ACTA HISTRIAE • 12 • 2004 • 1 received: 2004-08-10 UDC 343.61:179.7"653" IL SUICIDIO NELLA DOTTRINA DELL'ETÁ DI MEZZO Gian Paolo MASSETTO Universitá degli Studi di Milano, Facoltá di giurisprudenza, Istituto di storia del diritto medievale e moderno, IT-20122 Milano, v. Festa del Perdono, 7 e-mail: gianpaolo.massetto @ unimi.it SINTESI Si tratta di un crimen che propone una molteplicita di profili di notevole rilievo: oltre a quello morale, si pongono in evidenza quelli probatorio, successorio -particolare il rapporto tra familiari di colui che manus sibi infert e il fisco - nonché quello religioso. Tale pluralita di piani di ricerca coglie nel crimen stesso un campo di indagine particolarmente fecondo. Parole chiave: suicidio, morale, eredita, storia del diritto, medio evo SUICIDE IN 16th CENTURY CRIMINAL SCIENCE ABSTRACT The topic presented is a crime of manifold important aspects: aside from the moral and religious points of view, there are also the probative and succession issues. Of particular significance are the relations between the family members of the suicide and the tax office. A multitude of research fields find in the crime itself a very prolific area of investigation. Key words: suicide, ethics, inheritance, history of law, the Middle Ages 139 ACTA HISTRIAE • 12 • 2004 • 1 Gian Paolo MASSETTO: IL SUICIDIO NELLA DOTTRINA DELL'ETÀ DI MEZZO, 139-176 Maturando la convinzione che una ricerca intorno al tema del suicidio non sarebbe stata priva d'interesse, mi vennero alla mente le parole del Fisico leopardiano, il quale, ai discorsi un poco lugubri del Metafisico, che incarna l'altro io del poeta, rispondeva: "Di grazia, lasciamo cotesta materia, che è troppo malinconica; [...]" (Leopardi, 1965, 869).1 Ma l'interesse prevalse, fondato sulle complesse e forti considerazioni svolte dai giuristi dell'età di mezzo, ai quali do immediatamente la parola. "Omni iure" è proibito agli uomini di uccidere: dal diritto divino, dal diritto naturale, dal diritto delle genti, dal diritto canonico e civile, le cui fonti sono oggetto da parte loro di attenta ed approfondita esegesi, insieme con le numerose testimonianze, che il pensiero letterario e filosofico, giuridico e religioso delle età greca e latina hanno espresse intorno al tema che interessa. Le diverse fonti, conosciute ed utilizzate, offrono ai giuristi una pluralità di ratio-nes, che valgono a definire come gravissimo ed assolutamente negativo l'atto di colui che ponga sovra di sé le proprie mani violente e che integra, ad un tempo, un crimen publicum ed un peccatum mortale. "Dicas quod seipsum interficere omnino licitum non est et hoc triplici ratione": ciascun essere animato naturalmente ama se stesso, e pertanto opera in modo costante in vista della propria conservazione, resistendo per quanto puo "corrumpentibus". Ne consegue che il suicidio è contro l'inclinazione naturale e contro la carità. Di poi, esso porta ingiuria alla comunità, cui l'agente appartiene. Da ultimo, poiché la vita è dono attribuito all'uomo da Dio e soggetta alla sua esclusiva potestà, il suicida pecca contro Dio, cosí come chi uccide il servo altrui reca offesa a colui che ne è dominus. Esodo, Deutoronomio, Aristotile, Agostino, Tommaso nutrono il pensiero di Guido da Baisio (1558),2 ché suo è il pensiero di cui si è data ora testimonianza, cosí come quello espresso, tre secoli dopo, da un teologo giurista come Leonardo Lessio. Nel prendere le distanze dai donatisti, che ereticamente configuravano il darsi la morte come un genere di martirio, in cio duramente avversati da Agostino,3 il gesuita 1 Le parole del fisico, nella frase riportata, continuano e terminano cosr: "[...]; e senza tante sot-tigliezze, rispondimi sinceramente: se l'uomo vivesse e potesse vivere in eterno; dico senza morire, e non dopo morte; credi tu che non gli piacesse?". 2 Ove (c. 11 non est) si leggono anche queste parole: "Fornicatio autem vel adulterium minus peccatum est quam homicidium et precipue quam suiipsius quod est pericolosissimum, quia non restat tempus ut per penitentiam illud peccatum expietur, unde dicas quod non licet homini interficere se ob timorem ne in peccatum consentiat, quia non sunt facienda mala ut bona veniant, vel ut vitentur mala presertim minora et minus certa. Incertum est enim an aliquis in futurum consentiat in peccatum potens est enim Deus hominem superveniente qualibet tentatione liberare a peccato [...]". 3 Intorno all'atteggiamento intransigente e assolutamente avverso di Agostino nei confronti dei Donatisti, si leggano, tra altri, i seguenti scritti: Sant'Agostino, 1971, 562-565, epístola 155, I, 2-4; Sant'Agostino, 1971, 826-829, epístola 173, 3-7; Sant'Agostino, 1974, epístola 204, 1-9; Sant'Agostino, 1999, 98-101, 158-159; Sant'Agostino, 2000a, 144-147; Sant'Agostino, 2000b, 436-455, 475494, ove tra l'altro si legge : "[...] Quomodo gaudentes odio saeculi, pressuris eius non succumbitis, sed laetamini, cum vos ipsos velitis occidere ne molestias qualescumque patiamini, et mori eligitis; 140 ACTA HISTRIAE • 12 • 2004 • 1 Gian Paolo MASSETTO: IL SUICIDIO NELLA DOTTRINA DELL'ETÀ DI MEZZO, 139-176 fiammingo distingueva tra il darsi la morte "directe", atto sempre illecito, e il darsi la morte "indirecte" - l'"actus mediatus", di per sé non preordinato alla morte, era te-nuto ben distinto, secondo l'insegnamento di Tommaso, dall'"actus immediatus" anche da Covarruvias,4 tra altri -: quando sussista una giusta causa è lecito fare od omettere ció da cui si è certi e consapevoli che deriverà e sopravverrà la morte. Cosí il miles non puó, anzi non deve abbandanare la stazione pericolante, alla cui difesa egli sia stato preposto, anche nel caso in cui sia certo che sarà ucciso; chi è in estrema necessità puó, anzi, deve cedere ad altri il pane che pur lo conserverebbe in vita (la giusta causa consiste nell'"officium charitatis in proximum"); nel naufragio è lecito cedere ad altri la tavola e darsi alle onde del mare, ovvero ammettere anche un altro sulla tavola esponendosi al pericolo che essa non sopporti il peso di entrambi; è lecito offrirsi al dardo nemico diretto al princeps, salvandone la vita e molti altri ancora sono gli esempi addotti. Di contro, chi si uccide "directe" fa ingiuria a Dio, il quale solo "vitae ac necis potestatem habet"; alla Respublica, ovvero alla sua legge - il suicidio è "contra iustitiam legalem", che non è di minore, ma semmai di maggior momento della "iustitia commutativa" -; viola il precetto "Diliges proximum tuum sicut seipsum", ove la "dilectio" verso di sé è la misura della "dilectio" verso il prossimo, nonché non ab aliis occisi pro veritate Christi, sed a vobis ipsis pro parte Donati? Ista circumcellionum est insania, non martyrum gloria. Cum itaque appareant facta vestra, quid vobis verba usurpatis aliena? [...] Non ergo ad mundum istum pertinemus nos, quia diligimus vos. Sed servi Christi vos non estis, qui malum pro bono retribuentes, et malitiam vestram quando in nos exercere non potestis, in vos retorquentes, nec non diligitis, et vos occiditis. Dominus autem quando dixit: Si saeculum vos odit, scitote quia me priorem vobis odio habuit; si me persecuti sunt, et vos persequentur [...] (p. 474). "Ad diabolum sine dubio pertinetis, cum tria genera mortis, aquam, ignem, praecipitium in vestris mortibus frequentatis. Si enim mentes non dementis perderetis, ista ipsa verba quae de sancto libro posuisti, ab istis interitu quem vobis ingeritis, vos revocare deberent. Quid enim animae martyrum sub ara Dei dicunt? Quamdiu, Domine non iudicas et vindicas sanguinem nostrum de iis qui habitant super terram? Vindicari poscunt sanguinem suum, in eis utique a quibus fusus est: nunquid in aliis? Ac per hoc vindicabitur vester in vobis" (p. 476). Le opere ora citate sono state consultate nell'edizione (OSA) Nuova Biblioteca Agostiniana. Opere di Sant'Agostino, edizione latino-italiana, rispettiva-mente nei volumi Parte I. Opere polemiche, vol. XV/2 (1999); vol. XVI/2 (2000); Parte III. Le lettere, vol. XXII (1971); vol. XXIII (1974). Agostino accosta i Donatisti ai circumcelliones (v. anche OSA, XXIII, 1974, 479-481), dei quali Guido Baisio, 1558, secunda pars, c. circumcelliones, causa XXIII quaestio V, pr. offre le piu ricorrenti definizioni. Ricordo solo questa: "Aliquando dicuntur circumcelliones heretici insano amore martyrii semetipso punientes ut martyres vocentur". 4 "Primo deducitur ex his, martyribus licuisse in carceribus tyrannorum manere, nec peccasse ex eo, quod non fugerint data fugae opportunitate, etiam si mors eis imminens fuerit, et proxima: cum hic actus, et sit morti proximus, et ex eo sequatur mors, ut Thomas fatetur: tamen mediatus est, nec ex sua natura ad mortem ordinatus; et ideo ex bono fine; et ex iusta causa martyrii scilicet, poterant martyres absque ulla peccati labe non fugere [...]. Secundo infertur nunquam licuisse nec licere, seclusa divina iussione, [...] cuiquam seipsum iugulare, seipsum veneno occidere, aut actum morti immediatum exercere. [. ] Nec actus his, ex quo immediate sequitur mors, potest ex aliqua causa reddi licitus: quod manifestum est: nec alia probatione indiget quam his, quae ab Augustino, et divo Thoma in prae citatis locis traduntur" (Didacus Covarruvias, 1557, I, nota 9). 141 ACTA HISTRIAE • 12 • 2004 • 1 Gian Paolo MASSETTO: IL SUICIDIO NELLA DOTTRINA DELL'ETÀ DI MEZZO, 139-176 quello "non occides", che proibisce l'uccisione di chicchessia senza legittima autorità. E Agostino insegnava che nessuno ha autorità su di sé, in quanto non è superiore a se stesso. Del resto, il suicida "quid aliud facit si hominem non occidet?" (Leonardus Lessius, 1618).5 Anzi, e con questo abbandono Lessio per riferirmi a Joost Damhouder, il suicida commette un crimine più grave dell'omicida. Mentre costui uccide solo il corpo della vittima, senza colpirne l'anima, il suicida "certe et corpus et animam propriam nefarie perdit", quando "maligno animo" abbia commesso lo "scelus". Inoltre, chi si toglie la vita sottrae a sé il tempo utile per la penitenza e commette un male maggiore al fine di evitarne uno minore. Proprio per questo, Giuda, impiccandosi, commise un pec-cato più grave di quello consistente nell'aver tradito Gesù, "quia impoenitens" e, quindi, "sine spe veniae, mortuus est". Se nessuno deve darsi la morte pensando di fuggire le difficoltà e le gravezze delle cose terrene in quanto, invero, incorrerebbe in quelle perpetue, altrettanto è a dirsi per chi lo faccia a causa dell'insostenibilità dei peccati commessi perché, anzi, la vita è necessaria per sanare quei peccati con la penitenza; per conseguire una vita migliore, che dovrebbe seguire la morte, perché il peccatore, che diventa, dandosi la morte, reo, di certo "melior post mortem vita non suscipit". L' esito al quale perviene il pensiero del giurista fiammingo abbandona l'ambito etico e religioso, per abbracciare quello assai concreto della pena. Quanto ora riferito costituisce, infatti, la somma delle rationes, che inducono la conclusione: "homicida sui infamius suspendatur, quam alius quisquam homicida alterius [...]". Una forma più ignominiosa, esacerbata d'esecuzione doveva attendere dunque il corpo del suicida, affinché offrisse al popolo spettacolo e testimonianza "quod propria manu sibiipsi prius mortem consciverat" (Iodocus Damhouderius, 1601, LXXXX, nn. 1-3).6 Si tratta di parole che ci piombano in un tempo di repressione disumana e superstiziosa, un tempo contrassegnato da forme di persecuzione e di esecuzione contro il corpo del suicida o contro il suo patrimonio, che oggi appaiono, come in effetti furono, spietate e brutali. E tali apparvero al tempo in cui i lumi avevano rischiarato orizzonti più umani ed insieme più razionali. Ricordo, tra tutti, Poggi, il toscano Guido Angelo Poggi, per il quale l'aúxoxeipía era degna di commiserazione, di compassione e di null'altro: le pene sepolcrali, che tanto erano piaciute a Platone,7 e che allora, secondo la religione delle genti, erano considerate giovevoli e provvide, 5 Liber secundus, caput nonum, dubitatio VI Utrum liceat seipsum interficere (cfr. Sant' Agostino, 1978, 62-63; il testo è riportato in nota 30). 6 Per le rationes addotte dal giurista fiammingo, vedi Sant'Agostino, 1978, 52-55, 68-69. Quanto al pensiero di Guido da Baisio, vedi retro, nota 2. 7 "[...] questo per il resto, ma le sepolture per coloro che sono morti cosí siano anzitutto isolate e senza alcun compagno di tomba, ed essi siano inumati senza onori ai confini delle dodici parti del territorio dello stato, scegliendo fra quelle zone di confine che sono incolte e senza nome, e non ci siano né stele [e] né nomi, con cui indicare la sepoltura dei suicidi" (Platone, 1952, 307). 142 ACTA HISTRIAE • 12 • 2004 • 1 Gian Paolo MASSETTO: IL SUICIDIO NELLA DOTTRINA DELL'ETÀ DI MEZZO, 139-176 "nunc risum excitarent, atque etiam indignationem, nec tamen mederentur insaniae" (Angelus Poggius, 181S, caput III, §§ XXVI-XXVII). Sono pene che non eccitarono né il riso né l'indignazione del pavese Giuseppe Giuliani, giurista di tutto rispetto, anche se non caposcuola, il quale, nell'esaminare sotto l'aspetto politico la questione del suicidio - l'esame puö infatti investire ed investe anche quello morale -, invitava la società del suo tempo a "correggere i pre-giudizi che talora fomentano questa detestabile azione. Adotti pure il temperamento politico suggerito da Platone nel dialogo IX de legibus ed encomiato da Pastoret di denegare gli onori funebri al suicida, di destinargli un tumulo abietto; [...] ma non abbracci l'assurdo di punire ove manca il soggetto passivo della pena e, col togliere ai congiunti i beni ereditarj del suicida, aggiungere afflizione agli afflitti. Contro quest'assurdo insorse già la voce di due filosofi benemeriti dell'umanità, Beccaria e Filangeri" (Giuliani, 1840, 223ss). Due filosofi (Beccaria, 1984, 103-108; Filangieri, 1984, 97-100) che, insieme con Montesquieu (1949a, 246-247; 1949b), avevano compiuto molti passi lungo quella strada che già timidamente era stata imboccata due secoli innanzi da Moro e da Montaigne. Dico tímidamente, perché, non foss'altro, tanto l'uno quanto l'altro, abbracciando la tendenza tipica della prima età moderna di collocare tutto quanto potesse turbare l'animo in luoghi inesistenti o lontani nel tempo o nello spazio, svolgono la loro pur tenue difesa del suicidio, l'uno, nell'isola di Utopia (Moro, 2003, 97-98); l'altro nell'isola di Cea (De Montaigne, 1991, II, 372-386). Quella strada avrebbe avuto come traguardo l'affermazione della non imputabilità del suicidio e del tentato suicidio e della inapplicabilità di pene configurate come ingiuste, inutili ed inefficaci. Alla criminalizzazione esasperata dei sistemi penali d'ancien régime sarebbe succeduta la depenalizzazione dei sistemi contemporanei (si coglie nel Suicide Act del 1961 la definitiva espulsione del suicidio dal novero degli illeciti penali), dapprima fondata, secondo i nostri criminalisti di fine Ottocento, primi Novecento, su ragioni di politica criminale, stante la pratica impossibilità di una efficace repressione penale, ovvero nel fatto che il diritto, che è relatio ad alteros, non si occupa, né deve occuparsi delle azioni che non escono dalla sfera intima dell'individuo.8 Di poi, si affermera la ratio fondata su di una più matura concezione della libertà, già manifesta, peraltro, nei lavori per la Costituzione francese del 1793, quando Carnot propose una Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino, il cui articolo 6 recitava: "Ogni cittadino ha il diritto di vita o di morte su se stesso".9 8 Su queste e su altre concezioni - come quella fondata sulla distinzione tra diritti alienabili e diritti non alienabili - vedi, per tutti, Alimena, 1909, IV, 435-440, ma anche Carrara, 1881, I, 216-217. 9 Nella sua interezza l'art 6 del Progetto Carnot suona: "Ogni cittadino ha il diritto di vita o di morte su se stesso; quello di parlare, scrivere, stampare, pubblicare i suoi pensieri; quello di adottare il culto che gli conviene; la libertà infine di fare tutto cié che egli giudica a proposito, purché non turbi l'ordine civile" (Saitta, 1975, 300). 143 ACTA HISTRIAE • 12 • 2004 • 1 Gian Paolo MASSETTO: IL SUICIDIO NELLA DOTTRINA DELL'ETÀ DI MEZZO, 139-176 Se l'unico limite alla libertà dell'uomo sta nel rispetto della libertà altrui ben puo profilarsi un diritto al suicidio, che reclama, pretende riconoscimento e tutela. Diritto alla vita, certo, tutelato, sotto il profilo che ci riguarda, con la previsione di norme di cui tra poco diro, ma anche diritto alla morte, alla propria morte, come estrema manifestazione della personalità morale dell'uomo e quindi, per l'appunto, della sua libertà. Ma non manca chi, di fronte a questa liberalizzazione, di più, esaltazione del suicidio - non puo non venire alla mente il Kirillov di Dostoevskij: "Io voglio proclamare il mio libero arbitrio [...]". E di fronte all'interlocutore che l'incalzava "E fatelo", rispondeva: "Io sono obbligato ad uccidermi, perché il culmine del mio libero arbitrio è uccidere me stesso" (Dostoevskij, 1958, 694-695) -, si riferisce, per prenderne le distanze, all'art. 5 del codice civile da leggersi in connessione con l'art. 27 c. 3 e con l'art. 32 c. 1 della Costituzione, articoli che tutelano il diritto alla salute e, in senso lato, anche il diritto alla vita.10 Di certo non posso soffermarmi ora su questi temi, che, per la complessità dei principi etici, religiosi, giuridici e sociali coinvolti, vedono oggi chiamati a raccolta filosofi e sociologi, teologi e giuristi, criminologi e psichiatri, statistici e frenologi, pedagoghi sociali e suicidologi. La mia intenzione era volta ad indicare il traguardo di quella strada che, con cadute e riprese, in ogni caso con grandi difficoltà e fatica, percorsero i nostri cri-minalisti, ai quali faccio ritorno, non senza aver prima ricordato come tale traguardo vedrà riconosciuta la liceità giuridica del suicidio nonché del tentativo di suicidio. E pertanto, caduta la relativa risposta sanzionatoria in sede penale, come unica soluzione per reprimere comportamenti di partecipazione o di istigazione al suicidio, si prospetto quella di configurare un'autonoma fattispecie criminosa. Si legge nella Relazione del 1887 al definitivo progetto di codice penale: "La storia del diritto criminale ci dice che, fra le aberrazioni e le assurdità di qualche legislazione, vi fu pur quella d'incriminare il suicidio, anche se consumato. Se cio è contrario ad ogni sano principio giuridico, è pur vero, d'altro canto, che i motivi i quali giustificano l'impunità del suicidio non valgono rispetto a colui che, per malignità, per interesse, o per malintesa misericordia, induce altri al suicidio o scientemente vi presta aiuto" (Pellegrini, 1925, 3). Si noti che tali parole riproducono quelle che ebbe a scrivere Francesco Carrara nel rilevare che la depenalizzazione del suicidio poteva condurre ad una insostenibile conseguenza: "Coloro che o per malignità, o per interesse, o per malintesa misericordia, davano aiuto al suicida nell'opera disperata, non più venivano 10 "Gli atti di disposizione del proprio corpo sono vietati quando cagionino una diminuzione permanente della integrità fisica, o quando siano altrimenti contrari alla legge, all'ordine pubblico o al buon costume" (art. 5 c.c.); "Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato" (art. 27 c. 3 Costituzione); "La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti" (art. 32 c.1 Costituzione). 144 ACTA HISTRIAE • 12 • 2004 • 1 Gian Paolo MASSETTO: IL SUICIDIO NELLA DOTTRINA DELL'ETÀ DI MEZZO, 139-176 a cadere sotto la generale nozione della complicité, né sotto le relative sanzioni penali" (Carrara, 1881, 121). E nella Relazione al c.p. vigente si legge: "Il principio che l'individuo non possa liberamente disporre della propria vita, inteso in senso assoluto e rigoroso, indusse taluno ad affermare la penale incriminabilità del suicidio e, in tempi remoti, trasse ad aberranti e spietate forme di persecuzione contro il cadavere o il patrimonio del suicida. Prevalenti considerazioni politiche, ispirate a ragioni di prevenzione, ossia precisamente allo scopo di contribuire alla conservazione del bene giuridico della vita, impedendo che di essa si faccia scempio con più meditata preordinazione di mezzi e con più ponderata esecuzione per tema di incorrere nei rigori della legge penale, hanno condotto le legislazioni più recenti ad escludere il suicidio dal novero dei reati, limitando la punizione ai casi di partecipazione all'altrui suicidio" (Progetto definitivo, 1929, 375-376). Ed ecco, rispettivamente, l'art.370 del codice Zanardelli11 e l'art. 580 del codice Rocco,12 sulle cui formulazioni a lungo si discusse nei lavori preparatori tendenti, co-munque, al conseguimento dello scopo messo in luce nelle Relazioni di cui si è detto. Ma diamo nuovamente la parola ai nostri giuristi. Angelo Gambiglioni scriveva che ai suoi tempi, in materia di suicidio, non già era questione di pena di morte, ma ben piuttosto "[...] principaliter causa et quaestio erat super bonis, quoniam tunc quamvis reus sit mortuus tamen adhuc quaestio durat super bonis [...]" (Angelus Aretinus, 1551, n. 41). A distanza di secoli, Giacomo Maria Paoletti similmente si esprimeva: "[...] In hoc vero non de poena, quae cum malum passionis sit, mortuis imponi nequit, sed de bonis tantummodo disceptatur" (Maria Paolettus, 1805, 134), riferendosi ad una situazione di fatto che, ai tempi dell'Aretino, altro in realtà non era se non un auspicio. Certo, in dottrina si dubitava circa la possibilità di punire il suicida e quindi, dal momento che l'esecuzione sarebbe avvenuta post mortem, di dilacerarne il corpo ovvero di appenderlo alla forca. Se alcuni prudentes iuris erano per la negativa e riprendevano severamente quei giudici che a tali pratiche si abbandonavano, configurando per gli eredi financo la possibilità di esercitare l'actio iniuriarum nei loro confronti, altri ritenevano preferibile affidarsi all'arbitrium iudicis per la valutazione delle cause che potevano giustificare l'applicazione di pene post mortem. 11 "Chiunque determina altri al suicidio o gli presta aiuto e punito, ove il suicidio sia avvenuto, con la reclusione da tre a nove anni" (c.p. 1989). 12 "Chiunque determina altri al suicidio o rafforza l'altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l'esecuzione, e punito, se il suicidio avviene, con la reclusione da cinque a dodici anni. Se il suicidio non avviene, e punito con la reclusione da uno a cinque anni, sempre che dal tentativo di suicidio derivi una lesione personale grave o gravissima. Le pene sono aumentate se la persona istigata o eccitata o aiutata si trova in una delle condizioni indicate nei numeri 1 e 2 dell'articolo precedente. Nondimeno, se la persona suddetta e minore degli anni quattordici o comunque e priva della capacita d'intendere o di volere, si applicano le disposizioni relative all'omicidio" (c.p. 1930). 145 ACTA HISTRIAE • 12 • 2004 • 1 Gian Paolo MASSETTO: IL SUICIDIO NELLA DOTTRINA DELL'ETÀ DI MEZZO, 139-176 Claro, tra altri, ammoniva i giudici a "non saevire ullo modo in cadaver" del suicida, altrimenti avrebbero messo in atto "pessimam practicam" (Iulius Clarus, 1583).13 Si trattava di una pratica a giusto titolo definibile come pessima, in quanto anche violatrice della regola secondo la quale il crimine e la pena si estinguono con la morte del delinquente. Scriveva Pier Filippo della Corgna, ma potrei egualmente bene riferirmi a Decio (Philippus Decius, 1550, n. 7), che le penalità non potevano avere come valido fondamento il principio per cui l'individuo "non est dominus ipsius nec suorum membrorum" e neppure quello per cui "quis non potest in se saevire", in quanto "mors omnia solvit [auth. De nuptiis § deinceps], ideo extinguit delictum, poenam delicti, accusationem et inquisitionem" (Petrusphilippus Corneus, 1572, n. 8). E in questo senso era la communis opinio. In ogni caso, Claro immediatamente ricorre al suo consueto modulo argomentativo: "Sed certe quidquid sit de iure practica contrarium tenet et observat" (Clarus, 1583a).14 In questo senso, infatti, era la prassi del Parlamento di Rouen (teste Jean Feu) (Ioannes Igneus, 1539, nn. 21, 42-44), di Castiglia (teste Antonio Gomez) (Antonius Gomesius,1572, n. 79), delle Fiandre teste Damhouder, che già ho avuto occasione di ricordare e che descrive, nell'evenienza che il suicidio sia avvenuto in casa, la prassi di estrarne il corpo esanime del suicida non già attraverso la porta d'ingresso, ma per un foro praticato sotto la soglia "utpote quod indignum sit ob propriae vitae extinctionem, eodem ostio et limine egredi, per quod prius vivum valensque exiverat" (Damhouderius, 1601, nn. 8-9).15 Quanto alla terra di Lombardia, "haec practica apud nos non servatur", ricorda Claro. Pero Bossi, che pur invitava il giudice ad essere sollecito per la salvezza dell'animo del condannato, a far si che confessasse i suoi peccati, a porgli accanto un 13 Anche per Romano Pontano si trattava di una "pessima practica" (Romanus Pontanus, 1547, lect. in C. 6. 22, n. 5), con riferimento a Cino. Il giurista, pur riconoscendo che, talora, la pena viene eseguita post mortem (e il caso del latro famosus "qui primo furca suspenditur et deinde post mortem bestiis subiicitur". E ciö "propter immanitatem delicti et facti memoriam". E non v'e ragione di stupire quando si pensi al caso del monaco, "qui moriens non revelavit abbati pecuniam, quam vivens detinuerat. Quoniam extra coemeterium sepelitur cum pecunia, et in sterquilinio, ut habetur in c. cum ad monasterio, extra de statu monachorum [c. 6 X, 3, 35]), fissa la seguente regola: "Quia ex quo est vera regula. Haec conclusio sequitur, quo puniatur assessor de iniuria illata corpori seu cadaveri mortuo propter suspensionem post mortem factam. Ut probatur de iniuriis l. j. § quoties [D. 47.10.1.6.]. Nec est verum fundamentum illud propter quod ad hoc faciendum moventur assessores, scilicet quia post commissum delictum est effectus servus pene efficaciter [...] Que quidem pena morte finitur, ut supra dixi". 14 Sed hic incidenter quaero (Clarus, 1583a quaestio LI versic). 15 Si tenga presente che la Praxis rispecchia la realta fiamminga della seconda meta del Quattrocento, eta alla quale risale la Practycke crimínele di Philips Wielant, presidente del Consiglio di Fiandra (1441— 1520). Carrara rifacendosi a Kress, ricorda come tale "specialissima costumanza" fosse in uso presso gli antichi sassoni (Carrara, 1881, 213-214, nota 1). Intorno alla prassi delle terre di Germania Fridericus Boehmerius, 1769, XXII, §§ CCLIII-CCLIX, ove e fatta menzione anche della "costumanza", che Damhouder ci ha fatto conoscere. In Antonius Sabellus (1717, nn. 1-2) sono riportate le opinioni di non pochi giuristi e la prassi dei loro paesi circa la sorte riservata al corpo del suicida. 146 ACTA HISTRIAE • 12 • 2004 • 1 Gian Paolo MASSETTO: IL SUICIDIO NELLA DOTTRINA DELL'ETÀ DI MEZZO, 139-176 religioso la notte precedente l'esecuzione perché non fosse tentato dal diavolo -assolutamente non doveva verificarsi quanto accadde a quel "quidam, cui ea nocte, quae diem supplicii praecedebat, apparuit daemon sibi persuadens, ut seipsum neca-ret" -, attestava che i cadaveri di grassatori famosi erano posti sulla forca (Aegidius Bossius, 1562, nn. 18, 21). Claro stesso apporta non poche eccezioni alla sua pur recisa affermazione che la prassi, la pessima pratica di infierire sui cadaveri, non trovava applicazione in Lombardia. Faceva eccezione, per esempio, il caso che il suicidio fosse avvenuto in carcere dove il reo era detenuto "pendente processu", in quanto, in tale evenienza, sussisteva la presunzione che costui si fosse tolta la vita "conscientia proprii sceleris". Aveva altresî visto impiccare i cadaveri di delinquenti rimasti uccisi al momento della cattura, e cio "ad aliorum terrorem, [...] quando delictum erat noto-rium" (Clarus, 1583a).16 Singolare anticipazione, pare opportuno rilevare, della concezione beccariana, secondo la quale, se era bene perseguire e punire, in vista della generale intimi-dazione a fini preventivi, i delitti manifesti per non far serpeggiare la lusinga dell'im-punità, inutile era attivarsi per quelli "sepolti nelle tenebre", perché, in quanto tali, sconosciuti agli uomini, non avrebbero potuto esercitare influenza alcuna su di loro (Beccaria, 1984, 63). E non sto qui a ricordare l'obiezione sollevata contro il Milanese dal Marmontel (Beccaria, 1970, 400). Anche a Venezia la "pessima practica" non era sconosciuta. Racconta Tiberio Deciani del caso di un "aromatarius" che aveva una vecchia zia abitante, con una serva, in regione S. Maurizio. Costei era riuscita a racimolare, con grande parsimonia, un gruzzolo non insignificante di tremila ducati d'oro, nel quale aveva istituito erede il nipote, "ut sibi valde delectum". Un'affezione pero, si puo ben dire, per niente ricambiata dal giovane se è vero che costui, di vita infame, dedito al gioco ed al meretricio, bisognoso di danaro ed impaziente di entrare in possesso dell'eredità, penso bene di affrettare i tempi naturali della successione. Fatto ricorso ad un amico mugnaio, entro nella casa della zia, le cui porte sempre gli erano aperte e, era circa la metà della notte, "atrocissime" strangolo zia e serva, portando via con sé tutto il danaro. "Permittente iustissimo creatore", il giovane fu catturato, convinto e condan-nato dal Senato di Venezia ad essere trascinato a coda di cavallo per le terre della città, all'amputazione della mano sul luogo del commesso delitto e, per finire, allo squartamento in quattro parti "securo ancipite percusso publice". Il giovane aveva due fratelli che, al fine di evitare una cosî ignominiosa procedura, escogitarono un piano. Dopo aver ripetutamente richiesto di poter parlare, prima del giorno dell'esecuzione, con il reo e di poterlo teneramente baciare, "extremo vale 16 Con riferimento ad un caso preciso: "Sic etiam vidi alios, qui pendente processu seipsos interfecerant, furcis publice suspendi, et in specie quendam Ludovicum Bergaminum, qui post confessionem delictorum seipsum in carcere strangulaverat. 6 novemb[ris] 1555. P.N.". 147 ACTA HISTRIAE • 12 • 2004 • 1 Gian Paolo MASSETTO: IL SUICIDIO NELLA DOTTRINA DELL'ETÀ DI MEZZO, 139-176 dato", uno dei due fratelli, nascosto del veleno in una noce avellana, nell'atto di baciarlo, secondo quanto richiesto, gli fece scivolare in bocca la noce, ammonendolo sul da farsi. E l'"aromatarius", rotta con i denti la noce, assunse il veleno e, pertanto, in carcere morí. Gli "illustrissimi domini Senatus", vedendo in qual modo era stata elusa la giustizia, "mulctati graviter" e banditi i due fratelli, stabilirono che il cadavere del reo suicida fosse condotto su imbarcazione scoperta lungo il Canal Grande "et a carnifici ardenti forcipe frustatim cadaver ipsum discerpi quod et factum est". Deciani non fa commenti, sembra non assumere una personale posizione: quelle ora riferite sono le parole che chiudono la sua trattazione dedicata al tema relativo alle pene, che colpiscono coloro che "sibi manus inferunt" (Tiberius Decianus, 1593, n. 14). Se volgiamo l'attenzione su di un altro autorevole giurista, il pavese Giacomo Menochio, membro del Senato milanese, ci avvediamo che nell'amplissimo potere discrezionale di cui il giudice dell'età di mezzo era dotato rientrava la facoltà di concedere il corpo del suicida agli scolastici ed agli studiosi dell'arte medica al fine di farne anatomía (Iacobus Menochius, 1588, n. 12).17 Quanto alla pena patrimoniale, il diritto romano dell'età repubblicana prevedeva che il suicida, già sottoposto a giudizio, evitasse la confisca dei beni, esattamente come avveniva nel caso di morte naturale. Per la confisca occorreva, dunque, che il suicidio fosse stato commesso dopo la condanna per un reato che comportasse tale pena. Più tardi venne introdotto il principio, che equipara al damnatus il suicida postulatus o delatus, ovvero deprehensus in crimine, ove la morte sia stata procurata al fine di sfuggire la condanna e, quindi, in definitiva, al fine di frodare il fisco. Questo principio venne accolto nella compilazione giustinianea in cui si affaccia inoltre, per la prima volta, quello di punire il tentato suicidio, giustificando ció con la ratio "Qui enim sibi non pepercit, multo minus alii parcet".18 Si tratta di una ratio costantemente tenuta presente dagli interpreti - è sufficiente scorrere il famoso commento di Jean Feu al Senatoconsulto Sillaniano per avvedersi di quante volte egli ad essa faccia riferimento (Igneus, 1539, nn. 5-6, 21, 52)19 - e 17 In n. 6 è riportato il caso dell'aromatarius narrato da Deciani, il quale ricorda come "[...] insignis compater et collega meus Menochius [...] refert casum illum", che per l'appunto accadde a Venezia, ma, poiché "integre illum non refert Menochius, ideo" si sentí in dovere di provvedere a questa incompletezza. Non pochi sono i giuristi che si affidavano all'arbitrium iudicis per la determinazione se il giudice potesse, ovvero no, "suspendi facere corpus mortuorum". Lo ricorda, facendo non pochi nomi di giuristi, anche autorevoli, Boerius, (1579, n. 9), riportando un arrêt emanato il 18 luglio 1533. 18 D.48.21.3.6: "Sic autem hoc distinguitur, interesse qua ex causa quis sibi mortem conscivit: sicuti cum quaeritur, an is, qui sibi manus intulit et non perpetravit, debeat puniri, quasi de se sententiam tulit. Nam omnimodo puniendus est, nisi taedio vitae vel inpatientia alicuius doloris coactus est hoc facere. Et merito, si sine causa sibi manus intulit, puniendus est: qui enim sibi non pepercit, multo minus alii parcet". 19 La formula è presente nelle Lettere di Sant'Agostino (1971, 562-565, epistola 155, 1, 3; 1974, 450453, epistola 204, 5), che trova la fonte in Ecclesiastico 14, 5 ("Chi è duro con sé, con chi sarà egli buono?), e, con riferimento al testo giustinianeo, in modo costante nei giuristi dell'età di mezzo. Ad 148 ACTA HISTRIAE • 12 • 2004 • 1 Gian Paolo MASSETTO: IL SUICIDIO NELLA DOTTRINA DELL'ETÀ DI MEZZO, 139-176 che, nella bella ricostruzione romanistica della materia compiuta da Giuliani, viene intesa nel senso che colui il quale abbia attentato alla propria vita ben più facilmente ha commesso il crimine di cui è accusato (Giuliani, 1840, 226-228). La romanistica è portata ad intenderla come affermazione del principio che chi non risparmia se stesso puo riuscire tanto più dannoso agli altri, secondo una concezione che, pertanto, sembra guardare più al futuro che non al passato. I criminalisti interpreti sono concordi sui punti fondamentali. Quando il soggetto si sia tolto la vita sotto l'impulso di una causa iniusta - tipicamente ricorrono quelle di già previste dal diritto romano: "metus poenae", "conscientia delicti", alle quali si contrappongono quelle iustae, altrettanto tipicamente "dolor corporis", "taedium vitae", "furor", "insania" e l'elenco è puramente esemplificativo dal momento che la costituzione di Antonino si chiude con le parole "aut aliquo casu"20 - la consi-derazione della natura del delitto "cuius conscientia sibi mortem intulit" li guida nella soluzione delle varie ipotesi proponibili. Se si tratta di crimen per il quale sia prevista la procedibilità contro il defunto e la condanna della sua memoria, quali sono, per esempio, il crimenlese e l'eresia, il giudice deve procedere contro il suicida come se fosse vivo in vista della publicatio bonorum. La gravità dei crimini indicati, cosí come per gli atrociora, comporta eccezione alla regola, che ormai conosciamo, "mors extinguit delictum".21 La pubblicazione dei beni colpisce, come confesso, chi si sia ucciso per la "conscientia" o il "metus" di un "crimen publicum", che comporti la pena di morte, ovvero quella della deportazione. L'irrogazione della pena trova il suo fondamento non tanto nella commissione del delitto consistente nell'essersi data la morte, quanto piuttosto di quello la cui "conscientia" o "metus" ha costituito la "causa iniusta" del suicidio. Circa le fasi e gli atti processuali necessarii perché possa addivenirsi all'irro-gazione della pena, la Glossa, seguita da Baldo, riteneva che, oltre alla deprehensio rei in crimine e alla accusatio, occorresse la litis contestatio.22 La communis opinio era comunque in senso contrario. D. 48.21.3.1 risultava chiaro, nella sua lettera, nel disporre che fossero sufficienti "postulatio vel deprehensio" e la "postulatio" viene esempio, in Damhouderius, 1601, n.10; Menochius (1588a, n. 22): "[...] quasi quod ratio haec a fortiori significet atque ostendat, esse hunc [colui che ha tentato il suicidio] eadem poena puniendum ac si alterum vulnerasset. Verum ratio haec a fortiori sumpta arguit potius maiorem poenam huic esse iudicandam, quam vulneranti alium". Particolarmente diffuso, intorno a siffatta ratio, sarà, alle soglie dell'età della codificazione, Aloysius Cremanus (1792, §§ III-IV). 20 C.9.50.1: "Eorum demum bona fisco vindicantur, qui conscientia delati admissique criminis metuque futurae sententiae manus sibi intulerint. Eapropter fratrem vel patrem tuum si nullo delato crimine, dolore aliquo corporis aut taedio vitae aut furore aut insania aut aliquo casu suspendio vitam finisse constiterit, bona eorum tam ex testamento quam ab intestato ad successores pertinebunt". V. anche infra, nota 36. 21 Cfr. retro, testo corrispondente a Petrusphilippus Corneus, 1572, n. 8. 22 gl. probationibus in C. 6.22 Qui testamenta facere possunt, vel non, l. 2 Si is qui (Baldus Ubaldus, 1599, n. 1). 149 ACTA HISTRIAE • 12 • 2004 • 1 Gian Paolo MASSETTO: IL SUICIDIO NELLA DOTTRINA DELL'ETÄ DI MEZZO, 139-176 identificata nella "accusatio". Anzi, "propter dictionem illam alternativam vel", De-ciani, tra altri, conclude nel senso della necessita o della "accusatio" o della "depre-hensio rei in crimine" (Decianus, 1593, n. 7).23 Limpidamente avvertita dai giuristi risulta l'evoluzione del diritto romano nella contrapposizione tra ius digestorum e ius authenticorum, che determina il dubbio se le pene previste dal primo siano "hodie sublatae" dal secondo, in particolare dall'autentica Bona damnatorum, che riserva ai sui ed agli agnati i beni che un tempo erano confiscati a vantaggio del fisco. Il dubbio e positivamente sciolto grazie alla ratio che Bartolo (Bartolus a Saxoferrato, 1590)24 aveva avanzata e che risultava efficacissima per abbattere quella contraria degli Ultramontani, ai quali si era aggiunto Cino (Cynus Pistoriensis, 1547, n. 3).25 Se "de iure digestorum" i beni del suicida venivano confiscati nel solo caso in cui il "crimen", per la cui coscienza il suicidio venne consumato, fosse tale da comportare la "proscriptio bonorum", ebbene, se ció e vero, e vero anche che, in quanto "hodie" la confisca e prevista per il solo "crimen laesae maiestatis", il suicida perderá i beni nel caso di commissione di tale crimine, soprattutto perché la lex, che disponeva la confisca per il suicida, la disponeva non tanto come pena del propricidio che aggravava il crimen dapprima compiuto, quanto piuttosto di quest'ultimo, della cui commissione il suicidio costituiva "tacita confessio" (Decianus, 1593, n. 3). Chiara risulta anche la distinzione tra il ius naturale ed il ius gentium, una distinzione che Deciani, tra altri, propone sollecitato da D. 15.1.9.7, in cui Ulpiano afferma che e lecito al servo naturaliter infierire sul proprio corpo. In verita, anche il servo che si uccide delinque perché compie un atto che ripugna alla natura, per la quale e intrinseco in ogni essere animato difendere e tutelare la propria vita, il proprio corpo. Il naturaliter ulpianeo non e da intendersi, pertanto, come riferito a quel "ius naturale commune omnibus animantibus, a Deo nobis traditum", quanto piuttosto al ius gentium, a quel diritto che introdusse "servitutes et deceptiones". Meglio ancora, "ego intelligo aliter vocem illam naturaliter", e cioe come riferibile non "ad ius, sed ad actum corporis, ad quem natura ipsa aptus est servus" (Decianus, 1593, n. 25). 23 D. 48.21.3.1: "Qui rei postulati vel qui in scelere deprehensi, metu criminis imminentis mortem sibi consciverunt, haeredem non habent [...]". 24 D. 48.21 De bonis eorum, qui ante sententiam mortem sibi consciverunt, l. 3 qui rei, § si quis autem; ma vedi anche D. 48.20 De bonis damnatorum, l. 1 supplicii, n. 9. 25 Nella lectura al testo giustinianeo Cino pone anche la questione relativa alla sorte dei beni di colui che si sia tolto la vita, distinguendo con alcune notazioni curiose, che vale la pena di riportare: "[...] aut constat quod se interfecit propter impatientiam doloris alicuius infirmitatis; forte ob dolorem dentium, seu propter rabiem furoris, vel pudoris aeris alieni, ut faciunt Floentini, et tunc non succedit sibi fiscus; immo heres institutus [...]". Diversamente, se il suicidio fosse determinate dalla conscientia o dal metus criminis, la successione si svolge a vantaggio del fisco, sempreche si tratti di crimen "de quo potest quis post mortem accusari [...]" (Cynus Pistoriensis, 1547, n. 1). Alberico da Rosate (1545; 1584) espone in modo assai chiaro lo stato della questione. Vedi anche, in materia, infra, nota 43. 150 ACTA HISTRIAE • 12 • 2004 • 1 Gian Paolo MASSETTO: IL SUICIDIO NELLA DOTTRINA DELL'ETÀ DI MEZZO, 139-176 Ho prima fatto riferimento, un fugace riferimento, al tentativo di suicidio, nel ricordare quella locuzione, che si ritrova in D. 48.21.3.6 e che tanto attrasse l'atten-zione degli interpreti.26 E mi pare importante rifarmi ancora al Giuliani, il quale offre una particolare, intelligente interpretazione del frammento di Marciano, che propone il quesito "an is, qui sibi manus intulit, et non perpetravit debeat puniri, quasi de se sententiam tulisset". La risposta al quesito è: "omnimodo puniendus est, nisi taedio vitae vel impatientia doloris alicuius coactus est hoc facere: qui enim sibi non pepercit, multo minus alii parcet". Tenendo presente che il suicidio impediva la pronuncia della sentenza contro il reo di delitto capitale, perché la morte perime l'azione penale e, perento il giudizio, non poteva avere luogo la confisca perché mancava l'atto pubblico che legittimamente canonizzasse la sussistenza della reità nell'accusato. Il quesito proposto da Marciano - se debba essere o no applicata la pena - acquista significato, in quanto riferito all'attentante il suicidio, "quasi de se sententia tulisset". Vale a dire, come colui che, attraverso il tentativo di uccidersi senza il concorso di alcuna delle cause scusanti indicate dalla legge, veniva a dichiarare se stesso meritevole della pena capitale e cosí a confessare il crimine ed a giudicarsi da se medesimo. In ogni caso, Giuliani muove ai giuristi dell'età di mezzo l'accusa di "mala intel-ligenza delle leggi romane" in materia di conato, in quanto arrivarono al punto di credere che la pena di morte sanzionata nei confronti dei militari, che senza scusante avessero tentato di uccidersi, fosse applicabile a tutti (Giuliani, 1840, 226-228). Giuliani è troppo severo. Se alcuni giuristi come Tommaso Grammatico (Thomas Gram-maticus, 1567, nn. 4-5), meritano la sua rampogna, altri, e sono i più, si avvedono che il giurista napoletano, sia pure con qualche esitazione, propendeva per l'applicazione della pena capitale, fondandosi su D. 49.16. 6 e su D. 48.19.38, che in verità si riferiscono a chi è militare. Ed in ordine a coloro che rivestono siffatto status, più grave risulta il crimen, in quanto esso sottrae allo stato non solo un cittadino, ma, per l'ap-punto, anche un militare, il cui compito precipuo è quello di combattere in sua difesa. Era quanto rilevava, tra altri, Tiberio Deciani: "Ego vere sic distinguendum puto". O consta in modo manifesto che l'attentante il suicidio agí mosso da "iniusta causa et hoc casu subdistinguendum puto": se il primo delitto commesso era punibile con la pena di morte, sarà questa la pena applicabile al soggetto agente, come confesso; se la pena prevista non era quella capitale, il reo sarà colpito, anche in questo caso come reo confesso, dalla pena "quam j[nfra] dicam". Ove la causa del tentativo rientri tra quelle "iustae, pariter subdistinguendum est", a seconda che il soggetto sia un militare ovvero un civile: se militare, la pena è colta nell'ignominia - se la causa consista pero nella "ebrietas" o nella "lascivia", oltre all'ignominia si deve applicare la perdita del grado -; se civile, occorre ulteriormente distinguere a seconda che ci si voglia riferire al ius commune, ovvero al ius statutorum. In ordine al primo, non 26 Cfr. retro, note 18, 19 e testo corrispondente. 151 ACTA HISTRIAE • 12 • 2004 • 1 Gian Paolo MASSETTO: IL SUICIDIO NELLA DOTTRINA DELL'ETÀ DI MEZZO, 139-176 sorgono problemi: il soggetto non deve essere punito, "quia hoc iure non cavetur". In ordine al secondo, il problema invece si pone: sarà applicabile al tentato suicida, a colui che, in buona sostanza, si sia inferto una ferita la pena che lo statuto commina "contra vulnerantem aliquem"? (Decianus, 1593b, n. 4). Solido punto di riferimento in ordine alla questione risulta essere per Deciani, cosí come per altri numerosi giuristi, Giovanni d'Andrea in una additio allo Speculum "ubi eam disputat ad partes" - Franceschino Corti scrisse: "ubi arguit pro et contra" (Fran-cischinus Curtius junior, 1571, n. 3) -, per addivenire alla conclusione che "de con-suetudine et communiter" non è applicabile la pena statutaria perché tra "vulnerans" e "vulneratus" v'è una differenza analoga a quella che intercorre tra "agens" e "patiens". Il grande canonista ricordava anche come un caso attinente alla questione indicata, secondo la testimonianza di Riccardo Malombra, fosse avvenuto a Padova. Un avvocato, oppresso dal peso dei debiti, aveva tentato di uccidersi, sopravvisse e fu punito con la pena statutaria comminata al "vulnerans". Non questa pena si sarebbe dovuta infliggere, ma, "uti infamis", l'avvocato sarebbe dovuto essere radiato dall'or-dine degli avvocati (Speculator, 1544).27 "Sic dixerunt" Baldo, Bartolomeo Saliceto, Fulgosio e Paolo di Castro, sottolinea Franceschino Corti, il quale, interpellato insieme con altri tre consiliatores intorno ad un caso di cui diro tra poco, era dello stesso parere (Curtius junior, 1571).28 "Quod tamen ultimum ego non admitterem", tiene a dire Deciani, in quanto, circa l'infamia, non ricorrevano per l'avvocato quelle "rationes" che la rendono applicabile al militare, a meno che non si tratti di un "advocatus fisci", che, in quanto tale, esercita ad evidenza una pubblica funzione (Decianus, 1593).29 E per quanto riguarda il chierico che infierisse su di sé? "Hoc casu variarunt iuris prudentes". Deciani ha ragione. Tra coloro che ritenevano non applicabile la pena prevista dal diritto canonico - la pena della scomunica - v'erano Faber, Baldo, Ful-gosio, mentre sull'opposto versante si erano attestati Giovanni d'Andrea, l'Arcidia-cono, nonché Jean Feu, il quale ave va provveduto a rispondere "omnibus contrariis" (Ioannes Igneus, 1539, nn. 4-7). Ebbene, "quam sententiam ego quoque sequor motus etiam praeter eas hac ratione", scrive, con una certa fierezza, Deciani e l'argo-mentazione che vale è quella "de militi saeculari ad militem caelestis militiae". Come il primo incorre nella, meglio nelle sanzioni testé ricordate, cosí il chierico, confi-gurato come soldato dell'esercito celeste, inevitabilmente incorre nella pena prevista per il "vulnerans": il canone Si quis suadente diabolo non fa distinzioni e poi più grave è il delitto di chi leva le mani su di sé piuttosto che su di un altro. Non basta, "cui rationi addo et aliam satis efficacem", e la fonte di tale "ratio" è Agostino, il quale, per sostenere che chi uccide se stesso è omicida, intendeva il precetto Ne occidas nel senso che non eccettui alcuno, neanche colui al quale il precetto stesso sia rivolto come 27 Quindi, dal Collegio di appartenenza. 28 Per la sedes, v. Curtius junior, 1571, n. 3. 29 Per la sedes, v. Decianus, 1593b, n. 4. 152 ACTA HISTRIAE • 12 • 2004 • 1 Gian Paolo MASSETTO: IL SUICIDIO NELLA DOTTRINA DELL'ETÀ DI MEZZO, 139-176 soggetto passivo (Decianus, 1593b, n. 4). Il che vale a dire: "ergo et in proposito nostro arguo ego" che, se il canone Si quis suadente diabolo recita che chiunque abbia posto le violente mani su di un monaco o su di un chierico sia scomunicato, la generalità della locuzione usata comporta che nessuno sia eccettuato, nemmeno il chierico stesso che, nel caso, abbia operato come soggetto attivo nei propri confronti.30 L'obiezione che veniva opposta, fondata sull'aggettivo "violentas" che correda il termine "manus" - si ricordino i precetti "vis in volentem non fiat", "nulla iniuria est quae in volentem fiat" -, era dissolta, oltre che per l'argomentazione addotta da Jean Feu, secondo cui la pena prevista dai canoni colpisce non solo la "violenta", ma anche la "iniuriosa manus" (Ioannes Igneus, 1539, n. 7), e non v'è dubbio che la violenza esercitata su di sé in ogni caso costituisca ingiuria per il clero e per la Chiesa, per la seguente: "ego dico non obstare quia illa vox potest capi active et passive". Era Bartolo, questa volta, il maestro seguito, Bartolo che "pulchre declarat" la questione (Bartolus a Saxoferrato, 1590).31 Se non è possibile configurare la violenza rispetto al chierico ferito come "patiens", ben lo si puo rispetto a lui come "agens", in quanto pensava, aveva pensato di ferire, anche di uccidere "cum vi". Violenza, dunque, rispetto all'agente, per quanto di violenza in senso proprio non possa parlarsi rispetto al "patiens, quia vult". Del resto, punibile è colui che percuota il chierico consenziente (Decianus, 1593).32 Anche la legislazione statutaria attrasse, per non pochi versi, l'attenzione dei criminalisti nelle sue disposizioni relative al crimen che interessa. Ecco un esempio. La communis opinio, alla quale aveva fatto da apripista Baldo -"id quod omnium primus affirmavit Baldus" (Baldus Ubaldus, 1599),33 scriveva Menochio (Iacobus Menochius, 1588, n. 32) - considerava non scusabile, anzi, con-dannabile alla confisca dei beni il bandito suicida, che avesse ritenuto di poter 30 Impostato il ragionamento sul principio che la Legge [Esodo, 20, 16], con il divieto di "[...Jfalsum testimonium non dices adversus proximum tuum", di certo non intende rendere immune dal reato di falsa testimonianza chi testimonii il falso contro se stesso, Agostino prosegue: "[...] quanto magis intellegendum est non licere homini se ipsum occidere, cum in eo, quod scriptum est: Non occides [Esodo, 20, 13], nihilo deinde addito, nullus, nec ipse utique, cui praecipitur, intellegatur exceptus!". Definite come deliranti le interpretazioni del precetto come estensibile anche ad atti contro le bestie domestiche e selvatiche, persino all'atto consistente nello spezzare un ramo ("Num igitur ob hoc, cum audimus: Non occides, virgultum vellere, nefas ducimus et Manichaeorum errori insanissime acquiescimus?"), Agostino conclude: "[...] restat ut de homine intellegamus, quod dictum est: Non occides, nec alterum ergo nec te. Neque enim qui se occidit aliud quam hominem occidit". Sant' Agostino, 1978, I, 62-63. Vedi anche Sant'Agostino, 1978, I, 17-18, il cui testo e accolto nel Decretum di Graziano (c. 9 si non licet, C. XXIII, q.V.). 31 Commento in D. 40.4 De manumissis testamento, l. 16 si ita scriptum fuerit; D. 45.2 De duobus reis constituendis, l. 2 cum duo eandem, n. 7. 32 Per la sedes, v. Decianus, cap. III, n. 4. 33 Commento in C. 6.1 De servis fugitivis, l. I servum, n. 33. Vedi anche, in argomento, Paulus Castrensis (1553) in C. 6.1 de servis fugitivis, l. 1 servum; Philippus Decius (1570), commento in C. 6.22 qui testamentum facere possunt, l. 1 si is, qui, n. 6. 153 ACTA HISTRIAE • 12 • 2004 • 1 Gian Paolo MASSETTO: IL SUICIDIO NELLA DOTTRINA DELL'ETÁ DI MEZZO, 139-176 offendere se stesso in virtu della disposizione statutaria, che configurava come lecita l'uccisione del bandito. L'unica voce dissonante, lo ricorda il giurista pavese, era stata quella di Filippo Decio, la cui concezione, per quanto fosse sotto alcuni riguardi condivisibile - il bandito, vigente lo statuto, e fuori dalla difesa, dalle garanzie ap-prontate dal ius commune, che non puo, pertanto, "vindicare necem banniti". Inoltre, i delitti sono puniti "in vindictam vel privatam, vel Reipublicae, ma, nel caso, di vendetta privata non e possibile parlare, perché il bandito e privo della protezione del ius commune, e neppure puo parlarsi di "vindicta Reipublicae", in quanto essa, imponendo di ucciderlo, non puo essere ritenuta oggetto di offesa. In poche, riassuntive parole: proprio "stante tali statuto [...] videtur quod suadente publica utilitate impune seipsum [bannitus] occidere possit" (Philippus Decius, 1593) -34 non valeva a distogliere neanche Deciani da quella ritenuta communis. Pero, "addo intelligendam esse communem opinionem" come fondata, se per il primo delitto, quello per cui fu irrogato il bando, i beni non fossero stati confiscati, mentre se gia lo fossero stati, essa non sarebbe risultata fondata, "cum poena legis hoc casu habere non posset, neque eius dispositio" (Decianus, 1593, n. 1). Tanto Menochio quanto Deciani ebbero spesso modo di riferirsi al pensiero di Decio, Mi limitero a proporre un caso riguardante l'applicazione o l'applicabilita della legislazione statutaria, naturalmente in tema di suicidio. Tale Giovanni Ludovico era stato ritrovato cadavere in fondo ad un pozzo. Nei tempi precedenti Giovanni aveva fatto testamento, istituendo fedecommissario il nipote Bartolomeo Brancaleoni, che era bandito, sotto la condizione che avesse ottenuto la grazia da parte del Duca di Urbino. Le questioni sul tappeto non erano poche. Innanzitutto quella posta dalla morte stessa di Giovanni, tra altre: si trattava di omicidio o non piuttosto di suicidio? E poi, nella seconda ipotesi, quale fu la causa determinante? Erano questioni, le cui possibili soluzioni avevano pesanti ripercus-sioni sul piano successorio. Bartolomeo poteva o no esercitare il jus legitimae sull'eredita dell'avo materno? Quale la sorte del fedecommesso condizionale? Come risulta di tutta evidenza, stava, per cosí dire, in agguato il fisco. Il caso rivestí una certa importanza, se e vero che furono chiamati a dare il proprio consilium, oltre a Decio, Franceschino Corti, Pietro Paolo Parisi e Mariano Socini il giovane (Philippus Decius, 1550, CCCCXXXVIII; Curtius junior, 1571, CLXXXII; Petrus Paulus Parisius, 1570, CLV; Marianus Socinus junior, 1571, LI).35 E di esso si interesso anche Deciani, non tanto sotto il profilo successorio - tale profilo non sfugge comunque alla sua attenzione, come inevitabilmente legato al suicidio - quanto piuttosto sotto quelli piu generali relativi al modo di procedere, alla determinazione di chi sia gravato dall'onere della prova, nonché a quello dello scioglimento dei dubbi che insorgono intorno al fatto se davvero si tratti di suicidio; 34 Commento in c. 7 quae in ecclesiarum, X, 1, 2 de constitutionibus, nn. 66-67. 35 Nei consilia ora indicati e descritta la fattispecie riferita nel testo. 154 ACTA HISTRIAE • 12 • 2004 • 1 Gian Paolo MASSETTO: IL SUICIDIO NELLA DOTTRINA DELL'ETÀ DI MEZZO, 139-176 intorno alla causa che avrebbe potuto determinarlo. Si ricordi, in proposito, che ac-canto alle cause che importano la punibilità, le causae iniustae, si collocano quelle iustae, che tale conseguenza non determinano.36 Tra i casi che "in hac quaestione sunt constituendi", il primo riguarda quello in cui non risulti chiaro se colui che è stato ritrovato morto si sia volontariamente o no ucciso. Ed il riferimento è proprio ad un uomo rinvenuto morto in fondo al pozzo: si è gettato, o vi è stato gettato? Nel dubbio si deve propendere per la non volontarietà dell'atto, in quanto "nemo praesumitur habere odio carnem suam, quin potius vehementer amare". Era la soluzione proposta anche dai quattro consiliatores or ora ricordati, i quali insistevano nel fondare la soluzione dell'involontarietà dell'atto sulla "praesumptio naturae". Inoltre, tenendo anche conto dello statuto - lo statuto di Cagli, nel territorio urbinate (Statuta, ordinationes atque decreta, 1589) -,37 che prevedeva per l'omicidio la pena della decapitazione e la confisca dei beni, negavano che i beni di Giovanni Ludovico potessero essere oggetto di confisca, a meno che il fisco non riuscisse chiaramente a provare "quod se ipsum praecipitaverit". In siffatto caso occor-revano, soggiunge Deciani, "probationes clarae, non dubiae" (Decianus, 1593, n. 10). Il dubbio poteva anche vertere, come si è detto, non già sulla volontarietà dell'atto, ma sulla causa che lo aveva determinato. Si tratta di un dubbio che incide sulla sorte dei beni, che saranno confiscati, se essa consista nel rimorso per il delitto commesso, nel timore della pena, al contrario di quanto avverrà qualora consista nell'insofferenza al dolore, nel disgusto della vita ("taedium vitae"). Anche in questo caso la presunzione, nel dubbio, gioca a favore degli eredi: i beni non saranno confiscati, sempreché il soggetto non sia di già stato posto sotto accusa "de crimine, neque deprehensus". Ove lo fosse stato prima di darsi la morte, si deve propendere, invece, salva prova contraria, per la sussistenza nel suicida della "conscientia cri-minis", ovvero del "metus poenae". La presunzione giova quindi, in questa eveni-enza, in favore del fisco (Decianus, 1593, n. 11-12). V'è poi un ultimo caso, quello in cui si provi che il suicida era affetto da grave malattia od oppresso da un gravissimo dolore. Ebbene, si deve presumere che l'incapacità di sopportare siffatti mali, non già il timore della pena, sia stata la causa determinante dell'atto compiuto (Decianus, 1593, n. 13). "Avertant tamen iudices" - conclude Deciani - che, per quanto de iure colui che si sia ucciso dopo l'accusa, senza che sia stata provata alcuna altra causa, debba essere ritenuto come confesso del crimine oggetto dell'accusa, in quanto "experientia docet" che molti innocenti, e pur tuttavia accusati ed incarcerati, si tolgano o tentino di to-gliersi la vita. Anche in questo caso, come non di rado avviene in Deciani, oltre all'esperienza, per cosí dire, generale, sovviene l'esperienza personale. "Vidi enim 36 Intorno a tali causae, vedi Igneus, 1539, l. j. § si sibi manus, n. 16. Cfr. anche retro, nota 20 e testo corrispondente. 37 Vedi, per tutti i consiliatores citati in nota 35, Curtius junior (1571), cons. CLXXXII, pr. 155 ACTA HISTRIAE • 12 • 2004 • 1 Gian Paolo MASSETTO: IL SUICIDIO NELLA DOTTRINA DELL'ETÀ DI MEZZO, 139-176 ego" un certo Aloisio da Parma, uomo di non mediocre erudizione, incarcerato su mandato del Consiglio dei Dieci per crimenlese, cercare di tagliarsi la gola, ma non morí. Si tratta di un'esperienza che risulta essere fonte d'insegnamento: uomini fragili di animo fanno violenza su se stessi per disperazione, piuttosto che per la coscienza, per il rimorso di un crimine in realtà non commesso. E, pertanto, "ego puto" che, di fronte a casi siffatti debbano con particolare diligenza essere valutate tutte le circo-stanze prima di ritenere come confesso un soggetto per il solo fatto che si sia tolto la vita. Come per la sola contumacia nessuno puo essere definitivamente condannato, cosí nessuno, per il solo fatto di essersi data la morte, deve essere ritenuto come veramente confesso: "nam ista dua" - la contumacia e l'atto di darsi la morte - "aequi-parantur" (Decianus, 1593, n. 14). E i quattro consiliatores? Le conclusioni alle quali pervenne Decio - mi riferisco a lui soltanto in quanto essi "uno ore responderunt" (Menochius, 1588, CCLXXXIIII, n. 27) - furono le seguenti: i beni di Giovanni Ludovico non devono essere appresi dal fisco, per il solo fatto che egli è stato ritrovato cadavere in un certo pozzo; la confisca dei beni di Bartolomeo Brancaleoni non puo ricomprendere il ius agendi ad sup-plementum legitimae, che gli compete circa l'eredità di Giovanni; il fisco non puo pretendere il fedecommesso di cui era stato investito Bartolomeo sotto la condizione che egli avesse ottenuto la grazia dal dux (Decius, 1550, CCCCXXXVIII, nn. 1, 8, 13). Non posso ora soffermarmi sulle argomentazioni addotte dal giurista milanese. Mi limito a ricordare quanto Menochio, nel riprendere il caso, che divenne, ben lo si puo dire, di scuola (ad esso fecero riferimento anche Rolando Dalla Valle, Covarruvias, Claro, Pellegrini nel suo trattato De iuribus, et privilegiis fisci, Farinac-cio, Toschi tra altri (Rolandus a Valle, 1570, XX, n. 4; Covarruvias, 1557b, II, n. 11; Clarus, 1583;38 M. Antonius Peregrinus, 1590, IV; Prosperus Farinaccius, 1613, CXXVIII, n. 43; Domenicus Tuschus, 1634, n. 17)39 ebbe a dire. Lo statuto di Cagli, che comminava la poena capitis e la publicatio bonorum per l'occidens alterum, non poteva, né doveva trovare applicazione nei confronti di chi, "nulla coscientia sceleris ductus", si getto in un pozzo, per il contenuto della sua previsione normativa: "Si quis homicidium fecerit, vel fieri fecerit capite puniatur". Si tratta di una norma che si riferisce a colui che, "flagitio perfecto", risulta superstite ed intorno al quale "supplicium sumi potest", non a già colui che, morto, non puo essere punito con pena corporale. E nello stesso modo debbono essere interpretati ed applicati gli statuti di Pavia, Milano, Brescia, Verona e Padova, che similmente dispongono (Menochius, 1588/II, CCCXXXIIII).40 38 Quaestio IV versic. haec autem dubia. 39 Il riferimento, talora, e al caso di Bartolomeo Brancaleoni, talaltra, genericamente, a quello in cui taluno sia stato ritrovato morto in un pozzo. 40 Per gli statuti citati dal giurista pavese, Statuta civitatis et principatus, 1590, rubr. 21; Statuta criminalia Mediolani, 1619, cap. 47; Statuta magnificae, 1723; Statutorum magnificae civitatis 156 ACTA HISTRIAE • 12 • 2004 • 1 Gian Paolo MASSETTO: IL SUICIDIO NELLA DOTTRINA DELL'ETÀ DI MEZZO, 139-176 Ho fatto or ora riferimento a Rolando Dalla Valle che, nell'affrontare un caso che gli venne sottoposto, elaboro un consilium per piu versi degno d'attenzione.41 In breve. Egli pone quattro questioni, tutte incentrate sulla sanzione della confisca dei beni e risolte con una premessa che subito pone in chiaro quale sia il suo intendimento: i beni di Antonio Cattaneo, che si era ucciso tramite impiccagione, non potevano essere oggetto di confisca da parte del giudice secolare ("iudex maleficiorum"), "si valet argumentum a sufficienti partium enumeratione, quod tamen est fortissimum in iure l. patre furioso ff. de his qui sunt". Sono citati Bartolo, Angelo degli Ubaldi e "alii", un consilium di P.P. Parisi e tre di Socini jr (Rolandus a Valle, 1570, n. 1). I beni non potevano esser confiscati perché: 1) gli agenti del fisco non avevano provato che Antonio, non accusato né colto in flagrante, si era impiccato "conscientia criminis" (Rolandus a Valle, 1570, n. 1); 2) perché Antonio non era stato accusato né catturato per il crimen laesae maiestatis humanae, il solo che comporti la pena capitale, oltre alla confisca ed alla damnatio memoriae. Da notare che Rolando non indica il crimen commesso da Antonio, mentre F. Lucano, al quale, oltre alla practica di Belvisi,42 il giurista monferrino fa riferimento, nella sedes citata, indica oltre al crimen laesae maiestatis, quello di eresia (Rolandus a Valle, 1570, n. 3-4; Franciscus Lucanus, 1584);43 3) perché se il suicidio era stato determinate dal tedio della vita e da dolore, dalla debolezza (incapacita di sopportare) o dal furore, D. 49.14.45.2 indica proprio queste tra le iustae causae che comportano la depenalizzazione del crimen (Rolandus a Valle, 1570, cons. XX, n. 5); Veronae, 1747, III, cap. XL; Liber statutorum Padue, 1576, rubrica. Statutum vetus conditum ante 1236. 41 Si tratta del consilium XX di Rolando Dalla Valle (Rolandus a Valle, 1570). 42 Insieme con Bartolo, Baldo, Benoît, Plaça. 43 Giova riportare un passo del trattato (Franciscus Lucanus, 1584, n. 1), perché riassume chiaramente quale fosse, in materia, lo stato della questione: "Hinc contigit de multis quaestionibus circa publicationem bonorum fisco applicandorum notandis. Primo, an bona interficientis seipsum fisco sunt applicanda, in qua questione, ut brevibus [...] Aut interficiens hoc fecit taedio vitae, vel aeris alieni pudore, vel propter impatientiam doloris, vel propter causam iactantiae, vel proptem rabiem furoris, vel incaute proiecerit se in flumen, et tunc habet haeredem, et non succedit fiscus [...]. Aut interfecit seipsum desperatione criminis perpetrati, et tunc aut erat crimen laesae maiestatis, vel haeresis, de quo post mortem memoria damnatur, et talis non habet haeredem [...]. Aut erat tale crimen, quod extinguitur morte, et tunc aut ex eo non imminebat bonorum confiscatio, et habet haeredem, verbi gratia: erat fur manifestus, qui fur suspenditur; sed bona non confiscantur, quia est crimen extraordinarium, et privatum [...]. Aut est tale crimen ex quo imminet confiscatio, tunc aut mortem sibi conscivit antequam esset deprehensus crimine vel accusatione, aut post. Si ante non perdidit bona et habet haeredem [...]. Si vero post non habet haeredem [...]. Et est ratio diversitatis: quia non deprehensus, nec convictus non est inculpatus de crimine, et ideo non videtur confessus. Si autem erat deprehensus vel accusatus: tunc videtur condemnatus [...]. Et istud est verum, nisi haeres vellet probare innocentiam, aut illud quod pro eo innocentia reputatur, ut est quaelibet alia defensio, puta praescriptionis [...]". 157 ACTA HISTRIAE • 12 • 2004 • 1 Gian Paolo MASSETTO: IL SUICIDIO NELLA DOTTRINA DELL'ETÀ DI MEZZO, 139-176 4) in ordine alla quarta questione viene finalmente indicato il crimen commesso da Antonio prima del suicidio: si tratta del crimen di eresia. In ogni caso, ove si volesse sostenere che la confisca è valida ed efficace perché disposta ed eseguita dopo che Antonio, accusato e catturato ad opera dell'inquisitor haereticae pravitatis di un crimine per il quale è prevista la pena di morte e la confisca oltre alla damnatio memoriae, si è ucciso, occorre in verità dire che parimenti la confisca non è valida perché "frequentiori calamo" risulta consolidato che il crimen heresiae è crimen ecclesiastico sulla base della normativa canonistica. Pertanto, al riguardo, la cognitio, la decisio, la condanna e la punizione spettano al giudice ecclesiastico (Rolandus a Valle, 1570, cons. XX, nn. 6-10).44 Rolando cita, oltre a Federico da Siena, il vescovo Franciscus Squillacensis, a me non altrettanto noto, che, nella sedes indicata, c'informa che non vi è dubbio che il crimine sia ecclesiastico e che sia dunque di pertinenza del foro canonico. I beni dell'eretico ipso iure vengono confiscati, pero non possono esser appresi dal giudice secolare prima che sia stato pronunciata la sentenza da parte del giudice ecclesiastico. Il vescovo conclude con il dire che questa materia, oggi, non merita soverchia attenzione in quanto, per l'appunto "hodie, qualiscumque sit hereticus, non auferunt ab eo bona" a meno che con parole, opere e fatti "pertinaciter" asserisca ed affermi concezioni contro la fede ed in base a cio permetta "se clamari" né, di poi, "statim revertitur ad fidem" (Franciscus de Arcerijs Episcopus Squillacensis, 1584). Rolando, ritorniamo a lui, ricorda come il Pontefice romano proibisca ai signori laici, ai podestà, ai rettori di conoscere e di giudicare intorno a questo crimine, di liberare dal carcere coloro chi vi siano stati assegnati dal vescovo o dall'inquisitore.45 Né pensino di poter impedire l'esecuzione sul vinctum disposta dal giudice eccle-siastico, ovvero di impedire, direttamente o indirettamente, il giudizio e la sentenza. Chiunque violasse queste disposizioni, si opponesse, in questo affare, che è di fede, al vescovo o all'inquisitore, o li ostacolasse; chiunque prestasse a costoro "auxilium vel favorem" incorrerebbe ipso iure nella sentenza di scomunica e, se per un anno avesse persistito "animo indurato" come eretico, sarebbe condannato. E' ben vero che l'eretico accusato o colto in flagrante, qualora si sia ucciso in carcere ov'era detenuto, risulta, in base al suicidio come confesso e puo, pertanto, essere condannato, ma è altresî vero che in seguito a tali accusa, cattura o confessione il giudice secolare non puo procedere contro Antonio e apprendere i suoi beni: egli deve procedere alla confisca, ma attendere che l'inquisitore ed il vescovo, i quali simul et semel debbono giudicare in una causa d'eresia, "protulissent suam declaratoriam super confiscatione bonorum, et postea bene [...]". Pronunciata che sia siffatta sen-tenza circa la confisca, risulta lecito al giudice secolare impossessarsi dei beni anche senza espresso ordine del giudice ecclesiastico. Cio perché, secondo il diritto comune, 44 Due sono i canoni ai quali Rolando fa riferimento: c. 10 vergentis, X, 5, 7 De haereticis; c. 19 cum secundum, VI, 5, 2 De haereticis. 45 C. ut inquisitionis § prohibemus VI, de hereticis. 158 ACTA HISTRIAE • 12 • 2004 • 1 Gian Paolo MASSETTO: IL SUICIDIO NELLA DOTTRINA DELL'ETÀ DI MEZZO, 139-176 tali beni cosí pubblicati spettano al signore laico del luogo nel cui territorio essi si trovano. Di tale materia Rolando altro non intende dire "ne videar membranas occu-pare", in quanto altrove ha già trattato la materia (Rolandus a Valle, 1570, nn. 11-14). L'argomentazione giuridica del giurista casalese finisce qui, ma qui non finisce il consilium, che intraprende la strada dell'invettiva contro il suicidio. "Cavere itaque debent mortales ne tam enorme crimen committant, quod gravissimum et detestabile [...]. Scire etenim debent huiusmodi improbi et scelesti" che tale crimen è contro ... (Rolandus a Valle, 1570, nn. 15-16), e qui lascio il giurista monferrino per approdare al toletano Baltassar Gomez de Amescua, autore di un trattato intitolato De potestate in se ipsum dedicato al senatore Papirio Cattaneo, in cui il giurista in tutto si sottomette alla censura della Sacrosanta Madre Chiesa Cattolica Romana. Le approbationes delle autorità ecclesiastiche, il vescovo e l'inquisitore, sono concluse da un rassicurante "Vidit Saccus pro excellentissimo Senatu" (Balthasar Gomezius de Amescua, 1609).46 Ebbene, riassumo l'atteggiamento di Dalla Valle nei confronti del suicidio con il dire che, nella enumerazione e delucidazione delle "universae septem virtutes" contro le quali si pecca togliendosi la vita - fides, spes, charitas, prudentia, iustitia, fortitudo, temperantia - De Amescua abbia ben presente, per ciascheduna di esse, il pensiero del monferrino, come risulta espresso nel consilium considerato.47 Dalla Valle espone di poi lo stato delle sanzioni previste per il suicidio. Colui che si uccide è consegnato, abbandonato alla sepoltura canina, non già a quella ecclesia-stica. Prima che il diritto canonico la comminasse, siffatta sanzione era prevista per i rei di questo crimine, "ut ex pulchra sententia" di Platone, secondo la quale il suicida sia dato alla sepoltura isolata, ove altri non edifichi o fondi alcunché, sia seppellito in luoghi distanti da quelli abitati, in modo che nulla, inoltre, né stele né iscrizioni possano indicare l'esistenza del sepolcro.48 Oltre a Belvisi (Iacobus de Bellovisu, 1521, n. 115),49 Rolando cita Guillaume Benoît, il quale ricorda come in alcune regioni fosse invalsa la consuetudine che il suicida, qualunque fosse la causa del suo atto, anche qualora non fosse la conscientia criminis, non dovesse essere seppellito, ma fosse posto sovra una tavola lignea o legato ad un palo e lí lasciato, pasto per gli uccelli del cielo. Una consuetudine di altre regioni prevedeva che il suicida fosse posto "in sterquilineo", vale a dire in un "receptum stercorum" e ivi si collocasse un palo in segno di disperazione. Si tratta di pene che ai tempi di Roma erano irrogate a chi avesse attentato alla Respublica ed alla sua libertà (come accaddde a Tiberio e 46 Le tre autorità citate concedono l'imprimatur anche all'opera De iustitia et iure di Leonardo Lessio (1618). V. retro, nota 5 e testo di riferimento. 47 Il pensiero di De Amescua si trova in Leonardus Lessius, 1618b, cap. VI Contra omnes septem virtutes peccare se occidentes, nn. 1-14. 48 Cfr. retro nota 7. 49 "Et talis quia sic voluntarie se occidit dolore vel tedio vite non est tradendus ecclesiastice sepulture, sed canine, ut eius memoria aboleatur [...]". Per la sepultura canina, v. gl. Careat sepultura in c. 1 felicis memoriae, X, 5, 13 de torneamentis. 159 ACTA HISTRIAE • 12 • 2004 • 1 Gian Paolo MASSETTO: IL SUICIDIO NELLA DOTTRINA DELL'ETÄ DI MEZZO, 139-176 Caio Gracco), mentre altri ricorda come i suicidi, in segno di abominio e di de-testazione, fossero abbandonati ai monti e ad altri sperduti ed orribili luoghi (Gulielmus Benedictus, 1575, nn. 42-50). Sottolinea Dalla Valle che l'essere del tutto privati dalla sepoltura non e cosa di piccolo momento, anzi, essa, purché non sia fatta "ad pompam", apporta gloria al defunto, in quanto la funzione ed il significato di una devota sepoltura sono quelli di dare testimonianza della sua buona fede e della sua vita onorata. Per questo, sebbene Cristo abbia voluto per noi soffrire una morte crudele e oltraggiosa, in quanto "vas omnium virtutum", gloriosamente fu sepolto, come lo rappresenta Isaia "Et erit sepulchrum eius gloriosum" (Rolandus a Valle, 1570, n. 28).50 Prima dell'inno conclusivo di fiducia nel Signore, che "pro sua pietate ac misericordia a tam miserrimo genere mortis absolvere nos velit, omnesque nostras iniquitates delere, ac gressus nostros dirigere in viam salutis aeternae, ne proiiciatur a facie sua, [...]", Dalla Valle ricorda un ulteriore effetto giuridico del crimine: l'infirmitas del testamento redatto in precedenza, in quanto il suicidio determina l'intestabilitas dell'agente (Rolandus a Valle, cons. XX, n. 29). Il regime sanzionatorio previsto dal diritto canonico e che Rolando Dalla Valle ricorda e quello che si fissa a far tempo dal XIII secolo. Ma l'evoluzione nel tempo fu lenta e graduale. In verita, tenendo conto dei concili che si succedettero, ci avvediamo che quello di Arles non contiene una repressione generalizzata del suicidio, ma solo quello dei famuli, quasi a punire l'atto di protesta contro l'autorita del padrone (Concilium Arelatense II; Dominicus Mansi, 1901, cap. LIII, coll. 884-885); che quello di Orléans, al contrario, prevede una sanzione contro il suicidio consistente nel divieto di oblazione, esclusivamente pero per quelli che si sono tolti la vita in aliquo crimine, vale a dire per coloro che, incolpati di un delitto, precedono con il loro gesto il giudizio di condanna (puo parlarsi quindi di metus poenae).51 A differenza del diritto romano, per il quale la confisca non era sanzione diretta contro il crimine in sé, ma misura rivolta a neutralizzare un tentativo di frode a danno del fisco, nel primo diritto della Chiesa la sanzione e diretta a stigmatizzare l'atto in sé. Con il Concilio di Braga,52 il cui testo e accolto nel Decreto di Graziano (Decretum Gratiani, 1) e che 50 La sua fonte e, anche in questo caso, Gulielmus Benedictus, 1575, n. 52: "Unde licet Christus mortem acerbam et vilem pro nobis pati voluisset, tamen quia vas erat omnium virtutum, gloriose sepultus fuit, ut impleretur Esaie xj. Et erit sepulchrum eius gloriosum, et Psalmista dicit Nec dabit Deus sanctum suum id est, Christum sepultum videre corruptionem. Imo credunt gentiles carentiam sepulturae mortuis obesse". 51 "Oblationes defunctorum, qui in aliquo crimine fuerint interempti, recipi debere censemus, si tamen non ipsi sibi mortem probentur propriis manibus intulisse" (Concilium Aurelianense II). 52 "Item placuit, ut hi qui sibiipsis aut per ferrum, aut per venenum, aut per praecipitium, aut suspendium, vel quolibet modo violentiam inferunt mortem, nulla pro illis in oblatione commemoratio fiat, neque cum psalmis ad sepulturam eorum cadavera deducantur, multi enim sibi hoc per igno-rantiam usurpaverunt. Similiter et de his placuit, qui pro suis sceleribus puniuntur" (Concilium Braca-rense II). 160 ACTA HISTRIAE • 12 • 2004 • 1 Gian Paolo MASSETTO: IL SUICIDIO NELLA DOTTRINA DELL'ETÄ DI MEZZO, 139-176 prevede il divieto della commemorazione ed il canto dei salmi, e con quello di Auxerre,53 che riconferma il divieto di oblazione si fissa quella che per secoli sara la pratica della Chiesa sulle esequie dei suicidi. Una pratica fondata sul principio che, indipendentemente da ogni circostanza e dalla considerazione dei motivi dell'agente, il suicidio e atto moralmente riprovevole, parificato nella sua gravita all'omicidio. Il rapporto diritto-suicidio, cosi configurato, verra consolidato nel sinodo di Nimes,54 che impone non solo il divieto di esequie religiose, ma anche quello della sepoltura in terra cristiana. A partire dalla fine del secolo XIII, pertanto, il diniego di sepoltura ecclesiastica diviene la pena caratteristica prescritta dal diritto canonico contro il suicidio (in modo quanto mai conciso Ludovico Romano Pontano scriveva: "Fui inter-rogatus an occidens semetipsum debeat carere sepultura? Dic quod sic" (Ludovicus Romanus Pontanus, 1558 sing. 26855) fino al c.i.c. del 1917. Il c.i.c. del 1983 si limita a non ricomprendere espressamente i suicidi tra i "peccatori", prevedendo per il tentativo di suicidio l'irregolarita a ricevere ovvero ad esercitare gli ordini.56 E il diritto secolare? E' stato scritto che esso e stato guidato dal diritto religioso sulla via della formalizzazione e della razionalita; esso si e informato alla dottrina cristiana nel configurare il suicidio come atto riprovevole, atroce, atrocissimo, ma diventa 'originale' laddove alle sanzioni spirituali, religiose aggiunge le pene materiali. E' allora opportuno dire che il diritto dell'eta medievale segue la dottrina cristiana nel configurare il suicidio, equiparato all'omicidio, come delitto grave, atroce, atrocis-simo, ma diventa originale, purtroppo, nel prevedere sanzioni materiali che si aggiun-gono a quelle canoniche prima ricordate. Tale originalita emerge non tanto nell'eta 53 "Quicumque se propria voluntate in aquam iactaverit, aut collum ligaverit, aut de arbore praeci-pitaverit, aut ferro percusserit, aut qualibet occasione voluntariae se morti tradiderit, istorum oblatio non recipiatur" (Concilium Autisiodorense). 54 "[...] item illis qui se ipsos suspenderunt, aut se gladio interfecerunt. Haec autem intelligenda, et servanda sunt, nisi in morte manifesta signa poenitentiae apparuerint; [...]. Verumtamen licet signa poenitentiae praecesserint, si non fuerit in infirmitate vel mortis articulo absolutus, non debet ante absolutionem in coemeterio ecclesiastico sepeliri; sed iuxta coemeterium poni poterit in aliquo ligneo monumento, vel intra sepeliri, et postmodum cum debebit absolvi, debet exhumari, et absolvi in coemeterio ecclesiastico sepeliri. Si vero corpus alicuius excommunicati, in coemeterio ecclesiastico aliquo casu contigerit sepeliri; cum de hoc plene constiterit, incontinenti extumuletur, si ossa excom-municati discerni poterunt ab ossibus fidelium defunctorum; et quousque coemeterium reconciliatum fuerit aspersione per episcopum solemniter benedicta, non sepeliantur corpora defunctorum in eo. [...]" (Synodus Nemausensis, 1284). 55 Non privo d'interesse e ricordare come non mancassero giuristi per i quali l'aver dato sepoltura cristiana al presunto suicida induceva la presunzione che costui, in realta, non si fosse tolto la vita. E' il caso di Socinus junior (Marianus Socinus junior, 1571, cons. LI, n. 2). 56 Il canone 1041 dispone: "Sono irregolari a ricevere gli ordini: [...] chi ha mutilato gravemente o dolosamente se stesso o un altro o tentato di togliersi la vita (5°)", mentre il canone 1044 § 1 recita: "Sono irregolari a esercitare gli ordini ricevuti: [...] colui che ha commesso uno dei delitti di cui nel can 1041 nn. 3, 4, 5, 6 (3°)". Per il codice del 1917, v. i canoni 985, 1240, 1241 e 2350, che sanciscono, tra altro, la irregolarita ex delicto, la privazione della sepoltura ecclesiastica, l'interdizione dagli atti ecclesiastici. 161 ACTA HISTRIAE • 12 • 2004 • 1 Gian Paolo MASSETTO: IL SUICIDIO NELLA DOTTRINA DELL'ETÀ DI MEZZO, 139-176 altomedievale, quanto piuttosto in quelle successive, connotate dai caratteri della brutalità e della violenza. Oltre che sulla confisca, ereditata, per cosî dire, dal diritto romano, e che ormai conosciamo, almeno nel suo impianto di fondo,57 l'attenzione del diritto dell'età di mezzo, consuetudinario, statutario, principesco si appunta soprattutto sul corpo del suicida: sono le pene corporali quelle su cui si concentra l'interesse repressivo nei confronti del comportamento suicida. Ed ecco, allora, il trionfo della brutalità, delle superstizioni risalenti a tempi lontani e inspiegabili, che si manifestano in macabri rituali, in accanimenti irrazionali, insensati su miseri corpi senza vita: il trionfo della negazione di ogni principio di umanità, di ragionevolezza, di dignità dell'individuo. E non si puo non sottolineare la distanza, l'enorme distanza di questo sistema dalle soluzioni, che possono essere ritenute equilibrate, del diritto romano, non solo, ma anche rispetto alle riflessioni teologiche che hanno di poi sorretto la condanna del suicidio da parte del diritto canonico. In comune i due sistemi di proibizione del suicidio hanno, mi pare di poter dire, l'assimilazione del suicidio all'omicidio, assimi-lazione dalla quale si dipartono due sistemi sanzionatori, diversissimi per significato e per intensità. Ed allora bisogna distinguere l'elemento religioso, teologico e la riflessione morale ad esso connessa dal complesso delle procedure, dei riti disumani determinati dal terrore e dalla avversione che il gesto del suicida induce. Una cosa, voglio dire, è affermare che la vita trae origine da Dio, che nelle sue mani è la proprietà su di essa e prevedere pertanto una risposta sanzionatoria per il comportamento di colui che questi principi infranga e che violi i precetti di Dio (la negazione della sepoltura ecclesiastica, cosî come la sanzione della scomunica per l'eresia, sembra pertanto simboleggiare ed attestare la rottura dei vincoli con la comunità ecclesiale58); altra cosa, ben altra cosa è il prevedere riti cruenti, mutilazioni, squartamenti, appiccamenti di corpi senza vita. Insomma, il diritto secolare, pur muovendo dalla formale adozione di un identico principio religioso, perviene ad una ferocia scono-sciuta al diritto canonico. L'intento repressivo e tendente a restaurare un valore violato cede di fronte ad un intento preventivo59: la violenza allora, quanto più manifesta ed 57 Cfr. retro, note 18 e Tiberius Decianus, 1593 e testo corrispondente. 58 Chiarissimo, sotto questo profilo, è il c. 10 vergentis, X, 5, 7 de hereticis: "[...] Cum enim secundum ultimas sanctiones, reis laesae maiestatis punitis capite, bona confiscentur eorum, filiis suis vita solummodo ex misericordia conservata; quanto magis qui aberrantes in fide Domini Dei filium Iesum Christum offendunt: a capite nostro, quod est Christus, ecclesiastica debent districtione praecidi, et bonis temporalibus spoliari, cum longe sit gravius aeternam, quam temporalem laedere maiestatem [...]". E' opportuno comunque ricordare che, di certo, a mitezza non è ispirato quel canone per il quale, i corpi di coloro che, scomunicati, siano stati tumulati "per violentiam aliquorum, vel alio casu" in terra consacrata, "si ab aliorum corporibus discerni poterunt, exhumari debent, et procul ab ecclesiastica sepultura iactari". c. 12 sacris est canonibus, X, 3, 38 de sepulturis. Per la fonte, v. retro, nota 54. 59 La finalità della prevenzione, cui si connette l'esemplarità della sanzione, inflitta ad terrendum e, quindi, a distogliere gli 'aspiranti suicidi' dall'esecuzione del loro intento, è, in verità, sempre esistita. Spigolando nell'età medievale sino a tempi a noi vicini, posso indicare, oltre a Claro, sul quale v. 162 ACTA HISTRIAE • 12 • 2004 • 1 Gian Paolo MASSETTO: IL SUICIDIO NELLA DOTTRINA DELL'ETÀ DI MEZZO, 139-176 atroce, tanto piu sara in grado di mortificare e di neutralizzare ¡'influenza negativa che il gesto detestabile del suicida ingenera. La mia esposizione non e stata, di certo, cosí piana e articolata come sarebbe stato auspicabile, ma credo di essere nel vero se ritengo che da essa, pur con tutti i suoi retro, nota 16 e testo corrispondente, gl. careat sepultura in c. 1 delictis memoriae, X, 5, 13 de torneamentis: "Hic vero alia ratio est, ut potius consulatur vivis, quam defunctis, ut alii terreantur, et abstineant a talibus, cum viderint illo sepeliri in campis, quia vilis sepultura illis defunctis non nocet. [...]. Bernardus"; Covarruvias (1557/II, cap. I, n. 11): "Ego vero non auderem mortalis criminis culpa notare iudices, qui perpensa delicti, loci, et temporis conditione optimo in rempublicam zelo: corpora damnatorum ultimo supplicio: vel ad tempus vel in perpetuum ad exemplum in loco publico suspensa et insepulta dimittunt, quo video [...]"; Damhouderius (1601, cap. LXXXX n. 1): "is ex loco sui homicidii equo pertrahitur usque ad locum supplicii, ubi non in patibulo, sed ignominiosus in furca suspenditur, ut hoc novo eoque dedecoroso suspendii genere, populo spectaculum praebeat, et signum, quod propria manu sibiipsi prius mortem consciverat"; Paulus Rubeus (1664, caput LIII, n. 127): "Notandum quoque venit, licet practica magis communis recepta sit, quod in delictis atrocissimis, ut in aliorum exemplum, et terrorem cadavera suspendi possint, ut in famosis assassinis, in criminibus publicis, in crimine laesae Maiestatis Divinae, vel humanae [...]. Tamen requiritur [...]". Il giurista romano era, infatti, personalmente convinto che occorresse non infierire "contra corpus mortuum rei, praeterquam in atrocissimis, in aliorum horrorem, et terrorem". E, dal momento che la morte estingue il crimine e la pena, "prohibitum est iudicibus contra mortuos insurgere". La fonte? "Textus in l. defuncto eo. ff. de publicis iudiciis [D. 48.1.6], qui textus canonizatur a sacris canonibus in canone quorundam 23 distinctio [Decretum Gratiani, c. 14 quorundam, D. XXIII]" (Paulus Rubeus, 1664, caput LIII, nn. 131-132); Constitutio criminalis theresiana (1769), art. 93, § 7: "Ora per dettare, sopra tal grave misfatto, in quanto ancor sia possibile, contro 'l disanimato malvagio, stato immemore di Dio, o della salute dell'anima sua, la condegna pena, che serva almeno di specchiato ed orrore altrui, qui poniamo, ed ordiniamo Noi, che il cadavere d'un tal doloso propricida debba essere abolito alla pariglia d'un animale irragionevole, devoluta, e tirata pure alla camera Nostra la sua facoltà nel solo caso pero [...]", § 7 Quinto: "Il cadavere d'un propricida abbia ad essere dietro l'ordinato di sopra puramente abolito senz'altra penal determinazione, potrà nondimeno un gran malfattore, che per isfuggimento d'una grave pena si ammazza stesso nelle carceri, e per rilevanti motivi, singolarmente per statuire altrui un'orribil esempio, secondo la qualità e gravità del delitto essere gettato morto sopra un mucchio di legna, ed abbruciato, ovvero posto sulla ruota, od impiccato, ouver'anche a misura delle circostanze decretato contro lo stesso un altro penale esasperamento, come appunto già si è dichiarato di sopra all'artic. 4 § 16". Nel tardo Ottocento Francesco Carrara, pur negando "l'imputabilità politica del suicidio come delitto speciale", metteva in rilievo il danno derivante dal suicidio "si per la perdita che incontra la società di quel cittadino, si per il mal esempio che induce; onde è da temersi per la natura imitatrice dell'uomo, che il propricidio si ripeta e si renda frequente (Carrara, 1881d, 210). Ed ancora: "L'argomento più seducente che si spenda dai sostenitori della punizione si trae dal mal esempio osservando che vi sono dei periodi nella storia dei popoli nei quali il suicidio sembra divenire contagioso; dal che ne deducono la necessità di una repressione, guardando cosi la oggettività del reato non nella vita che l'uomo toglie a sè stesso ma nello incitamento che uccidendosi vien dato agli altri di fare altrettanto" (Carrara, 1881a, 216-217). Per tempi decisamente a noi più vicini, si tenga conto delle parole, che spiegano la necessità della Circolare Amato n. 3182/5632 del prot. n. 80828/5.3 del 1986. Constatato l'improvviso aumento di suicidi e di tentati suicidi in carcere registrato sul finire degli anni '80, s'imponeva la predisposizione di misure particolari: si trattava di fatti "che hanno destato particolare preoccupazione e allarme, anche per le successioni negative che possono derivarne". Il testo nella sua completezza, insieme con altre "circolari Amato", che si sono succedute nel tempo, si legge in Ubaldi, 2004. 163 ACTA HISTRIAE • 12 • 2004 • 1 Gian Paolo MASSETTO: IL SUICIDIO NELLA DOTTRINA DELL'ETÀ DI MEZZO, 139-176 limiti, possano emergere spunti utili per potere collocare il suicidio nel novero dei delitti senza vittima. A questo fine, e concludo, ci viene in aiuto, sotto il profilo processuale, quanto ebbe a scrivere Pier Filippo della Corgna a proposito dell'applicabilità della dispo-sizione statutaria che punisca, anche con la confisca, il feritore e l'omicida, nonché colui che ferisca ovvero uccida se stesso. Il principio di fondo su cui si fonda il giurista perugino è questo: se il soggetto non è stato accusato o inquisito prima del suicidio, nessuna pena, confisca dei beni o altra che sia, è applicabile. Ove, per contro, fosse stato accusato o inquisito, egli risulta punibile non tanto per la morte che si è data, quanto piuttosto "de ipso crimine de quo extiterat accusatus et propter quod se interemit". Pertanto, i beni saranno confiscati qualora il crimine per il quale è stato accusato o inquisito comporti tale pena. L'argomentazione alla quale non pochi giuristi erano ricorsi e ricorrevano - nessuno è "dominus suiipsius, nec suorum membrorum" - per sostenere l'applicabilità delle pene previste dal diritto comune o municipale per chi si uccide o si ferisce era dissolta "uno verbo": "mors omnia solvit", il delitto, la pena del delitto, l'accusa, l'inquisizione.60 Della Corgna ricorre anche ad un'altra argomentazione, quella fondata sul processo configurato come "actus trium personarum": "iudex, pulsans et pulsatus". Ma, morto il delinquente, viene a mancare uno dei tre attori del processo, quello contro il quale il giudice possa agitare il giudizio. Il giudice perció non puó procedere, né gli eredi del delinquente possono essere accusati, perché non sono successori nel delitto e perché le pene debbono colpire l'autore del delitto. E' ben vero che vi sono dei casi in cui il procedimento puo svolgersi senza uno dei tre attori - sono i casi in cui "poena delicti incipit ab haerede" -, ma si tratta di ipotesi tassative, che "non trahuntur in consequentias". Similmente, quando si agisce per via di inquisizione, ma, sottolinea il Perugino, "illud est iudicium extraordinarium et specialitates habet", tra le quali quella per cui la fama tien luogo dell'accusa. Negli altri casi, "stamus regulae, et haec sunt clarae" (Petrusphilippus Corneus, 1572, cons. 195, n. 12). Questo è quanto oggi sono in grado di dire intorno al suicidio, raccogliendo alcuni dei diversi spunti, che i giuristi dell'età di mezzo offrono: un crimen in cui il soggetto attivo s'identifica con il soggetto passivo; un crimen che annienta non solo il corpo, ma anche l'anima; che offende ad un tempo la "civitas" e "Deus", come diceva San Tommaso (Thomas Aquinas, 1581)61 e che, pertanto, integra un crimen pub- 60 Su questo testo già si è avuto occasione di soffermarci (cfr. retro, nota Petrusphilippus Corneus, 1572, cons. 195, n. 8). 61 Quaestio quinquagesima nona de iniustitia, articulus III Utrum aliquis possit pati inustitiam volens: "Aliquo modo potest considerari aliquis homo inquantum est aliquid civitatis, scilicet pars; vel inquantum est aliquid Dei, scilicet creatura et imago. Et sic qui seipsum occidit, iniuriam quidem facit non sibi sed civitati et Deo: et ideo punitur tam secundum legem divinam, quam secundum legem humanam [...]". La società e Dio, cui il suicida, per corpo e per anima, appartiene risultano essere qui i soggetti passivi dell'offesa. E il suicida non reca offesa a se stesso? Spunti in dottrina, che si riferisce 164 ACTA HISTRIAE • 12 • 2004 • 1 Gian Paolo MASSETTO: IL SUICIDIO NELLA DOTTRINA DELL'ETÀ DI MEZZO, 139-176 licum ed un peccatum mortale. Un crimen, dunque, caratterizzato dall'intreccio tra elemento etico e morale ed elemento politico, volto ad infrangere, nelle costruzioni dei doctores iuris, l'ordine teologico e l'ordine giuridico. Con le conseguenze, sul piano della risposta sanzio-natoria, che nelle pagine che precedono ho cercato di indicare: conseguenze nefaste, disumane che saranno mortificate ed infine nullificate con il progredire e l'affermarsi della laicizzazione, della secolarizzazione del diritto penale. Certo, i giuristi ben presto mostrano la loro preoccupazione, anche intensa, per gli eccessi disumani e crudeli che la realtà del tempo rivelava. Gli inviti rivolti ai giudici di abbracciare la mitezza, di non "saevire in corpus mortuum" risuonano con insi-stenza; viene loro ricordata la possibilità di soggiacere all'actio iniuriarum, di essere sottoposti al procedimento di sindacato per comportamenti definiti iniqui. Giason del Maino severamente riprende i giudici che fanno appendere alla forca un cadavere: costoro "malefaciunt, quia quantum ad poenam corporalem delictum est morte extinctum, et tale cadaver quod omni sensu caret non est poena afficiendum [...]" (Iason Maynus, 1590, n. 2). Francesco Corti il vecchio scrive "quod mortuus solum damnari potest a Deo imperatori coelesti" (Franciscus Curtius senior, 1547, n. 5),62 mentre Giovanni Nicoletti afferma che "sicut non debet executio fieri in corpus mortuum de iure sic non debent suspendi propter delictum ille qui mortuu est [...]" (Ioannes de Imola, 1547, n. 144).63 E non propongo Farinaccio, che si attesta sulle medesime concezioni. Se cio è vero, è vero anche che la prassi, una dura e disumana prassi, imperterrita proseguiva nei suoi riti cruenti. Lo stesso Farinaccio, infatti, ricorda che "Bene verum est, quod famosus latro postquam fuit suspensus, potest in furca relinqui, feris, et volucribus laniandus, in detestationem tanti criminis, ac aliorum inde prete-reuntium exemplum, idque saepius servatum vidi, postquam eius cadaver fuit scis-sum in frustra, [...]" (Prosperus Farinaccius, 1613, n. 14).64 Ed è vero anche, per ripetere le parole di Filangieri, che "In Francia, in Inghilterra, in molti altri paesi dell'Europa la legge inveisce contro il cadavere del suicida; chiama in giudizio l'essere che ha terminato di vivere e di sentire; istituisce contro di lui un'accusa ed un processo; condanna ad ignominiose esecuzioni il suo corpo; confisca i suoi beni; [...]" (Filangieri, /III, 98 in Frosini 1984). alle fonti bibliche, non mancano: ne offrono esempio, tra i giuristi gia citati, Guido da Baisio e Leonardo Lessio (v. retro, note 2, 5). In questa sede ricordo solo un testo normativo che, esplicitamente, manifesta sensibilita al riguardo. Intendo dire del Codice penale universale austríaco (1803), il cui § 91 dispone che, in caso di tentato suicidio, l'agente dovra essere posto sotto severa custodia, ricondotto "con rimedi fisici, e morali all'uso della ragione, ed al riconoscimento de' suoi doveri verso il Creatore, verso lo Stato, e verso sé stesso [...]" (Codice penale, 1815). 62 con riferimento alla gl. Neratius D. 50, 47 de diversis regulis iuris antiqui, l. 51 Neratius. 63 ove le parole di chiusura del passo sono le seguenti: "[...] quamvis contrarium de facto servatur". 64 Il caso e ripreso da Romano Pontano. V. retro, nota 13. 165 ACTA HISTRIAE • 12 • 2004 • 1 Gian Paolo MASSETTO: IL SUICIDIO NELLA DOTTRINA DELL'ETÄ DI MEZZO, 139-176 Invero, sino a quando la repulsione, l'orrore per la dignita della persona umana violata e calpestata non avesse preso il definitivo sopravvento su finalita di politica criminale diverse e da diversi principi ispirate, sulle convinzioni religiose, le ritrosie, le titubanze, gli scrupoli della dottrina giuridica ben poco avrebbero potuto nei confronti delle certezze di una prassi consolidata. SAMOMOR V SREDNJEVEŠKI KRIMINALISTIKI Gian Paolo MASSETTO Univerza v Milanu, Pravna fakulteta, Inštitut za zgodovino srednjeveškega in sodobnega prava, IT-20122 Milano, Festa del Perdono 7 e-mail: gianpaolo.massetto @ unimi.it POVZETEK Gre za zločin, ki ima mnogotere pomembne vidike. Poleg moralnega in verskega vidika je tu problem dokazovanja in dedovanja. Pomembno je zlasti razmerje med družinskimi člani samomorilca in davčno upravo. Številnost raziskovalnih področij dobi v samem zločinu zelo plodna tla. Ključne besede: samomor, morala, dedovanje, zgodovina prava, srednji vek FONTI E BIBLIOGRAFIA Aegidius Bossius (1562): Tractatus varii. Titulus de executione sententiae. Lugduni. Albericus de Rosate (1545): Secunda [...] super Codice. Comm. super auth. bona damnatorum post C. 9,49 De poenis proscriptorum, l. 10 qundo quis. Lugduni. Albericus de Rosate (1584): De statutis. In: Tractatus illustrium [...] iuriscon-sultorum. Tomus secundus, Liber tertius super statutis, quaestio XVIII: Item quaero. V. Venetiis. Alimena, B. (1909): Dei delitti contro la persona. In: Pessina, E. (ed.): Enciclopedia del diritto penale italiano, IX. Milano, Societa Editrice-Libraria, 435-440. Aloysius Cremanus (1792): De iure criminali libri tres. Liber II, cap. V, articulus IX : de autochiria, §§ III-IV. Ticini. Altavilla, A. (1932): Il suicidio nella psicologia, nella indagine giudiziaria e nel diritto. Napoli, Morano. Amery, J. 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Practica criminalis, § Finalis libri V Sententiarum receptarum, quaestio IV versic. haec autem dubia. Venetiis. Kudler, G. (1833): Commenti alla seconda parte del Codice Penale riguardante le gravi trasgressioni di polizia, I. Milano, Societa degli editori degli annali universali delle scienze e dell'industria. Larremore, W. (1903-1904): Suicide and the Law. Harward Law Review, XVII. Cambridge, Gannett House, 331-341. Lattes, A. (1909): Le leggi civili e criminali di Carlo Felice pel Regno di Sardegna. Cagliari, Dessi. Leonardus Lessius (1618a): De iustitia et iure [...] libri quatuor ad secundam se-cundae D. Thomae a quest[ione] 47 usque ad quaest[ionem] 171, liber secundus, caput nonum, dubitatio VI: Utrum liceat seipsum interficere. Mediolani. Leonardus Lessius (1618b): De iustitia et iure [...] libri quatuor ad secundam secundae D. Thomae a quest[ione] 47 usque ad quaest[ionem] 171, liber secundus, cap. VI: Contra omnes septem virtutes peccare se occidentes. Mediolani. 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Sant'Agostino (1999a): Contra litteras Petiliani Donatistae libri tres, 2, 20, 46-22, 50. In: Sant'Agostino: Polemica con i Donatisti, XV/2. Testo latino dell'edizione maurina confrontato con il Corpus scriptorum ecclesiasticorum latinorum. Introduzioni particolari, traduzione e note di Lombardi, A.; Indici di Monteverde, F. Roma, 98-101. Sant'Agostino (1999b): Contra litteras Petiliani Donatistae libri tres, 2, 49, 114. In: Sant'Agostino: Polemica con i Donatisti, XV/2. Testo latino dell'edizione maurina confrontato con il Corpus scriptorum ecclesiasticorum latinorum. Introduzioni particolari, traduzione e note di Lombardi, A.; Indici di Monteverde, F. Roma, 158-159. Sant'Agostino (1971a): Epistola 155, I, 2-4. In: Sant'Agostino: Le lettere, II (124184 A). Testo latino dell'edizione maurina confrontato con il Corpus scriptorum ecclesiasticorum latinorum. Traduzione e note di Carrozzi, L. Roma, 562-565. Sant'Agostino (1971b): Epistola 173, 3-7. In: Sant'Agostino: Le lettere, II (124-184 A). Testo latino dell'edizione maurina confrontato con il Corpus scriptorum ecclesiasticorum latinorum. Traduzione e note di Carrozzi, L. Roma, 826-829. Sant'Agostino (1971c): Epistola 155, 1, 3. In: Sant'Agostino: Le lettere, II (124-184 A). Testo latino dell'edizione maurina confrontato con il Corpus scriptorum ec-clesiasticorum latinorum. Traduzione e note di Carrozzi, L. Roma, 562-565. Sant'Agostino (1974a): Epistola 204, 1-9. In: Sant'Agostino: Le lettere, III (185270). Roma. Sant'Agostino (1974b): Epistola 204, 5. In: Sant'Agostino: Le lettere, III (185-270). Roma, 450-453. Sant'Agostino (1978a): La Città di Dio (libri I-IX). Testo latino dell'edizione maurina confrontato con il Corpus christianorum, 1, 20. Introduzione di Trapè, A., Russel, R., Cotta, S. Traduzione di Gentile, D. Roma, 62-63. 174 ACTA HISTRIAE • 12 • 2004 • 1 Gian Paolo MASSETTO: IL SUICIDIO NELLA DOTTRINA DELL'ETÀ DI MEZZO, 139-176 Sant'Agostino (1978b): La Città di Dio (libri I-IX). Testo latino dell'edizione maurina confrontato con il Corpus christianorum, 1, 17. Introduzione di Trapè, A., Russel, R., Cotta, S. Traduzione di Gentile, D. Roma, 52-55. Sant'Agostino (1978c): La Città di Dio (libri I-IX). Testo latino dell'edizione maurina confrontato con il Corpus christianorum, 1, 25. Introduzione di Trapè, A., Russel, R., Cotta, S. Traduzione di Gentile, D. Roma, 68-69. Sant'Agostino (1978d): La Città di Dio (libri I-IX). Testo latino dell'edizione maurina confrontato con il Corpus christianorum, 1, 17-18. Introduzione di Trapè, A., Russel, R., Cotta, S. Traduzione di Gentile, D. Roma. Schiappoli, D. (1905): Diritto penale canonico. In: Pessina, E. (ed.): Enciclopedia del diritto penale italiano, IX. Milano, Societa Editrice-Libraria, 713, 901. Shneidman, E. (1985): Definition of Suicide. 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Venetiis. 175 ACTA HISTRIAE • 12 • 2004 • 1 Gian Paolo MASSETTO: IL SUICIDIO NELLA DOTTRINA DELL'ETÀ DI MEZZO, 139-176 Tiberius Decianus (1593a): Tractatus criminalis [...]. Tomus primus, liber nonus, cap. IIII: De poenis sibi manus inferentes. Augustae Taurinorum. Tiberius Decianus (1593b): Tractatus criminalis [...]. Tomus primus, liber nonus, cap. III: De ordine cognitionis, et probationibus contra se ipsos occidentes. Augustae Taurinorum. Tiberius Decianus (1593c): Tractatus criminalis [...]. Tomus primus, liber nonus, cap. II: De causis licitis, vel illicitis, quibus quis sibi mortem infert. Augustae Taurinorum. Tissot, J. (1840): De la manie du suicide et de l'esprit de révolte, de leurs causes et de leurs rémèdes. Paris, Ladrange. Ubaldi, S. (2004): Il suicidio in carcere. Http://dex1.tsd.unifi.it/altrodir/asylum/ ubaldi/index.htm, 4. 8. 2004. Van Hoof, A. J. L. (1990): From Autothanasia to Suicide. London - New York. Vannini, O. (1935): Il delitto di omicidio. 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