RIZIANO ABSTRACT Starting from the analysis of the Placitum of Riziano, the essay is dedicated to the role of royal justice in solving the juridical conflicts, documented for a period stretching from the last fifteen years of the 8th century to the death of Charlemagne. Through the analysis of some example cases, the essay tries to define the way in which the equity ideals, staying at the basis of the model of justice proposed by Charlemagne, had to be confronted with an often brutal reality, in particular in the regions, which had been just conquered, where the Frank officials had to act as an occupation force and they have often exploited their role and their power to consolidate their position and the position of their families. In this context the "placita", particularly those entrusted to the royal emissaries, give us an extremely interesting picture of the relation between an ideal model of justice and the complex social reality, governed by informal traditions and relations, often not envisaged by the law, or even contrasting the laws in force. This is particularly evident in the recently conquered territories, where the Frank occupation lead to the establishment of a new form of power, which questioned the traditional social structure and was often characterized by the use of violence and coercion. Kew words: Placitum of Riziano, history of law, juridical sources, Charles the Great, middle ages 1. Introduzione Verso la fine del secolo VIII l'arcivescovo di Orléans Teodulfo scrisse un poe-metto nel quale, a partire dalla sua esperienza di missus regio nella Gallia narbo-nense, offriva un quadro desolante dell'amministrazione della giustizia carolingia, puntando l'indice in particolar modo verso quei giudici e funzionari pubblici che, invece di far prevalere la legge, si facevano corrompere, ricevendo doni e accogli- 22 Giuseppe ALBERTONI: 'SI NOBIS SUCCURRIT DOMNUS CAROLUS IMPERATOR"..., 21-44 endo lusinghe.1 Le parole di Teodulfo riecheggiavano quelle di numerosi capitolari emessi da Carlo Magno nell'ultimo quindicennio del secolo VIII e negli anni immediatamente successivi all'incoronazione imperiale, quando, concluse gran parte delle nuove conquiste territoriali, il sovrano franco dovette affrontare la questione del governo di un impero multietnico, in cui convivevano leggi e consuetudini diverse, un problema che cerco di risolvere non tanto elaborando una nuova legislazione unica o estendendo a tutto l'impero la legge franca, quanto favorendo l'affermazione di un unico modello di esercizio della giustizia, di ispirazione veterotestamentaria, basato sulla tutela dei piu deboli - generalmente espressi nella triade pauperes, pupilli et viduae - e sulla punizione delle violenze dei funzionari pubblici e della corruzione dei giudici tramite l'ausilio dei missi regi, ai quali era assegnato un ruolo centrale nel progetto che si proponeva di realizzare una "societa giusta", basata sulla coincidenza tra legge umana e legge divina.2 Come emerge dal poemetto di Teodulfo, nella loro opera i missi dovevano con-frontarsi con una realta basata sulla violenza quotidiana, sul sopruso, sulla militariz-zazione di gran parte del vivere civile, ben lontana dall'ideale di societa giusta prefigurato dai cosiddetti "capitolari riformatori" emessi nei primi anni del secolo IX. "I tempi sono pericolosi - scrisse agli inizi dell'800 Alcuino in una sua lettera indirizzata all'arcivescovo di Salisburgo Arn, a sua volta un missus regio - e dopo ogni tribulazione ne arriva un'altra. Il popolo vive nell'indigenza, i principi nell'af-fanno, la chiesa nella preoccupazione, i sacerdoti nei lamenti: tutto e sconvolto".3 Alcuino e Teodulfo, cosí come altri intellettuali vicini a Carlo Magno, erano pienamente consapevoli della distanza tra la realta effettiva e il modello proposto dai capitolari, che essi stessi avevano contribuito a ispirare e che ancor oggi possiamo cogliere leggendo le notitiae iudicati dei placiti, in particolare di quelli - di numero estremamente ridotto - nei quali tra gli imputati vi erano dei detentori di cariche pubbliche. Il mio saggio, a partire dal caso esemplare del placito di Risano, sara dedicato proprio all'analisi comparativa di alcuni placiti convocati per porre freno agli abusi dei funzionari pubblici nell'eta di Carlo Magno in territori di recente conquista come il regnum Langobardorum, il ducato di Baviera e l'Istria. 1 II testo di Teodulfo a cui facciamo riferimento e il Paraenesis ad iudices, conosciuto comunemente con il titolo di Versus contra iudices (Teodulfo di Orléans, 1881). 2 Sulla tutela dei deboli tramite i missi, ricorrente in molti capitolari, si veda a titolo esemplificativo quanto riportato in MGH Cap., I, n. 35, Capitulare missorum item speciale (802?), cap. 59: "Ut missi nostri, undecumque necesse fuerit, tam de iustitiis ecclesiarum Dei, viduarum, orphanorum, pupil-lorum et caeterorum hominum inquirant et perficiant. Et quodcumque ad emendandum invenerint, emendare studeant in quantum melius potuerint; et quod per se emendare nequiverint, in praesentiam nostram adduci faciant". 3 Questo il testo originale dell'epistola n. 193 (800 prima del 19 marzo): "Tempora sunt periculosa, et tribulatio super tribulationem semper advenit. Populus in aegestate, principes in labore, ecclesia in sollicitudine, sacerdotes in quaerelis: omnia turbata sunt" (Alcuino, Epistolae, 1895, 320). 23 Giuseppe ALBERTONI: 'SI NOBIS SUCCURRIT DOMNUS CAROLUS IMPERATOR"..., 21-44 2. Rassegna dei lavori relativi già pubblicati Questa ricerca si ricollega idealmente a un mio precedente studio, in corso di stampa, dedicato al rapporto tra il mondo rurale e la giustizia, nel quale ho esaminato il ruolo dei missi e di altri rappresentanti del potere regio centrale nella "tutela" dei liberi di bassa condizione sociale (Albertoni, in corso di stampa). In esso ho analizzato il ruolo ambiguo svolto dai rappresentanti regi nei confronti dei "funzionari" locali, un'ambiguità che emerge anche nel placito di Risano che, pur essendo al centro di un'ampia letteratura,4 raramente è stato preso in esame da chi ha affrontato i temi della giustizia altomedievale all'interno di un orizzonte più ampio. Tra le poche eccezioni, se procediamo in ordine cronologico, dobbiamo ricordare innanzitutto l'analisi proposta alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso da André Guillou in una monografia dedicata al tema del regionalismo e dei movimenti d'indipendenza nell'Esarcato e nella Pentapoli, in cui l'autore ha proposto sia una nuova edizione commentata del placito, sia una sua discussione in rapporto al problema dell'organizzazione dell'amministrazione bizantina (Guillou, 1969, 192-202 e 294307). Dobbiamo menzionare, poi, l'ampia e articolata analisi proposta agli inizi degli anni Novanta da Harald Krahwinkler, incentrata soprattutto sulla ricostruzione di profili biografici dei protagonisti del placito, sull'identificazione del corretto significato dei titoli a essi assegnati, sul ruolo delle "città" in esso citate e sugli aspetti socio economici sottesi alla disputa giudiziaria (Krahwinkler, 1992, 199-243).5 Più breve, ma assai incisiva è, poi, l'analisi del placito proposta da Paolo Cammarosano nel suo libro dedicato a nobiltà e regno nell'Italia altomedievale, pubblicato alla fine degli anni Novanta; in esso l'autore vede nel placito istriano un caso che ben rappresenta il "disordine" presente nell'ordinamento carolingio sin dai suoi primi passi (Cammarosano, 1998, 130-134). Il placito di Risano è ricordato in modo relativamente ampio anche nella recente biografia di Carlo Magno proposta da Dieter Hägermann, il quale ha posto l'attenzione soprattutto sul ruolo giocato in esso dai missi (Hägermann, 2004, 383). Sarà a partire da queste indicazione che ci muoveremo nella nostra indagine. 3. Materiali e metodologia Com'è noto la trasmissione documentaria altomedievale spesso è casuale ed è legata alla presenza sul territorio di enti o istituzioni interessati a preservare la 4 Per un quadro generale degli studi sul placito di Risano mi permetto di rinviare a Krahwinkler, 1992, 199-243 e alla bibliografia ivi riportata. Mi scuso se non faccio riferimento diretto ad opere in sloveno o in croato, ma purtroppo la mia ignoranza di tali lingue non mi ha permesso una loro lettura. 5 Quest' analisi è stata ripresa e approfondita di recente da Krahwinkler in un volume dedicato al Placito di Risano (Krahwinkler, 2005). 24 Giuseppe ALBERTONI: 'SI NOBIS SUCCURRIT DOMNUS CAROLUS IMPERATOR"..., 21-44 memoria delle loro proprieta e dei loro privilegi. Ció riguarda anche le notitiae iudicati dei placiti che, per l'eta carolingia, sono state conservate in particolare in Italia e nel ducato di Baviera. Nel regnum Langobardorum esse, per gli anni di Carlo Magno, si riferiscono significativamente ad aree "ai margini" della dominazione franca, come il ducato di Spoleto o la Tuscia e ci sono giunte per lo piu come atti sciolti, conservati dagli archivi episcopali o abbaziali. Diverso e invece il caso della Baviera, per la quale, per il medesimo arco temporale e stato tramandato il liber traditionum fatto redigere dal vescovo di Frisinga Hitto, nel quale furono riportate in copia diverse notitiae relative a contentiones sorte al tempo del suo predecessore Atto. Si tratta, dunque, di fonti assai diverse per la loro modalita di trasmissione, ma assai vicine per il loro contenuto. Gran parte delle notitiae iudicati della prima dominazione carolingia in Italia sono state pubblicate da Cesare Manaresi a meta del secolo scorso ed e a questa edizione che ho fatto riferimento nella mia ricerca (Manaresi, 1955-1960). Il liber traditionum del vescovo Hitto, invece, e stato pubblicato insieme agli altri libri traditionum di Frisinga agli inizi del Novecento da Theodor Bitterauf (Bitterauf, 1905-1909). La mia ricerca si basa, dunque, su una schedatura di fonti edite e su una loro interpretazione a partire da una griglia di interrogativi cosí sintetizzabile: Che nesso esiste tra la presenza dei missi e la questione trattata dal placito? Qual e il ruolo effettivo svolto dai missi nello svolgimento del placito e nelle sue conclusioni? Come si rapportano i missi con i ceti eminenti? Che nesso esiste, se esiste, tra la questione trattata dal placito e l'ideologia della correctio delle leggi e della societa proposta dai "capitolari riformatori"? Che ruolo ha, nel testo delle notitiae iudicati, la polemica sui giudici e funzionari pubblici corrotti? Spero di essere riuscito a dare almeno alcune risposte, sia pur parziali, ad alcuni di essi. 4. Risultati e commento 4.1. Legge e giustizia nei capitolari di Carlo Magno L'attivita riformatrice in materia di giustizia avviata da Carlo Magno negli anni centrali del suo regno fu descritta con un certo disincanto da Eginardo nella sua Vita Karoli: "Dopo l'assunzione del titolo imperiale - scrisse infatti il biografo franco -riconoscendo nelle leggi del suo popolo l'esistenza di molte lacune [...] pensó di completarle e di aggiungere ció che mancava, sistemare ció che si contraddiceva e cor-reggere ció che era falso e confuso. Ma di tutto ció - notó Eginardo - non gli riuscí altro se non di aggiungere nel testo delle leggi pochi articoli e anche quelli non per- 25 Giuseppe ALBERTONI: 'SI NOBIS SUCCURRIT DOMNUS CAROLUS IMPERATOR"..., 21-44 fezionati; inoltre fece raccogliere e trascrivere le leggi, tramandate fino allora oralmente, di tutti i popoli soggetti al suo dominio".6 Presentata con un certo disincanto da Eginardo per l'esiguità dei suoi risultati, la correctio delle leggi voluta da Carlo Magno è testimoniata con maggior enfasi da altre fonti storico narrative del tempo, come gli Annales Laureshamenses dove, in relazione a un'assemblea generale con-vocata nell'ottobre dell'802, possiamo leggere: "l'imperatore raduno nel frattempo i duchi, i conti e il restante popolo cristiano assieme a dei legislatori e fece leggere e spiegare tutte le leggi del suo regno, ad ognuno la sua legge, e le fece migliorare, dove era necessario, e fece scrivere le leggi migliorate e volle che i giudici giudi-cassero con leggi scritte e non ricevessero doni, ma che tutti gli uomini, poveri e ricchi, nel suo regno ricevessero giustizia".7 Diversi nella valutazione dell'attività di Carlo Magno, Eginardo e l'autore degli Annales Laureshamenses misero tuttavia ambedue in evidenza uno dei punti qualificanti dell'azione intrapresa dal sovrano, e cioè la diffusione della legge scritta come garanzia di equità. Essa doveva essere favorita da raccolte simili a quelle elaborate dall'abate di Fontanelle Ansegiso (Schmitz, 1996) o al famoso Liber legum redatto attorno all'836 da Lupo di Ferrières per il marchese Everardo del Friuli (Münsch, 2001).8 Il fatto che la volontà di favorire la diffusione di redazioni scritte delle leggi fosse un elemento cosciente e qualificante dell'attività legislativa di Carlo Magno, emerge nuovamente in modo esplicito nel prologo di un capitolare emanato specificatamente per l'Italia nell'801, nel quale l'imperatore affermava di aver favorito la redazione scritta delle leggi e un completamento di quelle longobarde con quelle franche affinché "nelle cose incerte non prevalga l'arbitrio di un qualsiasi giudice, ma la sanzione della nostra autorità regia".9 Il richiamo alla redazione delle leggi come 6 Traduzione tratta da Eginardo, 1993, 43. Questo il testo originale: "Post susceptum imperiale nomen, cum adverteret multa legibus populi sui deesse - nam Franci duas habent leges, in plurimis locis valde diversas -, cogitavit quae deerant addere et discrepantia unire, prava quoque ac perperam prolata corrigere. Sed de his nihil aliud ab eo factum est nisi quod pauca capitula, et ea imperfecta, legibus addidit. Omnium tamen nationum quae sub eius dominatu erant iura quae scripta non erant describere ac litteris mandari fecit" (Eginardo, 1911, XXIX, 33). 7 Questo il testo originale: "Sed et ipse imperator interim quod ipsum synodum factum est, congregavit duces, comites et reliquo christiano populo cum legislatoribus et fecit omes leges in regno suo legi et tradi unicuique homini legem suam et emendare ubicumque necesse fuit et emendatam legem scribere, et ut iudices per scriptum iudicassent et munera non accepissent, sed omnes homines, pauperes et divites, in regno suo iustitiam habuissent" (MGH Cap., I, nn. 36-41, 105). 8 Di quest'ultima raccolta ci sono giunte copie di epoca successiva, tra cui un codice oggi conservato a Modena, nel quale, accanto al compendio di alcune "leggi nazionali" dei popoli germanici (Salica, Ribuaria, Langobardorum, Alamannorum, Baiuvariorum) e di alcuni capitolari di Carlo Magno, Pipino e Lotario I, furono inserite della miniature di "re legislatori", tra cui quella che ritraeva Carlo Magno, seduto accanto al figlio Pipino, dal 781 re del regnum Langobardorum, e a uno scriba a cui sembra dettare la legge (BCM, Ord. I: 2). 9 Questo il testo originale: " [...] et in rebus dubiis non quorumlibet iudicum arbitrium, set nostrae regiae auctoritatis sanctio praevaleat"; cfr. MGH Cap., I, n. 98, Capitulare italicum (801). 26 Giuseppe ALBERTONI: "SI NOBIS SUCCURRIT DOMNUS CAROLUS IMPERATOR"..., 21-44 garanzia contro l'arbitrio dei giudici lo ritroviamo anche nel cosiddetto Capitulare missorum generale dell'802, che recita in un suo famoso articolo: "Che i giudici giudichino in modo corretto secondo la legge scritta, non secondo il loro arbitrio".10 La legge scritta aveva, dunque, di per sé un carattere autoritativo che doveva essere garanzia di giustizia, in particolare per i più deboli.11 Il progetto di Carlo Magno, e degli intellettuali che ispiravano la sua azione, di trasformare la società del loro tempo secondo il modello della civitas Dei agostiniana, caratterizzata dalla pace e dall'unità del popolo cristiano, fu sicuramente enfatizzato dopo l'800, ma aveva caratterizzato già l'opera legislativa del sovrano franco almeno a partire dai primi anni Ottanta del secolo VIII, in seguito alle conquiste del regno longobardo e del ducato di Baviera. Esso non aveva lasciato le sue prime tracce nei capitolari solo in disposizioni dal carattere apertamente programmatico come l'Admo-nitio generalis del 789 - dove Carlo si presentava come un nuovo re Giosia che, spostandosi di luogo in luogo, "ammoniva chi sbagliava e migliorava ció che non andava"12 - ma anche in capitolari che affrontavano problemi legati a esigenze con-tingenti, come i cosiddetti capitolari italici relativi alle emergenze del regnum Lango-bardorum (Azzara, 1998). In essi i richiami ai conti e ai giudici si susseguono per un arco di circa trent'anni. In un quadro nel quale la legiferazione franca si poneva come un completamento delle legiferazioni precedenti,13 l'elemento cardine della giustizia non 10 Questo il testo originale del capitolo 26 del suddetto capitolare: "Ut indices secundum scriptam legem inste indicent, non secundum arbitrium suum"; cfr. MGH Cap., I, n. SS, Capitulare missorum generale (802). Si trattava di nn capitolare dedicato ai compiti dei missi regi, sni qnali torneremo tra breve, che proprio negli anni immediatamente successivi all'incoronazione imperiale assunsero un ruolo sempre più importante di garanti dei principi etico-religiosi che ispiravano la legislazione carolingia. Su questo e altri due capitolari indirizzati ai missi ed emessi nell'802 si veda Eckhardt, Ï956. Snl ruolo dei missi nell'organizzazione politico-amministrativa carolingia si veda Werner, Ï9SQ. Oltre a ridefinire le modalità dell'operato dei missi questo capitolare offriva una sorta di compendio delle disposizioni sull'esercizio della ginstizia promulgate anche in capitolari precedenti, a partire dal richiamo ai conti e ai loro uomini affinché garantissero la giustizia e osservassero essi stessi per primi fedelmente la legge, non opprimessero i poveri e, nell'esercizio delle loro funzioni, non si facessero condizionare da lusinghe, doni o dai legami familiari, secondo una pratica in realtà assai diffusa, testimoniata dal placito di Risano e dal già ricordato poemetto di Teodulfo, che offre un quadro critico dell'attività dei giudici e della loro corruttibilità (Teodulfo di Orléans, 1881). 11 Il tema del rapporto tra parola scritta e oralità nella legislazione carolingia è stato più volte affrontato dalla ricerca storica negli ultimi due decenni, a partire in particolare dalle proposte interpretative di R. McKitterick e J. Nelson (McKitterick, 1989; Nelson, 1990). Per nna sna messa a fuoco mi limito a rimandare a Bühler, 1990. 12 Questo il testo originale, tratto dal prologo dell'Admonitio generalis: "Nam legimus in regnorum libris, quomodo sanctus Iosias regnum sibi a Deo datum circumeundo, corrigendo, ammonendo ad cnltnm veri Dei stndnit revocare: non nt me eins sanctitate aequiparabilem faciam, sed quod nobis sunt ubique sanctorum semper exempla sequenda, et, quoscumque poterimus, ad studium bonae vitae in landem et in gloriam domini nostri Iesn Christi congregare necesse est" (MGH Cap., I, n. 22). 13 Cfr. MGH Cap., I, n. 9S, Capitulare italicum (801), prologo: "Quocirca nos, considerantes ntilitatem nostram et populi a Deo nobis concessi, ea qnae ab antecessoribus nostris regibns Italiae in edictis 27 Giuseppe ALBERTONI: 'SI NOBIS SUCCURRIT DOMNUS CAROLUS IMPERATOR"..., 21-44 poteva che essere costituito anche in questo caso dall'equità dei giudici. "Riguardo al popolo in generale - recita un capitolare del 782 - chiunque, ovunque richieda giusti-zia, la riceva dai suoi conti [...]; e se un conte franco - ma un discorso analogo valeva anche per i conti longobardi - ritarda di fare giustizia e questo viene provato, secondo quanto previsto alla sua elezione cosi subisca in base alla consuetudine dei Franchi".14 Oltre alla propria onestà, per fare giustizia il conte o il giudice aveva bisogno di una "corte giudicante" affidabile e di prove certe. Un articolo del medesimo capitolare prevedeva, ad esempio, che egli disponesse in ogni città di "uomini di fede" (homines credentes) che, dopo aver prestato giuramento, avevano l'obbligo di av-visarlo di omicidi, furti, adulteri o unioni illecite di cui fossero al corrente.15 Ogni accusatore, da parte sua, doveva essere in grado di provare la propria accusa attra-verso il giuramento e la parola di testimoni. "Se qualcuno viene a rivendicare giustizia nei riguardi di qualche altro uomo - recita sempre il capitolare a cui abbiamo fatto riferimento poc'anzi - informando circa omicidi, furti e rapine, e questi vuole negare quanto detto, allora quello che rivendica, se puo, lo provi";16 nel caso che né l'accusatore, né l'accusato fossero in grado di chiamare testimoni, se c'erano delle persone "che su questo fatto hanno saputo la verità e hanno voluto negare" esse dovevano giurare e dare la loro testimonianza.17 legis Langobardicae ab ipsis editae praetermissa sunt, iuxta rerum et temporis considerationem addere curavimus [...]". 14 Questo il testo originale: "De universali quidem populo quis, ubique iustitias quaesierit, suscipiat tam a comitibus suis quam etiam a castaldehis seu ab sculdaissihis vel loci positis iuxta ipsorum legem absque tarditate. Et si comes Franciscus distulerit iustitias faciendum et probatum fuerit, iusta ut eorum fuit electio, ita subiaceat, et de illorum honorem sicut Francorum est consuetudo"; cfr.: MGH Cap., I, n. 91, Pippini Italiae regis capitulare (782-786). 15 Cfr. MGH Cap. I, n. 91, Pippini Italiae regis capitulare (782-786), cap. 8: "Iudex unusquisque per civitatem faciat iurare ad Dei iudicia homines credentes iuxta quantos previderit [...] ut, cui ex ipsis cognitum fuerit id est homicidia, furta, adulteria et de inclitas coniunctiones, ut nemo eas concelet. [... ] si quis venerit iustitias reclamare super quempiam hominem, dicendo de homicida, furta aut de praeda, et ille super quem dixerit denegare voluerit, tunc ille qui reclamat si potuerit approbet illud; et si forsitan ipse non potuerit approbare, et ipse super quem dicit negaverit quod malum ipsum nec ipse nec homines ipsius perpetrassent, et posuerit excusationem et dixerit: "nomina michi homines meos qui tibi malum illum fecerunt; ego tibi de illos iustitias facio", et ille incognitus qui reclamat et nomina de illos homines non scit et nec approbare potest, et ipsi qui exinde sic veritatem sciunt denegare voluerunt, et ille qui reclamat dixerit: "quia homo ille exinde scit veritatem", tunc iudex ille qui in loco ipso est faciat iurare homines illos, quilibet sint, Francos aut Langobardos, quod ipse nominative dixerit, et dicam exinde veritatem; et si credentes homines fuerint, in manus comiti sui dextrent. Et si latrocinia vel furta aut preda ipsa inventa fuerit, emendatur iuxta ut eorum est lex, ut populus hic habitantibus aut advenientibus in pace vivere valeat". Nella loro attivita i giudici nell'Italia carolingia erano affiancati da esperti del diritto quali gli sculdasci, i locopositi e i lociservatores di origine longobarda o gli scabini di tradizione franca, che proprio in quegli anni iniziarono ad operare a sud delle Alpi. Per un primo orientamento su di essi si veda Bougard, 1995, 140-158. 16 Cfr. nota 14. 17 Cfr. nota 14. 28 Giuseppe ALBERTONI: 'SI NOBIS SUCCURRIT DOMNUS CAROLUS IMPERATOR"..., 21-44 Da questo e da altri articoli di capitolari appare evidente l'importanza della testimonianza sotto giuramento. Si trattava di una pratica che, nonostante il carattere sacrale del giuramento, nei fatti poteva ingenerare non poche prevaricazioni, a partire dal caso di testimoni che offrivano falsa testimonianza, sino ad arrivare all'intimi-dazione dei testimoni da parte degli accusati o dei giudici stessi. La frequenza di spergiuri o di violenze a vario titolo nei confronti dei testimoni e attestata dalla ricorrenza di norme volte a reprimerli. Per esempio in un capitolare italico non datato della fine del secolo VIII re Pipino emise un provvedimento contro "quegli uomini nel nostro regno [...] i quali vogliono offuscare la verita [...] per delle ricompense o per una parentela, tanto che si lasciano andare agli spergiuri": costoro, qualora riconosciuti colpevoli, dovevano pagare il proprio guidrigildo se laici, e il doppio del banno regio se ecclesiastici.18 Il problema dei testimoni falsi, che agivano spesso in combutta con giudici e conti, non dovette essere risolto da queste norme se nell'806 re Pipino in un nuovo capitolare dovette regolamentare in modo prescrittivo la nomina dei testimoni e le loro testimonianze. Fu ribadito che i conti e i loro giudici non convocassero testimoni "che hanno una cattiva reputazione, a rendere testimonianza" e, soprattutto, che raccogliessero le deposizioni separatamente, "come ordina la legge, poiché se agiscono cosí, molti falsi testimoni possono essere dimostrati colpevoli".19 I capitolari carolingi del primo trentennio del regno di Carlo Magno enfatizzano, dunque il carattere di equita della giustizia regia, il suo ruolo di garanzia che collega la giustizia terrena a quella ultraterrena, e la contrappongono, invece, alla "corrut-tibilita" dell'uomo, anche del funzionario pubblico facilmente preda di lusinghe. Essi ci mostrano, un imperatore "difensore dei deboli" il cui operato da un punto di vista simbolico non poteva essere intaccato dagli errori dei suoi funzionari. Questo modello ideologico fu ribadito anche in alcuni placiti, in particolare in quelli condotti dai missi regi e proprio questi placiti ci permettono di comprendere quanto il modello 18 Questo il testo origínale: "De illis hominibus vel sacerdotobus aut quibuslibet per regnum nostrum, qui propter premia aut parentellam de nostra iustitia inquirentibus aut emendantibus vicia veritatem obfuscare volunt missis vel fidelibus nostris ut se in penuria mittant. Iubemus atque precipimus, ut si suspitio fuerit quod periurassent, ut postea ad campum vel ad crucem iudicetur, ut ipsa veritas vel periurium fiant declarata [...]; "[...] iubemus, ut, si sacerdos vel clericus fuerit, dupliciter bannum nostrum persolvat [...]; si laicus fuerit, widrigild suum ap partem nostram persolvat"; cfr. : MGH Cap., I, n. 100, Pippini Italiae regís capitulare (800-810?), cap. 4. 19 Questo il testo completo dell'articolo in questione: "Volumus etiam atque iubemus, ut comites et eorum iudices non dimittant testes habentes mala fama testimonium perhibere, sed tales eiligantur qui testimonium bonum habent inter suos pagenses; et primum per ipsos iudices inquirantur, et sicut ab illis rectius inquirere potuerint, ita faciant, non voluntas malorum hominum assensum praebentes. Ut et ipsi comites vel eorum iudices, quos noverunt causa de qua inter eos agitur comperta esse, sine blandimento ipsius qui causam habet faciant ad eandem causam venire, et per eorum inquisitionem fiat definita. Et iubemus, ut testimonia ab invicem separentur, sicut lex iubet; quia, si ita agant, multi falsi testes possunt convinci" (MGH Cap. I, n. 102, Pippini capitulare italicum (801 [806?] - 810), cap. 12. 29 Giuseppe ALBERTONI: 'SI NOBIS SUCCURRIT DOMNUS CAROLUS IMPERATOR"..., 21-44 di "giustizia giusta" proposto dai capitolare difficilmente potesse essere attuato in una realta ben lontana dal modello dell'auspicata "citta di Dio" di ispirazione agostiniana. 4. 2. La giustizia all'opera: ilPlácito di Risano Un carattere esemplare, da questo punto di vista, puo essere assegnato sicura-mente al placito di Risano, datato tradizionalmente all'804.20 In esso assistiamo a un drammatico confronto sorto in Istria, una regione conquistata dai Franchi a danno dei Bizantini solo attorno al 790, tra i rappresentanti del populus istriano e i due principali potentes del luogo, il patriarca Fortunato e il duca carolingio Giovanni, accusati, sia pure con toni e modi diversi, di aver posto termine a consuetudini precedenti, soprattutto in merito a esazioni di tipo fiscale, e di aver introdotto un nuovo clima di violenza e di intimidazione. Per porre freno a questa situazione Carlo Magno, piissimus et excellentissimus magnus imperator, e suo figlio Pipino, re d'Italia, inviarono in Istria tre loro missi, il sacerdote Izzo e due conti, Cadalo e Aio, per porre termine alle "violenze che affliggevano il popolo, i poveri, gli orfani e le vedove".21 I tre missi non erano dei personaggi qualunque e, come spesso accadeva in quest'epoca, erano stati scelti tra coloro che ben conoscevano la realta che dovevano giudicare. Izzo forse era un sacerdote collegato al monastero di Farfa e, in tal caso, potrebbe essere identificato con l'omonimo missus attestato in un placito degli inizi del secolo IX (Krahwinkler, 1992, 220-223; Krahwinkler, 2005, 121-124); il conte Cadalo, invece, assai probabilmente era l'alemanno che nell'817 sarebbe divenuto duca del Friuli e che, nello stesso anno, sarebbe stato inviato in Dalmazia per delle questioni che riguardavano dei notabili Romani e Slavi (Krahwinkler, 1992, 223-225; Gasparri, 2001, 122; Krahwinkler, 2005, 123-124). Qualora tale identificazione fosse giusta, egli sarebbe stato un esperto di "questioni balcaniche", cosí come sicuramente profondo conoscitore della realta del Friuli e dell'Istria era il terzo inviato regio, il conte Aio, un longobardo di ceto eminente che aveva partecipato alla rivolta di Rotgaudo contro Carlo Magno del 776 ed era stato catturato un ventennio dopo da 20 Il placito di Risano e giunto a noi solo in copia nel cosiddetto Codex Trevisaneus, conservato presso l'Archivio di Stato di Venezia. Data la ricchezza di spunti in esso presenti, spesso e stato al centro dell'attenzione degli storici; in questa sede mi limito a rimandare a delle sue analisi relativamente recenti e alla bibliografía in esse riportate: Guillou, 1969, 294-307; Krahwinkler, 1992, 199-243; Cammarosano, 1998, 130-132; Krahwinkler, 2005, 67-81. Per l'edizione critica del testo del placito, si veda Manaresi, 1955, n. 17, 48-56; Guillou, 1969, 301-307; Krahwinkler, 2004, 67-104, con tra-duzione in sloveno, tedesco e italiano, e Krahwinkler, 2005, 67-81. 21 Cfr. Manaresi, 1955, 50: "[...] in Istria nos servi eorum [Carlo Magno e Pipino] directi fuissemus, idest Izzo presbiter atque Cadolao et Aio comites pro causis de rebus sanctarum Dei ecclesiarum et de iustitia dominorum nostrorum, seu et de violentia populi, pauperorum, orfanorum et viduarum [...]". Queste parole sembrano riecheggiare quelle del gia ricordato "capitolare riformatore" dell'802, riportate in nota 2. 30 Giuseppe ALBERTONI: 'SI NOBIS SUCCURRIT DOMNUS CAROLUS IMPERATOR"..., 21-44 Pipino nel corso della guerra contro gli Avari, presso i quali si era rifugiato; successivamente, perdonato da Carlo Magno, divenne uno dei suoi principali punti di riferimento per le "questioni italiche" (Krahwinkler, 1992, 125; Gasparri, 2001, 117— 118; Krahwinkler, 2005, 122-123). Strettamente collegati a Carlo Magno erano anche il duca Giovanni, sulla cui vicenda biografica, pero, ben poco sappiamo (Krahwinkler, 2005, 111-114), e il patriarca Fortunato, un importante alleato dell'imperatore franco in una regione come il Friuli che in passato era stato teatro di rivolte antifranche e che doveva confrontarsi anche con le mire espansionistiche bizantine attuate tramite i "dogi" veneziani (Krahwinkler, 1992, 215-220; Krahwinkler, 2005, 115-121). Al di là della netta contrapposizione tra "funzionari locali prevaricatori" e "poteri centrali giusti e pacificatori", prefigurata dal richiamo nellincipit del placito al topos dei "deboli oppressi",22 quanto accadde a Risano, se consideriamo i suoi protagonisti, fu soprattutto un confronto tra potenti appartenenti alla stessa cerchia dei collaboratori di Carlo Magno, il cui compito comune era quello di trovare un modus vivendi con i maggiorenti locali e di porre termine a misure di troppo drastica rottura con l'organizzazione - e i privilegi - ereditati dall'età bizantina. Il placito, infatti, si configura come un duro j'accuse di 172 capitanei locali contro Fortunato e Giovanni, avviato da un giuramento e dalla presentazione di alcune prove scritte - dei breves, assai probabilmente delle liste dei contribuenti con le somme dovute (Guillou, 1969, 295, n. 92) - composte ai tempi (non precisati) dei magistri militum bizantini Basilio e Costantino. Nonostante la durezza delle accuse il patriarca Fortunato assunse un atteggiamento conciliante nei confronti degli accu-satori, che elencarono in modo dettagliato i torti e le violenze ai quali sarebbero stati sottoposti dai loro vescovi a partire dall'avvio della dominazione carolingia, che avrebbe fatto venir meno gli antichi equilibri, spingendo i vescovi a richiedere nuove esazioni, a non rispettare i patti colonici stilati precedentemente e a distruggere o alterare le cartae che li attestavano (Manaresi, 1955, 52). Il dito degli accusatori fu puntato in particolare contro gli homines ecclesiae, gli uomini inviati dai vescovi a raccogliere censi e tributi, che - cosí essi affermarono -"ci picchiano con i bastoni e ci rincorrono con le spade", giungendo a tagliare le reti dei pescatori che pescavano nel mare pubblico.23 Accuse ancora più dure furono fatte nei confronti del duca Giovanni, che avrebbe favorito in modo spudorato il proprio 22 Cfr. nota 20. 23 Queste le parole degli accusatori:: " [...] VI capitulo: Familia Ecclesie numquam scandala committere adversus liberum hominem, aut cedere cum fustibus, etiam nec sedere ante eos ausi fuerunt; nunc autem cum fustibus nos cedunt, et cum gladiis sequuntur nos. Nos vero propter timorem domini nostri non sumus ausi resistere, ne peiora acrescat [...] VIII. Mare vero publica, ubi omnis populus com-muniter piscabant, modo ausi non sumus piscari, quia cum fustibus nos cedunt et retia nostra concidunt" (Manaresi, 1955, 52). 31 Giuseppe ALBERTONI: "SI NOBIS SUCCURRIT DOMNUS CAROLUS IMPERATOR"..., 21-44 clan familiare e avrebbe fatto propri i tributi e i beni versati a favore dell'imperatore (Manaresi, 1955, 53-56). Ma i capitanei lamentarono in particolare la perdita "di una serie di autorità sulle persone - liberi, affrancati, coloni" (Cammarosano, 1998, 132) a vantaggio di una "costellazione di potere" fondata sull'alleanza tra i nuovi potentes e il clero eminente. Solo l'imperatore avrebbe potuto porre termine a questa situazione: "altrimenti - queste le drammatiche parole dei rappresentanti del populus istriano - è meglio morire che vivere".24 Nel testo del placito dunque, come in quello di alcuni capitolari coevi, spetta al re e imperatore, quasi come una sorta di deus ex machina, intervenire contro chi maltrattava i "deboli". Nonostante l'immagine del "re giusto" e le drammatiche testimonianze testé riportate, tuttavia, come spesso succedeva in età carolingia, il placito più che con una chiara condanna si concluse con una sorta di accordo, in base al quale, dopo una presa d'atto da parte del duca - senza una diretta assunzione di responsabilità25 - delle accuse, il "popolo istriano" rinuncio alla richiesta di una pena in cambio della fine delle violenze.26 Solo in caso di rottura di questo "patto" i missi regi si riservarono di perseguire eventuali, ulteriori violenze con una condanna esemplare.27 Molti sono gli "attori protagonisti" del placito di Risano: vi sono i "nuovi po-tenti", il duca franco e il suo entourage, il cui comportamento è quello di una forza di occupazione che oscilla tra misure vessatorie e un atteggiamento più conciliante nei confronti delle élites locali; vi sono i maggiorenti locali, che cercano di difendere invano privilegi precedentemente acquisiti e vi sono i missi, che sono si l'incar-nazione della "giustizia regia" proclamata dai capitolari ma, al contempo, agiscono pragmaticamente cercando di favorire un accordo tra i ceti dirigenti, ai quali non erano estranei. Vi sono, poi, i pauperes, gli orfani e le viduae richiamati più volte in apertura ma che, significativamente, scompaiono dalle disposizioni finali. Pur unico nella sua ricchezza di situazioni, il quadro e il complesso intreccio di poteri che emerge dal placito di Risano ben rappresenta il modo "pragmatico" con cui i principi di giustizia proclamati dai capitolari furono applicati nella realtà. Per comprendere meglio questo "pragmatismo" puo essere utile richiamare dei casi coevi relativi ad altre zone di recente occupazione. Dedicheremo, pertanto, la nostra at- 24 Questo il testo originale: "Si nobis succurrit domnus Carolus imperator, possumus evadere, sin autem, melius est nobis mori, quam vivere" (Manaresi, 1955, 55). 25 Il duca si impegno di dare la propria garanzia affinché le malversazioni non si ripetessero piü in futuro. Queste le parole riportate nel placito: "Tunc previdimus nos missi domni imperatoris, ut Ioan-nes dux dedisset vadia, ut omnia prelata superposta, glandatico, herbatico, operas et collectiones, de sclavis et de angarias, vel navigationes emendandum" (Manaresi, 1955, 56). 26 Cfr. Manaresi, 1955, 56: "Sed et ipse populus ipsas concessit calumnias in tali vero tenore, ut amplius talia non perpetrasset" 27 Cfr. Manaresi, 1955, 56: "[...] et qui adimplere nolluerint de illorum parte componat coactus in sacro pallatio auro mancosos L novem". Per un'analisi di quest'accordo si veda Esders, 1999, 108. 32 Giuseppe ALBERTONI: 'SI NOBIS SUCCURRIT DOMNUS CAROLUS IMPERATOR"..., 21-44 tenzione ad alcuni placiti convocati nei primi decenni dell'occupazione carolingia nel regno longobardo e nel ducato di Baviera. 4. 3. Missi e giustizia in Italia e Baviera: alcuni casi a confronto Come abbiamo già accennato, gran parte dei placiti svoltisi nel regnum Italiae altomedievale furono editi da Cesare Manaresi attorno alla metà del secolo scorso (Manaresi, 1955-1959).28 Per l' epoca precedente al placito di Risano egli riporto 16 atti, otto dei quali29 sono stati tramandati nel regestum Farfense, una sorta di cartulario del monastero dell'abbazia di S. Maria di Farfa, in Sabina, redatto alla fine del secolo XI, uno30 nel Chronicon Vulturnense, la cronaca dell'abbazia di San Vincenzo al Volturno, ai confini tra le odierne Campagna e Abruzzi, mentre sette31 sono giunti in originale o in copia coeva e sono custoditi dagli archivi vescovili di Lucca e Pisa e dall'abbazia emiliana di Nonantola. Si tratta, dunque, in gran parte di placiti tenutisi in regioni che potremmo definire "periferiche" rispetto al cuore della dominazione franca in Italia e che riguardavano per lo più territori come la Tuscia e il ducato di Spoleto, caratterizzati già in età longobarda da un'elevata organizzazione amministrativa e della diffusione della scrittura.32 Data la loro trasmissione documentaria, va da sé che gran parte dei placiti a noi giunti fossero stati avviati su volontà di enti ecclesiastici come il monastero di Farfa in Sabina e quello di San Vincenzo al Volturno,33 o a sedi vescovili urbane come quelle di Lucca e Pisa, e riguardassero soprattutto contese attorno al possesso di beni fondiari. Si trattava in prevalenza di casi relativi a conflittualità riconducibili alla sfera economica e allo scontro degli interessi contrastanti di enti ecclesiastici che stavano costruendo un'egemonia territoriale di tipo signorile. 28 L'edizione di Manaresi e stata parzialmente integrata a meta degli anni Settanta da Raffaello Volpini (Volpini, 1975); per un'accurata analisi paleografica delle notitiae iudicati altomedievali conservate in originale negli archivi italiano si veda, invece, Petrucci, Romeo, 1989. 29 Manaresi, 1955, nn. 1 (gennaio 776), 2 (dicembre 776), 3 (marzo 777), 5 (luglio 781), 8 (gennaio 791), 10 (maggio 798), 13 (agosto 801), 14 (agosto 801). 30 Manaresi, 1955, n. 4 (marzo 779). 31 I placiti originali custoditi presso l'Archivio arcivescovile di Lucca sono; Manaresi, 1955, nn. 6 (agosto 785), 7 (26 ottobre 786), 11 (aprile 800), 16 (luglio 803); presso l'Archivio arcivescovile di Pisa: n. 9 (5 giugno 796); presso l'Archivio abbaziale di Nonantola: n. 12 (29 maggio 801). Un placito in copia coeva e custodito presso l'Archivio arcivescovile di Lucca: n. 15 (maggio 801 - aprile 802). 32 Sulle scritture documentarie dell'Italia medievale per un primo quadro d'assieme cfr. Cammarosano, 1991, 39-111. 33 Santa Maria di Farfa fu fondata attorno al 700 da Tommaso, un monaco pellegrino franco proveniente da Maurienne in Savoia. Forse non a caso Farfa (abate Probato) fu il primo monastero italico a ricevere nel 775 una ricca donazione da Carlo Magno dopo la conquista del regno longobardo. Il monastero di San Vincenzo al Volturno, secondo il Chronicon Volturnense redatto attorno al 1130 dal monaco Giovanni, sarebbe stato fondato nel secolo VIII da tre nobili beneventani; tuttavia sappiamo che nel 774, nell'anno della conquista franca del regnum Langobardorum, era retto dall'abate Ambrogio Autperto, di origine franca. 33 Giuseppe ALBERTONI: 'SI NOBIS SUCCURRIT DOMNUS CAROLUS IMPERATOR"..., 21-44 In quasi tutti questi placiti vediamo all'opera quella che potremmo definire una "giustizia ordinaria", che procedeva grazie all'opera dei funzionari regi, senza la necessita di un intervento diretto del re o dei suoi missi, con l'eccezione di alcuni casi particolari, sui quali torneremo tra breve. Le sentenze prese nei sedici placiti ante-cedenti l'804 furono sempre a vantaggio dell'accusa e questo non deve stupire, dal momento che furono proprio gli enti accusatori ad aver conservato la documentazione scritta dei placiti in cui essi erano riusciti a far valere le proprie ragioni. Che la prova scritta potesse essere un'arma vincente in particolare in relazione a placiti relativi alla proprieta e testimoniato non solo dalla cura con cui furono conservati gli atti dei placiti, ma anche dal ruolo svolto dalle testimonianze scritte nel corso dei "dibattimenti", molti dei quali furono risolti proprio grazie alla presentazione di una cartula. La consapevolezza dell'importanza della prova scritta emerge anche dal fatto che in alcuni casi chi da essa poteva essere danneggiato cercasse di eliminarla. Nel 781, ad esempio, un certo Pandone che era in causa con il monastero di Farfa dovette ammettere di aver bruciato un precedente iudicatum emesso a suo danno;34 gros-somodo negli stessi anni i locoservatori del vescovo di Lucca sentenziarono a favore del prete Deusdedit una causa che questi aveva avviato contro il prete Deusdona, il quale dapprima gli aveva assegnato una chiesa e poi gli aveva sottratto la relativa cartula donationis in modo quasi romanzesco, facendola rubare da un chierico che era in obsequium di Deusdedit e facendola bruciare da un pellegrino bretone.35 Tra le varie cause che furono affrontate nei placiti dei primi decenni della dominazione carolingia in Italia solo una in parte puo essere avvicinata alla situazione tratteggiata dal placito di Risano. Si tratta di un placito che si tenne a Spoleto nel maggio del 798 e che vide sul banco degli imputati il potente duca spoletino Guinigi, i cui uomini, come successivamente quelli del vescovo Fortunato, avrebbero ostacolato i diritti di pesca del monastero di Farfa, rompendo le reti e picchiando i pescatori.36 Il 34 Alla richiesta dei giudici di presentare il precedente iudicatum Pandone e i suoi familiari e sostenitori devono ammettere: "Teuto episcopus, ad diem transitus sui cum venisset, convocavit nos ad se et dedit nobis ipsum iudicatum, et nos a presenti illud in ignem combussimus" Manaresi, 1955, 12, n. 5 (Spoleto, luglio 781). 35 Questo il racconto di Deusdona: "Sic postea ipse Alpertus clericus, dum in eius obsequium esset, furavit ei ipsam cartulam et adduxit eam mihi et dixit mihi: "Ecce cartulam illam que mihi tollere dixistis, tantum confirma me in ipsam ecclesiam". Set ego dixi ei: "Si non delis cartulam illam, ibidem te confirmare non possum". Et dum taliter dixissem, ipse Alpertus clericus presenti ante me dedit cartulam illam ad unum Brettonem peregrino, qui ibidem venerat; presenti ante nos ipse Britto misit ea in focum et ibi arsit" " Manaresi, 1955, 19-20, n. 7 (Lucca, 26 ottobre 786). 36 Questa l'accusa riportata nel placito (Manaresi, 1955, n. 10, 28-30): "[...] homines suprascripti Guinichis ducis contenderent piscarias iam dicti monasterii, quas habet per singula loca ducatus Spoletani, et retia ipsius monasterii rupuissent et pisces tulissent et homines eius vapulassent". Questa l'accusa, invece, riportata nel Placito di Risano contro gli uomini del vescovo: "Mare vero publica, ubi omnis populus communiter piscabant, modo ausi non sumus piscari, quia cum fustibus nos cedunt et retia nostra concidunt" (Manaresi, 1955, n. 17, 52). 34 Giuseppe ALBERTONI: 'SI NOBIS SUCCURRIT DOMNUS CAROLUS IMPERATOR"..., 21-44 duca Guinigi non era un personaggio qualunque: egli era uno dei massimi esperti di "questioni italiane" di Carlo Magno, dal quale era stato inviato in Italia pochi anni dopo la conquista col ruolo di missus e col compito di tenere sotto controllo il ducato di Benevento (Cammarosano, 1998, 118; Hägermann, 2004, 188). La sua fedeltä fu premiata attorno al 788/789 con l'assegnazione del ducato di Spoleto, che resse per circa un trentennio, entrando piu volte in conflitto con l'abbazia di Farfa. Il processo contro Guinigi fu l'unico contro un funzionario pubblico intentato in Italia prima dell'804 e, significativamente, come il placito di Risano fu affidato a dei missi regi. Anche nel caso di Guinigi si trattava di un ecclesiastico e di due laici; in questo caso l'abate Mancio, Aroin, che successivamente sarebbe divenuto conte di Piacenza, e Isembard, un conte alemanno.37 E anche in questo caso contro le accuse Guinigi, come Giovanni, invoco la propria estraneitä ai fatti e si dichiaro immediatamente pronto a restituire il maltolto e a risarcire chi lo aveva accusato (Manaresi, 1955, n. 10, 29).38 Il caso di Guinigi e Giovanni mostra, dunque, come le disposizioni contro le violenze dei funzionari pubblici e l'organizzazione processuale affidata ai missi delineate in alcuni capitolari della fine del secolo VIII e degli inizi del secolo IX avesse un'effettiva ricaduta nella pratica processuale, anche se la linea difensiva dell'estraneitä ai fatti scelta dai nostri due duchi e la sua accettazione da parte dei missi regi, che non emisero a loro carico un'effettiva condanna, mostra come nella realtä dei fatti la solidarietä tra esponenti dell'élite sociale potesse portare a soluzioni di compromesso, che non prevedevano una punizione esemplare degli accusati, al contrario di quanto disposto da molti capitolari. Assai diversa era, invece, la dinamica dei placiti che delineavano un conflitto tra potentes e comunitä di uomini liberi. Possiamo ricordare, come esempio, il caso che vide scontrarsi tra loro l'abbazia di San Vincenzo al Volturno e gli homines di una curtis abbaziale che si rifiutavano di svolgere alcune mansioni di lavoro ritenute "in odore" di servitu (Manaresi, 1955, n. 4, 8-19). Questo placito fu convocato nel marzo del 779 dal duca Ildeprando, il predecessore di Guinigi, un longobardo che nei primi anni della dominazione carolingia condusse una politica spregiudicata, dapprima schierandosi con i rivoltosi guidati dal duca Rotgaudo del Friuli e poi gradualmente avvicinandosi a Carlo Magno (Cammarosano, 1998, 102-103). A seguito delle lamentele provenienti da San Vincenzo al Volturno egli invio sul "luogo del misfatto" il notaio Dagari, un suo uomo di fiducia,39 ad inquirendum et iudicium ponendi nel territorio di Trita, uno dei fulcri della proprietä fondiaria abruzzese del monastero di 37 L'abate Mancio aveva gia operato come missus in Aquitania. Aroin tra il 787 e il 787 era stato piü volte missus di Carlo Magno presso il papa (Hlawitschka, 1960, 27). 38 Questo il testo con cui Guinigi ritiene di scagionarsi: "Certissime verum est, sicut iste Hildericus dicit, quia homines mei ipsas piscarias contempserunt, sed, ut dixi, non per meum commandatum, nec per meam voluntatem. Ego volo exinde ad partem monasterii iustitiam facere sicut michi iudicatis". 39 Dagari era un notaio e gastaldo del duca di Spoleto ed appare in diversi placiti e precetti ducali (Bougard, 1995, 122, n. 19). 35 Giuseppe ALBERTONI: 'SI NOBIS SUCCURRIT DOMNUS CAROLUS IMPERATOR"..., 21-44 San Vincenzo al Volturno, dove gli uomini di Carapelle erano stati protagonisti di diversi episodi di insubordinazione (Wickham, 1982). Alcuni di essi avevano fatto irruzione nel waldo qui dicitur Robore e in un castellum appartenente alla chiesa di San Pietro di Trita, a sua volta di pertinenza del monastero di San Vincenzo al Volturno. Altri si erano impossessati di alcuni canoni e avevano invaso una silva; si erano rifiutati di fare nella corte di Trita il lavoro che erano soliti fare con le loro asce, e non avevano pagato il terraticum e un canone per un mulino. Dagari risolse questa intricata questione attraverso la pratica dell'inquisitio e cioe dell'indagine con richiesta di testimonianza giurata dei testimoni, una pratica gia diffusa in ambito longobardo, che in eta carolingia, in particolare dagli anni Venti del secolo IX in poi, fu assunta come metodo di indagine tipico dei missi regi (Bougard, 1995, 194-203). Essa, infatti, consisteva in un'indagine che si concludeva definitivamente grazie alla testimonianza giurata dei testimoni rinvenuti. Le prove raccolte dai missi in tal modo erano ritenute definitive e non permettevano piu un ulteriore ricorso. In questo caso specifico, il notaio Dagari condusse l'inquisitio con l'ausilio del vescovo Sinualdo e del gastaldo Anscauso e la risolse con la testimonianza decisiva di tre waldatores. Fu la parola rafforzata dal giuramento di costoro a chiudere definitivamente la causa, ma non le tensioni tra gli homines e il monastero, che continuarono anche nei decenni successivi, portando all'istruzione di altri due placiti, relativi ad altri episodi, con-clusisi sempre a favore dell'abbazia vulturnense (Manaresi, 1955, n. 58 e n. 73), cosí come a favore di enti ecclesiastici si conclusero altri importanti placiti relativi a comunita di liberi che difendevano la loro condizione giuridica, sui quali ora, purtroppo, non possiamo soffermarci (Albertoni, in corso di stampa). Ma la pratica dell'inquisitio gioco un ruolo importante anche nei placiti bavaresi convocati tra il secolo VIII e IX e registrati nei libri traditionum della sede vescovile di Frisinga (Bitterauf, 1905). Si tratta nuovamente di assemblee giudiziarie svolte alla presenza di missi, anche se in questo caso il contesto politico generale era assai diverso rispetto a quello dell'Italia sotto dominazione carolingia. Come noto, l'ultimo quindicennio del secolo IX fu segnato in Baviera dalla drammatica deposizione del duca Tassilone III (788), condannato per tradimento da Carlo Magno e recluso, assieme a tutta la sua famiglia, in un monastero. La guida del ducato fu affidata a Geroldo, fratello della terza moglie del sovrano franco, Ildegarda. Il nuovo assetto istituzionale della Baviera fu completato circa un decennio dopo, con l'istituzione della provincia ecclesiastica di Salisburgo (798) e con la conseguente concessione del pallium arcivescovile ad Arn, un esponente dell'aristocrazia bavara che gia prima della caduta di Tassilone aveva svolto un'importante funzione di mediazione tra Agilolfingi e Carolingi (Niederkorn-Bruck, 2004). Proprio Arn, che era legato anche da una stretta amicizia con Alcuino, fu il vero protagonista dei placiti bavaresi dell'eta di Carlo Magno, per il quale piu volte svolse la missione di missus regio sia in Baviera, sia in altre regioni dell'Impero. Egli 36 Giuseppe ALBERTONI: 'SI NOBIS SUCCURRIT DOMNUS CAROLUS IMPERATOR"..., 21-44 La prima pagina della trascrizione del documento Placito di Risano (Codex Trevisaneus fol. 21r). Prva stran prepisa Rižanskega zbora (Codex Trevisaneus fol. 21r). 37 Giuseppe ALBERTONI: "SI NOBIS SUCCURRIT DOMNUS CAROLUS IMPERATOR"., 21-44 compare per la prima volta nelle vesti di missus domni Karoli magni imperatoris in un placito avvenuto a Frisinga nell'802, affiancato dal vescovo di Ratisbona Adalwin, suo sodale non solo nell'attivita giudiziaria (Bitterauf, 1905, n. 183, 174). La causa da discutere riguardava la contesa sorta tra il vescovo di Frisinga Atto e un certo Lanfredo in relazione a delle proprieta e fu risolta a favore della Chiesa di Frisinga attraverso le testimonianze raccolte dai missi con l'inquisitio.40 Anche gli altri placiti in cui Arn opero riguardavano sempre contese per diritti di proprieta relativi alla Chiesa di Frisinga e furono sempre risolte a favore del vescovo Atto con la procedura dell'inquisitio, adottata significativamente anche in placiti in cui Arn non e nominato esplicitamente missus,41 pur ricoprendo una funzione di mediazione garantita dal suo prestigio personale (Brown, 2001, 105). L'attivita svolta da Arn nei placiti in cui fu coinvolto a vario titolo sembra essere caratterizzata da un certo pragmatismo e dagli stretti legami con il vescovo Atto, che Arn garantisce sempre nella sua attivita inquisitoria. Questo "pragmatismo" trova un suo riscontro nel tenore delle notitiae iudicati, prive di qualsiasi orpello retorico e di richiamo, sia pur indiretto, alla correctio di Carlo Magno e alla difesa dei "deboli" contro i potenti. D'altra parte non bisogna trascurare il fatto che quest'assenza di elementi retorici puo essere dovuta sia alla tipologia di fonte che ha tramandato le disposizioni dei placiti, sia al fatto che essi riguardano sempre questioni di proprieta, mai di status giuridico personale. Il ruolo di intermediazione tra Chiesa di Frisinga e proprietari fondiari locali giocato da Arn venne meno solo nell'unico caso relativo ai soprusi di un funzionario pubblico. In un atto registrato nei libri traditionum in due versioni, entrambe redatte in forma soggettiva, veniamo messi al corrente della causa sorta nell'806 o nell'807 tra un sacerdote, di nome Otker, e il conte Cotehram, che aveva agito cum fortia contra lege; risoluto a difendere i suoi diritti Otker si reco direttamente da Carlo Magno, dal quale ottenne in sua elymosina due missi, il vescovo Atto e un diacono (Bitterauf, 1905, n. 232, 214-215). Ma chi agí direttamente a favore di Otker furono i due missi regi allora attivi in Baviera, Wolfolt e Rimigero, che costrinsero il conte a restituire il maltolto. Pur riportato in un testo in parte ambiguo, il caso di Otker testimonia l'efficacia dell'intervento regio la dove la solidarieta tra potentes veniva meno. Si tratta naturalmente di un caso isolato, dal quale non e possibile trarre indicazioni di carattere piu generale; tuttavia esso e ugualmente significativo perché ci mostra come 40 Dopo le prime schermaglie, infatti, Arn e gli altri missi "hanc causam puriter et diligenter inquirentes invenerunt". Sull'importanza dell'avverbio diligenter come segnale delle procedure per inquisitio cfr. Bougard, 1995, 196. 41 Si veda, ad esempio, Bitterauf, 1995, n. 197, 189, dove durante un publicum placitum convocato il 16 giugno 804 fu fatta una inquisitio che ebbe per protagonista Arn, presente nelle vesti di vescovo ma non di missus. 38 Giuseppe ALBERTONI: 'SI NOBIS SUCCURRIT DOMNUS CAROLUS IMPERATOR"..., 21-44 in talune situazioni, i missi effettivamente potessero essere uno strumento di garanzia e tutela contro le violenze dei detentori di potere a livello locale. Stando ai placiti riportati dai libri traditionum di Frisinga si trattava, pero, di casi eccezionali, che raramente riuscivano a emergere dall'intrico di legami personali che caratterizzava la società carolingia. 5. Conclusione Pur appartenendo a contesti politici assai diversi tra loro, i placiti da noi analizzati ci constento di giungere ad alcune conclusioni a carattere generale. Innanzitutto la loro analisi ci ha permesso di verificare come i richiami all'equità della giustizia presenti nei "capitolari riformatori" non fossero pura "retorica". Essi permisero effettivamente di dare una maggior forza alla figura dei missi regi, in particolare a quelli incaricati di svolgere missioni ad hoc, scelti per lo più tra "esperti" del luogo in cui dovevano operare, tra gli intellettuali che avevano ispirato gli stessi capitolari, come nel caso di Teodulfo, o tra personaggi assai vicini ad essi, come nel caso di Arn. D'altra parte la presenza nel testo del placito di Risano di passi che richiamavano quasi letteralmente le invocazioni dei capitolari in difesa dei deboli ci testimonia come il loro orizzonte ideologico fosse presente in chi amministrava la giustizia. La stessa invocazione all'intervento dei missi testimoniato da alcuni placiti attesta ulteriormente la consapevolezza che anche il "popolo" aveva del ruolo della giustizia regia. L'intervento dei missi era in ogni caso determinato sempre dalla volontà di risolvere in modo definitivo una controversia. Espressione della giustizia regia, le loro sentenze erano senz'appello e si basavano per lo più sulla procedura dell'inquisitio, che sarebbe stata perfezionato negli anni successivi alla morte di Carlo Magno. Esse erano ottenute attraverso la testimonianza giurata delle parti in causa, che poteva, ma non doveva, essere suffragata dalla presentazione di una testimonianza scritta. Se, dunque, nell'intervento dei missi possiamo sicuramente cogliere un effetto della politica di Carlo Magno in merito alla giustizia, nelle pratiche di risoluzione dei conflitti la loro azione si discostava da quanto previsto dai capitolari ed era orientata essenzialmente al raggiungimento di soluzioni di compromesso, quando erano coin-volti personaggi eminenti, come nel caso istriano, o alla solidarietà nei confronti dei potentes, quando la causa trattata verteva attorno a questioni di proprietà o di definizione dello status giuridico personale. Tale solidarietà naturalmente aumentava quando ad agire non erano missi inviati ad hoc, ma missi permanenti, legati da rapporti personali o gerarchici con chi avrebbero dovuto giudicare, come nel caso dell'arci-vescovo Arn e del vescovo Atto. Cio che caratterizza, dunque, l'intervento dei missi regi nei diversi placiti da noi esaminati è da un lato la loro "autorevolezza" indiscussa, in cui si riflette l'ideologia regia promossa dai capitolari riformatori, dall'altro il pragmatismo del loro agire, basato sull'intento di mediare e pacificare i conflitti. 39 Giuseppe ALBERTONI: 'SI NOBIS SUCCURRIT DOMNUS CAROLUS IMPERATOR"..., 21-44 "SI NOBIS SUCCURRIT DOMNUS CAROLUS IMPERATOR". PRAVO rN IZVAJANJE PRAVOSODJA V ČASU KARLA VELIKEGA: NEKATERI PRIMERI OD RIŽANSKEGA ZBORA DALJE Giuseppe ALBERTONI Univerza v Trentu, Filozofska fakulteta, Oddelek za zgodovinske in filološke študije, IT-38100 Trento, Via S. Croce 65 POVZETEK Članek je prispevek avtorja k preučevanju Rižanskega placita skozi primerjavo z drugimi tovrstnimi listinami, ki izvirajo iz istega obdobja in so prav tako posvečene "zaščiti svobode". Taki placiti prikazujejo pot, ki so jo opravile cerkvene institucije v poskusu, da svojo zemljiško posest spremenijo v prisilno moč nad ljudmi - proces, kije pogosto vključeval asimilacijo svobodnjakov medpodložnike. Placiti so tako dokaz pogumne in neutrudne samoobrambe ogroženih svobodnjakov, ki so se dobro zavedali dejstva, da je pravno deklasiranje precej hujše od ekonomskega. Poleg tega so placiti imeli vlogo predstavljati javno oblast, čeprav so v tej funkciji velikokrat propadli ob soočenju s stvarnostjo in sposobnostjo številnih mogočnežev, da v svojo korist izrabijo "pravdna orodja", ki bi morala zagotavljati zaščito revnih, kot npr. akt, ki se nanaša na sklic prič ali predložitev pisnih pričevanj. Prav listine (charta) so tako mogočneži kot ljudje z nizkim družbenim statusom velikokrat pojmovali kot orodje garancije, kot dokaz o pravicah. Odsotnost pisnih dokumentov - aktov in listin - pa je širila meje nedoločenega in le še spodbujala samovoljo. Morda ni naključje, da placite, ki govorijo o "zaščiti svobode", zaznamuje prav poudarek na ustnem pričevanju, dokazu, kije moral biti "resničen" saj je bil podan pod prisego. Toda kdorje bil v podrejenem položaju, je le težko prispeval ta "glas resnice". Ključne besede: Rižanski placit, zgodovina prava, pravni viri, Karel Veliki, srednji vek 40 Giuseppe ALBERTONI: 'SI NOBIS SUCCURRIT DOMNUS CAROLUS IMPERATOR"..., 21-44 BIBLIOGRAFIA Albertoni, G. (in corso di stampa): Law and the Peasant. Rural Society and Justice in Carolingian Italy. In: Kershaw, P. E. J. (ed.): West, Law and Community in Early Medieval Italy.Cambridge, Cambridge University Press. Alcuino di York (1895): Epistolae. In: MGH Epistolae, T. IV., Karolini Aevi II. Berlin, Weidmannsche Verlagsbuchhandlung, 1-481. Azzara, C. (1998): I capitolari dei Carolingi. In: Azzara C., Moro P.: I capitolari italici. Storia e diritto della dominazione carolingia in Italia. Roma, Viella, 31-48. 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