L' ASSOCIAZIONE per un anno anticipati f. 4. Semestre e trimcstrein proporzione Si pubblica ogni sabato. II. ANNO. Sabato 6 Marzo 1847. M 17 — 18. Monolito destinato a Trieste. Il consigliere i. r. di governo cavaliere de Laurin, console generale di Austria in Egitto, offeriva testé in dono alla città di Trieste un' ingente colonna di granito rosso, con capitello di porfido nero e con piedestallo, testé scoperta in giardino privato nella città di Alessandria d'Egitto; l'offriva alla città che se non è il luogo medesimo ove vide la luce, è nella regione medesima che è patria di lui ; è città nella quale ha relazioni assai prossime. Il consiglio municipale nella convocazione dei 27 febbraio p. d. accettava con grato animo il dono, e lo destinava per decorazione della città secondo il piano che verrebbe discusso. Avremo altra volta occasione di discorrere del genere di questo monumento, e dei pregi per arte e per antichità; in oggi ci limiteremo a dire che il monumento è dell'altezza di piedi 71, e che va annoverato fra i pochi rari che sono in Europa. Poiché all' infuori di Roma ove il fasto degli imperatori romani seppe trasportare obelischi, all' infuori di quello che recentemente veniva da Luxor a Parigi, non sappiamo quale altra città possa ostentare tali opere, che il consenso di tutti i tempi e di tutte le nazioni ha giudicato maravigliose; le colonne della piazzetta di Venezia sono inferiori per dimensioni. E certamente sarà bellissimo ornamento alla città di Trieste tale monolito, testimonio del nobile patrio animo del donatore, testimonio del progresso di questa città, la quale nel promuovere gli interessi materiali del commercio sa accoppiare l'amore per i prodotti dell'ingegno e dell'arte. Il nome di Trieste, che dee essere caro ad ogni triestino, non sarà celebrato soltanto per le imprese mercantili, nè conosciuto solo pei traffici, ma altresì per monumenti, e per la civiltà. Così 1' amore del suolo nativo sapeva procurare a Trieste ciò che altrove fu ottenuto o da soverchiante forza di conquista, o dalle preponderanti relazioni di esterna politica; così in Trieste la colonna Lauriniana, invece che trofeo di guerra, o segno di preponderanza, sorgerà monumento di pace, e ben sarà adatto per segnare l'epoca presente di prosperità pubblica ravvivata da avvenimento incancellabile nel cuore di questi fedeli : dell' onore di visita che 1' augusto Ferdinando I concedeva nel settembre 1844. Difficile condizione dei vescovi d'Istria dopo lo scisma istriano fino al 1180. Nessuno dee fare le maraviglie, se in tempi di tenebra che stendea denso velo sulla faccia della terra — salvo alcune perle che quà e la brillavano — di scorrerie che lasciavano dopo di sé orme di sangue, di guerre, d'invasioni, di usurpazioni, di rapine, di bottini, di orgogli, di sitibonde ambizioni, di vendette, di stragi, di ripudi, di sacrilegi, che contaminavano l'umana famiglia, e 1' ordine non tnen civile che ecclesiastico soqquadravano, la molla delle passioni girava anche fra gli unti, sovente si vedeano lottar le mitre, e i prelati impugnar con una mano il pastorale e coli' altra brandire la scimitarra. Spento, la Dio mercè, col tramontar del secolo VII lo scandaloso scisma istriano, ad inchiesta di Luit-prando re de'Longobardi il sommo gerarca Gregorio II divise il patriarcato d'Aquileja: onde emersero due legittimi metropoliti, l'uno dei quali fin dal 613 avèa trasferita la sua sede in Cormons, e 1' altro in Grado rise-dea. Suffraganei del metropolita d' Aquileja, dimorante in Cormons, erano i vescovi delle Venezie mediterranee, ai Longobardi soggetti: al metropolita di Grado, detto nuova Aquileja, obbedivano i prelati della Venezia marittima e dell'Istria, sudditi dei Greci. Questa divisione, dalle circostanze del tempo partorita, fu causa di molte contenzioni fra '1 patriarca d'Aquileja vecchia, ed il prelato d'Aquileja nuova, le quali durarono lunga pezza, e resero difficile la condizione de'vescovi istriani, obbietto principale di pretensioni. Il patriarca d'Aquileja mendicava il favore ed il patrocinio della corte longobarda, e specialmente del duca del Friuli, per ampliare la sua giurisdizione e difendersi contro le invasioni dei Greci : il metropolita di Grado strignea più forti nodi di amicizia col primate della chiesa universale, coli' esarca di Ravenna, e più tardi colla serenissima repubblica di Venezia, per opporre un argine alle pretensioni del suo rivale, ed alle formidabili violenze dei Longobardi. Dalle disposizioni dei due prelati non poteano nascere che conflitti. 11 teatro fu aperto sotto il governo di Sereno, il quale l'anno 711 era succeduto a Pietro nella sede aquilejese, e di Donato che nel 715, dopo la morte di Cristoforo, salì sul trono pontificale di Grado. Sereno, secondato dai Longobardi, tentava di riacquistare tutte le chiese che pria erano al patriarcato della vecchia A-quileja sottomesse, e pretendea che i vescovi istriani a lui dovessero prestar obbedienza; Donalo, protetto dalla sede romana e dal governo greco, si opponea provocando all' autorità pontificia, per cui il patriarcato di Aquileja era stato canonicamente diviso. Vedendosi il patriarca di Grado vessato, d'accordo coi prelati istriani e cogli altri suoi sulfraganei, scrisse a Gregorio II, supplicandolo che adoperasse la sua apostolica autorità, per frenare 1' audacia del metropolita aquilejese. Annuendo il sommo pontefice ai voti del metropolita e dei di lui suf-fraganei, diresse a Sereno una lettera, in cui si leggono le seguenti parole: "L'umiltà è il massimo ornamento della pastorale dignità. L'orgoglio fu sempre spregiato. Che hai tu che non abbi ricevuto? E se hai ricevuto, perchè hai boria, come se non avessi ricevuto? Piegati dalle preghiere del re (Luitprando), nostro esimio figliuolo; per metter il colmo al tuo onore ti abbiamo spedito il pallio, vietandoti di temerariamente invadere i diritti altrui, e raccomandandoti di esser contento di ciò che finora possedesti. Ora poi con cordoglio udiamo che tenti usurpare i diritti del patriarca di Grado, ed appropriarti ciò che a lui spetta. Con apostolica autorità ti comandiamo di deporre la temerità, di non sormontare in veruna maniera i limiti da lui posseduti, di restare entro i limiti che furono finora di tuo diritto, e di non presumere giammai di far un passo fuori delle terre longobarde affine di ampliare la tua giurisdizione, onde non mostrare coli' arroganza che ingiustamente ti fu conferita la grazia del pallio. In caso di disobbedienza e trasgressione, sarà nostro dovere di severamente punirti,. Gregorio II, sollecito di conservare la pace nella chiesa di G. C., spedì un' altra lettera a Donato, patriarca di Grado, a Marcello doge della repubblica veneta, ed ai vescovi della Venezia e dell'Istria, colla quale li fa consapevoli di aver ricevuto la loro relazione intorno i tentativi del patriarca aquilejese, o forogiuliese, e di avergli ordinato, minacciandolo di castighi in caso di trasgressione, di non sortire giammai dai confini longobardi, per usurpare i diritti altrui. Inoltre il Papa loro raccomanda prudenza, cautela, e vigilanza, affinchè gli ardili Longobardi, armata mano, non invadano il territorio soggetto alla giurisdizione della chiesa di Grado. (Dandolo 1. 7, c. 2; Baronio ad an. 729, n. 3 et 4.) Giova sapere, deplorando, esser stato in questa epoca lo stato dell' impero romano-orientale; era una stella i cui raggi di giorno in giorno sempre più illanguidivano; una stella che gradatamente declinava al suo tramonto. Già nel secolo Vìi i Saraceni gli aveano rapito le più fiorite provincie dell'Asia e dell'Africa, e nel principio del secolo Vili erano andati a piantare stanza nella Spagna. Al cumulo de' mali, che da ogni parte lo premeano, si aggiunsero le interne discordie. GÌ' inconsiderati imperatori, intesi ad infrangere le statue, a bruciare le tele, a cancellare le pitture che rappresentavano i campioni del cristianesimo, da un canto non aveano nè cura nè forza di difendere le provincie italiane al loro scettro soggette; dall'altro inviando anche in occidente i decreti contro il culto delle sacre immagini, talmente alienarono da sè gii animi degli Italiani, che voleano scuotere il giogo de' Greci, eleggere un nuovo imperatore, o passare sotto altra dominazione. Per queste ragioni il patriarca di Grado non potea più avere nè fidanza nei Greci, nè speranza di ottener aiuti contro gli usurpatori della sua giurisdizione; non fiducia, perchè rovesciavano 11 culto delle sacre immagini; non speranza, perchè dovendo impiegar le armi per inpedire i progressi dei Musulmani, e comprimere i tumulti dei cattolici, non era tanto facile il venire in soccorso di lui. Trovandosi il patriarca di Grado quasi isolato, senza l'appoggio del braccio secolare, sembra che siasi rivolto al doge della veneta repubblica, per essere da lui protetto e difeso. Il doge non si mostrò restìo, perchè procurava di adescare l'animo del presule gradese, affinchè si rifuggisse sotto le ali del lione di s. Marco, e trasferisse la sua sede dalle maremme alla regina del mare, come più tardi avvenne. Almeno dalla suaccennata lettera indirizzata da Gregorio lì al patriarca di Grado, al doge Marcello ed ai sulfraganei del detto patriarca, sembra che fra essi vi sia stata una specie d' alleanza, e che concordemente operando abbiano implorato l'autorità di lui, che fu sempre protettore e difensore degli antistiti oppressi. Tolto a queste basse cose circa l'anno 728 Sereno, per opera di Luitprando re de'Longobardi fu eletto Calisto, arcidiacono della chiesa di Treviso: morto Donato, presule gradese, secondo il codice trevisano successe Pietro vescovo di Pola. Calisto di nobile prosapia, di animo grande, di molta abilità ed influenza, appena fu elevato alla dignità di patriarca, senza verun riguardo s'impossessò di alcune tenute, chiamate Centenaria et. Mansiones, cui il prelato di Grado avea concedute al monasterio della madre di Dio sito nell'isola di Barbana. Il patriarca di Grado scrisse a Gregorio III, pregandolo di deprimere la baldanza del prelato aquilejese, e di difendere i diritti della sua chiesa. Il sommo pontefice l'anno 734 inviò a Calisto una lettera così concepita: "Abbiamo udito che, vinto dall'avidità, usurpasti le possessioni nominate Centenaria et Mansiones, spettanti al monastero della madre di Dio sito nell' isola di Barbana, cui con santo diritto e da lungo tempo possiede la chiesa di Grado, nel cui distretto ha finora esistito. Poiché a nessuno, e tanto meno ai sacerdoti, senza grave peccato, è lecito invadere i diritti altrui, coli' autorità del beato Pietro principe degli apostoli, cui il Signore e Salvatore nostro diede il potere di legare e di sciogliere sì in cielo che in terra, ti comandiamo di restituire al patriarca di Grado tutto ciò che hai usurpato, ed alla giurisdizione di lui appartiene. Rammenta che se non restituirai senza tergiversazione le cose altrui, e persevererai a violarne i diritti, per sentenza della sede a-postolica verrai giustamente condannato, e sottomesso alla canonica correzione e penitenza,. Colpito Calisto dalle- papali minaccie, restituì immantinente le usurpate tenute. (Paul. Diac. 1. 6, c. 44; De Rubeis M. E. A. c. 36, col. 316; Baron, ad an. 729, n. 6.) Nel 737 Calisto da Cormons si trasferì a Cividale, dove era morto il suo antecessore Sereno. Distrutto Giulio Carnico, ora Zuglio, Fidenzo vescovo di quella città, coli'assenso del duca del Friuli, si ricoverò fra le mura di Forogiulio, presentemente Cividale, ed ivi stabilì la sua sedia vescovile. Morto Fidenzo, fu ordinato Amatore che continuò a menare i suoi giorni in Forogiulio. Calisto, nato d'antico ed illustre ceppo, vedendo che Amatore abitava nella città capitale della provincia, usava coi duchi e coi nobili, mentre ei vivea in un villaggio col volgo, cadde nei lacci dell'invidia, che non di rado in crudeltà degenera. Còlta l'occasione che Pemmone, duca del Friuli, era assente, Calisto co'suoi entrò in Cividale, scacciò Amatore che dovette ritornare al suo antico domicilio, s'impadronì dell' episcopio, e piantò ivi sua stanza. Ritornato Pemmone, montò in collera a segno che fece catturare Calisto, ed ordinò che fosse condotto al castello di Pucino, probabilmente oggidì Duino, locato sull'erta pendice di un monte al di sopra del mare, colla rea intenzione di precipitarlo da quell' altezza ed affogarlo nelle sottoposte acque. Pervenuto il sacrilegio alle orecchie del re Luitprando residente in Pavia, questi privò Pemmone del ducato e lo diede al di lui figliuolo Ratchi, o Ratchisio, il quale liberò il patriarca dallo squallore dell' orrida prigione, in cui era stato gettato, e gli largì la facoltà di ritornar a Cividale, dove fermò sua dimora, costruì la chiesa, il battistero ed il palazzo patriarcale. (Paul. Diac. 1. 6, c. 41 ; De Rubeis M. E. A. c. 37, col. 321 ; Gian-Giuseppe Liruli, Notizie delle cose del Friuli t. 3, p. 61, 62.) Defunto in Forogiulio Calisto, il freno del governo della chiesa d' Aquileja passò nelle mani di Sigoaldo, il quale discendea dalla prosapia di Grimoaldo re dei Longobardi, come attestano le cronache friulane : Natio-ne Civitatensis de genere Grhnoaldi regis. Sigoaldo, i-mitando le vestigia de' suoi antecessori Sereno e Calisto, favorito dai re longobardi e dal duca del Friuli, suoi congiunti, usurpava la metropolitica giurisdizione nel-l'Istria, e talvolta gli riuscì di consecrare dei vescovi alle chiese istriane destinati. Nella supplica che Massenzio, patriarca aquilejese, diede al sinodo mantovano celebrato l'anno 827, si leggeano le seguenti parole: Populi Polensis, qua: civitas caput est Istrice, decretum ab universo et cuncto populo missum ad Sigualdum patri- archam......, ut electum ab eis Episcopwn ordinaret. (De Rubeis M. E. A. c. 36, col. 115). Da cotesto brandello di supplica si rende manifesto, che il clero ed il popolo di Pola elessero il loro prelato, e pregarono Sigoaldo, patriarca aquilejese, perchè si compiacesse di consecrarlo. Crediamo poter con fondamento asserire, che noto essendo per triste sperienza agli Istriani il furore de'popoli barbari, conoscendo da una parte la fiacchezza della greca possa, e temendo dall'altra che ai Longobardi non venisse la voglia d' invadere la loro provincia, di fare spogli e di devastare le abitazioni, deferivano alla sete del patriarca aquilejese, onde col-1' amicizia e mediazione di lui evitar i mali che poteano sulla patria piombare. La prudenza suggeriva di cedere alle circostanze del tempo; perciò i neoeletti vescovi istriani chiedeano di esser consecrati dalle mani dell'antico metropolita aquilejese. Ma il patriarca di Grado, protefto dalla veneta repubblica, protestava e ricorreva ai successori di s. Pietro, i quali per conservare alla chiesa di Grado intatta la metropolitica giurisdizione, non solo vietavano ai patriarchi aquilejesi di sortire dai loro limiti, ma eziandio minacciavano di scomunicare i prelati istriani, se osassero aderire alle ingiuste loro pretensioni. Gli antistiti istriani, come ognuno può chiaramente vedere, erano, come si suol dire, fra l'incudine ; ed il martello. Se restavano soggetti al metropolita di Grado, divenivano segno alle violenze de'Longobardi; se obbedivano al patriarca d'Aquileja, doveano temere i fulmini della sede apostolica. Che fare in un tal frangente? Non sapendo a qual partito appigliarsi, deliberarono starsi neutrali, finché la lite fosse decisa; e quando qualche chiesa istriana restava vedova per la morte del suo pastore, negletta affatto l'autorità dei due metropoliti contendenti, dessi reciprocamente si consecra-vano. CLiruti, Notiz. del Friuli, t. 3, p. 82, 83.) L'attentato dei vescovi istriani viene descritto da Giovanni, patriarca gradese, nelle lettere date 1' anno 770 a Stefano III, romano pontefice, che si trovano nei dittici gradesi e nel codice trevisano presso l'Ughelli. II presule di Grado significa al sommo gerarca, aver i perfidi Longobardi invasa l'eredità della sua chiesa, cioè l'istriana provincia, alienar colla violenza delle minaccie l'animo degli antistiti istriani dal loro legittimo metropolita, impedir le canoniche ordinazioni; finalmente i prelati, già protervi prevaricatori, divenir sempre più contumaci e ribelli. Prega inoltre il supremo pastore a volersi interessare che l'istriana provincia venga tolta ai Longobardi, onde que' perfidi non trasgrediscano le norme da' ss. Padri prescritte, e gli dà a divedere che il popolo istriano ardentemente brama, e con grande ansietà attende da Dio e da s. Pietro per l'apostolica sollecitudine di essere liberato dal giogo di que'barbari e difeso contro le loro violenze, sapendo che l'Altissimo per 1' autorità del capo della cattolica chiesa mostrar si compiacque grande ed ineffabile misericordia alla città di Ravenna ed agli altri luoghi ad essa appartenenti. Stefano gli rispose in questa guisa: "Noi, carissimo fratello, ad imitazione di Stefano papa, nostro predecessore di santa ricordanza, con tutte le nostre forze procuriamo che i vostri voti sieno adempiuti, ed abbiate sicurezza e quiete. Nel patto generale conchiuso fra' Romani, Franchi e Longobardi, la provincia dell'Istria fu riconosciuta di vostro diritto, confermata ed annessa alla Venezia a voi soggetta. Perciò la vostra santità confidi in Dio immutabile, poiché quelli che son, fedeli a s. Pietro (intende Pipino ed i Franchi) con giuramento si obbligarono di servire al principe degli apostoli; ed in quella guisa che incessantemente difenderanno il territorio romano, e 1' esarcato ravennate contro le oppressioni de'nemici, così avranno cura di liberare anche la vostra provincia dai loro artigli..... Ci avete pregato, carissimo confratello, di correggere i prelati istriani, e di ammonirli che si ravvedano della loro iniqua temerità. Annuendo ai vostri desideri, abbiamo loro spedito le nostre apostoliche lettere,,. Il papa rimproverava i vescovi istriani, e facea loro conoscere il peccato commesso con co-teste parole: "Giunse alle nostre orecchie, che voi vescovi nell'Istria costituiti, soggetti alla giurisdizione dell' arcivescovo di Grado, ora (lo diciamo con sommo cordoglio) volando colle ali di secolari soccorsi, gonfi di orgoglio, aveste l'ardire di sottrarvi, e per mettere il colmo alla vostra trasgressione fra voi, ciò che mai non si udì, vicendevolmente vi consecrate„. Oltre al peccato dei vescovi istriani, le suaccennate epistole del patriarca di Grado e di Stefano papa ci dànno a divedere, che anche l'Istria fu vessata da Astolfo re de'Longobardi. Questo monarca, sapendo che 1' animo degli Italiani era avverso agi' imperatori greci a motivo che perseguitavano le sacre immagini, approfittò dell' occasione, e con grosso esercito 1' anno 751 o 752 si portò a Ravenna, scacciò l'esarca Eutichio, ed usurpò le reliquie dell' impero in Italia. Scacciato I' esarca, senza veruna difficoltà potè occupare anche l'Istria. Perchè minacciava ai Romani 1' eccidio, se ricusassero darsi nelle sue mani, il sommo pontefice Stefano II pria mandò ad Astolfo una nobilissima legazione, poscia stipato da numeroso cortèo di nobili si recò da lui in persona; per ammollire il di lui cuore e piegarlo a restituire la città già occupata ed a ritornare in Lombardia. Armi, e non legazioni o preci si voleano per domare la ferocia d'un iarbaro, e porre ostacolo ai suoi progressi. Dopo aver il papa inutilmente chiesto soccorso all'imperatore Costantino Copronimo, 1' anno 753 andò in Francia, e collocando in Pipino tutta la sua speranza, a lui raccomandò la causa del .divo Pietro e del ducato romano. Pipino con giuramento si obbligò di liberare l'esarcato di Ravenna e tutti gli altri luoghi dal giogo de' Longobardi. Ricusando Astolfo di farne la restituzione, Pipino con numeroso esercito valicò le Alpi, calò in Italia e colla forza costrinse Astolfo a restituire al greco impero tutto ciò che avea usurpato. Promise il perfido re, ma nulla attenne; anzi immemore della giurata fede, dopoché Pipino era in Francia ritornato, l'anno 755 si portò a strignere d' assedio la stessa Roma, saccheggiando il paese vicino, rubando le cose preziose, profanando le sacre; per la qual cosa Pipino, invitato dal sommo pontefice afflitto, venne una seconda volta in I-talia, levò ad Astolfo 1' esarcato ravennate, e di tutto quello che occupò colle armi fe' dono alla chiesa romana. (Dandolo 1. 7, c. 11; De Rubeis M. E. A. c. 38, col. 328, 329; Muratori Annal. d'Italia an. 752, col. 248; Ruttenstok Inst. H. E. N. T. t. 2, p. 145, 148.) L'Istria fu soltanto dai Longobardi vessata, afflitta, spogliata, ma non rapita alla greca dominazione, come testimonia Dandolo (1. 7, c. 15): Provincice quoque Istria ab imperio Constantinopolitano subtractce (non a regno Longobar-dorum) Joannes per Carolum Dux ordinatus est. Pipino, figlio di Carlo M., la levò ai Greci e la congiunse col regno paterno l'anno 789. (De Rubeis M. E. A. e. 38, col. 330.) Morto l'anno 776 Sigoaldo, successe nel patriarcato acquilejese Paolino, il quale sortì i natali da igno-bil stirpe, fu pria agricoltore, poscia iniziato alla milizia ecclesiastica, si dedicò al culto delle lettere e delle scienze, e vi riuscì con tale profitto che meritò ottenere la carica di pubblico professore. Colle sue virtù seppe talmente insinuarsi nel cuore di Carlo M., che fu da questo monarca nominato patriarca d'Aquileja; nella quale dignità non solo si distinse per santità di costumi, ma e-ziandio divenne celebre nell' arte polemica, difese con zelo la fede contro le empie aggressioni degli eretici, e diede alla luce varie opere. Dal sacrosillabo di Paolino 1' erudito padre De Rubeis si sforza di provare, che sullo scorcio del secolo Vili i vescovi istriani erano soggetti al patriarca d'Aquileja. L'illustre scrittore dice, che in quel libretto che si trova fra gli atti del concilio di Francoforte, celebrato l'anno 794 contro Felice ve- ' scovo Argelitano, ed Elipando vescovo Toletano, i quali riproduceano l'eresia di Nestorio, i prelati istriani figurano come suffraganei di s. Paolino patriarca aquilejese. Finché l'Istria era allo scettro dei Greci soggetta, i patriarchi di Aquileja, favoriti dai Longobardi, tentavano I di usurpare la giurisdizione nelle chiese istriane, come avvenne sotto Sereno, Calisto e Sigoaldo; ma la sede romana con minaccia li obbligava di obbedire al metro-i polita di Grado. Dopo che l'Istria cadde nelle mani dei Franchi, pare che Carlo M., il quale amava e stimava Paolino, li abbia fatti passare sotto la giurisdizione del patriarca aquilejese. I romani pontefici, per timore di offendere il potentissimo monarca, da cui erano stati e difesi e beneficati, e per rispetto alla famigerata santità di Paolino, dissimularono alcun tempo, ma non approvarono, Ciò si fa palese da una lettera scritta da Leone III e Carlo M., che si legge presso Labbeo n. 11. Il re avea pregato il sommo gerarca che concedesse a Fortunato, patriarca gradese scacciato dai Venetici, la chiesa di Pola allora vacante. Annuì il papa asserendo, che la sede di Pola spetta alla metropolitica giurisdizione di Fortunato, e se a Fortunato venisse restituita la metro-; politana gradese, la chiesa di Pola abbia, come per lo innanzi, il suo vescovo; poiché nel palazzo di Aquisgra-na non tanto fu provveduto alla chiesa di Aquileja, ma eziandio stabilito che Pola abbia la sua sedia vescovile. Nel palazzo di Aquisgrana Leone III convenne con Carlo M. l'anno 804. Il sommo pontefice ebbe cura di difendere la dignità metropolitica ed i diritti di Fortunato, i affinchè dando le redini della chiesa di Pola durante il j suo esilio, non si credesse che gli fosse stato tolto il patriarcato. Si adoperò anche il papa Leone presso l'imperatore e re, chè i vescovati istriani ritornassero sotto la giurisdizione del metropolita gradese. Sembra che il romano pontefice abbia da Carlo ottenuto che i prelati istriani si separassero dal patriarcato aquilejese, al quale, vivente Paolino all'imperatore carissimo, obbedivano. (De Rubeis M. E. A. c. 42, p. 365, 366.) S. Paolino è ito a ricevere dalla mano di Dio il premio delle sue virtuose azioni, secondo 1' annalista fuldese, l'anno 802, e giusta Bollando, l'anno 803, e a lui fu sostituito nella sede patriarcale d'Aquileja Orso, il quale, dolente d'aver perduto il diritto nell'Istria, diede in luce un manifesto, con cui dichiarava che la chiesa di Grado era al patriarca di Aquileja soggetta. Ei fece tutti i possibili tentativi, affinché la dignità metropolitica della sede gradese venisse abolita, e le chiese istriane alla giurisdizione del patriarca aquilejese ritornassero; ma nuli' altro potè da Carlo M. ottenere se non che il fiume Dravo segnasse confine fra la sua diocesi e quella di Arnone, vescovo di Salisburgo, col quale litigava. (Chron. Aquil. Liruti, Notizie del Friuli t. 3, p. 163.) Che nel principio del secolo Vili l'Istria sia stata soggetta alla giurisdizione spirituale del patriarca di Grado, abbiamo un documento che ci mette fuori d'ogni dubbio. L'anno 805 Carlo M. diede il governo dell'Istria al duca Giovanni. Questo uomo con esorbitanti balzelli succhiava il sangue de' suoi sudditi, a segno che gli Istriani, non potendo più portare il peso delle avanìe, ricorsero a Carlo M., ed implorarono misericordia e giustizia. Il monarca inviò Codolao, duca del Friuli, Azzo- ne prete, ed Ajone conte friulano, per essere bene informato. Arrivati in Istria i messi imperiali congregarono in Risano i primari signori del paese, e molti ecclesiastici, fra'quali si distinguevano i prelati istriani Teodoro, Lione, Staurazio, Stefano e Lorenzo. Questi fecero conoscere ai commissari che, invece di essere dal nuovo governo alleviati, pagavano più tributi che sotto gl'imperatori greci. Nel paragone non si fece veruna menzione del reggimento de'Longobardi; ciò che indica esser l'Istria immediatamente passata dai Greci ai Franchi. I commissari, udite le ragioni, decisero ed ordinarono | che le nuove angherie fossero levate, e gli Istriani nulla più pagassero di quello che pagavano sotto l'impero greco. Al congresso per diritto intervenne anche Fortunato, patriarca di Grado, e sottoscrisse il placito in cotesto modo : Fortunatus misericordia Dei patriarca in hac repromissionis chartula m. m, subscripsi. Se non avesse avuto giurisdizione nell'Istria, sarebbe comparso per diritto al convegno? (De Rubeis M. E. A. e. 38, p. 330; Liruti, Notizie del Friuli t. 3, p. 213, 214.) Tolto a queste basse cose Orso, l'anno 812, sali sul trono pontificale di Aquileja Massenzio, il quale con maggior calore intentò la lite a Yenerio, patriarca di Grado, successore di Fortunato. Nei codici gradesi pres- ■ so l'Ughelli sono registrate le lettere dei regnanti Lodovico e Lotario, dalle quali si rileva che per disposizione ed ordine dei due Augusti la lite fu rimessa alla j santa sede apostolica; che Venerio si portò personalmente a Roma per trattare e difendere la sua causa : contro il pretendente Massenzio; che il metropolita di Aquileja, male conscio e temente il giudizio del vicario di G. C., ricusò di recarsi alla capitale dell' orbe cattolico; che, ad onta della tergiversazione del patriarca aquilejese, i monarchi decretarono doversi definir la contenzione giustamente e canonicamente in tempo opportuno in presenza del romano pontefice e dei legati che sarebbero per inviare. Benché Massenzio fosse dagl'imperatori invitato di andar a Roma, per udir il giudizio dal pontefice sommo, solo giudice competente in simili cause, nulladimeno non comparve, e Venerio dovette ritornare a Grado sonza ultimar cosa veruna. Ognuno avea cura di proporre la propria causa dinanzi a quel giudice, cui sperava favorevole; e sapendo Massenzio che il sommo pontefice proteggeva il patriarca di Grado, possibilmente declinava il giudizio di lui. Finalmente il metropolita aquilejese colle sue mene ottenne dai potentati, che la lite venisse decisa in un sinodo, e Venerio s' ebbe imperiale intimazione di comparire. Questo sinodo dicesi celebrato nella città di Mantova 1' anno 827, sedente Eugenio II, e regnanti Lodovico e Clotario, o Lotario. Presedettero Benedetto vescovo, e Leone bibliotecario, legati della romana sede. Da parte degli Augusti intervennero Sicardo palatino presbitero, e Teodoro. Yi assistettero gli arcivescovi di Ravenna e di Milano, nonché molti prelati dell'Emilia, della Liguria e della Venezia. Si narra che dopo aver inutilmente atteso 1' arrivo di Venerio per cinque giorni, finalmente comparve un certo Tiberio diacono, economo della chiesa di Grado, inviato da Yenerio a difendere la sua causa. Massenzio supplicò i padri congregati che si compiacessero restituire alla matrice aquilejese tutte le chiese che per l'incursione de'barbari furono da essa separate. Il sinodo definì che Aquileja sia prima metropoli, com' era anticamente, e che Massenzio patriarca della santa chiesa aquilejese ed i suoi successori, tanto nelle singole chiese dell'Istria, quanto nelle altre città ad Aquileja soggette, abbiamo il diritto di ordinare i vescovi eletti dal clero e dal popolo. (De Rubeis M. E. A. c. 46, col. 408, 410; Chron. Aquil.) Venerio, dissimulata la sinodale sentenza, l'anno 828 scrisse a Gregorio IV, successore di Eugenio li, implorando i soccorsi dell'apostolica autorità contro gli aggressori ed usurpatori de'suoi diritti, ed appellando ai decreti imperiali, co'quali era ordinato che la controversia fosse decisa a Roma dal primate delia chiesa u-niversale. Narra nella sua epistola di aver dichiarato, sè non voler dare veruna risposta se non dinanzi al vicario del beatissimo principe degli apostoli, nelle cui mani sta il potere di legare e sciogliere. Avverte il sommo gerarca, che Massenzio si va gloriando di possedere le chiese istriane per decreto imperiale, e che si prepara di ordinare dopo la pasqua gli eletti vescovi; e soggiunge d'ignorare come abbia potuto ciò avvenire senza discussione, senza giudizio, senza sentenza della sede romana. Finalmente scongiura il padre comune de' fedeli a voler essere suo protettore, tutore e difensore. Gli atti del concilio mantovano non ebbero vigore, perchè i romani pontefici, protettori del patriarca di Grado, non vi consentirono, come vetusti documenti attestano. (Dando-in De Rubeis M. E. A. c. 46, col. 410.) Si congettura che Massenzio sia da questo mondo partito l'anno 837 ovvero 838, ed a lui le cronache a-quilejesi e i dittici cividalesi dànno successore Andrea, il quale, favorito da Lotario imperatore e re, e dal famoso conte o duca Eberardo, continuò a pretendere, che le chiese istriane erano soggette alla sede patriarcale di Aquileja. Dandolo narra che Sergio II, romano pontefice, scrisse due lettere, una ad Andrea patriarca aquilejese, e l'altra a Venerio metropolita di Grado, colle quali significava loro che era disposto di convocare un concilio, a cui doveano comparire l'imperatore Lotario ed anch'essi metropoliti contendenti, per togliere le discordie nate pei vescovati dell'Istria, ed ordinava di non fare veruna innovazione, e di nulla reciprocamente intraprendere. Questo concilio non fu celebrato, perchè Sergio pagò pria il tributo alla natura. (Dandolo nella Cronaca 1. 8.) Si crede che Andrea abbia cessato di vivere in questa bassa dimora l'anno 847, ed a lui successe nel governo della chiesa d'Aquileja Venanzio. Di questo patriarca nelle cronache friulane non si trova che il nome e 1' esistenza in questo mondo fino al principio dell' anno 850, in cui fu eletto patriarca di Aquileja Teodema-ro, come testimoniano gli atti del concilio di Pavia congregato dall'imperatore Lotario, al quale presedettero Angilberto arcivescovo di Milano, Teodomaro patriarca di Aquileja, e Giuseppe vescovo d' Ivrea. Teodomaro adoperò tutte le sue forze per reintegrare l'antica sua diocesi, trionfare di tutti gli ostacoli che gli opponea il patriarca di Grado, ed assoggettarsi i prelati istriani. Valendosi della potente protezione di Eberardo, duca del Friuli, ottenne da Lodovico lì imperatore un diploma, in cui si leggono le seguenti parole: "La causa fu definita ai tempi di Eugenio papa, il quale per impulso di Lodovico, nostro avolo, e del nostro augusto padre Lotario di gloriosa memoria, adunò in Mantova un sinodo, ove, presenti i legati della sede apostolica e Massenzio patriarca aquilejese, la detta controversia fra la chiesa aquilejese e gradese, per sentenza dei vescovi, fu terminata. Affinchè la predetta questione non venga più a-gitata, il nostro genitore supplicato da Eberardo, duca del Friuli, confermò al patriarca Andrea tutti gli antichissimi diritti della sua chiesa. Per soddisfare poi alle richieste del venerando Teodemaro patriarca, ordiniamo che il detto antistite aquilejese, o forogiuliese, senza veruna contraddizione ed interpellazione, abbia sempre la patriarcale e metropolitica autorità di ordinare e reggere i vescovi e le chiese dell' Istria. Nessuno ardisca più muovere questione contro la sopraccennata chiesa aquilejese,,. Il diploma vide la luce a Pavia l'anno 855, quinto dell'impero di Lodovico Augusto, e fu pubblicato dal veneto editore dell' Italia sacra e da Giovanni Liinig, dai quali lo trascrisse il P. de Rubeis. Teodemaro, favorito da Eberardo, duca del Friuli, e stretto affine di Lodovico II, giunse a soddisfare le sue brame. Eberardo era in matrimonio congiunto con Gisella, figlia di Lodovico pio e sorella a Lotario, padre di Looovico II. Colla protezione di un tal uomo influente, non fu difficile a Teodemaro trionfare di tutte le opposizioni, ed ottenere dall'imperatore la giurisdizione nelle chiese i-s{riane. (De Rubeis M. E. A. c. 49, col. 438, 439.) Teodemaro depose la terrena soma 1' anno 871, e dopo di lui occupò la sede patriarcale di Aquileja Lupo, o Lupone. La cronaca aquilejese narra, che era in grazia dell'imperatore Lodovico II; ma le sue gesta sono a noi ignote. Si crede che l'anima di lui abbia spogliato il corporeo velo circa l'anno 874. In luogo di Lupo fu eletto patriarca d'Aquileja Valperto, il quale con altri principi ecclesiastici italiani fu nella comitiva di Carlo Calvo, figliuolo di Lodovico 11, allorché l'anno 875 si recò a Roma, per ricevere dalle mani del sommo pontefice Giovanni Vili la corona imperiale. Mentre Carlo Calvo, dopo la coronazione, stavasene tripudiando in Pavia col papa, Carlomanno, suo nipote, con numeroso esercito di Tedeschi calò in Italia, e costrinse lo zio alla fuga. Mentre fuggiva, fu preso per istrada dalla febbre, e portato di là del monte Canisio, finì di vivere a Brios nel medesimo anno 877. (Muratori Annali d'Italia anno 877, col. 783, 793; Liruti Notiz. del Friuli t. 3. p. 202.) Valperto chiese a Carlomanno, or signore dell' Italia e del Friuli, la conferma di tutte le prerogative, poteri e domini concessi alla chiesa d' Aquileja dagli augusti suoi antenati. Realmente Carlomanno, annuendo alle inchieste del patriarca, gli confermò tutti i diritti sì ecclesiastici che secolari, esclusa qualunque dignità di duca, marchese, conte od altro messo imperiale con diploma tramandato alla posterità da Guarnerio d'Artegna, da Marco Antonio Nicoletti, e da Gian-Giuseppe Liruti, e che ha coteste note cronologiche: Data Vili. Idus Madii Christo propitio anno III. regni Karlomani Serenissimi Regis in Bavaria et Italia II. Indictione XII. Acto ad Otting Curte regia in Dei Nomine etc. Da ciò si vede quanta cura ebbe Valperto per conservare i diritti alla chiesa aquilejese. Benché colmo di privilegi e di favori, nondimeno la sua avidità non era ancor sazia. Ad esempio de' suoi antecessori, volea intieramente abolire il patriarcato di Grado. Essendo principe con imperio ne'luo-ghi che possedea, colle proprie forze intendea farsi ragione, assalendo il patriarca di Grado, e tentando di u-surpargli i diritti ed i possedimenti; ciò che gli sarebbe riuscito, se il doge della veneta repubblica non avesse, armata mano, protetto e difeso 1' assalito metropolita, chiudendo il porto di Pilo al prelato aquilejese. Questi non potendo far testa ai Veneziani, dovette piegarsi ad una transazione col doge Orso Participazio 1' anno 880; nella qual transazione il patriarca promise santamente di non inquietare in veruna maniera il metropolita gradese, e di non invadere nessun luogo spettante alla di lui giurisdizione. Inoltre promise che il porto di Pilo sarà libero per l'entrata ed uscita a tutti i Veneziani, senza pagare veruna gabella: per lo contrario il doge diede parola per sé e successori di non più bloccare il suaccennato porto. Cotesta convenzione viene riferita dal veneto editore dell'Itela sacra, che la descrisse dal codice trevisano. (Liruti Notiz. del Friuli t. 3, p. 206,209.) Sortito dal terreno ergastolo Valperto circa l'anno 900 o 901, secondo le cronache friulane, fu nella sede patriarcale d'Aquileja collocato Federico, il quale coi suoi soldati fugò gli Ungheresi venuti a saccheggiare la provincia del Friuli. Trapassato Federico, l'infula passò sul capo di Lione l'anno 922. Lione, per difendere la libertà, i diritti ed i beni della sua chiesa, da certo Ro-daldo longobardo, rapitore delle tenute ecclesiastiche, fu barbaramente ucciso: il retaggio poi del sacrilego uccisore fu, per sentenza de'principi, confiscato e donato alla chiesa aquilejese. (Liruti Notiz. del Friuli t. 3, p. 255, 260.) Dopo la tragica morte di Lione, circa l'anno 928, sedette Orso II, cui nel 931 Ugone re d'Italia, per lui e successori, oltre a molti privilegi, donò il castello di Muggia in Istria con tutte le prerogative di giurisdizione e dominio non tanto nel castello, ma anche nel suo territorio, precettando che nessuno, sia duca, conte o marchese, abbia diritto di comandare e d'imporre veruna gravezza reale o personale dal patriarca aquilejese in fuori. (Guarnerio d'Artegna nel Liruti t. 3, p. 260.) (Sarà continuato.) STATISTICA. Dai prospetti pubblicati per ordine pubblico leviamo le seguenti indicazioni statistiche: Nel corso dell' anno 1846 v' ebbero nel circolo d'Istria 8316 nascite legittime, 265 illegittime; oltre queste 145 nati-morti. Vi fu minor numero di nascite per 358 dell'anno precedente. Di riscontro morirono 5986, più che nell' anno precedente per 559. Di malattie consuete morirono 5627, di malattie locali 172, di epidemie 128, di suicidio 5, di idrofobia 1, di uccisione 15, di disgrazie 38. Le nascite superano le morti per 2595. Nel Comune di Trieste nacquero nel corso del- i l'anno, 2835 legittimi, 871 illegittimi; 99 più che nell'anno decorso; morirono 2514; 196 più che nel precedente anno. Morirono di malattie consuete 2492, di suicidio 1, di uccisioni 2, di disgrazie 19. Le nascite superano le morti per 1192. Nell'interna provincia del litorale le nascite furono 18867 (l'anno precedente furono 19433), più numerose d'uomini che di donne; all'incontro le morti sommarono a 13750 (l'anno precedente furono 12224), più uomini che donne. La proporzione delle nascite fra legittimi ed altri parendoci eccedente, potemmo fare i seguenti calcoli e confronti. Gli illegittimi coi legittimi stanno nelle seguenti proporzioni: In Trieste come 10 a 33, nel circolo d'Istria come a 250, in quello di Gorizia come a 339; in media nel Litorale come a 132. Nella serie delle Provincie figura il Litorale come segue: Austria inferiore come 10 a 29, Stiria come a 31, Carintia e Carnio 41, Boemia 54, Moravia 69, Gallizia 107, Litorale 132, Tiro-Io 218, Lombardia 245, Dalmazia 269, Transilvania 391, Venezia 390, Confini militari 847. Notiamo pei che in Trieste ricorresi e dai due circoli prossimi, e per antica consuetudine da altra provincia. Del Battistero di Pola. Forma singolare ebbe l'antico battistero di Pola, il quale conservossi in gran parte fino ai nostri giorni. A differenza di altre città che amarono di alzare il tempio massimo nel campidoglio, o nella regione del foro, in parte della città che era la più nobile, Pola ebbe il duomo in regione la quale non sembra essere stata nei tempi antichi distinta sopra le altre; nè di ciò sapremmo indicare ragione alcuna che sembri probabile, se non fosse quella che, data la pace alla chiesa, sorgesse qui pubblico tempio, prima che per editto del 380 venissero aggiudicati ai cristiani i templi del paganesimo, e che il campidoglio si preferisse riservato a presidio del tutto militare; ma queste sono congetture, nulla più. Corre voce che nel sito ove sorge il duomo di Pola, stèsse già antico tempio, ma non è certo se questa voce sia tradizionale del popolo od induzione di dotti tratta dai materiali antichi adoperati nel duomo moderno, sul quale corsero equivoci. Imperciocché alcuni, e tra questi ci spiace dover registrare il Seroux d'Àzincourt, tratti da lapida scritta inserita nelle pareti esterne del duomo, la quale accenna a consacrazione della chiesa a' tempi di Lodovico imperatore del 857, pensarono si parlasse in questa del tempio attuale, mentre in verità non è che monumento dell' antico tempio conservato a memoria dei posteri nel ricostruirsi il novello. Le traccie dell'antico tempio si riconobbero nel 1845—ma non è del duomo che in oggi ci siamo proposti di parlare, sibbene del battistero. Il quale sorge precisamente dinanzi al duomo per modo che l'asse dell'uno corrisponde all'asse dell'altro, la fronte dell'uno posta a dirimpetto della fronte dell'altro» ed in distanza tale che può ■ facilmente collocarsi que' cortile porticato che ebbe già le chiese antiche e che si conserva tuttora nell'insigne duomo di Parenzo. La forma delle cappella non è ottagona, come di frequente» non rotonda come talvolta si costumò, ma a croce, che dicono greca, le braccia della quale non sono e-guali. Il braccio per cui si ha ingresso misura in profondità sedici piedi viennesi, li altri tre (dacché un terzo è rifatto) dieci e quattro oncie; la stessa larghezza non è eguale, mentre la navata di fronte è larga ventidue piedi, la traversale diciassette ed otto oncie. Le quattro braccia lasciano nel centro un quadrilatero, cui stanno in giro pilastri semplicissimi agli angoli, colonne nelle aperture, sormontate da archi e da muraglie che s'alzano oltre le navate delle braccia medesime. Le colonne alte il roco undici piedi, tre oncie, sono tutte di marmi preziosi, guasti dall' incuria e dall' età, e che sono tratte da edilizi di epoca anteriore; le basi sono attiche di belle proporzioni, esse pure di altra epoca che non l'edilizio ; i capitelli che avrebbero dovuto essere di genere corintio, raffigurati all' invece con tre foglie in tutta l'altezza, segnate da sole linee, senza intaglio alcuno; gli archi di quella proporzione di tutto cerchio con centro d'alcun poco superiore alla corda, come 1' usarono i bizantini, non però in proporzioni eccedenti. Sulle quattro braccia laterali, s'estolle il corpo centrale, il quale ha patito l'ingiuria dei tempi, le meschinità di adattamenti e ristauri in epoche povere di danaro, se non d'intelligenza. Persuade che le colonne sorreggessero trulla, o cupola come dicono, a decoro del sacro vaso battesimale che era collocato nel mezzo. Non possiamo adattarci al pensiero che la trulla fosse quadrata; ma ad imitazione di altri battisteri pensiamo che fosse rotonda ed a volta, ornata delle immagini degli apostoli. La quale sovraposizione di trulla rotonda a base quadrata non è infrequente anche nei tempi moderni, e prendendone esempio da tempietto che già sorgeva nel porto di Pola, pensiamo verosimile il ristauro sulla foggia di quello, che riteniamo fosse mausoleo, come saremo ad indicare. Tanto più propendiamo a questa maniera di ridurre la trulla per modo che esternamente figuri ottagona, internamente circolare, quantochè 1' abbiamo veduta usitata nelle chiese longobardiche che serbarono il tipo bizantino, e quantochè conserva nella forma esterna e nella interna lo stile dei battisteri che in verità furono così anche nella provincia, e ci provochiamo a quello di Pirano. La vasca battesimale non è più, anzi da lungo tempo venne tolta, nè sapremmo dirne traccia; era certamente esagona, come l'attestano i frammenti del ciborio di marmo che coprivano la vasca. Uno dei quali sta murato nel cortiletto della B. V. della Misericordia in Pola; altro è posto per decorazione di celletta da santo, all'ingresso della città; qualche altro frammento ci pare aver veduto altrove se la memoria non ci svia dal vero; un pezzo integro ne vide il Carli. Quest' ultimo pezzo misura in larghezza piedi veneti cinque, in altezza piedi due, oncie sei; quelli veduti da noi, piedi austriaci cinque e cinque oncie in larghezza, in altezza piedi due, oncie quattro, la quale misura si adatta per formare e-sagono sotto la trulla entro le colonne dell' edifizio. Sono questi pezzi, di marmo greco, intagliati a bizzarri lavori di gusto scadente, di quel genere che si trova frequente sui septi marmorei di epoche inferiori; questi pezzi servivano a rivestimento esterno delle arcate che formavano il ciborio. Ci vennero indicate quattro colonne, come quelle che servivano a sostenere il ciborio; sono di marmo greco venato. Ci parve di vedere traccie : di chiusura fra le colonne a foggia di antichi battisteri, ; per cui entro il septo stavano il sacerdote, il neofito, e le persone che prendevano parte alla funzione, separate ; del tutto dal popolo. Pensiamo che le muraglie interne fossero tutte rivestite di mosaico, del quale oggidì nessuna traccia. Del tempo in cui sorse il battistero diremo che a giudicarne dalia forma dovremmo dirlo più tardo d' alquanto, di quello che infatti lo è, non di molto, ma pure dei tempi in cui le forme giustinianee ebbero maggiore voga; lo diremmo coetaneo alla chiesa di s. Maria Formosa di Pola ; pure di qualche anno l'anticipa, se vero è che 1' edifizio sia coetaneo alla vasca. Imperciocché nella chiave di una delle arcate del ciborio stava inciso il seguente monogramma che sciolto dai nessi segna Antonius Episcopus. È questi l'Antonio, cui Teodorico diresse epistola la quale trovasi fra le registrate da Cassiodoro, e ben combina la data certa collo stile degli intagli, fra' quali apparisce il monogramma. È nostra opinione che gli episcopati istriani venissero fondati l'anno 524 appunto regnando re Teodorico, per intercessione dell'imperatore bizantino Giustino; ed a quest'anno assegniamo l'assunzione alla cattedra polense di Antonio, il quale nel 546 quando dotavasi e consacravasi da s. Massimiano arcivescovo di Ravenna, la basilica di s. Maria Formosa non era più in vita, figurando fra i Polensi Isaccio. Ned è inverisimile che la navigazione offerendo facile e frequente contatto tra Pola e Costantinopoli, Antonio attingesse a Costantinopoli quei tipi che poi a'tempi di Giustiniano si resero famigliari in Istria, sostituiti ai pretti romani. Nè sconviene a battistero la forma di croce, imperciocché se la sacra vasca dee somigliare quasi a sepolcro, come fu antico simbolo : — Consepulti enim sumus a un ilio per baptismum in mortem, ut quomodo Cliristus surrexit a mortuis per yloriam Patris, ita et nos in novitate vita! ambidemus (e s. Paolo che parla) — così l'ambiente poteva somigliare con bellissimo simbolo a cella mortuaria, che si usò da' cristiani in forma di croce. Anzi il tipo ottagono di battistero essendo stato tolto dai pagani, dalle loro celle di bagno o lavacro; questo di croce quasi stanza funebre, nel centro della quale è il sepolcro della rigenerazione, ci sembra assai commendevole siccome all'intuito cristiana; chè Gesù Cristo N. S. spirò sulla croce per la nostra redenzione. Questo battistero è tuttora intitolato al santo precursore, e nel mezzo tempo serviva ancora a lavacro di rigenerazione. Vedemmo pietra che già era sull' ingresso, nella quale a barbara scultura veggonsi incisi i simboli dei quattro evangelisti, in mezzo il mistico agnello, ai due Iati del quale la leggenda: HIC PEN DET SUP PLEX CV IVS SVP STANCIA DYPPLEX Vedemmo talvolta in pietra di rozzo lavoro del secolo XIV con figura del santo precursore, fatta da mani imperite; argomento che nelle ricostruzioni del duomo si ponesse mano anche al battistero. Fu poi convertita in cappella privata episcopale, poi abbandonata, avrebbe subito il destino di altre simili chiesette, anzi sarebbe stata in recentissimi tempi convertita in altro genere d'edifizio, se avvertita 1' autorità dell' importanza di siffatto monumento di antichità cristiana, non l'avesse voluto conservare. Diamo la pianta del battistero.—Altra volta daremo gli alzali.